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Il mobbing:
analisi della contestualizzazione giuridica di un fenomeno sociale
di
Vincenzo Ianni
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(Concorso - Premio giuridico indetto dall'Associazione "Napoli Cultural Classic" – Nola 2012 )
SOMMARIO. 1. Premessa: inquadramento della fenomenologia del mobbing.- 2. Le cause del mobbing.- 3.
La casistica del mobbing alla luce del dato esperenziale.- 4. Le ripercussioni delle condotte di mobbing
sull’equilibrio psico-fisico della vittima.- 4.1 Il cd. “disturbo dell’adattamento” (DA).- 4.2. Il cd. “disturbo acuto
da stress” (DAS).- 4.3. Il cd. “disturbo post-traumatico da stress” (DPTS).- 5. La tutela del mobbing a livello
normativo: lo stato dell’arte.- 6. La responsabilità ex art. 2043 c.c. del lavoratore- 7. La responsabilità ex art.
2087 c.c. del datore di lavoro.- 8. Il risarcimento del danno da mobbing.- 9. I profili probatori nell’ambito
dell’azione giudiziaria volta ad ottenere il risarcimento del danno da mobbing.
1. Premessa: inquadramento della fenomenologia del mobbing.
Il termine “mobbing” deriva dal verbo inglese “to mob”, che significa “accerchiare”, “aggredire in massa”.
Il verbo, a sua volta, trae origine dall’espressione latina “mobile vulgus”, indicante una moltitudine di
soggetti facinorosi, dediti al compimento di atti vandalici ed alle sommosse, considerati, attesa la loro
inclinazione a condotte violente, meritevoli di disprezzo. Dalla locuzione latina, oltre al verbo, è derivato
anche il sostantivo “mob”, che originariamente è stato adoperato come appellativo per indicare la
popolazione di umile estrazione.
In epoca successiva, così come è avvenuto per la parola italiana “volgare”, quella inglese “mob” ha
mantenuto sia l’accezione negativa sia quella neutra indicante parole o atti riguardanti il volgo.
Una volta chiarita l’etimologia della parola “mobbing”, può dirsi che nel linguaggio socio-giuslavorastico il
vocabolo indica una vasta pletora di condotte moleste, discriminatorie, vessatorie, persecutorie, che, poste
1
in essere reiteratamente ed inquadrabili in un disegno deliberativo unitario , destabilizzano l’equilibrio psico2
fisico della vittima .
1
In merito all’unitarietà delle condotte v. T.A.R., Campania, Salerno, I, 29 giugno 2006, n. 881; T.A.R., Lazio, Roma,
sez. I, 7 aprile 2008, n. 2877; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-bis, 25 giugno 2004, n. 6254; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III,
10 settembre 2007, n. 3143; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 8 marzo 2007, n. 403; Cass. civ., sez. lav., 9 settembre
2008, n. 22858, in Guida al diritto, 2008, 46, pp. 83 ss.
2
In una pronuncia della Corte di cassazione si osserva: «Il mobbing (come espressamente dedotto e prospettato dalla
ricorrente) è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo
comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche
intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29
settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n.
13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente), e la conseguente
lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico» (Cass. civ., sez. lav., 9 settembre
2008, n. 22858, cit.).
In altro decisum si legge: «Per “mobbing” (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si
intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo,
tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili,
1
che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la
mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del
complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto
rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il
dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso
eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del
lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio» (Cass. civ., sez. lav. 17 febbraio 2009,
n. 3785).
In una diversa sentenza si legge: «come indicato dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 359 del 2003),
la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell'etologia per designare un complesso fenomeno
consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un
lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di
persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo» (Cass. civ., sez.
lav., 8 agosto 2011, n. 17089).
Significativo, in relazione alla definizione del fenomeno del mobbing, è riportare quanto precisato dal Tribunale di La
Spezia nella pronuncia dell’1 luglio 2005, in cui si legge che nella psicologia del lavoro il termine indica «una
situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all’interno del luogo di lavoro,
in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, la reputazione e/o la professionalità
della vittima».
Per quanto concerne la letteratura sul tema si segnala la lettura di: C. BALDUCCI, I processi psichici del mobbing,
Prima, 2000; S. CARRETTIN – N. RECUPERO, Il mobbing in Italia. Terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro,
Dedalo, 2002; A. CASILLI, Stop mobbing. Resistere alla violenza psicologica sul luogo di lavoro, Derive Approdi,
2000; H. EGE, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul luogo di lavoro, Pitagora, 1996; ID., Il Mobbing in Italia:
introduzione al Mobbing culturale, Pitagora, 1997; ID., I numeri del mobbing. La prima ricerca italiana, Pitagora,
1998; ID., Il mobbing in Italia. Introduzione al Mobbing culturale, Pitagora, 1997; ID., Mobbing. Conoscerlo per
vincerlo, Franco Angeli, 2001; ID., Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di
lavoro, Franco Angeli, 2005; ID. – M. LANCIONI, Stress e Mobbing, Pitagora, 1998; AA. VV., Psichiatria della salute
aziendale e mobbing. Studio sui disturbi mentali in ambito lavorativo (a cura di S. De Risio), Franco Angeli, 2002; M.
F. HIRIGOYEN, Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Einaudi, 2000; C. LAZZARI, Il
mobbing sessuale, Prima, 1999; ID., Mobbing: conoscerlo, affrontarlo, prevenirlo, Edizioni Scientifiche Internazionali,
2001; ID., Vincere le ingiustizie sul lavoro, Pitagora, 1997; ID., Adesso mi arrabbio. Conoscere ed affrontare il litigio
sul lavoro, Pitagora, 1996; C. BALDASSARI – M. DEPOLO, La vittimizzazione psicosociale sul lavoro, in Psicologia
Contemporanea, 1999, 152, pp. 18 ss.; G. FERRARI – V. PENATI, Il Mobbing e le violenze psicologiche.
Fenomenologia, prevenzione, intervento, Ferrari Sinibaldi, 2011; C. FERRARO PELLE, mobbing, storia di una donna
che non si arrende, Memori, 2010; G. BUSSOTTI – S. MORIONDO, Valutazione del mobbing. Manuale per la
gestione del rischio dei lavoratori e delle lavoratrici, Ediesse, 2010; AA. VV., Mobbing: la faccia impresentabile del
mondo del lavoro (a cura di A. Menelao – M. Della Porta – G. Rindonone), Franco Angeli, 2001; A. ASCENZI – G. L.
BERGAGIO, Il mobbing. Il marketing sociale come strumento per combatterlo, Giappichelli, 2000; ID., Mobbing:
riflessioni sulla pelle…; B. RUPPRECHT-STROELL, Mobbing: no grazie! Strategie di difesa contro aggressioni,
boicottaggi, provocazioni, diffamazioni e umiliazioni sul posto di lavoro, TEA, 2001; ID. Difendersi dal mobbing.
Strategie contro aggressioni, boicottaggi, provocazioni, diffamazioni e umiliazioni sul posto di lavoro, TEA, 2007; P.
SAOLINI, Mobbing. I costi umani dell’impresa, Edizioni Lavoro, 2001; R. M. SAPOLSKY, Perché le zebre non si
ammalano d’ulcera, McGraw-Hill, 1999; Il benessere sul lavoro, ricerca ISPO, Sperling & Kupfer, 1998; R.
VACCANI, Stress, mobbing e dintorni. Le insidie intangibili degli ambienti lavorativi, Etas, 2007; C. VENTIMIGLIA,
Disparità e disuguaglianza. Molestie sessuali, mobbing e dintorni, Franco Angeli, 2003; E. MAIER, Il Mobbing e lo
stress organizzativo, Il Ponte Vecchio, 2002; AA. VV., (a cura di G. Favretto) Le forme del mobbing. Cause e
conseguenze di dinamiche organizzative disfunzionali, Cortina, 2005; A. GILIOLI – R. GILIOLI, Cattivi capi, cattivi
colleghi. Come difendersi dal mobbing e dal nuovo «capitalismo selvaggio», Mondadori, 2000; AA. VV., Il mobbing.
Dal disagio al benessere lavorativo (a cura di F. Marini – M. Nonnis), Carocci, 2006; AA. VV., Salute mentale e
ambiente di lavoro. Conoscere e tutelare dal disadattamento al mobbing (a cura di G. Pozzi), Franco Angeli, 2008; AA.
VV., Mobbing: fenomenologia, conseguenze ed ipotesi di prevenzione (a cura di G. Sprini), Franco Angeli, 2007; V.
MAJER – G. GIORGI, Il mobbing in Italia: uno studio condotto presso ventuno organizzazioni, in Risorsa uomo, 2008,
2, pp. 171 ss., ID., Intelligenza emotiva e mobbing: un focus su un campione di vittime di azioni vessatorie, in Risorsa
uomo, 2008, 3, pp. 309 ss.; P. ARGENTERO – N. S. BONFIGLIO, Uno strumento per la valutazione soggettiva del
rischio mobbing: il questionario QAM 1.6, in Risorsa uomo, 2008, 2, pp. 207 ss.; M. BUCCI, Affrontare il mobbing dal
punto di vista dell’azienda, un’esperienza concreta in un’amministrazione pubblica, in Psicologia e lavoro, 2007, 145,
2
pp. 21 ss.; G. PRIMERANO, Burnout, mobbing, stress lavorativo: nuove emergenze gestionali, in Direzione del
personale, 2007, 4, pp. 37 ss.
In merito alla letteratura straniera, tra gli altri, si vedano: C. M. BRODSKY, The harrassed worker, Lexington Press,
1976; H. LEYMANN, Mobbing and psychological terror at workplaces, in Violence and Victims, 1990, 5 (2), pp. 119
ss.; ID., Leymann Inventory of Psychological Terror, Violen, 1992; ID., Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und
wie man sich dagegen wehrenkann, Rowohlt, 1993; ID., The content and development of mobbing at work, in European
Journal of Work an Organizational Psychology, 1996, 5 (2), pp. 165 ss.; H. LEYMANN – A. GUSTAVSSON,
Mobbing at work and the development of post-traumatic stress disorders, in European Journal of Work an
Organizational Psychology, 1996, 5 (2), pp. 251 ss.; S. MARAIS-STEINMAN – M. HERMAN, Corporate Hyenas at
Work! How to spot and outwit them by being hyenawise, Kagiso Publishers, 1997; A. DURIEUX – S. JOURDAIN,
L’Entreprise barbare, Albin Michel, 1999; A. ADAMS – N. CRAWFORD, Bullying at the work how to confront and
overcome it, Virago Press, 1992; T. FIELD, Bully in sight. How to predict, resist, challenge and combat workplace
bullying. Overcoming the silence and denial by which abuse thrives, Success Unlimited, 1996; M. AGERVOLD,
Bullying at work. A discussion of definitions and prevalence, based on an empirical study, in Scandinavian Journal of
Psychology, 2007, 48 (2), pp. 161 ss.; ID. – E. G. MIKKELSEN, Relationships between bullying, psychosocial work
environment and individual stress reactions, in Work & Stress, 2004, 18 (4), pp. 336 ss.; L. M. ANDERSSON – C. M.
PEARSON, Tit for tat? The spiraling effect of incivility in the workforce, in Academy of Management Review, 1999, 24
(3), pp. 452 ss.; B. ASHFORTH, Petty tyranny in the organization. A preliminary examination of antecedent and
consequences, in Canadian Journal of Administrative Science, 1997, 14 (2), pp. 216 ss.; ID., Petty tyranny in
organizations, in Human Relations, 1994, 47 (7), pp. 755 ss.; F. AVALLONE – A. PAPLOMATAS, Salute
organizzativa. Psicologia del benessere nei contesti organizzativi, Cortina, 2005; R. A. BARON – J. H. NEUMAN – D.
GEDDES, Social and personal determinants of workplace aggression. Evidence for the impact of perceived injustice
and the type a behavior pattern, in Aggressive Behaviour, 1999, 25 (4), pp. 281 ss.; K. BJORKVIST, Sex differences in
physical, verbal, and indirect aggression. A review of recent research, in Sex Roles, 1994, 30 (3-4), pp. 177 ss.; I.
