Apuleio2_Lo straniero che è in noi_l`asino d`oro
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Apuleio2_Lo straniero che è in noi_l`asino d`oro
Lo straniero che è in noi: L’asino d’oro di Apuleio1 (Rossella D’Alfonso) – saggio pubblicato su http://www.griseldaonline.it/ I) Premessa Proporre (o riproporre) un classico alla lettura dei più giovani, o alla rilettura di chi ne abbia già gustato le pagine, non è mai un’operazione neutrale. Tanto più un classico così poco classico come le Metamorfosi dell’africano Apuleio di Madaura, un romanzo che Sant’Agostino, attento studioso anche delle opere filosofiche di quest’autore che si autodefiniva Platonicus, definì L’asino d’oro2. Esso ebbe straordinaria fortuna di lettori e critici per molti secoli, suggerendo trame e tecniche fin dal Medioevo al maestro della narrativa europea, il Boccaccio, che lo riscoprì, e fornendo a tanti artisti soprattutto del Rinascimento numerosi motivi ispiratori tratti dalle fabulae inserite nella cornice narrativa principale: uno per tutti, la storia di Eros e Psiche, la storia dell’incontro fra l’amore e l’anima. Eppure, questo straordinario libro ha avuto un destino abbastanza marginale nella scuola, che raramente lo propone nella lettura integrale (data anche la sua lunghezza) e spesso lo utilizza come repertorio di racconti, sulla scorta delle fabulae Milesiae di tradizione ellenistica. Ma una lettura dell’opera intera, anche in buona traduzione (da quella esemplare di Massimo Bontempelli a quella recente di Alessandro Fo, per non fare che due esempi), è godibilissima e permette di superare l’inevitabile frammentarietà di una scelta antologica, per soffermarsi poi, se possibile, sul fulgente latino di alcuni capitoli, perché la lingua di Apuleio è di una ricchezza davvero singolare. II) La trasformazione Le Metamorfosi, come è noto, sono prima di tutto un grande, appassionante romanzo d'avventure, secondo la migliore tradizione greco-ellenistica, ripresa e rinnovata da Apuleio. In undici libri dallo stile estroso e sorprendente, il suo autore, col quale alla fine del romanzo s’istituirà un’identificazione del protagonista, racconta in prima persona le strabilianti avventure di Lucio, un giovane inquieto, avido di sensazioni e curioso di tutto, che in un suo viaggio in Tessaglia – terra, come tutti sapevano, di maghi e streghe – incorre per troppa curiosità in una serie di avventure, e fra gozzoviglie, scambi di persona, finti processi ed amori più o meno leciti (che occupano i primi tre libri del romanzo), giunge ospite del buon Milone, la cui moglie è la potentissima maga Panfila. Proprio per inseguire costei trasformata in gufo Lucio ne supplica la schiava Fotide, sua amante, di consentirgli la stessa metamorfosi della strega cospargendogli il corpo con un unguento magico che Panfila ha rivelato all’astuta ragazza: link 1 Ma, mai fidarsi di una schiava - questo è il primo insegnamento impartito all’improvvido Lucio! Fotide sbaglia vasetto ed ecco che il giovane è subito trasformato in asino: link 2 Lucio potrà dunque riacquistare le sembianze umane solo cibandosi di rose (una pianta sacra a Iside, come acquisiremo nel corso della narrazione) e Fotide lo rassicura che già l’indomani lei stessa provvederà, ma da questo momento in poi tutto cospirerà contro di lui: Lucio ormai asino non riuscirà a restare nascosto fino a ottenere dalla ragazza l’agognato fiore ed anzi dovrà subito contendere al suo 1 La prima traccia di queste pagine è stata la base di una proposta di lettura dell’opera per l’Associazione “Oltre” il 13 giugno 2004, a Bologna. 2 Non è chiaro se la scelta sia di sant’Agostino o se una sorta di sottotitolo fosse stato già apposto prima all’opera, come nella tradizione del testo pseudolucianeo da Apuleio stesso e da altri. Tra le numerose interpretazione dell’aggettivo “aureus” utilizzato da sant’Agostino, che non lo spiega, le più convincenti e complementari mi sembrano il riferimento del colore “all’intelligenza umana posta sotto la scorza dell’asino protagonista” e l’idea, corrente, che l’oro rappresenta “ciò che è prezioso alla luce della sapienza e conseguentemente talvolta aureus indica un prezioso specifico risultato speculativo”, come fa Lucrezio nel De rerum natura, III, 12 ss. dove “definisce aurea dicta le salutari dottrine di Epicuro. (cfr. A. Fo, in Apuleio, Le Metamorfosi o L’asino d’oro, con la traduzione e un saggio di A. Fo, Milano, Frassinelli, 1988, pp. 660-661). E aurea è infatti la saggezza che alla fine delle sue peripezie Lucio acquisirà, aureo il contenuto religioso del romanzo d’iniziazione, aureo il messaggio spirituale dunque consegnato al lettore. stesso giumento la poca biada e affrontare così l’ira e le bastonate del garzoncello di stalla, ridotto a bestia da battere e disprezzare pur conservando il sentimento umano: “Sic illa maerebat, ego uero quamquam perfectus asinus et pro Lucio iumentum sensum tamen retinebam humanum.”3 (libro III, inizio del cap.26). III) L’asino che è in noi Cosa significa la trasformazione in asino? Cosa rappresenta questo animale nell’immaginario del II secolo d. C.? La storia dell’uomo – asino era già stata narrata più volte in greco 4: Apuleio se ne appropria, con un’operazione di contaminazione consustanziale non solo alla letteratura antica e specialmente latina, ma sottesa ad ogni pratica di scrittura, che intrattiene per sua stessa natura un fitto dialogo con altri testi precedenti e coevi. Se ne appropria dunque, e la fonde con il tema iniziatico, facendone cosa del tutto sua: dopo ogni sorta di sofferenza infatti, la cui narrazione occupa altri sette libri, nell’undicesimo Lucio potrà riprendere le sembianze primitive, per l’intervento salvifico della dea Iside, il cui splendore e la cui potenza rilucono tanto di più quanto più fondo è stato l’abisso in cui l’uomo è precipitato. Si spiega anche così la natura profondamente originale dell’ultimo enigmatico libro rispetto ai primi dieci, a sottolinearne la corrispondenza con i numeri sacri della religione misterica, che alludono ai dieci giorni di preparazione ed iniziazione e all’undecimo dedicato alla consacrazione, preclusa appunto nei suoi dettagli e misteri ai profani. Lucio prometterà virtù e castità, e si voterà prima al sacerdozio per la dea e, in un secondo momento, a quello di Osiride, suo fratello e sposo, la cui saga narra che, ucciso e fatto a brani dal malvagio fratello Seth, fu raccolto e rigenerato dalla sposa, divenendo così simbolo della resurrezione dalla morte e garanzia di una speranza, per gli esseri umani, di vita oltremondana. Non sarà un caso che la tradizione popolare egiziana assimilasse l’immagine di Seth – Tifone a quella di un asino, l’animale fra tutti più inviso a Iside, come racconta Plutarco 5: nel romanzo apuleiano il retroterra egizio emerge come un palinsesto rispetto alla componente greca (meglio, greco-ellenistica) che l’autore stesso dichiara