COYNE – E. SEIGNE – P. RANDALL, Predicting workplace victim status from personality, in European Journal of
Work and Organizational Psychology, 2000, 9 (3), pp. 335 ss.; S. EINARSEN – B. I. RAKNES – S. B.
MATTHIESEN, Bullying and harassment at work and their relationship to work environment quality: an explorating
study, in European Work and Organizational psychologist, 1994, 4 (4), pp. 381 ss.; S. EINARSEN – A. SKOGSTAD,
Bullying at work. Epidemiological findings in public and private organizations, in European Journal of Work and
Organizational Psychology, 1996, 5 (2), pp. 185 ss.; S. EINARSEN – B. I. RAKNES, Harassment in the workplace
and victimization of men, in Violence and Victims, 1997, 12 (3), pp. 247 ss.; S. EINARSEN – S. T. MATTHIEISEN –
A. SKOGSTAD, Bullying, burnout and well-being among assistant nurses, in Journal of Occupational Health Safety,
1998, 14 (6), pp. 563 ss.; S. EINARSEN, Harassment and bullying at work. A review of the scandinavian approach, in
Aggression and Violent Behaviour, 2000, 20 (1-2), pp. 16 ss.; S. EINARSEN – H. HOEL, The negative acts
questionnaire. Development, validation and revision of a measure of bullying at work. Paper presented at the 10th
European Congress on Work and Organizational Psychology, Prague, 2001; S. EINARSEN – H. HOEL – D. ZAPF – C.
COOPER, Bullying and emotional abuse in the workplace, Taylor & Francis, 2003; S. EINARSEN – M. S. AASLAD –
A. SKOGSTAD, Destructive leadership behavior. A definition and conceptual model, in The Leadership Quarterly,
2007, 18, pp. 207 ss.; G. GIORGI – S. B. MATTHIESEN – S. EINARSEN, Italian validation of the Negative Acts
Questionnaire. Work presented at the 5th International Conference on Bullying and Harassment in the Workplace,
Dublin, june 2006; H. HOEL – C. L. COOPER – B. FARAGHER, The experience of bullying in Great Britain. The
impact of organizational status, in European Journal of Work and Organizational Psychology, 2001, 10 (4), pp. 443
ss.; AA. VV., Bullyng and emotional abuse in the workplace (by S. Einarsen – H. Hoel – D. Zapf – C. Cooper), Taylor
& Francis, 2003; S. B. MATTHIESEN – S. EINARSEN, MMPI-2 configuration among victims of bullying at work, in
European Journal of Work and Organizational Psychology, 2001, 10 (4), pp. 467 ss.; S. B. MATTHIESEN – B.
AASEN – G. HOLST – K. WIE – S. EINARSEN, The escalation of conflict. A case study of bullying at work, in
International Journal of Management and Decision Making, 2003, 4 (1), pp. 96 ss.; S. MATTHIESEN, Bullying at
work. Antecedents and outcomes. PhD Thesis, Department of Psychosocial Science, Faculty of Psychology, University
of Bergen, Norwey, 2005; E. MIKKELSEN – S. EINARSEN, Bullying in danish work life. Prevalence and health
correlates, in European Journal of Work and Organizational Psychology, 2001, 10 (4), pp. 393 ss.; G. NOTELAERS –
S. EINARSEN – H. DE WITTE – J. VERMUT, Estimating the prevalence of bullying at work. A latent class cluster
approach, in Work & Stress, 2006, 20 (4), pp. 288 ss.; M. O’MOORE – E. SEIGNE – L. Mc GUIRE – M. SMITH,
Victims of bullying at work in Ireland, in Journal of Occupational Health and Safety, 1998, 14 (6), pp. 569 ss.; D.
SALIN, Prevalence and forms of bullying among business professionals: A comparison of tow different strategies for
measuring bullying, in European Journal of Work and Organizational Psychology, 2001, 10 (4), pp. 425 ss.; ID.,
Workplace bullying among business professionals: Prevalence, gender differences and the role of organizational
politics, PISTES – Perspectives Interdisciplinaires sur le Travail et la Santé, 2005, 7 (3),
http://www.pistes.uqam.ca/v7n3/articles/v7n3a2en.htm; B. TEPPER, Consequences of abusive supervision, in Academy
3
Dette condotte, siano esse commissive od omissive, «possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e
propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di
poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e
tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo
3
insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione» .
I comportamenti sottesi al fenomeno del mobbing sovente recano un substrato motivazionale
caratterizzato da un atteggiamento discriminatorio basato su genere, religione, origine etnica, età,
nazionalità, disabilità, cultura, orientamento sessuale ed altre forme di diversità.
Lo sfondo in cui si innestano le condotte di cui supra è l’ambiente lavorativo, sebbene il termine
“mobbing” sia stato coniato agli inizi degli anni settanta del secolo scorso dall’etologo viennese Konrad
Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo che registrò tra animali della stessa specie,
avente l’obbiettivo di isolare un membro dello stesso gruppo.
Il primo a calare la tipologia comportamentale anzidetta in un contesto lavorativo è stato, alla fine degli
anni ’80 del Novecento, lo psicologo svedese Heinz Leymann, che lo definì come una «forma di terrorismo
psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica - e non
occasionale o episodica - da una o più persone eminentemente nei confronti di un solo individuo, il quale, a
causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative
vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una determinata frequenza
(statisticamente: almeno una volta alla settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (statisticamente:
almeno per sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile,
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questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali» .
Similare al mobbing è il fenomeno cd. dello straining, sotto le cui insegne sono riconducibili quei «conflitti
organizzativi non rientranti nel Mobbing ma comunque comprendenti situazioni lavorative stressanti, ingiuste
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e lesive, quali per esempio la dequalificazione o isolamento professionale» .
In sostanza, con il termine straining – che deriva dal verbo inglese “to strain”, indicante l’azione del
“mettere sotto pressione” – si indica una condotta vessatoria che, in quanto isolata e non inquadrabile entro
un disegno unitario, non assurge al livello del mobbing ma pur tuttavia determina una condizione psicologica
non ricollegabile al normale stress occupazionale.
Ciò premesso, per identificare il mobbing sovente si ricorre all’utilizzo di termini quali bullying at work,
work harassment psychological terror, victimization at work, work abuse, invalsi nel linguaggio dei paesi
anglosassoni.
È abituale, inoltre, l’utilizzo dell’espressione employee abuse, che indica l’abuso di potere sul lavoratore.
Nella letteratura transalpina il mobbing viene definito come “harcèlment au travail” o come “harcèlment
dans l’entreprise”.
Tradizionalmente si distingue tra mobbing “orizzontale” e “verticale” in ragione del grado di subalternità
della vittima rispetto al soggetto agente (il primo termine viene utilizzato nel caso in cui il mobbing è posto in
of Management Journal, 2000, (43) 2, pp. 178 ss.; A. SKOGSTAD – S. EINARSEN – T. TORSHEIM – M. S.
AASLAND – H. HETLAND, The destructiveness of laissez-faire leadership behavior, in Journal of Occupational
Health Psychology, 2007, 12 (1), pp. 80 ss.; N. VAN YPEREN – M. HAGEDOORN – S. A. E. GEURTS, Intent to
leave and absenteeism as reactions to perceived inequity. The role of psychological and social constraints, in Journal of
Occupational and Organizational Psychology, 1996, 69 (4), pp. 367 ss.; M. VARTIA, The Sources of Bullying–
Psychological Work Environment and Organizational Climate, in European Journal of Work and Organizational
Psychology, 1996, 5 (2), pp. 203 ss.; D. ZAPF, Organizational, work group related and personal causes of
mobbing/bullying at work, in International Journal of Manpower, 1999, 20 (1-2), pp. 70 ss.; ID., Negative social
behaviour at work and workplace bullying. Paper presented at the Fourth International Conference on Bullying and
Harassment in the Workplace, University of Bergen, Norwey, 2004; ID. – C. GROSS, Conflict escalation and coping
with workplace bullying. A replication and extension, in European Journal of Work and Organizational Psychology,
2001, 10 (4), pp. 497 ss.
3
Cass. civ., sez. lav., 8 agosto 2011, n. 17089.
4
La definizione è riportata da M. MEUCCI, Considerazioni sul «mobbing» (ed analisi del Disegno di legge n. 4265
del 13 ottobre 1999), in Lav. e prev. oggi, 1999, p. 1954.
5
H. EDGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, cit., 2005, p. 67.
4
essere da lavoratori di pari livello della vittima, il secondo, invece, è utilizzato nel caso di mobbing
riconducibile al datore di lavoro).
Si definisce “ascendente” il mobbing attuato da un gruppo di lavoratori nei confronti di un superiore
gerarchico.
Al di là del differente dato terminologico, che non muta la sostanza, le condotte di mobbing vengono
6
poste in essere in ambito lavorativo al fine di determinare una sorta di ostracismo della vittima ; ostracismo,
che può essere fine a sé stesso o sottendere una finalità ben precisa quale la volontà di estromettere un
lavoratore dal contesto lavorativo, inducendolo al licenziamento od alla richiesta di trasferimento in altra
sede.
In merito al presente discorso in una pronuncia della Suprema Corte si fa presente quanto segue: «La
condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di
atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere
l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente
7
nell’ambiente di lavoro» .
Sul sito web dell’Osservatorio nazionale mobbing si legge: «Il Mobbing […] si pone sempre come fine
l’emarginazione del dipendente, in termini di frantumazione delle sue sicurezze lavorative, psicologiche ed
esistenziali, con l’intento di escluderlo dal suo ruolo di lavoro e di destabilizzarlo nelle sue difese esistenziali
e psicosociali, onde metterlo in conflitto con se stesso e con la microsocietà in cui si muove e dentro la quale
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espleta le sue scelte ed i suoi interessi sociali e culturali» .
In Italia, secondo il monitoraggio effettuato dall’Ispesl (Istituto per la prevenzione e la sicurezza del
lavoro), su 21 milioni di occupati sono circa un milione e mezzo i lavoratori italiani vittime del mobbing, con
una maggiore concentrazione al Nord (65%).
I dati statistici mostrano una lieve prevalenza del mobbing sulle donne (52%), soprattutto in contesti
territoriali dove la cultura non è ancora abbastanza aperta al lavoro femminile od all’attribuzione alle donne
di incarichi professionali di responsabilità.
In ordine alla composizione delle vittime, le stime evidenziano che oltre il 70% di queste lavora nella
Pubblica amministrazione. Sempre secondo l’Ispesl, il mobbing ha un costo molto elevato per il datore di
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lavoro: la produttività di un lavoratore cala infatti del 70% . A tale dato si aggiunga quello concernente la
necessità di formare nuovo personale per sopperire alla carenza in organico, determinata dall’indisponibilità
di utilizzare la forza lavoro dell’individuo che a seguito di condotte mobbizzanti abbia sviluppato una
patologia.
Non sono da trascurare, poi, i danni all’immagine dell’azienda ed i costi legati ad iniziative giudiziarie
eventualmente intraprese dal lavoratore.
Proprio alla luce delle superiori circostanze le grandi aziende private, non appena avuta la percezione
della reale portata del fenomeno, subitaneamente hanno approntato misure atte a prevenirne l’insorgenza.
6
L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul lavoro descrive il fenomeno in questi termini: “il mobbing sul
posto di lavoro consiste in un comportamento ripetuto, irragionevole, rivolto contro un dipendente o un gruppo di
dipendenti, tale da creare un rischio per la salute e la sicurezza (…). Il comportamento irragionevole sta ad indicare
un’azione che, secondo una persona ragionevole e tenuto conto di tutte le circostanze, perseguita, umilia, intimidisce o
minaccia; tale comportamento comprende le azioni di singoli individui o di un gruppo. Si può organizzare il lavoro in
modo da perseguire, umiliare, intimidire o minacciare. Il rischio per la salute e la sicurezza può riguardare la salute
mentale o fisica del lavoratore dipendente. Il mobbing spesso implica uno sviamento o abuso di potere, nel qual caso la
vittima del mobbing può incontrare difficoltà a difendersi» (Atti Conferenza Europea sul mobbing, Isola di San
Servolo, 8‐10 ottobre 2002, www.leymann.se).
7
Cass. pen., sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624.
8
Indirizzo internet di riferimento: http://w3.uniroma1.it/mobbing/Che_cos%27%C3%A8.html.
9
Nella Risoluzione del Parlamento europeo A5-0283/2001 (2001/2339(INI)), assunta il 20 settembre 2001, si legge:
«Il Parlamento europeo […] ricorda che il mobbing comporta […] conseguenze nefaste per i datori di lavoro per
quanto riguarda la redditività e l’efficienza economica dell’impresa a causa dell’assenteismo che esso provoca, della
riduzione della produttività dei lavoratori indotta dal loro stato di confusione e di difficoltà di concentrazione nonché
dalla necessità di erogare indennità ai lavoratori licenziati» (punto 21).
5
Si consideri, in merito, l’accordo aziendale della Casa automobilistica Wolkswagen, valido dall’1 luglio
1996, nella cui introduzione si legge: «Una cultura d’impresa che si distingua per un atteggiamento di
cooperazione sul posto di lavoro pone le basi per un positivo clima lavorativo aziendale ed è quindi un
importante presupposto per il successo economico dell’impresa.
Le molestie sessuali, indirizzate di massima verso le donne, e il mobbing nei confronti dei singoli, nonché
le discriminazioni per origine, colore della pelle e religione, disturbano gravemente la pace sociale sul posto
di lavoro. Tali atteggiamenti costituiscono un'offesa alla dignità umana ed una violazione dei diritti personali
e sono incompatibili con il regolamento del lavoro.
Essi danno luogo a un ambiente di lavoro degradato ed oppresso dallo stress e preparano, non da ultimo,
il terreno a disturbi della salute.
L’impresa si impegna ad impedire molestie sessuali, mobbing e discriminazioni ed a favorire e sostenere
un clima di schietta collaborazione. Ciò vale anche per la pubblicità e le altre manifestazioni verso
10
l’esterno» .
Un dato da non trascurare, in relazione agli effetti del mobbing, è quello per cui l’inflessione della
produttività da questo determinata incide, di riflesso, sull’economia in generale.
Occorre, inoltre, considerare che il mobbing comporta un significativo aumento di spesa per gli oneri
sociali quali sussidi, pensioni anticipate, mobilità, invalidità, ammortizzatori sociali, etc…
Infine, per le sue conseguenze sulla salute della vittima il mobbing comporta un costo anche per il
sistema sanitario regionale.
Ciò premesso, dal monitoraggio effettuato dall’Ispesl emerge che la categoria più esposta al fenomeno
del mobbing risulta essere quella degli impiegati (79%), alla quale seguono le categorie dei diplomati (52%)
e dei laureati (24%).
Sembra possibile ipotizzare che il grado di istruzione, da un lato garantisca una maggiore capacità di
relazionarsi nell’ambiente lavorativo – attivando, se del caso, le misure a tutela della propria persona – e
dall’altro scoraggi l’“attacco” da parte di altri soggetti con un bagaglio culturale inferiore.
Per quanto riguarda la durata delle azioni mobbizzanti, nel 40% dei casi si ravvisa una durata da uno a
due anni, nel 30% dei casi le azioni si protraggono per oltre due anni, in un 27% dei casi, infine, si ha una
perduranza da sei mesi a un anno.
Circa il tempo necessario affinchè possa ritenersi integrato il mobbing, occorre che le condotte
11
usualmente ritenute proprie del fenomeno si protraggano per un arco temporale di almeno sei mesi .
Secondo l’indagine compiuta nel 1998 dall’European Foundation for the Inmprovement of Living and
Working conditions, nell’Unione europea le persone vittime di vessazioni sul posto di lavoro sono circa dodici
milioni, pari all’8,1% degli occupati. In testa alla classifica dei paesi dove più numerosi sono i casi di mobbing
si pone l’Inghilterra con il 16,3%, seguono poi la Svezia con il 10,2%, la Francia con il 9,9%, l’Irlanda con il
9,4%, la Germania con il 7,3%, la Spagna al 5,5%, il Belgio al 4,8% e la Grecia con il 4,7%. L’Italia, con un
valore percentuale pari al 4,2%, si pone al di sotto della media europea.
Tanto premesso, alla luce delle dimensioni allarmanti assunte dal fenomeno del mobbing di cui si
12
discorre ci si è interrogati in ordine a quale valenza, sul piano giuridico, debba riconoscersi ad esso .
10
Per
la
lettura
del
documento
nella
sua
interezza
si
rinvia
all’indirizzo
internet
http://www.snfia.org/mobbing/volkswagen.htm.
11
Cass. civ., sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858, cit.
12
M. GALLO, L’abuso del diritto come strumento provvisorio di contrasto al mobbing, ne Il Lavoro nella
giurisprudenza, 2008, 3, pp. 237 ss.; L. NOCCO, Il mobbing, in Danno e resp., 2008, 4, pp. 398 ss.; F. COSTA, Il
mobbing, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010; C. ZOLI, Il mobbing: brevi osservazioni in tema di fattispecie ed effetti,
ne Il lavoro nella giurisprudenza, 2003, n. 4, pp. 337 ss.; AA. VV., Mobbing: quando la prevenzione è intervento.
Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno (a cura di M. Depolo), Franco Angeli, 2003; M. D’APONTE, Molestie
sessuali e licenziamento: è necessaria la prova del cd. mobbing (nota a Cass. civ., sez. lav., 8 gennaio 2000, n. 143), in
Riv. it. dir. lav., 2000, II, pp. 769 ss.; G. DE FALCO – A. MESSINEO – F. MESSINEO, Stress e mobbing. Diagnosi,
prevenzione e tutela legale, Epc, 2006; S. MARETTI, Mobbing: fattispecie e strumenti di tutela, inserto in Diritto &
Pratica del Lavoro, 2007, n. 32; G. GULOTTA, Il vero e il falso mobbing, Giuffrè, 2007; AA. VV., Il mobbing (a cura
di P. Tosi), Giappichelli, 2004; A. LIBERATI, Rapporto di lavoro e danno non patrimoniale, Giuffrè, 2004; B.
TRONATI, Mobbing e straining nel rapporto di lavoro. Cosa sono, come riconoscerli, come reagire, come tutelarsi,
6
Ediesse 2008; N. GHIRARDI, Il mobbing nella giurisprudenza, inserto di Dir. & Pratica del Lavoro, 2008, 10, pp. 3
ss.; A. CONSOLETTI, Mobbing e discriminazioni sul luogo di lavoro, analisi e strumenti di tutela (con la
collaborazione di C. Zamprioli), Giappichelli, 2010; A. RUSSO, Il mobbing: esigenze preventive e risarcitorie. Profili
comparati, reperibile all’indirizzo internet www.adapt.it/acm-on-line/Home/Feednoncancellare/documento1927.html;
M. BELLINA, Mobbing: profili penali, in Dir. & Pratica del Lavoro, 2007, 30, pp. 1913 ss.; F. BIANCHI, Il Mobbing,
inserto in Dir. & Pratica del Lavoro, 2007, 22; D. GAROFALO, Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento
normativo e tecnica risarcitoria, ne Il Lavoro nella giurisprudenza, 2004, n. 6, pp. 521 ss.; P. RAUSEI, Il mobbing sarà
reato?, inserto in Dir. & Pratica del Lavoro, 31; ID., Il mobbing nel rapporto di lavoro, in Dir. e lav. nelle Marche,
2001, nn. 3-4, pp. 169 ss.; ID., Mobbing: tutela dei danni psichici da costrittività organizzativa, in Dir. & Pratica del
Lavoro, 2005, 5, pp. 316 ss.; A. CACCAMO – M. MOBIGLIA, Mobbing: tutela attuale e recenti prospettive, inserto in
Dir. & Pratica del Lavoro, 2000, 18; A. GRIECO – L. ANDREIS – L. G. CASSITTO – C. FANELLI – E.
FATTORINI – R. GILIOLI – G. LEGNANI – P. PRANDONI, Il mobbing: alterata interazione psicosociale sul posto
di lavoro. Prime valutazioni circa l’esistenza del fenomeno in una realtà lavorativa italiana, in Previdenza oggi, 1992,
pp. 2 ss.; M. MEUCCI, cit., pp. 1953 ss.; ID., Alcuni punti fermi in tema di oneri probatori del demansionamento e del
mobbing, in D & L – Rivista critica di diritto del lavoro, 2007, 3, pp. 631 ss.; R. NUNIN, Di cosa parliamo quando
parliamo di mobbing, ne Il lavoro nella giurisprudenza, 2000, 9, pp. 835 ss.; R. SANTORO, Mobbing: la prima
sentenza, ne Il lavoro nella giurisprudenza, 2000, 4, pp. 364 ss.; L. GOTTARDI, Mobbing non provato e licenziamento
per giusta causa, in Guida al lavoro, 2000, 4, pp. 25 ss.; S. FIGURATI, Osservazioni in materia di mobbing, in Guida
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Giuffrè, 2000; P. G. MONATERI – A. MARIGLIANO – M. BONA – S. BONZIGLIA – U. OLIVA – A. ANGLESIO
– A. CASTELNUOVO – M. F. GAZALE – N. CASUCCIO – M. C. GUERRERI, Accertare il mobbing. Profili
giuridici, psichiatrici e medico legali. Proposta per la valutazione medico legale del danno psichico da mobbing (a cura
di M. Bona – S. Bonziglia – A. Marigliano – P. G. Monateri – U. Oliva), Giuffrè, 2007; C. CARDARELLO – F.
D’AMORA – A. EBREO – A. PATRIZI MONTORO;
Licenziamento, trasferimento, mobbing. Percorsi
giurisprudenziali, Giuffrè, 2007; A. P. GARLATTI – B. NEFRI, Licenziamento, trasferimento, mobbing. Questioni
processuali, Giuffrè, 2007; G. DI PARDO – S. DI PARDO – V. IACOVINO – C. IZZI, Mobbing. Tutela civile, penale
ed assicurativa. Casi giurisprudenziali e consigli pratici, Giuffrè, 2006; F. AMATO – M. CASCIANO – L.
LAZZERONI – A. LOFFREDO, Il mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, Giuffrè, 2002; M.
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Prevenire il mobbing. Un vantaggio per le aziende. Una sicurezza per il lavoratori, Giappichelli, 2005; D. GALLOTTI
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psicosociologici e giuridici, Sistemi Editoriali, 2007; A. ANTONUCCIO – P. P. VISSICCHIO, Il mobbing: aspetti
sociali, psicologici e legali. Strategie per la soluzione e prevenzione, Laruffa, 2010; M. DEPOLO – D. GUGLIEMI –
M. G. MARIANI, Azioni negative: indicatori di rischio di mobbing negli ambienti di lavoro, in Risorsa uomo, 2008, 2,
pp. 189 ss.; F. PETRONI, Il danno derivante dal mobbing: autonomia dell’onere della prova, ne Il merito, 2008, 9, pp.
18 ss.; A. QUAGLIARELLA, Elementi caratterizzanti del mobbing, ne Il Lavoro nella giurisprudenza, 2008, 9, pp. 927
ss.; S. PETRILLI, Il fenomeno del mobbing: la rilevanza penale e gli strumenti di tutela Azienditalia, ne Il personale,
2008, 3, pp. 156 ss.; P. RUSSO, Un fenomeno misconosciuto: il mobbing familiare, ne Il merito, 2008, 7/8, pp. 2 ss.; G.
G. MANCA, Mobbing: caratteri generali del fenomeno e suoi aspetti peculiari nell’ambito dell’impiego pubblico, in
Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2008, 1, pp. 93 ss.; A. BIANCO, Il mobbing nelle pubbliche
amministrazioni, in RU – Risorse umane nella pubblica amministrazione, 2008, 1, pp. 77 ss.; C. BISIO – A. NOCERA
– A. PIAZZA, Mobbing: quali azioni preventive in azienda? Il punto di vista dei professionisti, in Risorsa uomo, 2008,
2, pp. 235 ss.; A. GUGLIEMO, Responsabilità civile e mobbing, in Diritto & Pratica del Lavoro, 2008, 17, pp. 1033
ss.; M. VERRUCCHI, Rilevanza penale del mobbing, in Dir. pen. e proc., 2008, 7, pp. 892 ss.; G. DE FALCO, La
rilevanza penale del “mobbing” approda in Cassazione (nota a Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2006, n. 31413, in
Cass. pen., 2008, 1, pp. 182 ss.; A. RAFFI, Il ruolo della Cassazione nella tutela del “mobbing” (nota a Cass. pen., sez.