all’inizio: “fabula Graecanica”, scrive, alla greca. Ma per tornare all’asino, già Platone, punto di riferimento primario di Apuleio, aveva insegnato che chi è dominato dalle passioni è come un asino o simile bestia e la funzione del corpo è solo quella d’essere schiava dell’anima. Così nel Fedone scrive: “[…] quando anima e corpo sono insieme, all’uno la natura prescrive di servire e di obbedire, all’altra di comandare e di dominare. Di conseguenza, quale dei due ti pare sia simile al divino e quale al mortale? Non pare a te che il divino per sua natura propria sia atto a dirigere e a comandare e il mortale a obbedire e stare al suo servizio?” (Platone, Fedone, cap. XXVIII)6 E questo è il destino delle anime di coloro che nella morte si sono distaccate dal corpo ancora contaminate e immonde, incantate dalle sue passioni e dai suoi piaceri e si reincarnano non pure, ma ancora bramose di corporeità: 3 “Così diceva lei, tutta addolorata, e intanto, per quanto asino in tutto, e giumento anziché Lucio, conservavo tuttavia il sentimento umano” (traduzione citata, p 101). 4 La fonte più nota è l’operetta Lucio o l’asino, la fabula Milesia prima attribuita a Luciano di Samosata, contemporaneo di Apuleio, e poi riconosciuta fin dal IX sec. (Fozio, Bibliotheca, cod. 129) come riduzione dai Racconti vari di Lucio di Patre, il cui originale è perduto (cfr. C. Moreschini, voce Apuleio, in Dizionario degli scrittori greci e latini, Milano, Marzorati, 1987, vol. I, pp. 97-113, alle pp. 104-106. Cfr. anche M. Bettini, La letteratura latina. Storia letteraria e antropologa romana, Firenze, La Nuova Italia, 1999, vol. III, p. 480 e la bibliografia alle pp. 489-490). 5 Iside e Osiride, 30-31. 6 La conclusione poggia sulla discussione esposta nei capp. IX-XIII (il corpo è di ostacolo a cogliere l’essere – cap. X – ed è definito “malefico” – cap. XI -; gli autentici filosofi sono “nemici del corpo” – cap. XII – e così via). Qui e nelle citazioni successive, il testo greco manca perché i font sono incompatibili con il formato .html. “Quelli che si abbandonarono senza ritegno ai piaceri della gola, alle sfrenatezze sessuali e al vizio del bere, si può immaginare che entrino in corpi della specie degli asini o di altri animali di questo genere.” (ibidem, cap. XXXI) La stessa convinzione che gli animali pedestri hanno avuto origine da uomini degradati dai vizi (come da chi è stato vile o ingiusto si generano per metempsicosi le donne e gli uccelli provengono dalle anime degli ingenui e leggeri) dichiara nel Timeo: “La stirpe degli animali pedestri e selvaggi si generò a partire da uomini per nulla dediti alla filosofia e ciechi del tutto di fronte alla natura delle cose celesti, per il fatto che non si servivano più delle rotazioni che si compiono nella testa, ma seguivano come guida le parti dell’anima che si trovano nel petto. È quindi in seguito a tali abitudini che essi hanno le membra anteriori e la testa ricurve verso terra, perché alla terra sono affini, e hanno le teste allungate e dalle forme più varie, secondo il modo in cui le rotazioni in ciascuno di essi sono state compresse per l’inattività; perciò tale stirpe animale fu generata con quattro o più zampe, perché il dio pose un maggior numero di basi nei viventi maggiormente privi d’intelligenza, in modo che fossero più saldi a terra.” (91 e – 92 a)7 Peggiore di questa è solo la quarta stirpe, quella acquatica, generata a partire dagli esseri più stolti e ignoranti di tutti. Anche nella Repubblica insiste sul parallelismo fra uomini schiavi delle passioni e animali: “coloro che non conoscono saggezza e virtù, ma son sempre in mezzo a banchetti e a cose del genere, sono tratti in basso, […] e così vanno errando per tutta la vita, senza mai superare questo limite né mai levare lo sguardo ed esser tratti a ciò che è veramente in alto; né mai si innalzano ad esso che veramente è, né gustano un saldo e puro piacere, ma guardando sempre in giù a guisa di greggi e con il capo chino a terra e sulle mense si nutrono rimpinzandosi e accoppiandosi; e per l’avidità smodata di queste cose […] si ammazzano per la loro insaziabilità [...]” (586 a b) 7 Traduzione di F. Fronterotta, in Platone, Timeo, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 427 e 429. Quest’ultimo tema soprattutto diviene a tal punto un topos, da ricorrere in tanta letteratura filosofica, storica e satirica, attraversando nel mondo latino le pagine di Cicerone8, Sallustio9, Giovenale10 e tanti altri intellettuali. IV) La curiosità, il mondo perverso, la magia Ritorniamo allora ai dieci “giorni” d’iniziazione di Lucio, sia quando era uomo così privo di saggezza da finire costantemente nei guai e meritare forse il fatale incantesimo, sia sub specie asini. Nell’attraversare il mondo Lucio è sempre mosso (o vinto) dalla curiosità, da quella curiositas che il mondo cristiano stigmatizzerà poi come peccato di superbia contro Dio, appropriazione del frutto proibito, ma che aveva mosso anche Prometeo a sfidare gli dei per gli uomini e Ulisse a “divenir del mondo esperto” e che in Apuleio è sempre l’altra faccia della meraviglia, dell’admiratio. Nuovo Ulisse e nuovo Prometeo, Lucio affronta la natura (fino al manto stellato del cielo simbolo della dea) e il mondo degli uomini in tutta la sua molteplicità; ascolta bramoso ogni storia avvalendosi delle lunghe capaci orecchie e dell’ignoranza di quanti lo circondano della sua facoltà di comprenderli: il piacere di ascoltare per poi riportare è sempre sottolineato nel romanzo e costituisce il prodromo della consegna a chi lo leggerà a fondo del “fuoco” di Prometeo, la luce del mistero isiaco. La curiosità lo sollecita, la curiosità (sembra) lo perde. Essa si manifesta per tutto quanto riguarda il mondo della natura, e specialmente per la natura umana sempre diversa; ma soprattutto, per quasi tutto il romanzo è indirizzata al mondo perverso11. Ladri, briganti, stupratori, seviziatori d’uomini e d’animali, assassini blasfemi e senzadio: questo in larga parte il genere di uomini e di donne ch’egli incontra, con poche eccezioni, alcune vittime. Più la narrazione procede, più gravi appaiono i delitti, più tragici i destini. Solo la storia dall’esito lieto di Psiche e di Amore pare fare da contrappunto felice alla salvazione del nostro protagonista: 8 Ipsum autem hominem eadem natura non solum celeritate mentis ornauit sed <ei> et sensus tamquam satellites attribuit ac nuntios, et rerum plurimarum obscuras nec satis <expressas> intellegentias enodauit, quasi fundamenta quaedam scientiae, figuramque corporis habilem et aptam ingenio humano dedit. Nam cum ceteras animantes abiecisset ad pastum, solum hominem erexit et ad caeli quasi cognationis domiciliique pristini conspectum excitauit, tum speciem ita formauit oris, ut in ea penitus reconditos mores effingeret. (De legibus, I, 9, 25): “La stessa natura non solo ornò l’uomo di ingegno pronto e sagace, ma gli diede anche come ministri e messaggeri i sensi. Rivelò alla sua mente quasi i fondamenti della sapienza, avviandola alla intuizione, ancora oscura e indefinita, delle varie nozioni e gli diede un aspetto fisico opportuno e adatto alla sua prontezza d’ingegno. Mentre infatti rivolse verso il basso tutti gli altri animali, come dediti soltanto al cibo, all’uomo soltanto diede una posizione eretta, e lo sollevò alla vista del cielo, quasi a contemplare l’aspetto della sua affinità e dell’antica sua stirpe”. 9 “1. Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura, prona atque ventri oboedientia finxit. 2. Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est. 3. Quo mihi rectius videtur ingeni quam virium opibus gloriam quaerere et, quoniam vita ipsa qua fruimur brevis est, memoriam nostri quam maxume longam efficere. 4. Nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeternaque habetur. […]7. Ita utrumque per se indigens alterum alterius auxilio eget (Sall., De Cat. con., I, 1-4, 7): ”Tutti gli uomini che vogliono elevarsi sopra gli altri esseri viventi devono in ogni modo adoperarsi per non condurre una vita oscura come le bestie, che la natura creò col muso a terra e schiave del ventre. Ora, ogni nostra forza consiste e nell’animo e nel corpo, poiché noi utilizziamo di più la facoltà di comandare del primo e quella di servire del secondo: l’una ci accomuna agli dei, l’altra alle bestie. Pertanto mi sembra più retto cercare la gloria con le forze che ci provengono dalle qualità naturali intellettuali piuttosto che da quelle fisiche e, giacché la nostra vita, in sé, è breve, far sì che il nostro ricordo duri più a lungo possibile. Infatti la fama che deriva da ricchezze e bellezza è transitoria e fragile, mentre la fama della virtù è posseduta in eterno”. […] Così, entrambe le qualità, di per sé insufficienti, hanno bisogno l’una dell’aiuto dell’altra.” 10 [...] separat hoc nos / a grege mutorum, atque ideo uenerabile soli / sortiti ingenium diuinorumque capaces / atque exercendis pariendisque artibus apti / sensum a caelesti demissum traximus arce, / cuius egent prona et terram spectantia. [...] (Satire XV, 142-7): “Questo ci separa / dal muto gregge: noi soli fummo dotati / di questo sacro ingegno, capaci di afferrare il divino, / e di inventare e mettere in opera le arti / dal cielo, da cui è disceso, traemmo questa facoltà, questa luce / di cui sono orfani i bruti, che vanno curvati, gli occhi vòlti a terra”. 11 A. Fo, op. cit., pp. 668 ss. Psiche sempre mossa anch’essa dalla curiosità che l’induce ad errore, Psiche sottoposta a prove ignominiose e crudeli da Venere, a stadi progressivi di castigo e purificazione, ma sconfitta infine ancora una volta dalla curiosità e salvata solo dalla grazia d’Amore, che vinto a sua volta dal sentimento avrà ragione dell’indomita madre, costretta a perdonare la fanciulla, infine accolta nel concilio divino. La storia sembra insegnare che non solo molto deve fare e patire l’anima prima di poter raggiungere l’unione mistica con dio o con un suo intermediario (Amore appartiene in tutto alla categoria dei dèmoni12), ma che a fronte di un ultimo errore dell’anima è la divinità che si china a donare gratuitamente la salvezza. Ma la storia di Lucio, come vedremo, non ricalca che in parte quella di Amore e Psiche. Dunque, il mondo di Apuleio sembra segnato dal dominio del male. Ma non solo perché il mondo incontrato da Lucio è pervaso dall’empietà. Bensì perché Lucio stesso è (simpaticamente) imbroglione, goloso, lascivo, violento fino ad uccidere se ebbro e provocato (anche se le presunte vittime risulteranno essere otri). Ama vedere tutto, provare tutto. E certo non è la forma di conoscenza più alta, quella delle facoltà umane superiori, ma quella del corpo, certo erronea - come insegna Platone – ma indispensabile nella sua gradualità, come lo stesso Platone dimostra nel Simposio13, quella delle più terrene pulsioni dell’animo fatte corpo asinino, quella che avviene attraverso l’esperienza e che è necessaria perché si possa accedere alle forme più elevate. Ecco perché la catabasi nell’inferno della vita di quaggiù. Ecco perché la metamorfosi. A Lucio viene strappato tutto se stesso: l’aspetto, l’esistenza, il nome, la possibilità di comunicare, l’appartenenza medesima al genere umano. L’aspetto esteriore soprattutto “costituisce il segno naturale dell’identità, la riprova indiscutibile dell’essere se stessi e nessun altro”14, ma Lucio è ormai una bestia, senza più la parola, il logos, il contrassegno che distingue l’uomo dagli altri animali. La sua perdita d’identità, però, lo affligge, ma non lo stupisce: e non perché è nel patto narrativo che in terra di maghi si narrino magie, ma perché la perdita d’identità nel mondo antico è spiegabile in un orizzonte culturale antropologicamente diverso da quello attuale, e comune semmai ad culture altre dall’occidentale moderna, poiché postula l’esistenza della magia e le attribuisce ciò che non si può spiegare razionalmente15. Si chiariscono così il significato e la funzione della magia nel romanzo: rendere visibile l’invisibile. Lucio diviene asino perché una parte di lui è asino, gli è straniera, gli è nemica (come s’esprime Platone), e nello stesso tempo gli è indissolubilmente legata e anzi gli occorre. Non può espungerla da sé, come avrebbero voluto e creduto gli stoici, perché essa non è altro da sé. Deve sperimentarla: il voler conoscere tutto si estende alle proprie pulsioni, alla propria interiorità, che Apuleio oggettivizza nell’immagine dell’asino, della bestia che è in noi, rendendola chiara anche agli altri che vengono in contatto con l’animale: molti disprezzano l’asino, lo picchiano e torturano senza motivo, perché non 12 V. infra al § V. 210 –212, in particolare 211c-e e 212a: attraverso la dottrina dell’amore Diotima insegna a Socrate come percorrere i gradi verso la visione suprema, che prevede un passaggio dalla singola esperienza concreta vissuta più volte per sperimentare la molteplicità e giungere da lì fino al concetto in sé: “Questo procedere verso le cose d’amore o l’esservi condotto da altri consiste nel risalire progressivamente da queste singole cose belle mirando a quel bello in sé, come percorrendo dei gradini, da un singolo corpo a due e da due a tutti i corpi belli, e dai corpi belli alle istituzioni belle, e dalla istituzioni belle alle cognizioni belle, e dalle cognizioni belle pervenire a quella cognizione che non d’altro è cognizione se non di quel bello in sé, e riconosca alla fine cos’è il bello in sé. In questa sfera d’esistenza, se mai in altra, […] la vita è per l’uomo degna di essere vissuta, contemplando il bello in sé. […]E dunque – disse – che cosa non immagineremmo se a qualcuno fosse dato di veder il bello in sé nitido, puro, intatto, incontaminato da umane carni e colori e ogni altra effimera vanitò, ma potesse scorgere il divino in sé, bello e uniforme? […] Non comprendi –aggiunse – che soltanto a questo stadio, […] a un uomo sarà dato di partorire non già immagini di virtù […] ma la virtù vera, in quanto appunto attinge il vero, e che partorendo virtù vera, e allevandola, gli riuscirà di diventare amico del dio e, se altri mai, immortale anch’egli?”