VI, 7 novembre 2007, n. 40891), in Riv. giur. lav. e prev. soc., 2008, 2, pp. 349 ss.; M. MEUCCI, Alcuni punti fermi in
tema di oneri probatori del demansionamento e del mobbing, in D & L – Rivista critica di diritto del lavoro, 2007, 3,
pp. 631 ss.; A. M. BENEDETTI, Ancora su mobbing e limiti del diriitto privato regionale: finalmente il “come”
prevale sul “cosa”?, in Danno e resp., 2007, 1, pp. 45 ss.; A. ATTANASIO, Difficile la configurazione dei
comportamenti vessatori in materia di mobbing, ne Il merito, 2007, 4, pp. 85 ss.; D. TROMBINO, Dottore, c’ho il
mobbing! (...anche per riflettere), ne L’amministrazione italiana, 2007, 3, pp. 397 ss.; V. DI LEMBO, Il fenomeno
mobbing: rilevanza giuridica e tutela giurisdizionale, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza,
2007,
8,
scritto
reperibile
all’indirizzo
internet
http://www.nuovarassegna.it/Web/nuovarassegna/art_det_nolgn.asp?ID_ART=1880&IDVolume=88; G. RISPOLI,
Riflessioni in tema di mobbing (nota a Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2352), in Giur. it., 5, pp. 1045 ss.; M.
SANSONE, Prospettive per una penalizzazione del «mobbing», in Riv. pen., 2006, 9, La Tribuna, pp. 885 ss.; L.
VIOLA, Il mobbing del debole verso il forte, ne Il Nuovo Diritto, 2006, 7-8, pp. 773 ss.; ID., Il mobbing dal basso verso
7
Un fenomeno, che incide sul lavoro, baricentro del benessere di una società da un punto di vista
economico (produttività e correlata redditività), dal punto di vista della sicurezza (in una società in cui vi è un
basso tasso di disoccupazione si riduce, quantomeno in via potenziale, il numero di azioni legate alla
microcriminalità), e infine da un punto di vista sociale (maggiore realizzazione personale per ciascuna
persona che ha un’occupazione).
Elementi, questi, che disvelano chiaramente la centrale valenza dell’approntamento di misure efficaci per
il contrasto del mobbing.
In merito al presente discorso si segnala la Risoluzione del Parlamento UE A5-0283/2001
(2001/2339(INI)), assunta il 20 settembre 2001, che al punto n. 6 recita: «Il Parlamento europeo ritiene che
[…] le misure contro il mobbing sul luogo di lavoro vanno considerate una componente importante degli
sforzi finalizzati all’aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle relazioni sociali nella vita
lavorativa; ritiene che esse contribuiscano altresì a combattere l’esclusione sociale, il che può giustificare
l’adozione di misure comunitarie e risulta in sintonia con l’Agenda sociale e gli orientamenti in materia di
occupazione dell’Unione europea».
Stando a quanto dichiarato dal Parlamento europeo, il rafforzamento della dimensione qualitativa della
politica occupazionale e sociale passa necessariamente dall’epurazione, dal tessuto lavorativo, del
fenomeno del mobbing.
Significativo è il passo della risoluzione in esame (n. 10) in cui si legge che il Parlamento «esorta gli Stati
membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro
il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della
fattispecie del “mobbing”».
Avuto riguardo alle legislazioni degli Stati europei, la Svezia è stato il primo Paese a dotarsi di una legge
nazionale sul mobbing.
L’Ente nazionale per la salute e la sicurezza svedese (Arbetaskyddsstyrelsen) ha emanato, in data 21
settembre 1993, una specifica ordinanza (AFS 1993/17), entrata in vigore il 31 marzo 1994, recante misure
13
contro qualsivoglia forma di “persecuzione psicologica” negli ambienti di lavoro .
A questa sono poi seguiti, nel 1997, nuovi atti dispositivi relativi alle misure da adottare contro le forme di
persecuzione in ambito lavorativo.
Tanto premesso, il presente scritto si prefigge la finalità di tratteggiare il percorso ermeneutico che ha
accompagnato il concreto dispiegarsi, nell’ordinamento italiano, di un fenomeno che, pur se socialmente
“tipico”, risulta non agevolmente inquadrabile in puntuali referenti normativi, e pertanto l’individuazione degli
l’alto, in Studium Iuris, 2006, 12, pp. 1401 ss.; S. MAZZAMUTO, Il mobbing, Giuffrè, 2004; S. MAZZAMUTO, Una
rilettura del mobbing: obbligo di protezione e condotte plurime d’inadempimento, in Europa e dir. priv., 2003, 3, pp.
627 ss.; ID., Ancora sul mobbing, in Europa e diritto privato, 2006, 4, pp. 1353 ss.; M. V. FERACO, Sulla rilevanza
penale del mobbing (nota a Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2006, n. 31413), in Cass. pen., 2007, 6, pp. 2493 ss.; G.
BUFFONE, Responsabilità penale del datore di lavoro per mobbing, in Consulenza, 2007, 37, pp. 59 ss.; ID., Servizio
Sanitario Nazionale – Atti vessatori da parte del dirigente verso il medico ospedaliero – Mobbing – Configurabilità –
Conseguenze (nota a Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2352), in Consulenza, 2010, 16, pp. 47 ss.; E. DI
SABATINO, Dal Mobbing allo stalking allo straining, in Resp. civ., 2007, 2, pp. 171 ss.; S. CORBETTA, Mobbing nel
pubblico impiego: è abuso d’ufficio? (nota a Cass. pen., sez. VI, 7 novembre 2007, n. 40891), in Dir. pen. e proc., 2008,
3, pp. 296 ss.; ID., Abusi in atti d’ufficio - Mobbing nel pubblico impiego: quale rilevanza, in Dir. pen. e proc., 2007, n.
12, pp. 1571 ss.; E. PASQUINELLI, Mobbing e danno esistenziale (nota a Trib. Montepulciano, 26 ottobre 2006), in
Giur. it., 2008, 3, pp. 641 ss.; A. M., PERRINO, Il mobbing dinnanzi al tribunale di primo grado delle Comunità
europee (nota a Tribunale di primo grado delle Comunità europee, sentenza 12/09/2007, n. T-249/04 e Tribunale di
primo grado delle Comunità europee, sentenza 12/09/2007, n. T-250/04), in Foro it., 2008, IV, c. 150 ss.; L. NOCCO, Il
mobbing, in Danno e resp., 2008, 4, pp. 398 ss.; C. SAFFIOTI, Il mobbing nel pubblico impiego: un interessante
inquadramento nella rivista dell’ARAN, ne L’amministrazione italiana, 2004, 6, pp. 876 ss.; S. BRIZI, Il mobbing alla
luce della circolare Inail n. 71 del 17 dicembre 2003, ne L’Amministrazione italiana, 2004, 7-8, pp. 976 ss.; M.
MARANGON, I professionisti dell’antimobbing, 2005, 6, pp. 846 ss.
13
La previsione è volta a censurare: «ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei confronti di
singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare il loro allontanamento dalla collettività che opera nei luoghi
di lavoro». Per il testo integrale si rinvia all’indirizzo internet http://www.snfia.org/mobbing/norm_sved.htm.
8
stilemi ad esso riferibili è demandata alle oscillanti interpretazioni dottrinali e ad un vaglio giurisprudenziale
non riducibile ad unitatem.
2. Le cause del mobbing.
Le ricerche svolte negli ultimi anni hanno evidenziato che, sovente, l’abuso psicologico perpetrato sul
posto di lavoro trova la propria scaturigine in motivazioni che vanno ben oltre le antipatie, le gelosie e le
frustrazioni.
Il fenomeno, difatti, sempre più spesso si colloca in sede di ridimensionamento dell’organico, situazione,
questa, che genera forti conflittualità e competitività nell’ambiente lavorativo, spingendo coloro che si trovano
14
a svolgere le stesse mansioni ad entrare in conflitto tra di essi .
Sovente a soccombere sono i lavoratori più anziani e meno aggiornati, indotti ad abbandonare il posto di
lavoro attraverso metodiche subdole e mirate a determinare in essi il proposito di interrompere anzitempo il
rapporto lavorativo.
Ciò detto, il Parlamento europeo nella Risoluzione A5-0283/2001 (2001/2339(INI)), assunta il 20
settembre 2001, ha osservato al punto E): «gli studi e l’esperienza empirica convergono nel rilevare un
chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del Mobbing nella vita professionale e dall’altra, lo stress o il
lavoro ad elevato grado di tensione, l’aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell’impiego
nonché l’incertezza dei compiti professionali».
Al punto F) si legge: «tra le cause del mobbing vanno ad esempio annoverate le carenze a livello di
organizzazione lavorativa, di informazione interna e di direzione (…); le conseguenze per l’individuo e per il
gruppo di lavoro possono essere rilevanti, così come i costi per i singoli, le imprese e la società».
Alla luce di quanto riferito può dirsi che lo scopo perseguito col mobbing spesso è quello di epurare
l’ambiente lavorativo da colleghi dotati di peculiari competenze professionali, o di superiori capacità di
relazionarsi nell’ambito delle dinamiche lavorative, tali da comportare, a proprio discapito, una modifica
dell’assetto aziendale.
Tuttavia, detto aspetto illumina solo un segmento del mobbing, che non di rado nasce come un semplice
“diversivo” nei confronti di un collega dal carattere magari mite; in detta circostanza il mobbing assume le
fattezze del bullismo, caratterizzandosi come un affinamento dello stesso.
Non bisogna dimenticare, infine, che talvolta il mobbing si inquadra in una sorta di strategia aziendale
volta ad indurre un lavoratore ad interrompere precocemente il rapporto lavorativo.
3. La casistica del mobbing alla luce del dato esperenziale.
Il mobbing copre un ampio spettro di condotte, strumentalizzate ad ottenere un isolamento della vittima
nell’ambiente di lavoro.
Diversi studiosi, tra cui Heinz Leymann, Carmen Knorz e Dieter Zapf, hanno tentato di procedere ad una
classificazione delle condotte che usualmente caratterizzano il mobbing.
Prescindendo per ragioni di economia espositiva dal passare in rassegna le diverse ricostruzioni operate
dai predetti, sembra doversi sottolineare che ogni tentativo di ricondurre il fenomeno di cui si discorre entro
15
uno schema rigido e temporalmente costante, rischia di rivelarsi fallace .
In via di massima approssimazione può dirsi che esso è riconducibile entro la perimetrazione di seguito
riferita: diffusione di maldicenze atte a gettare discredito sulla persona, ingiurie, percosse, molestie sessuali,
susseguirsi di sabotaggi dell’operato svolto, ironia denigratoria, accuse immotivate o richiami pretestuosi,
provocazioni di ogni sorta magari legate alle convinzioni religiose, sessuali e morali, accantonamento o
14
Si segnala la lettura di G. QUAGLINO, Psicodinamica della vita organizzativa: competizione, difese, ambivalenza
nelle relazioni di lavoro, Cortina, 1996.
15
In dottrina è stato significativamente osservato: «La caratteristica principale dei casi di mobbing è […] quella di
sembrare a primo acchito tutti simili e stereotipati, mentre in realtà essi sono tutti singolarmente e profondamente
diversi, ora per la particolarità del soggetto che ne è vittima, ora per la complessità dell’ambiente in cui si generano ed
ora per la paradossalità delle vicende che li connotano» (D. CANTISANI, Con quali mezzi si prova il mobbing, scritto
reperibile all’indirizzo internet http://www.mobbing-prima.it/mobbing-parolaesperti5.html).
9
dequalificazione professionale, esclusione da corsi di aggiornamento o riqualificazione professionale,
violazione della privacy.
Completano il mosaico di condotte descritte il trasferimento ingiustificato, la mancata messa a
disposizione di strumentazione aziendale (si pensi alla privazione dell’abilitazione necessaria per operare al
terminale), i frequenti controlli medico fiscali nello stesso periodo di malattia, i procedimenti disciplinari,
16
nonchè il diniego di periodi di ferie o di congedo .