. 14 M. Bettini a proposito di Sosia, in Sosia e il suo sosia: pensare il “doppio” a Roma, introduzione a Tito Maccio Plauto, Anfitrione, Venezia, Marsilio, 1991, p. 11. 15 Cfr. M. Bettini 1991, cit., pp. 25-36 sulla magia di trasformazione. 13 sanno rapportarsi con l’alterità, anche quella che coltiviamo nel cuore, che in termini ostili: “Bisogna pensare alla corporeità come a qualcosa di opprimente, pesante, terroso e visibile”: è ancora Platone, nel cap. XXX del Fedone (sottolineatura nostra). La curiosità di Lucio, metafora del voler conoscere tutto per amore d’esperienza e di verità, da improspera e soggetta alla fortuna caeca può farsi alla fine ricerca della Verità in sé perché sa accogliere anche, come stadio transitorio ma necessario, l’asino che si porta dentro. Le fasi dell’iniziazione di Lucio sono scandite con chiarezza nel romanzo. Di esse vorrei sottolineare solo due passaggi. Il primo è nel IX libro, dove ormai volgono al termine le disavventure del nostro protagonista: legato a una macina, Lucio tenta con un’astuzia di sottrarsi all’arduo sforzo; ma non riesce, ed di nuovo è vittima di veementi nerbate: link 3 Pur nel dolore, Lucio non rinuncia tuttavia a conoscere il mondo che gli sta intorno, e quello che vede sono gli uomini che faticano al mulino, straziati dalle ferite, seminudi e con gli occhi chiusi, “da non sembrare più uomini”, ma somiglianti a bestie, come lui. Lucio-asino vede per la prima volta un’altra forma di animalità, quella dell’uomo ridotto in schiavitù, e prova una pietà profonda che subito si estende agli altri giumenti, vecchi e storpiati, che con lui trascinano la pesante macina in un eterno sabba. Nella verità c’è posto anche per la compassione, né si compatisce veramente senza sperimentare in prima persona l’orrore della tortura: link 4 Non sarà un caso se proprio alla fine di questa riflessione Lucio esclama la propria riconoscenza “al suo asino”, che l’ha reso, “se non saggio” (per questo dovremo aspettare l’ultimo libro), “almeno”, come si diceva poc’anzi, multiscius, “sperimentato”. V) Dalla compassione alla vergogna: la scelta Abbiamo veduto che il mondo in cui si muove Lucio-asino nella sua odissea terribile è dominato dal tormento, che tutto l’universo di Apuleio in genere è segnato dalla presenza del male. Per potere seguire Lucio negli ultimi gradini del suo itinerario di perdizione, pena, castigo e salvazione, dobbiamo rammentare allora su quale concezione della realtà poggi questo pensiero, che nel romanzo si fa sequela potente di immagini di caos, malvagità e dolore. Respingendo tanto il materialismo epicureo quanto soprattutto il mondo uno, tutto divino e pervaso dal pneuma (supporto materiale del divino logos) degli stoici, in cui si nega pertanto anche la dualità interna all’uomo, le cui passioni s’interpretano come giudizi perversi del logos medesimo, Apuleio sostiene16, anticipando Plotino, e in armonia con il medio platonismo dei suoi tempi, che il mondo non è uno, che “il principio divino trascende realmente la materia”, così che “la realtà si scinde in diversi livelli”17, riproponendo pertanto l’antica gerarchizzazione ontologica platonica e aristotelica. Questo porta a due conseguenze. La prima è che per risolvere il problema del rapporto fra il principio trascendente supremo, padre dell’intellegibilità suprema, il dio-pensiero aristotelico, ed il mondo fisico, e quello della sua conoscibilità da parte dell’uomo, s’ipotizza la presenza di intermediari in serie gerarchica (d’ascendenza platonica): “un primo dio, pensiero, […] un secondo dio, generalmente riconosciuto come l’artefice del mondo”18, talora una divina anima mundi a questo soggetta, demoni19 che, sulla scorta del daimònion (la voce della coscienza) di Socrate nel Simposio e soprattutto nell’Apologia platonici, sono “immortali come gli dei ma passionali come gli uomini e […] hanno il compito di comunicare agli uomini la volontà delle potenze superiori” 20. La stessa Iside nel 16 Apuleio, De Platone, Apologia. P.L.Donini, in A. Pennacini, P.L. Donini, T. Alimonti, A. Monteduro Roccavini, Apuleio letterato, filosofo, mago, Bologna, Pitagora, 1979, pp. 103-112, p. 108. 18 P.L. Donini, ibidem. 19 Cfr. Apuleio, De deo Socratis. 20 M. Bettini, 1999, vol. III, p. 475. 17 romanzo, come poi Osiride, potrebbero rivestire proprio questa funzione intermediaria, espressione della Fortuna videns e sospitatrix, salvifica, della provvidenza del dio infinitamente buono platonico21. La seconda conseguenza è che in un mondo così concepito solo la divinità suprema è immune dall’irrazionale, il male esiste, l’irragionevole esiste, e si manifestano nell’irregolarità, nell’imprevedibilità, dell’incostanza, nel dolore subito e inflitto: è il mondo perverso che le Metamorfosi mettono in campo dentro e fuori di Lucio. Esso non può essere eliminato, ma deve essere conosciuto, prima di tutto, come abbiamo visto, con l’esperienza, e governato: lenta è la conquista del reggimento della ragione e della virtù sulle passioni (µέτροπάθεια), e faticosa, ma necessaria. Ma c’è di più. L’abisso d’abiezione in cui Lucio è caduto deve conoscere la propria fine. Ma questa non avviene solo quando la Dea decide che la punizione di Lucio è sufficiente, ma quando la vergogna s’impadronisce di lui, e Lucio ancora asino rigetta l’estrema degradazione di un accoppiamento pubblico con un’assassina. Ecco dunque il secondo passo su cui vorrei soffermarmi: link 5 La degradazione sembra giunta alla sua acme: Lucio però, benché ancora asino, è turbato, si vergogna al punto da pensare alla morte pur di non soggiacere alla pubblica infamia. Sembra non esservi via d’uscita quando, impensierito non solo dal pudore (“praeter pudorem”, X, 34) ma, con un colpo di coda della natura asinina, dal timore di una morte in pasto alle belve previste nell’inumano spettacolo, Lucio approfitta di una distrazione del guardiano e fugge: link 6 Altre volte Lucio aveva tentato la fuga, anche aiutato: si veda a esempio la storia della bella e sfortunata Càrite, dal nome emblematico, che gli promette una gualdrappa di borchie dorate che lo faranno sembrare “rivestito di stelle”, anticipando con questa immagine il mantello di Iside, intessuto di stelle, che lo ricoprirà nella sua prima notte di libertà. Ma mai era riuscito. “Può darsi che non siano uomini da poco coloro che istituirono i Misteri, anzi, a dire il vero, essi da tempo dicono in forma di enigma che chiunque vada nell’Ade senza aver intrapreso e compiuto la sua iniziazione giacerà nel fango, mentre chi vi giunge dopo la purificazione e l’iniziazione, abiterà con gli dei” (così il Fedone, cap. XIII). Lucio non poteva salvarsi perché giaceva nel fango, perché non aveva ancora compiuto il suo itinerario, illuminato dalla filosofia platonica non meno che dal pensiero misterico. Il tentativo di fuga Lucio riesce perché si è vergognato. Non importa che la paura di morire ancora sembri trascinarlo in basso. Ha provato, per la prima volta, il pudore: ha rifiutato l’estrema abiezione. Ha scelto. Solo ora è pronto per ricevere, secondo il rito, la vera conoscenza, per accedere alla quale bisogna che l’anima si liberi dell’ingombro ingannevole del corpo (ancora Fedone, X, XI, XII, XXVI), cioè, nel nostro caso, dell’involucro del corpo di bestia. Ma anche questo è un itinerario graduale, scandito da norme rigide, riti che non si possono rivelare che parzialmente. Il primo passo è, in un paesaggio di potente suggestione, il lavacro rituale: link 7 Seguirà dunque la preghiera alla Regina del Cielo, Iside (XI, 2) e 5) , assimilata a Cerere e ad Ecate, alla Pessinunzia madre degli dei, a Giunone, Bellona, Proserpina Stigia, a Diana Dictinna e Minerva Cecropia, in un sincretismo di sapore enoteistico: ella in sogno gli appare nel suo aspetto meraviglioso (XI, 3-4) e gli parla, veneranda e piena di commozione (XI, 5—6), prescrivendogli tutto ciò che Lucio dovrà fare per riprendere le sembianze umane prima, per servirla poi. L’ultimo libro, così peculiare rispetto agli altri dieci, ritmerà passo dopo passo, ma avvolta nell’enigma che si conviene ai Misteri, l’iniziazione di Lucio a divenire sacerdote di Iside e di Osiride poi, come detto, di Osiride che rappresenta la vita ritrovata dopo la disgregazione e la morte, la promessa di un aldilà felice con gli dei: non è, credo, azzardato affermare che il romanzo possa leggersi anche, sulla scorta di quel passo del Fedone (XIII) che ho citato poc’anzi, in chiave anagogica, simboleggiando il percorso che l’anima deve compiere per liberarsi dell’ingombro della carne, cioè dell’animalità che è in noi, dei vizi, per 21 Apluleio, De Platone, cap. 12. ascendere pura alla Conoscenza, alla Verità, alla Divinità non solo e non tanto in questa vita, ma in quella oltremondana. Il romanzo isiaco si è arricchito così di molti spunti: in un II secolo assetato di trascendenza22 ma ancora pervaso dall’idea antica, nutrita in tutta la cultura greco-latina, che il fato incomba sugli esseri umani, si fa strada, forse per la prima volta nel mondo latino, l’idea che solo la volontà libera può incontrare ed accogliere la grazia divina, il pensiero che, pur dovendo fare i conti con la sorte e il fato sovente maligno, l’uomo sceglie, e determina così il proprio destino interiore. Bologna, 2 luglio ’04 ___________________________________________________________________________________ 22 P.L. Donini, cit., p. 104. BRANI DA COLLEGARE ATTRAVERSO LINK: link 1 22. Et illa23 quidem magicis suis artibus uolens reformatur, at ego nullo decantatus carmine praesentis tantum facti stupore defixus quiduis aliud magis uidebar esse quam Lucius: sic exterminatus animi attonitus in amentiam uigilans somniabar; defrictis adeo diu pupulis an uigilarem scire quaerebam. Tandem denique reuersus ad sensum praesenbam. Tandem denique reuersus ad sensum praesentium adrepta manu Photidis et admota meis luminibus: 'Patere, oro te', inquam 'dum dictat occasio, magno et singulari me adfectionis tuae fructu perfrui et impertire nobis unctulum indidem per istas tuas pupillas, mea mellitula, tuumque mancipium inremunerabili beneficio sic tibi perpetuo pignera ac iam perfice ut meae Veneri Cupido pinnatus adsistam tibi.' 'Ain?' inquit 'Vulpinaris, amasio, meque sponte asceam cruribus meis inlidere compellis? Sic inermem uix a lupulis conseruo Thessalis; hunc alitem factum ubi quaeram, uidebo quando?' 23. 'At mihi scelus istud depellant caelites,' inquam 'ut ego, quamuis ipsius aquilae sublimis uolatibus toto caelo peruius et supremi Iouis certus nuntius uel laetus armiger, tamen non ad meum nidulum post illam pinnarum dignitatem subinde deuolem. Adiuro per dulcem istum capilli tui nodulum, quo meum uinxisti spiritum, me nullam aliam meae Photidi malle. Tunc etiam istud meis cogitationibus occurrit, cum semel auem talem perunctus induero, domus omnis procul me uitare debere. Quam pulchro enim quamque festiuo matronae perfruentur amatore bubone! Quid quod istas nocturnas aues, cum penetrauerint larem quempiam, sollicite prehensas foribus uidemus adfigi, ut, quod infaustis uolatibus familiae minantur exitium, suis luant cruciatibus? Sed, quod sciscitari paene praeteriui, quo dicto factoue rursum exutis pinnulis illis ad meum redibo Lucium?' 'Bono animo es, quod ad huius rei curam pertinet' ait. 'Nam mihi domina singula monstrauit, quae possunt rursus in facies hominum tales figuras reformare. Nec istud factum putes ulla beniuolentia, sed ut ei redeunti medela salubri possem subsistere. Specta denique quam paruis quamque futtilibus tanta res procuretur herbusculis: anethi modicum cum lauri foliis immissum rori fontano datur lauacrum et poculum.' (libro III, capp. 22-23)24 link 2: 24. Haec identidem adseuerans summa cum trepidatione inrepit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faueret uolatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis auide manus immersi et haurito plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in auem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae 23 Panfila. «22. A questo modo quella si trasforma a volontà per virtù delle sue arti magiche, e a me, non incantato dal suo magico canto, ma agghiacciato dallo stupore per l’inverosimile fatto vero, pareva di essere un altro e non Lucio: così, fuor di me stesso, attonito, quasi pazzo, sognavo ad occhi aperti; al punto che, fregandomi gli occhi, mi andavo chiedendo se fossi sveglio. Infine, tornato al senso della realtà, presa la mano di Fotide e portandomela agli occhi: “Accordami, - le dico, - te ne scongiuro, ora che si presenta l’occasione, che io goda il grande straordinario benefizio del tuo affetto, e dammi un poco di quell’unguento: fallo per le tue mammelle, dolcezza mia, e io, per un favore così inestimabile, sarò tuo schiavo in perpetuo. Suvvia, promettimelo, e fa’ in modo che io stia accanto a te alato come Cupido, Venere mia”. “Ah! – gridò, volpone libertino, tu mi spingi a buttarmi da me stessa la zappa sui piedi? E io, come ti potrò difendere dai lupi della Tessaglia; dove lo troverò costui, divenuto uccello? Come lo rivedrò?”. 