Venendo alla casistica giurisprudenziale, la prima pronuncia in cui è stato menzionato il fenomeno del
17
mobbing, è quella emessa dal Tribunale di Torino in data 16 novembre 1999 . Il caso esaminato dai Giudici
torinesi riguardava una lavoratrice dipendente che aveva richiesto il risarcimento del danno biologico, ad
essa derivato dalla crisi depressiva sviluppata a causa delle condizioni di lavoro gravose e delle mirate
vessazioni poste in essere in maniera continuativa dal capo-reparto.
In particolare, nel corso del giudizio era emerso che la lavoratrice era stata costretta a lavorare, isolata
dai colleghi, ad una macchina entro uno spazio assai angusto.
Nell’ambito del pubblico impiego la prima pronuncia in cui è stato accordato il risarcimento del danno da
mobbing è quella del Tribunale di Tempio Pausania, 10 luglio 2003, n. 157.
Negli anni a seguire la Suprema Corte ha puntualizzato entro quale assetto giuridico possa inquadrarsi il
mobbing.
Avuto riguardo ai decisa più recenti, la Corte di cassazione ha ritenuto integrato il mobbing nella condotta
di un sindaco che aveva disposto l’assegnazione di una dipendente dell’ente allo svolgimento di mansioni
differenti (e relative ad una qualifica inferiore rispetto a quella posseduta) da quelle per le quali era stata
18
assunta .
Può ricordarsi, inoltre, che le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4063 del 22
febbraio 2010 hanno stabilito che quando il demansionamento comporta al lavoratore disturbi di natura
psico-fisica, lo stesso integra il mobbing con relativo diritto del dipendente ad ottenere un adeguato
risarcimento per il demansionamento subito.
Gli Ermellini, poi, hanno riconosciuto una responsabilità in capo ad un’azienda, il cui dipendente, prima di
essere licenziato, era stato preso di mira dal direttore dello stabilimento in cui lavorava, fatto oggetto di
insulti e rimproveri, umiliato dinanzi ai colleghi e sovente adibito a mansioni più gravose rispetto a quelle per
19
le quali era stato assunto . Il tutto, hanno osservato i Giudici, nel caso di specie era avvenuto nella più
completa indifferenza del rappresentate legale della società, il quale, in considerazione di tale suo
atteggiamento, secondo i Giudici avrebbe accettato il rischio che dai comportamenti illeciti potesse derivare
un danno in pregiudizio del dipendente.
Ciò posto, nell’ambito del presente discorso significativo è riportare il principio di diritto espresso dai
Giudici di Piazza Cavour in un’altra pronuncia: «in una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale
è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l’aiuto anziano già
operante nel reparto, rapporto che integra un contatto sociale dove la posizione del professionista
dequalificato è presidiata dai precetti costituzionali (come evidenzia il punto 4.3 in relazione al punto 4.5. del
preambolo sistematico delle SU n. 26972 del 2008), costituisce fatto colposo che configura illecito civile
continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all’emarginazione del
professionista, la condotta del primario che nell’esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del
reparto, estrometta di fatto l’aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l’esercizio
delle mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è soggettivamente imputabile al primario,
come soggetto agente, ed esprime l’elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo
intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell’immagine professionale e delle
stesse possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del
lavoratore professionista (espressamente richiamati nel citato punto 4.5 delle SU citate, cui aggiungiamo,
sistematicamente anche gli articoli 1, 3 secondo comma, 4 e 35 primo comma della Costituzione, dovendosi
16
V., in relazione alla casistica richiamata, Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774.
Il decisum è reperibile in Riv. it. dir. lav., 2000, II, pp. 102 ss.
18
Cass. pen., sez. VI, 7 novembre 2007, n. 40891, in Guida agli enti locali, 2008, 6, pp. 77 ss.
19
Cass. civ., sez. lav., 26 marzo 2010, n. 7382.
17
10
considerare, per il presidio di tutela il lavoratore professionista alla stessa stregua di qualsiasi altro
20
lavoratore e senza discriminazioni)» .
Con sentenza n. 12048 del 31 maggio 2011 la Corte di cassazione ha affermato che «Singoli episodi,
marginali ed isolati, rispetto ai quali può essere espresso un giudizio di biasimo, quali il lancio dello stipendio
sul tavolo, la consegna della retribuzione in un sacco di monetine, non costituiscono sufficiente prova di un
21
generale atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della lavoratrice» .
Del pari, l’esistenza di contrasti tra la dirigente dell’ufficio ed un dipendente in ordine alle modalità di
svolgimento delle prestazioni di lavoro da parte di quest’ultimo, non consentono di ritenere provata la
22
sussistenza di un intento vessatorio del dirigente nei confronti del lavoratore .
In un’altra pronuncia i Giudici di Piazza Cavour hanno avallato il ragionamento effettuato dal giudice di
secondo grado, che aveva ricondotto il clima di conflitto presente in ambito lavorativo al carattere della
23
lavoratrice, e non già a condotte di mobbing, non ritenendo di tal guisa la ricorrenza della fattispecie .
Ricorrenza, che in altro decisum è stata esclusa in un caso in cui era dato ravvisarsi alcune incongruenze
organizzative, una certa marginalizzazione dell’attività lavorativa derivante dall’impossibilità di svolgere
24
pienamente le mansioni formalmente attribuite, nonché momenti di sovraccarico di lavoro .
Ad avviso dei Giudici i predetti elementi rientrano, per comune esperienza, nella realtà dell’impiego
presso le Pubbliche amministrazioni.
Il presente discorso, precisano i Giudici, vale soprattutto per «chi è assegnato a compiti direttamente o
indirettamente correlati con funzioni operative, soggette a carichi di lavoro quantitativamente disomogenei,
ed a frequenti riorganizzazioni delle strutture».
4. Le ripercussioni delle condotte di mobbing sull’equilibrio psico-fisico della vittima.
Come gli studi medici dimostrano le condotte di mobbing sono suscettive di comportare delle gravi
ripercussioni sulla salute psico-fisica della vittima, la quale può somatizzare le tensioni dell’ambiente
lavorativo in diversi modi.
Quanto ai disturbi relativi alla sfera psichica, si considerino quelli di depersonalizzazione, gli attacchi di
panico, le crisi di pianto, le ossessioni, le nevrosi ansiose e depressive, le manie di persecuzione.
Può, poi, registrarsi una vasta gamma di alterazioni psicosomatiche che interessano distretti anatomofunzionali assai eterogenei: attacchi d’asma, orticaria, eczemi, colon irritabile, gastrite, ulcera gastroduodenale, colite ulcerosa, disturbi del ritmo cardiocircolatorio, ipertensione arteriosa, coronaropatie, infarto
cardiaco, comparsa di dolori muscolari, senso di spossatezza, tremore, cefalea muscolo-tensiva, mal di
schiena, immunodepressione e predisposizione alle affezioni più banali.
Inoltre, l’individuo può porre in essere condotte auto o eterolesive e fare abuso di alcol, farmaci, fumo,
sostanze stupefacenti.
Sovente si registrano disturbi alimentari, quali anoressia e bulimia, nonché la compromissione del sonno.
Sul versante psicologico non di rado si ravvisano tendenze all’isolamento ed un calo dell’autostima, che
possono tradursi in disturbi psichici tali da indurre al compimento di tentativi di suicidio.
Se le condotte mobbizzanti si protraggono per un significativo lasso temporale i sintomi di cui sopra
possono cronicizzarsi, provocando uno stato di malattia con invalidità temporanea o permanente,
clinicamente riconducibile ad uno dei tre principali disturbi: disturbo dell’adattamento (DA), disturbo acuto da
stress (DAS), disturbo post‐traumatico da stress (DPTS).
20
Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2352.
Cass. civ., sez. lav., 31 maggio 2011, n. 12048.
22
Cass. civ., sez. lav. 17 febbraio 2009, n. 3785.
23
Cass. civ., sez. lav., 21 aprile 2009, n. 9477.
24
T.A.R. Umbria, Perugia, sez. I, 24 settembre 2010, n. 470.
21
11
Tanto premesso, in sede di valutazione medica un’accurata anamnesi consentirà la puntuale
individuazione, nel tessuto lavorativo, del contesto fattuale in cui si sono registrati gli atti mobbizzanti.
Durante la raccolta dei dati anamnestici risulterà molto importante cercare di individuare l’eventuale
simulazione come anche la pretestazione o l’esagerazione. Occorre rammentare che non di rado il mobbing
può inquadrarsi in una semplice incompatibilità di caratteri, e dunque non presentare profili giuridicamente
apprezzabili.
Successivamente bisognerà individuare in maniera compiuta i disturbi riconducibili alla condotta
mobbizzante, ricorrendo a colloqui ed alla somministrazione di test di vario genere (come ad esempio il
Minnesota multiphasic personality inventory) ad opera di specialisti psichiatri.
Occorrerà, infine, individuare la causa del malessere e vagliare l’eventuale sussistenza di fattori che,
quali concause, possano avere influito sull’insorgere o sulla progressione del disturbo, avuto riguardo anche
alla personalità della vittima.
In merito a tale aspetto può riportarsi quanto si legge in una pronuncia giurisprudenziale: «Nella
letteratura in tema di mobbing vengono riscontrate nell’indole scrupolosa, sensibile ai riconoscimenti e alle
critiche e con elevato senso del dovere le caratteristiche caratteriali che agevolano il ruolo di vittima o
mobbizzato (V. Harold Ege “Mobbing Conoscerlo per Vincerlo”).
Va ricordato tuttavia che dottrina e giurisprudenza recenti tendono a sottovalutare in tali situazioni
eventuali concause pregresse (al riguardo la dottrina richiama p. es. Cass. 5/11/99 n. 12339).
Si osserva infatti che anche se non tutti reagiscono allo stesso modo allo stress e c'è chi ha “anticorpi”
psicologici più forti per affrontare situazioni pesanti protratte, non sembrano esistere predisposizioni
caratteriali che rendono immuni al mobbing, poiché è l’integrità dell'intera persona ad essere minata sul
25
piano fisico, psichico, relazionale ed economico» .
4.1 Il cd. “disturbo dell’adattamento” (DA).
A seguito di osservazione specialistica psichiatrica nei soggetti mobbizzati in forma meno grave viene
solitamente diagnosticato il cd. disturbo dell’adattamento, contemplato nella classificazione DSM-IV, il cui
26
utilizzo è invalso in ambito internazionale per la caratterizzazione dei disturbi mentali .
Il DA è un disturbo, sovente transitorio, che trova la propria scaturigine in uno o più eventi o situazioni di
stress psico-sociali, quali separazioni affettive o divorzi, difficoltà economiche, problematiche legate
all’ambiente lavorativo come ad esempio il licenziamento od il pensionamento, morte di persone care,
nascita di un figlio, intervento chirurgico o malattia fisica, grave incidente.
Caratteristica di tutti i DA è l’incapacità del soggetto di affrontare e superare l’evento ed adattarsi ad una
nuova situazione.
Il disturbo in commento è caratterizzato da sintomi depressivi, disturbi d’ansia, della condotta; si ha, poi,
una compromissione più o meno significativa dei rapporti sociali così come del rendimento in ambito
lavorativo e nello studio.
Il DSM-IV stabilisce, affinchè possa diagnosticarsi il disturbo in esame, che esso debba avere
un’insorgenza che si collochi entro tre mesi dall’inizio dell’evento traumatico, e che la sua durata non debba
essere superiore a sei mesi.
Il DSM-IV elenca sei sottotipi di disturbo dell’adattamento, individuandoli in base alla tipologia di
manifestazione della patologia (ansia, depressione, alterazione della condotta).
4.2. Il cd. “disturbo acuto da stress” (DAS).
Ad un livello intermedio si situa il cd. disturbo acuto da stress, derivante da un evento traumatico vissuto
con intensa paura e senso di impotenza. Esso è caratterizzato dal rivivere persistentemente l’esperienza
traumatica e dalla tendenza all’evitamento degli stimoli ad essa associati.
«Il Disturbo Acuto da Stress può essere visto come una categoria preliminare del Disturbo PostTraumatico da Stress (DPTS), sua potenziale anticamera. Il tipo di situazioni traumatiche che possono
25
Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
American Psychiatric Association, DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2000,
Fourth Edition, Text revision, edizione italiana: Masson.
26
12
determinarne l’insorgenza è infatti lo stesso. I disturbi principali sono sintomi della serie ansiosa e sintomi di
tipo dissociativo che compaiono entro 1 mese dall’esposizione ad un evento stressante. La durata del DAS è
27
tra 2 giorni e le 4 settimane. Se persiste oltre, si entra nel DPTS» .
A differenziare il disturbo in esame da quello cd. post-traumatico da stress, di cui si dirà in seguito, è
essenzialmente la durata dei sintomi.
Il DAS è caratterizzato dalla presenza di sintomi dissociativi, individuabili, così come descritti dal DSM-IV,
nella seguente elencazione: senso soggettivo di torpore (numbing), distacco, assenza di reattività
emozionale, derealizzazione, depersonalizzazione, riduzione della consapevolezza dell’ambiente, amnesia
28
dissociativa .
Scendendo nel dettaglio, il disturbo è innanzitutto caratterizzato da uno stato d’ansia e da un aumentato
arousal, termine con cui in psicofisiologia è indicata l’intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale
dell’organismo quando questo deve effettuare una prestazione.
In tale ultima evenienza vengono messi in moto una serie di processi caratteristici dello stato di arousal,
ossia:
– aumento della vigilanza e dell’attenzione;
– attivazione del sistema muscolo-scheletrico con cui i muscoli si preparano allo sforzo;
– cuore e polmoni si attivano per sopportare lo sforzo.
Sintomi di aumentato arousal sono: difficoltà ad addormentarsi od a mantenere il sonno, facile irritabilità,
difficoltà di concentrazione, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme agli stimoli esterni.
Nei soggetti affetti da DAS si ravvisano, inoltre, ulcere da stress a carico del sistema gastrointestinale,
stati ipertensivi, nonché aritmie cardiache potenzialmente letali.
Al fine di contrastare il disturbo in esame si rende necessaria la somministrazione di ansiolitici,
antidepressivi SSRI e neurolettici a basse dosi, ai quali va affiancato un trattamento psicoterapeutico di
supporto.
Il decorso naturale può andare verso la remissione spontanea o, a seconda delle peculiarità del caso
concreto, verso un disturbo cd. post-traumatico.
4.3. Il cd. “disturbo post-traumatico da stress” (DPTS).
Talvolta le condotte di mobbing possono determinare, nella vittima, l’insorgenza del cd. disturbo posttraumatico da stress (DPTS), che il DSM-IV ricomprende nella casella dei disturbi d’ansia.
«Il termine indica la risposta di un soggetto ad un evento critico abnorme (incidenti stradali, sismi, incendi,
29
nubifragi, abusi sessuali, atti di violenza subiti o di cui si è stati testimoni, attentati, azioni belliche, etc...)» .
Ai fini che maggiormente interessano in questa sede può dirsi che tra i suddetti eventi possono rientrare
anche gli atteggiamenti vessatori subiti continuamente in ambito lavorativo.
«Lungi dal caratterizzarsi come temporanea, come nel caso del disturbo acuto da stress, la reazione del
soggetto all’evento traumatico dispiega i propri effetti per un arco temporale significativo, richiedendo la
sottoposizione a cicli di psicoterapia di tipo psicotraumatologico, unitamente alla somministrazione di una
30
terapia farmacologica» .
Quella di cui si discorre è una patologia in cui il soggetto tende a rivivere continuamente l’evento
traumatico, associando ad esso suoni, voci, immagini, e giungendo persino a formulare un personale
simbolismo, ricondotto, per analogia, all’evento traumatico.
Il paziente, inoltre, cerca di evitare luoghi o persone associati all’evento stressogeno in questione,
estraniandosi dalle normali occupazioni della realtà quotidiana.
In detto contesto si assiste ad una importante compromissione dell’affettività nonchè ad un grave disagio
nella gestione della vita relazionale.
27
S. DI SALVO, Disturbo Acuto da Stress (DAS), scritto reperibile all’indirizzo internet http://www.depressioneansia.it/upload/pdf/pub_94591048.pdf.
28
Il termine indica l’incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma.
29
V. IANNI, “Ubi tu ibi ego”: il reato di atti persecutori nei suoi aspetti fenomenici e profili giuridici, scritto
reperibile all’indirizzo internet http://www.iussit.eu/download/Ianni.NaCuturalClassic2011.pdf.
30
V. IANNI, “Ubi tu ibi ego”: il reato di atti persecutori nei suoi aspetti fenomenici e profili giuridici, cit.
13
Talvolta, può verificarsi una cronicizzazione dei disturbi tale che, anche al cessare dell’evento
stressogeno, potrebbe non assistersi ad un miglioramento apprezzabile delle condizioni psico-fisiche.
Il disturbo in commento, se non è tempestivamente contrastato, può lentamente tradursi in una sfera
psicopatologica più grave, inerente alle sindromi depressive. Non di rado l’origine di taluni casi di
depressione cd. maggiore può essere riconducibile a tale patologia d’esordio.
5. La tutela del mobbing a livello normativo: lo stato dell’arte.
Nel sistema giuridico italiano manca una normativa specifica che identifichi e disciplini il mobbing,
31
diversamente dall’ordinamento svedese e da quello di altri Paesi europei quali la Norvegia e la Francia , in
cui il fenomeno è stato da tempo regolamentato.
Tuttavia, nell’ultimo decennio in Italia si sono registrati diversi disegni di legge; avuto riguardo alla XIV
legislatura si segnalano:
– Atto Senato n. 122 – “Disposizioni a tutela dei lavoratori dalla violenza o dalla persecuzione
psicologica”, presentato il 6 giugno 2001. Iniziativa parlamentare: sen. Antonio Tomassini (FI);
– Atto Senato n. 266 – “Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche
nell’ambito dell’attività lavorativa”, presentato il 21 giugno 2001. Iniziativa parlamentare: sen. Natale
Ripamonti (Verdi-U);
– Atto Senato n. 422 – “Norme per contrastare il fenomeno del mobbing”, presentato il 9 luglio 2001.
Iniziativa parlamentare: sen. Luciano Magnalbò (AN);
– Atto Senato n. 800 – “ Norme per contrastare la manipolazione psicologica”, presentato il 6
novembre 2001. Iniziativa parlamentare: sen. Renato Meduri (AN). Cofirmatari: senatori Carmine
Cozzolino (AN), Francesco Antonio Crinò (Misto), Antonio Battaglia (AN), Francesco Bevilacqua
(AN), Giuseppe Semeraro (AN), Ida D'Ippolito (FI), Piero Pellicini (AN), Euprepio Curto (AN),
Vincenzo Demasi (AN), Lamberto Grillotti (AN), Lucio Zappacosta (AN), Antonio Gentile (FI),
Giuseppe Degennaro (FI), Gino Trematerra (CCD-CDU:BF), Giuseppe Onorato Benito Nocco (FI);
– Atto Senato n. 870 – “Norme per contrastare il fenomeno del mobbing”, presentato il 21 novembre
2001. Iniziativa parlamentare: sen. Rosario Giorgio Costa (FI);
– Atto Senato n. 924 – “Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni
psicologiche”, presentato il 5 dicembre 2001. Iniziativa parlamentare: sen. Giovanni Vittorio
Battafarano (DS-U). Cofirmatari: senatori Giovanni Battaglia (DS-U), Daria Bonfietti (DS-U),
Giovanni Brunale (DS-U), Rossano Caddeo (DS-U), Franco Chiusoli (DS-U), Leopoldo Di Girolamo
(DS-U), Elvio Fassone (DS-U), Mario Gasbarri (DS-U), Luciano Guerzoni (DS-U), Giuseppe
Mascioni (DS-U), Accursio Montalbano (DS-U), Giovanni Pietro Murineddu (DS-U), Gaetano
Pascarella (DS-U), Giancarlo Pasquini (DS-U), Gianni Piatti (DS-U), Antonio Pizzinato (DS-U), Rosa
Stanisci (DS-U), Antonio Vicini (DS-U), Fabio Baratella (DS-U), Marcello Basso (DS-U);
– Atto Senato n. 986 – “Disposizioni a tutela dalla persecuzione psicologica negli ambienti di lavoro”,
presentato il 20 dicembre 2001. Iniziativa parlamentare: sen. Oreste Tofani (AN). Cofirmatari:
senatori Domenico Nania (AN), Ettore Bucciero (AN), Vincenzo Demasi (AN), Michele Florino (AN),
Alberto Balboni (AN), Antonio Battaglia (AN), Francesco Bevilacqua (AN), Luigi Bobbio (AN),
Michele Bonatesta (AN), Giuseppe Bongiorno (AN), Antonino Caruso (AN), Giovanni Collino (AN),
Giuseppe Consolo (AN), Carmine Cozzolino (AN), Euprepio Curto (AN), Riccardo De Corato (AN),
Mariano Delogu (AN), Lamberto Grillotti (AN), Domenico Kappler (AN), Luciano Magnalbò (AN),
Alberto Felice Simone Massucco (AN), Renato Meduri (AN), Giuseppe Menardi (AN), Franco
Mugnai (AN), Giuseppe Mulas (AN), Lodovico Pace (AN), Mario Palombo (AN), Riccardo Pedrizzi
(AN), Piero Pellicini (AN), Francesco Pontone (AN), Salvatore Ragno (AN), Roberto Salerno (AN),
31
La Francia è stato il primo paese europeo, dopo la Svezia, ad approntare un intervento legislativo per contrastare il
fenomeno del mobbing (loi n° 2002-73 du 17 janvier 2002 de modernisation sociale).
Il capo IV del titolo II è rubricato “Lutte contre le harcèlement moral au travail”). La normativa è stata ritenuta
conforme alla Costituzione transalpina dal Conseil constitutionnel in data 12 gennaio 2002, con pronuncia n. 2001-455.
14
Giuseppe Semeraro (AN), Francesco Servello (AN), Giuseppe Specchia (AN), Filomeno Biagio Tatò
(AN), Giuseppe Valditara (AN), Lucio Zappacosta (AN), Paolo Danieli (AN);
– Atto Senato n. 1242 – “Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni
psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa”, presentato il 14 marzo 2002. Iniziativa parlamentare:
sen. Antonio Michele Montagnino (Mar-DL-U);
– Atto Senato n. 1280 – “Norme per la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori da molestie morali e
psicologiche nel mondo del lavoro”, presentato il 21 marzo 2002. Iniziativa parlamentare: sen.
Tommaso Sodano (Misto). Cofirmatari: senatori Luigi Malabarba (Misto) e Giorgio Malentacchi
(Misto);
– Atto Senato n. 1290 – “Norme generali contro la violenza psicologica”, presentato il 27 marzo 2002.
Iniziativa parlamentare: sen. Maurizio Eufemi (UDC:CCD-CDU-DE). Cofirmatari: senatori Calogero
Sodano (UDC:CCD-CDU-DE), Leonzio Borea (UDC:CCD-CDU-DE), Antonio Iervolino (UDC:CCDCDU-DE);
– Atto Senato n. 2420 – “Tutela delle pratiche di mobbing”, presentato il 17 luglio 2003. Iniziativa
parlamentare: sen. Ugo Bergamo (UDC);
– Atto Senato n. 3255 – “ Norme per contrastare il fenomeno del mobbing”, presentato il 22 dicembre
2004. Iniziativa parlamentare: sen. Luciano Magnalbò (AN).
Più recentemente si segnala il progetto di legge Atto Camera n. 1960, “Norme per la tutela dei lavoratori
vittime di violenza e persecuzione psicologica nell’ambito dell’attività lavorativa (mobbing)”, presentato il 16
novembre 2006. Iniziativa parlamentare: on. Marco Boato (Verdi). Cofirmatari: onorevoli Angelo Bonelli
(Verdi), Paola Balducci (Verdi), Grazia Carla Francescato (Verdi), Giuseppe Trepiccione (Verdi), Tommaso
Pellegrino (Verdi), Tana De Zulueta (Verdi), Arnold Cassola (Verdi), Luana Zanella (Verdi).