23. “Che i celesti mi tengano lontano da questa vigliaccheria, - risposi. – Anche se potessi percorrere tutto il cielo col volo sublime delle aquile, e diventassi l’ambasciatore sicuro e l’augurale armigero del sommo Giove, tuttavia, appena ornato di penne, come farei a non dirigere il volo verso il mio piccolo nido? Giuro per questo caro e dolce nodo delle tue chiome con le quali mi hai avvinto l’animo, che non preferirò nessun’altra alla mia Fotide. E aggiungi quest’altra alle mie considerazioni: una volta unto, rivestite le sembianze di un simile uccello, mi toccherà evitare qualsiasi casa. E’ un bel gusto, infatti, per le matrone, un amante bello e allegro come il gufo! E che? Non si vede sempre come questi uccelli notturni, una volta entrati in qualche casa, siano sempre catturati e attaccati alle porte per punirli con i tormenti che si meritano per non minacciare con voli di malaugurio la rovina della famiglia? Ma dimenticavo quasi di chiederti con quali detti e con quali mezzi, spogliandomi di queste penne, potrà tornare ad essere Lucio”. “Non ti impensierire per questo, - rispose; - la mia padrona mi ha istruito completamente sul modo di far tornare di nuovo ad aspetti umani tali parvenze. E non credere che lo abbia fatto perché mi vuol bene, ma perché io la possa assistere con efficaci rimedi quando fa ritorno. Sta’ attento ora come si possa provocare una cosa mirabile con erbacce qualsiasi. Un poco di aneto mescolato nell’acqua di fonte con foglie di lauro, si dà come lavacro e bevanda”.» Il testo è quello del Corpus scriptorum latinorum, in versione CDRom, la traduzione è quella di M. Bontempelli in Apuleio, L’asino d’oro, con testo a fronte, con uno scritto di V. Ciaffi, Torino, Einaudi, 1973, pp. 97 e 99. 24 meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis uideo solacium, nisi quod mihi iam nequeunti tenere Photidem natura crescebat. 25. Ac dum salutis inopia cuncta corporis mei considerans non auem me sed asinum uideo, querens de facto Photidis sed iam humano gestu simul et uoce priuatus, quod solum poteram, postrema deiecta labia umidis tamen oculis oblicum respiciens ad illam tacitus expostulabam. Quae ubi primum me talem aspexit, percussit faciem suam manibus infestis et: 'Occisa sum misera:' clamauit 'me trepidatio simul et festinatio fefellit et pyxidum similitudo decepit. Sed bene, quod facilior reformationis huius medela suppeditat. Nam rosis tantum demorsicatis exibis asinum statimque in meum Lucium postliminio redibis. Atque utinam uesperi de more nobis parassem corollas aliquas, ne moram talem patereris uel noctis unius. Sed primo diluculo remedium festinabitur tibi.' (libro III, capp. 24-25)25 link 3: Ibi complurium iumentorum multiuii circuitus intorquebant molas ambage uaria nec die tantum uerum perpeti etiam nocte prorsus instabili machinarum uertigine lucubrabant peruigilem farinam. Sed mihi, ne rudimentum seruitii perhorrescerem scilicet, nouus dominus loca lautia prolixe praebuit. Nam et diem primum illum feriatum dedit et cibariis abundanter instruxit praesepium. Nec tamen illa otii saginaeque beatitudo durauit ulterius, sed die sequenti molae quae maxima uidebatur matutinus adstituor et ilico uelata facie propellor ad incurua spatia flexuosi canalis, ut in orbe termini circumfluentis reciproco gressu mea recalcans uestigia uagarer errore certo. Nec tamen sagacitatis ac prudentiae meae prorsus oblitus facilem me tirocinio disciplinae praebui; sed quanquam frequenter, cum inter homines agerem, machinas similiter circumrotari uidissem, tamen ut expers et ignarus operis stupore mentito defixus haerebam, quod enim rebar ut minus aptum et huius modi ministerio satis inutilem me ad alium quempiam utique leuiorem laborem legatum iri uel otiosum certe cibatum iri. Sed frustra sollertiam damnosam exercui. Complures enim protinus baculis armati me circumsteterunt atque, ut eram luminibus obtectis securus etiamnunc, repente signo dato et clamore conserto, plagas ingerentes aceruatim, adeo me strepitu turbulentant ut cunctis consiliis abiectis ilico scitissime taeniae sparteae totus innixus discursus alacres obirem. Ibi complurium iumentorum multiuii circuitus intorquebant molas ambage uaria nec die tantum uerum perpeti etiam nocte prorsus instabili machinarum uertigine lucubrabant peruigilem farinam. Sed mihi, ne rudimentum seruitii perhorrescerem scilicet, nouus dominus loca lautia prolixe praebuit. Nam et diem primum illum feriatum dedit et cibariis abundanter instruxit praesepium. Nec tamen illa otii saginaeque beatitudo durauit ulterius, sed die sequenti molae quae maxima uidebatur matutinus adstituor et ilico uelata facie propellor ad incurua spatia flexuosi canalis, ut in orbe termini circumfluentis reciproco gressu mea recalcans uestigia uagarer errore certo. Nec tamen sagacitatis ac prudentiae meae prorsus oblitus facilem me tirocinio disciplinae praebui; sed quanquam frequenter, cum inter homines agerem, machinas similiter circumrotari uidissem, tamen ut expers et ignarus operis stupore mentito defixus haerebam, quod enim rebar ut minus aptum et huius modi ministerio satis inutilem me ad alium quempiam utique leuiorem laborem legatum iri uel otiosum certe cibatum iri. Sed frustra sollertiam damnosam exercui. Complures enim protinus baculis armati me circumsteterunt atque, ut eram luminibus obtectis securus etiamnunc, repente signo dato et clamore con- 25 «24. Dopo avermi ripetutamente assicurato di queste cose, penetra nella camera con grande trepidazione, e toglie dall’armadio un vasetto. Io, dopo averlo prima baciato e stretto al cuore, e pregatolo che mi concedesse un volo fortunato, gettai in fretta tutte le mie vesti, vi immersi avidamente le mani, estrassi una buona quantità di unguento, e incomincia a sfregarmene le membra per tutto il corpo. E già levavo le braccia con ripetuti sforzi, bramando di trasformarmi in quell’uccello, quando né piume né penne, ma i peli mi si ingrossano come setole, la tenera pelle mi si indurisce come cuoio, all’estremità delle mani le dita perduto il loro numero si uniscono in una sola unghia, e in fondo alla schiena mi spunta un’enorme coda. Ecco una faccia enorme, la bocca allungata, le narici peste, le labbra pendenti, e poi mi crescono le orecchie in proporzioni enormi e si riempiono di peli. Non vedo più alcuna salvezza a così orrenda trasformazione; e intanto, ora che mi era impossibile prendere Fotide, mi cresceva il membro. 25. E mentre non v’era più nessuna speranza di salvezza, guardandomi il corpo da tutte le parti, non mi vidi uccello ma asino, e rimbrottavo a Fotide la sua azione: ma privato del gesto e della voce umana, tendevo le estremità delle labbra, come solo mi riusciva di fare, e guardando di tralice con occhi umidi di pianto, le chiedevo tacitamente aiuto. Ella, appena mi vide in quello stato, cominciò a percuotersi il viso senza pietà con le palme, e gridò: “me misera, sono rovinata. Mi hanno ingannata la trepidazione e la fretta, e la somiglianza dei vasetti mi ha tratta in errore. Ma sta’ tranquillo che il rimedio per questa trasformazione non è affatto difficile. Devi sapere che basta masticare qualche rosa, e finirai d’essere asino, e tornerai nei panni del mio Lucio. E’ un peccato che io non abbia preparato anche ieri sera delle corone, così tu non avresti subito neppure il ritardo di una notte. Ma appena spunta l’alba ti troverò subito il rimedio”. » traduzione citata, pp. 99 e 101. serto, plagas ingerentes aceruatim, adeo me strepitu turbulentant ut cunctis consiliis abiectis ilico scitissime taeniae sparteae totus innixus discursus alacres obirem. (libro IX, capp. 11)26 link 4: 12 At subita sectae commutatione risum toto coetu commoueram. Iamque maxima diei parte transacta defectum alioquin me, helcio sparteo dimoto, nexu machinae liberatum adplicant praesepio. At ego, quanquam eximie fatigatus et refectione uirium uehementer indiguus et prorsus fame perditus, tamen familiari curiositate attonitus et satis anxius, postposito cibo, qui copiosus aderat, inoptabilis officinae disciplinam cum delectatione quadam arbitrabar. Dii boni, quales illic homunculi uibicibus liuidis totam cutem depicti dorsumque plagosum scissili centunculo magis inumbrati quam obtecti, nonnulli exiguo tegili tantum modo pubem iniecti, cuncti tamen sic tunicati ut essent per pannulos manifesti, frontes litterati et capillum semirasi et pedes anulati, tum lurore deformes et fumosis tenebris uaporosae caliginis palpebras adesi atque adeo male luminati et in modum pugilum, qui puluisculo perspersi dimicant, farinulenta cinere sordide candidati. 13 Iam de meo iumentario contubernio quid uel ad quem modum memorem? Quales illi muli senes uel cantherii debiles. Circa praesepium capita demersi contruncabant moles palearum, ceruices cariosa uulnerum putredine follicantes, nares languidas adsiduo pulsu tussedinis hiulci, pectora copulae sparteae tritura continua exulcerati, costas perpetua castigatione ossium tenus renudati, ungulas multiuia circumcursione in enorme uestigium porrecti totumque corium ueterno atque scabiosa macie exasperati. Talis familiae funestum mihi etiam metuens exemplum ueterisque Lucii fortunam recordatus et ad ultimam salutis metam detrusus summisso capite maerebam. Nec ullum uspiam cruciabilis uitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar, dum praesentiam meam parui facientes libere, quae uolunt, omnes et agunt et loquuntur. Nec inmerito priscae poeticae diuinus auctor apud Graios summae prudentiae uirum monstrare cupiens multarum ciuitatium obitu et uariorum populorum cognitu summas adeptum uirtutes cecinit. Nam et ipse gratas gratias asino meo memini, quod me suo celatum tegmine uariisque fortunis exercitatum, etsi minus prudentem, multiscium reddidit. (libro IX, capp. 12-13)27 26 «Qui era tutto un continuo volger di macine, non soltanto di giorno, ma senza interruzione anche la notte, che andava a furia di un gran numero di giumenti, e l’instabile girare delle macchine buttava farina senza fine. Il nuovo padrone, quanto a me, mi diede da mangiare copiosamente e mi lasciò riposare, certo perché non mi disgustassi fin dal principio del servizio. Infatti mi diede un giorno di vacanza e mi riempì la greppia di cibo in abbondanza. Ma neanche quella beatitudine di mangiar bene e non far niente durò molto perché il giorno seguente mi misero sotto una macina che mi parve grandissima, e subito, con la faccia bendata, mi spinsero nello spazio circolare di un canale: in modo che io, nel cerchio chiuso di quel recinto, andando sempre intorno, ricalcassi i miei passi in modo da percorrere sempre lo stesso giro. Tuttavia, dimenticata del tutto la mia avvedutezza e prudenza, non mi abbandonai con troppa facilità a un servizio di quel genere. Per quanto, quand’ero uomo, avessi veduto spesso macchine che giravano in quel modo, ora, come chi sia inesperto e ignaro del lavoro, mi arrestavo incerto con aria da tonto; perché pensavo che così, inadatto e inabile a un servizio di quel genere, mi avrebbero destinato a un altro lavoro molto più leggero, e certo avrei mangiato con più agio. Ma invano misi in opera questo stratagemma pericoloso, perché molta gente, armata di bastoni, mi circondò, e come me ne stavo tranquillo con gli occhi bendati, improvvisamente, a un dato segnale, cacciarono un urlo e mi scaricarono addosso una serqua di legnate, e già lo strepito era bastato a stordirmi. Misi da parte ogni calcolo, e con molta prudenza, legato alla fune di giunco, mi misi subito a girare intorno con alacre corsa.» 27 «12. Questo rapido mutamento di contegno mosse a riso tutta la compagnia. Era ormai passata la maggior parte del giorno e io ero disfatto. Mi rimossero dalla fune di giunco, mi allontanarono dalla macchina e mi legarono alla greppia. Quantunque assai stanco e bisognoso di placare la gran fame che mi consumava, pure, spinto dalla curiosità impaziente, rinviai il pasto che era abbondante, pensando di divertirmi ad esaminare il tenore di vita di quella spiacevole officina. Santi Numi! Che omiciattoli con la pelle striata di lividure e la schiena lacerata dalle battiture, piuttosto adombrata di stracci che coperta, al punto che molti nascondevano appena il pube, con larve di vestiti, e tutti attraverso i pochi stracci parevano nudi; con le fronti marchiate, i capelli a metà rasi, le catene al piede, lividi da non sembrare più uomini, con le palpebre consunte o gli occhi ciechi addirittura per le tenebre e la fuliggine e il fumo; e a guisa di pugilatori che lottano dopo essersi cosparsi di minuta polvere, tutti sudiciamente bianchi sotto una crosta di farina. 13. E che dovrei dire dei giumenti miei compagni? Che uli vecchi, che rozze storpiate! Stavano intorno alla greppia in cui avevano immersa la testa, e troncavano e maciullavano mucchi di paglia: colli piagati dalle ferite colanti marciume, narici spaccate e ciondolanti per i continui colpi di tosse, petti feriti dal continuo sfregamento della fune di giunchi, costole con le ossa quasi a nudo per le continue percosse, unghie allargate in piedi enormi per i molteplici giri, e tutto cuoio indurito dalla fatica e dalla macilenza e dalla rogna. Mi venne la paura di una punizione funesta anche per me, e ricordando la fortuna del Lucio di un tempo, avvilito fino alla disperazione, mi maceravo a capo basso. Non si vedeva da nessuna parte un conforto a quella vita tormentosa, solo la mia innata curiosità mi dava un po’ di svago perché, dato che nessuno teneva conto della mia presenza, liberamente facevano e parlavano come volevano. E a ragione il divino autore dell’antica poesia greca, volendo additare un uomo di somma link 5: Talis mulieris publicitus matrimonium confarreaturus ingentique angore oppido suspensus expectabam diem muneris, saepius quidem mortem mihimet uolens consciscere, priusquam scelerosae mulieris contagio macularer uel infamia publici spectaculi depudescerem. Sed priuatus humana manu, priuatus digitis, ungula rutunda atque mutila gladium stringere nequaquam poteram. Plane tenui specula solabar clades ultimas, quod uer in ipso ortu iam gemmulis floridis cuncta depingeret et iam purpureo nitore prata uestiret et commodum dirrupto spineo tegmine spirantes cinnameos odores promicarent rosae, quae me priori meo Lucio redderent. Dies ecce muneri destinatus aderat. Ad