Ciò premesso, dal punto di vista giuridico, pur in assenza di una legge specifica che disciplini il mobbing,
nell’ordinamento italiano vi sono diverse norme, costituzionali (artt. 1, 2, 3, 4, 32, 35, 36, 41, 42)
e civilistiche, che permettono di approntare, da un punto di vista giuridico, una minimale perimetrazione dei
comportamenti persecutori che avvengono in ambito lavorativo.
La Costituzione si apre con la solenne dichiarazione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro» (art. 1, comma 1, primo periodo); a termini dell’art. 2 «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
A tenore dell’art. 32, 1° comma: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
A mente dell’art. 35, 1° comma: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni».
Il secondo comma della medesima disposizione recita che la Repubblica: «Cura la formazione e
l’elevazione professionale dei lavoratori».
L’art. 41, dopo aver disposto al primo comma che «L’iniziativa economica privata è libera», al secondo
alinea precisa che questa «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità; sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Sotto il profilo civilistico, quanto alla tutela occorre prima di tutto distinguere le ipotesi in cui l’autore del
mobbing è il datore di lavoro da quelle in cui i comportamenti persecutori vengono posti in essere da un
collega della vittima.
In questa seconda ipotesi l’autore delle violenze psicologiche potrà essere chiamato a rispondere a titolo
di responsabilità extracontrattuale giusta il disposto dell’art. 2043 c.c., mentre al datore di lavoro
comunemente si ritiene riferibile, in parallelo, la previsione di cui all’art. 2049 c.c. che, rubricato
“Responsabilità dei padroni e dei committenti”, recita: «I padroni e i committenti sono responsabili per i danni
arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
Il danneggiato potrà agire, a sua scelta, nei riguardi del datore di lavoro ex art. 2049 c.c., ovvero nei
confronti del proprio collega sulla base dell’art. 2043 c.c. L’azienda, laddove condannata a risarcire i danni
alla vittima, potrà agire – in via di regresso – verso il dipendente autore dell’illecito.
Il mobber, inoltre, potrà essere attinto da provvedimenti disciplinari ovvero, nei casi più gravi, venire
licenziato.
15
La responsabilità di cui all’art. 2049 c.c. potrà eventualmente essere invocata in uno a quella dall’art.
2087 c.c.
Ciò premesso, ad avviso di chi scrive la norma recata dall’art. 2049 c.c. non è valorizzabile in tema di
mobbing, in quanto essa sottende la risarcibilità di quei danni originati dall’espletamento, e non già di quelli
semplicemente verificatisi “durante l’espletamento” dell’attività lavorativa ed avulsi da quest’ultima (si pensi,
ad esempio, ai danni derivati da condotte vessatorie che ovviamente nulla hanno a che vedere con aspetti
attinenti allo svolgimento delle mansioni).
Sembra iniquo ricondurre in capo al datore di lavoro la responsabilità per danni derivati da condotte
intenzionali – quali sono le condotte che il fenomeno del mobbing sottende – e dunque non accidentali.
Se i secondi rientrano nel cd. rischio d’impresa, i primi non possono dirsi neppure latamente preventivati
dal datore di lavoro.
Ciò precisato, quando l’autore delle condotte mobbizzanti è il datore di lavoro, questi risponderà per
inadempimento delle obbligazioni che sottendono al contratto di lavoro in virtù della previsione di cui all’art.
2087 c.c., oltre che di eventuali comportamenti riconducibili sotto le insegne della norma di cui all’art. 2043
c.c. in quanto non strettamente correlati all’espletamento dell’attività lavorativa.
Si rammenti che l’imprenditore ex art. 2087 c.c. è tenuto ad adottare nell’impresa tutte le misure che,
secondo la particolarità del lavoro, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del
lavoratore.
Prescrizioni comportamentali, queste, che si aggiungono a quelle contemplate dal contratto di lavoro.
Dal tenore letterale dell’art. 2087 c.c. deve ricavarsi che il datore di lavoro è tenuto anche a non porre in
essere comportamenti che pregiudichino l’integrità fisica o la personalità morale del lavoratore.
La responsabilità del datore di lavoro che discende dall’art. 2087 c.c. sarà ravvisabile anche qualora le
condotte di mobbing siano state materialmente poste in essere da colleghi della vittima, purchè il datore sia
32
stato a conoscenza di detta circostanza o, quantomeno, avesse potuto avvedersi di essa .
Ciò posto, altra norma che può essere richiamata in relazione alla fattispecie del mobbing, finanche
33
assieme a quella di cui all’art. 2087 c.c. , è quella prevista dall’art. 2103 c.c., che recita: «Il prestatore di
lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria
superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il
prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene
definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla
conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre
mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo».
La norma faculta il lavoratore che venga assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle di sua spettanza,
o che sia lasciato del tutto inattivo, a chiedere al giudice del lavoro, non solo di accertare l’illecito e dichiarare
la nullità dell’atto datoriale invalido, ma anche di essere reintegrato nelle mansioni precedentemente svolte o
di essere adibito allo svolgimento di altre equivalenti.
Può rammentarsi che il demansionamento è una delle modalità “tipiche” di realizzazione di condotte di
mobbing.
Similare a quella recata dall’art. 2103 c.c. è la previsione contemplata dall’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001,
34
riferibile al pubblico impiego .
32
Trib. Forli’, 10 marzo 2005; Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2005, n. 6326.
Trib. Lecce, 20 settembre 2002. La Corte costituzionale ha osservato: «L’attribuzione al lavoratore di mansioni
inferiori a quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione - situazioni in cui si risolve la
violazione dell’articolo 2103 cod. civ (c.d. demansionamento) - può comportare [… ], come nelle ipotesi esaminate
dalle sentenze n. 326 del 1983 e n. 220 del 2002, anche la violazione dell’art. 2087 cod. civ.» (Corte cost., 6 aprile
2004, n. 113).
34
A termini del primo comma dell’articolo: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla
33
16
Altra normativa suscettiva di essere valorizzata in tema di mobbing è la legge n. 300/1970, meglio nota
come “Statuto dei Lavoratori”.
L’art 9, rubricato “Tutela della salute e dell’integrità fisica”, recita: «I lavoratori, mediante loro
rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e
delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee
a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica».
La normativa in esame all’art. 13 sancisce che al dipendente non possono essere affidate mansioni di
livello professionale inferiore a quello di inquadramento.
L’art. 15 prevede che «È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a. subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b. licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti,
nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività
sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso».
Ciò posto, può ricordarsi che il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, rubricato “Attuazione dell’articolo 1
della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”,
qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35,
comma 1, lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai
fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione».
Il comma 1-bis recita: «I dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle
accademie, conservatori e istituti assimilati, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali. Le progressioni
all’interno della stessa area avvengono secondo principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e
professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito. Le progressioni
fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l'amministrazione di destinare al
personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non
superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre
anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell'attribuzione dei posti riservati nei concorsi
per l’accesso all’area superiore».
A mente del comma 1-ter: «Per l’accesso alle posizioni economiche apicali nell’ambito delle aree funzionali è
definita una quota di accesso nel limite complessivo del 50 per cento da riservare a concorso pubblico sulla base di un
corso concorso bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione».
Giusta il secondo alinea: «Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni
proprie della qualifica immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state
avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4;
b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione
dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza».
Nel comma 3 si legge: «Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto
l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette
mansioni».
Il comma 4 prevede che «Nei casi di cui al comma 2, per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al
trattamento previsto per la qualifica superiore. Qualora l’utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a
vacanze dei posti in organico, immediatamente, e comunque nel termine massimo di novanta giorni dalla data in cui il
dipendente è assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti».
A tenore del comma 5: «Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni
proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la
qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente,
se ha agito con dolo o colpa grave».
Il comma 6 specifica che «Le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova
disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita. I
medesimi contratti collettivi possono regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2, 3 e 4. Fino a tale data, in
nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può comportare il diritto ad
avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore».
17
impone al datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, compresi quelli
connessi al sistema di gestione dell’organizzazione aziendale.
È possibile altresì richiamare il d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, che ha introdotto, seppure con alcune
eccezioni, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ivi
valorizzandosi anche il danno biologico.
In tema di mobbing può segnalarsi, inoltre, la circolare Inail del 17 dicembre 2003, n. 71, avente ad
oggetto “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia
professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”.
Detta circolare, in cui si faceva espresso riferimento terminologico al mobbing, è stata annullata dal
35
T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-ter, con pronuncia del 4 luglio 2005, recante il numero 5454 .
A livello di legislazione regionale si registrano diverse normative volte a prevenire e contrastare i
comportamenti di violenza psicologica sul lavoro, tipici del mobbing. A titolo esemplificativo si consideri, in
primis, la legge della Regione Lazio, 11 luglio 2002, n. 16, recante “Disposizioni per prevenire e contrastare
il mobbing nei luoghi di lavoro”, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con
pronuncia 19 dicembre 2003, n. 359, sulla scorta del rilievo per cui «deve ritenersi precluso alle Regioni la
possibilità di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, con norme che vanno ad incidere sul
terreno dei principi fondamentali. La legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16, contenendo nell’art. 2
una definizione generale del fenomeno “mobbing” che costituisce il fondamento di tutte le altre singole
disposizioni, è evidentemente viziata da illegittimità costituzionale. Siffatta illegittimità si riverbera, dalla citata
norma definitoria, sull’intero testo legislativo».
Per quanto di precipuo interesse in questa sede l’art. 2 della normativa in esame recitava: «per “mobbing”
s’intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di
lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione
sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione
psicologica o di violenza morale».
Ciò posto, nell’ambito del presente discorso si segnalano altresì:
– la legge della Regione Abruzzo, 11 agosto 2004, n. 26 (“Intervento della Regione Abruzzo per
contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro”);
– la legge della Regione Umbria 28 febbraio 2005, n. 18 (“Tutela della salute psicofisica della persona
sul luogo di lavoro e prevenzione e contrasto dei fenomeni di Mobbing”);
– la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia dell’8 aprile 2005, n. 7 (“Interventi regionali per
l’informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e
psico-fisiche nell’ambiente di lavoro”).
Può ricordarsi, infine, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che a seguito dell’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona (avvenuta in data 1 dicembre 2009) ha il medesimo valore giuridico dei trattati
– ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea – e si pone dunque come pienamente vincolante per le
Istituzioni europee e gli Stati membri.
35
Si legge nel decisum: «l’impugnata circolare non è che un vero e proprio provvedimento mirante ad integrare
surrettiziamente il complesso delle malattie c.d. “tabellate”, essa viola palam et aperte l’art. 10, c. 1 del Dlg 38/2000,
nella misura in cui siffatta integrazione deriva non già dal rigoroso accertamento da parte della Commissione
scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica delle tabelle ex artt. 3 e 211 del DPR 1124/1965, né tampoco
dall’espressa volizione dei Ministeri a ciò competenti, bensì da un comitato interno all’ente e senza le garanzie, pure
partecipative, recate dal citato Dlg 38/2000.
In secondo luogo, detta circolare è stata emessa senza tener conto delle direttive all’uopo emanate dal Comitato
d’indirizzo e vigilanza – CIV dell’ente in data 20/26 novembre 2001, segnatamente nella parte in cui quest’ultimo
incaricò gli organi di gestione d’integrare il predetto comitato con medici di fiducia delle parti sociali e di svolgere uno
studio e l’esame sugli orientamenti della giurisprudenza sulla complessa tematica del mobbing, come si vede del tutto
disattesi nella procedura di formazione e nel contenuto stesso della circolare medesima».
La pronuncia è stata in parte riformata dalla decisione Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2009, n. 1576, reperibile
all’indirizzo internet http://normativo.inail.it/bdninternet/docs/Decisione15762009.htm.
18
L’art. 1 della Carta recita: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»; l’art.
15 prevede che «Ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o
accettata».
Ciò posto, molti comportamenti che caratterizzano il mobbing trovano un preciso addentellato
“sostanziale” in numerosi articoli del codice penale (si pensi ai delitti di abuso d’ufficio, percosse, lesione
personale (volontaria e colposa), ingiuria, diffamazione, minaccia, molestie).