conseptum caueae prosequente populo pompatico fauore deducor. Ac dum ludicris scaenicorum choreis primitiae spectaculi dedicantur, tantisper ante portam constitutus pabulum aetissimi graminis, quod in ipso germinabat aditu, libens adfectabam, subinde curiosos oculos patente porta spectaculi prospectu gratissimo reficiens. Nam puelli puellaeque uirenti florentes aetatula, forma conspicui, ueste nitidi, incessu gestuosi, Graecanicam saltaturi pyrricam dispositis ordinationibus decoros ambitus inerrabant nunc in orbem rotatum flexuosi, nunc in obliquam seriem conexi et in quadratum patorem cuneati et in cateruae discidium separati. At ubi discursus reciproci multinodas ambages tubae terminalis cantus explicuit, aulaeo subducto et complicitis siparis scaena disponitur. (X, 29, sottolineatura nostra)28 link 6: Ergo igitur non de pudore iam, sed de salute ipsa sollicitus, dum magister meus lectulo probe coaptando districtus inseruit et tota familia partim ministerio uenationis occupata partim uoluptario spectaculo adtonita meis cogitationibus liberum tribuebatur arbitrium, nec magnopere quisquam custodiendum tam mansuetum putabat asinum, paulatim furtiuum pedem proferens portam, quae proxima est, potitus iam cursu memet celerrimo proripio sexque totis passuum milibus perniciter confectis Cenchreas peruado, quod oppidum audit quidem nobilissimae coloniae Corinthiensium, adluitur autem Aegaeo et Saronico mari. Inibi portus etiam tutissimum nauium receptaculum magno frequentatur populo. Vitatis ergo turbulis et electo secreto litore prope ipsas fluctuum aspergines in quodam mollissimo harenae gremio lassum corpus porrectus refoueo. Nam et ultimam diei metam curriculum solis deflexerat et uespertinae me quieti traditum dulcis somnus oppresserat. (X, 35)29 saggezza, cantò che le più grandi virtù furono raggiunte da colui che aveva visitate molte città e conosciuti diversi popoli. Perciò io sono riconoscente al mio asino perché, celato sotto la sua pelle e travagliato da molte sventure, mi rese, se non saggio, almeno sperimentato. » 28 «Proprio con una donna come questa io mi dovevo unire in matrimonio, e sospeso in una grandissima trepidazione aspettavo il giorno dello spettacolo, pensando di quando in quando di darmi volontariamente la morte pur di non macchiarmi del contagio di una tanto scellerata donna, e con la vergogna di un pubblico spettacolo. Ma ero privo di mani umane, privo delle dita, e con un’unghia rotonda e mutila non potevo in alcun modo stringere una spada. Mi confortava dall’idea della morte una debole speranza, poiché la primavera incipiente pingeva ogni cosa con le sue floride gemme, e rivestiva già i prati di splendore purpureo, e già le rose, sotto lo spinoso involucro, spirando profumi soavi, occhieggiavano: quelle rose che mi potevano rendere il Lucio di prima. Ecco che il giorno destinato allo spettacolo era giunto. Io fui condotto tra gli applausi in gran pompa nel teatro gremito, seguito da tutto il popolo. E mentre la prima parte dello spettacolo era dedicata alle danze e a i cori, io stando dinanzi alla porta brucavo un’ottima erba che cresceva proprio davanti all’ingresso, da dove mi svagavo guardando di quando in quando incuriosito la bellissima vista dello spettacolo attraverso la porta aperta. Fanciulli e fanciulle nel fior degli anni, belli, vestiti di bianco, con passo ritmico, disposti in ordine, si movevano in maravigliosi giri danzando la pirrica danza greca, e ora flessuosi roteavano in cerchio, ora si disponevano in ordine obliquo, ora formavano un quadrato, ora si disponevano in schiere divise. Ma quando risonò il segnale della tromba, terminarono le danze e le giravolte. Fu lasciato cadere il sipario, furono ravvoltolati i teloni, e la scena apparve tutta disposta.» 29 «Dunque io, inquieto non più per il mio pudore ma per la mia stessa salvezza, mentre il mio guardiano era occupato a preparare il letto affaccendandosi di qua e di là, e tutti gli schiavi chi si preparava alla caccia, e chi si entusiasmava allo spettacolo di quella voluttà di nuovo genere, lasciando libero il corso alle mie riflessioni, e nessuno dei custodi facendo troppo caso a un asino tanto mansueto, a poco a poco mi diressi furtivamente verso la porta che era vicina; non l’ebbi varcata che mi lanciai a corsa pazza, e fatte sei miglia di gran carriera pervenni a Cencrea, città della nobilissima colonia dei Corinzii, bagnata dall’Egeo e dal mare Saronico. Qui è anche un porto, sicurissimo rifugio delle navi, assai frequentato. Evitai la gente, e scelto il lido deserto, presso gli spruzzi delle onde mi riposai stendendo il corpo sulla molle sabbia. Già il carro del sole s’era rivolto all’ultima mèta del giorno, e un dolce sonno s’era impadronito di me abbandonato alla quieta sera» link 7: Circa primam ferme noctis uigiliam experrectus pauore subito, uideo praemicantis lunae candore nimio completum orbem commodum marinis emergentem fluctibus; nanctusque opacae noctis silentiosa secreta, certus etiam summatem deam praecipua maiestate pollere resque prorsus humanas ipsius regi prouidentia, nec tantum pecuina et ferina, uerum ina nima etiam diuino eius luminis numinisque nutu uegetari, ipsa etiam corpora terra caelo marique nunc incrementis consequenter augeri, nunc detrimentis obsequenter imminui, fato scilicet iam meis tot tantisque cladibus satiato et spem salutis, licet tardam, subministrante augustum specimen deae praesentis statui deprecari; confestimque discussa pigra quiete <laetus et> alacer exurgo meque protinus purificandi studio marino lauacro trado septiesque summerso fluctibus capite, quod eum numerum praecipue religionibus aptissimum diuinus ille Pythagoras prodidit, [laetus et alacer] deam praepotentem lacrimoso uultu sic adprecabar (XI, 1, sottolineatura nostra)30 30 «Erano già le prime ore della notte quando, svegliatomi per un improvviso incubo, vidi la sfera piena della luna scintillante di un maraviglioso splendore emergere dai flutti marini; e col favore delle silenziose solitudini dell’opaca notte, e fidente nella potenza e nella grandezza della dea sovrana e che tutte le cose umane sono rette dalla sua provvidenza, per cui non soltanto gli animali e le fiere ma anche le cose inanimate crescono rigogliosamente per il cenno divino della maestà luminosa, e anche gli stessi corpi della terra, del cielo e del mare prosperano ora secondo che essa cresce, ora diminuiscono secondo che essa diminuisce; e poiché il fato ormai sazio di tante e tante mie sventure mi porgeva una speranza di salvezza, sebbene tarda, decisi di supplicare l’immagine della dea benigna. Scacciato subito il pigro sonno, mi levo pronto e fiducioso, e senz’altro mi abbandono al lavacro del mare per purificarmi; e immerso il capo sette volte nei flutti, perché il divino Pitagora tramandò che questo è un numero sommamente adatto ai riti religiosi, con occhi lagrimosi così supplicai la potentissima dea:».