Una delle modalità tipiche attraverso cui si possono realizzare comportamenti persecutori, inquadrabili
nel mobbing, è costituita dal compimento di atti di molestia sessuale, nozione comprendente, oltre che i veri
propri tentativi di molestia e gli atti di libidine violenta, anche i corteggiamenti indesiderati e le c.d. “proposte
indecenti”.
Può ricordarsi che in data 27 novembre 1991 la Commissione europea ha emanato una
Raccomandazione sulle molestie sessuali sul lavoro, alla quale è stato affiancato un codice di buona
condotta.
Il testo della Raccomandazione, che non ha valore vincolante, sollecita gli Stati membri all’adozione di
provvedimenti volti a presidiare la posizione di coloro che nel contesto lavorativo si trovano in una posizione
deteriore, quali le donne divorziate o separate, le giovani al primo impiego o assunte con contratti precari, le
persone portatrici di handicap, gli omosessuali e le minoranze etniche.
Il codice, invece, suggerisce ad imprenditori, sindacati e lavoratori gli strumenti per prevenire le molestie
sessuali sul lavoro.
Ciò detto, la figura di reato più vicina ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è il reato di cui all’articolo
572 c.p., rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, nell’ipotesi aggravata in quanto commesso da
36
persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione .
In merito al presente discorso può osservarsi che la Corte di cassazione in una pronuncia del 2007,
rilevata l’assenza di una puntuale previsione normativa, aveva escluso la rilevanza penale del fenomeno del
mobbing osservando, tuttavia, che «la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il
cd. mobbing è quella descritta dall’art. 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di
una professione: si richiama, in tal senso, per una situazione di fatto giuridicamente paragonabile - in linea
37
astratta - alla presente, Cass., sez. VI, 22.1.2001, Erba, CED Cass. 218201» .
La stessa Suprema Corte ha chiarito che, affinchè il mobbing possa assumere la veste di un
comportamento penalmente rilevante ex art. 572 c.p., occorre che il rapporto tra datore di lavoro, autore dei
38
maltrattamenti, e dipendente che subisce la condotta, abbia natura para-familiare .
La norma, osservano i Giudici, censura «un rapporto tra soggetto agente e soggetti passivi caratterizzato
da un potere autoritativo esercitato, di fatto o di diritto, dal primo sui secondi, i quali, specularmente, versano
in una condizione di soggezione; situazione tradizionalmente confinata nell’ambito familiare, specie in
relazione alla posizione preminente del marito rispetto alla moglie o dei genitori rispetto ai figli (art. 391 cod.
pen. del 1889), e successivamente estesa, dal vigente codice del 1930, a rapporti educativi, di istruzione, di
cura, di vigilanza, di custodia o a quelli che si instaurano nell’ambito di un rapporto di lavoro».
La stessa Corte di Cassazione, con la pronuncia numero 685 del 13 gennaio 2011, ha ribadito che non è
ancora possibile ricondurre il mobbing a sanzioni di tipo penale, nonostante lo stesso sottenda
39
comportamenti riconducibili ad un trattamento vessatorio .
36
Art. 572 c.p.: «Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un
minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione,
istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da
uno a cinque anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una
lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni».
37
Cass. pen., sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624.
38
Cass. pen., sez. VI, 22 novembre 2011, n. 43100: «i maltrattamenti perpetrati da un Sindaco a danno di un
dipendente dell’ente, mancando tra i soggetti un nesso di supremazia-soggezione, non possono essere puniti ai sensi
dell’art 572 c.p.».
39
Cass. pen., sez. VI, 13 gennaio 2011, n. 685.
19
Quanto alla valorizzabilità dell’art. 572 c.p., si legge nel decisum: «le pratiche persecutorie realizzate ai
danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. mobbing) possono integrare il
delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nel caso in cui il rapporto tra il datore di lavoro e il
dipendente o, per rimanere aderenti alla fattispecie in esame, tra il preposto e il lavoratore soggetto
all’autorità del primo assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da
consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia
riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia».
Tanto premesso, la mancata copertura normativa sul versante penale, evidenziata dalla Corte di
cassazione, fa sì che ad oggi il fenomeno del mobbing possa essere sanzionato unicamente in ambito
civilistico.
In detta sede la tutela del lavoratore dal mobbing viene ricavata da una serie di previsioni normative,
rinvenibili a livello di legislazione ordinaria e nel tessuto della Carta costituzionale, nonché dalle
40
ermeneutiche giurisprudenziali .
Tuttavia, ad avviso di chi scrive la condotta di mobbing si presta ad essere sussunta nello schema
delineato dall’art. 612-bis c.p., rubricato “Atti persecutori”.
Rispetto alla previsione de qua, tuttavia, il mobbing, pur sottendendo un disegno deliberativo unitario (al
pari del reato di atti persecutori) si presenta come caratterizzato da uno spettro di condotte più ampio di
quello che connota il fenomeno dello stalking (minaccia o molestia).
Sul piano degli effetti il mobbing è perfettamente sovrapponibile al delitto contemplato dall’art. 612-bis
c.p., laddove questo reca riferimento ad un “perdurante e grave stato di ansia o di paura” ed all’alterazione
delle abitudini di vita della vittima.
In merito al presente discorso può osservarsi che nelle legislazioni di taluni Paesi europei, il mobbing è
censurato attraverso previsioni ampie – recanti generico riferimento a comportamenti molesti – all’interno
delle quali è possibile ricomprendere e ipotesi di stalking e di mobbing.
40
In tema di mobbing si segnalano le seguenti pronunce: Trib. Torino, 16 novembre 1999, cit.; Trib. Torino, 11
dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, c. 1555 ss.; Trib. Milano, 26 aprile 2000; Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2000, n.
5491; Trib. Milano 20 maggio 2000; Trib. Como, 22 maggio 2000; Cass. civ., sez. lav., 8 gennaio 2000, n. 143, in Dir.
lav., 2001, II, pp. 3 ss.; Cass. civ., sez. VI, 12 marzo 2001, n. 10090; Trib. Forlì, 15 marzo 2001, in Resp. civ. prev.,
2001, pp. 1018 ss., con nota di P. Ziviz, Mobbing e risarcimento del danno; Trib. Forlì, 22 marzo 2001, in Riv. it. dir.
lav., 2002, II, pp. 521 ss.; Trib. Venezia, 26 aprile 2001; Trib. Torino, 10 agosto 2001; Trib. Lecce, 31 agosto 2001;
Trib. Pisa, 3 ottobre 2001; App. Bari, 31 gennaio 2002; Trib. Pisa, 10 aprile 2002; App. Salerno, 17 aprile 2002; Trib.
Torino, 15 luglio 2002; Trib. Torino, 1 agosto 2002; Trib. Siena, 13 dicembre 2002; Trib. Torino, 18 dicembre 2002;
Trib. Venezia, 15 gennaio 2003, Trib. Pinerolo, 6 febbraio 2003; Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003; Trib. Trieste,
10 dicembre 2003; Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 359; Cass. civ., sez. lav., 15 gennaio 2004, n. 515; Trib. Bari, 20
febbraio 2004; Trib. Pinerolo, 3 marzo 2004; Trib. Torino, 16 aprile 2004; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-bis, 25 giugno
2004, n. 6254; Trib. Milano, 29 giugno 2004; App. Torino, 25 ottobre 2004; Trib. Marsala, 5 novembre 2004; Trib.
Forli, 28 gennaio 2005; Trib. Agrigento, 1 febbraio 2005; Trib. Forlì, 10 marzo 2005; Cass. civ., sez. lav., 23 marzo
2005, n. 6326; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-ter, 4 luglio 2005, n. 5454; Trib. La Spezia, 13 maggio 2005; Trib. Milano,
4 gennaio 2006; Trib. Napoli, 10 gennaio 2006; Trib. Trento, 7 febbraio 2006; Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n.
4774; Trib. Sondrio, 9 marzo 2006; Cass. civ., S.U., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. civ., sez. lav., 25 maggio 2006, n.
12445; T.A.R., Campania, Salerno, I, 29 giugno 2006, n. 881; Trib. Civitavecchia, 20 luglio 2006; Trib. Sondrio, 22
luglio 2006; Trib. Bergamo, 8 agosto 2006; Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2006, n. 31413; Trib. Milano 30 settembre
2006; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 8 marzo 2007, n. 403; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 23 marzo 2007, n.
339; Trib. Bologna 23 maggio 2007; Trib. Bergamo, 14 giugno 2007; Cass. civ., sez. lav., 20 luglio 2007, n. 16148;
Cass. pen., sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 10 settembre 2007, n. 3143; Cass. civ., sez.
lav., 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. pen., sez. VI, 7 novembre 2007, n. 40891, cit.; T.A.R., Lazio, Roma, sez. I, 7
aprile 2008, n. 2877; Cass. civ., sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858, cit.; Cass. civ., sez. lav. 17 febbraio 2009, n.
3785; Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2009, n. 1576; Cass. civ., sez. lav., 21 aprile 2009, n. 9477; Cass. civ., sez. III, 2
febbraio 2010, n. 2352; Cass. civ., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063, Cass. civ., sez. lav., 26 marzo 2010, n. 7382; Cons.
Stato, sez. IV, 7 aprile 2010, n. 1991; T.A.R. Umbria, Perugia, sez. I, 24 settembre 2010, n. 470; Cass. pen., sez. VI, 13
gennaio 2011, n. 685; Cass. civ., sez. lav., 31 maggio 2011, n. 12048; Cass. civ., sez. lav., 17 giugno 2011, n. 13356;
Cass. civ., sez. lav., 8 agosto 2011, n. 17089; Cass. pen., sez. VI, 22 novembre 2011, n. 43100; Cass. civ., sez. lav., 27
dicembre 2011, n. 28962; Cass. civ., sez. lav., 16 febbraio 2012, n. 2251.
20
6. La responsabilità ex art. 2043 c.c. del lavoratore.
La responsabilità extracontrattuale o “aquiliana” è quella responsabilità che discende non già dalla
violazione di una specifica obbligazione prevista in un contratto (nel qual caso si concreta la responsabilità
cd. contrattuale), bensì del generico precetto del neminem laedere.
Il referente normativo è individuabile nell’art. 2043 c.c., che recita: «Qualunque fatto doloso o colposo,
che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».
La responsabilità postula una condotta, sia essa commissiva od omissiva, che arrechi un vulnus alla
posizione giuridica di un dato soggetto.
Senza indugiare sulla caratteristiche della forma di responsabilità in esame, per cui si rinvia alla
letteratura sul tema, qui basti considerare che sulla scorta dell’articolo 2043 c.c. risponde il lavoratore che
ponga in essere condotte di mobbing nei confronti di un collega.
Un diverso discorso, come si dirà nel successivo paragrafo, va fatto con riferimento alla figura del datore
di lavoro, la cui eventuale responsabilità si appunta più propriamente su altre disposizioni che valorizzano la
sua qualifica (artt. 2087, 2103 c.c.).
Sembra potersi osservare, che, anche laddove il lavoratore in sede giudiziale volesse invocare la norma
di cui all’art. 2043 c.c., astrattamente riferibile anche al datore di lavoro, non va trascurato il dato per il quale
quella di cui all’art. 2087 c.c., tradizionalmente ritenuta avente natura contrattuale, prevede, richiamando gli
stilemi della responsabilità ex contractu, un più agevole onus probandi ed un termine prescrizionale più
lungo.
Si fa presente, in relazione a tale ultimo aspetto che, costituendo il mobbing una fattispecie unitaria,
41
deve ritenersi che la prescrizione cominci a decorrere dal compimento dell’ultima condotta lesiva .
7. La responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro.
Sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo del neminem laedere, recato dall’art. 2043 c.c., sia il
più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, sancito dall’art. 2087 c.c. ad
integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro.
A mente di tale ultima norma: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure
che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica
e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
La disposizione contempla una responsabilità di tipo contrattuale in capo al datore di lavoro che,
nell’esercizio della propria attività, ponga in essere un comportamento – quale ne sia la natura e l’oggetto –
lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ovvero non prevenga e scoraggi il
compimento di una siffatta condotta da parte dei lavoratori a danno di uno o più dipendenti.
La Corte di cassazione ha ritenuto che la violazione della previsione dell’art. 2087 c.c. può avvenire «con
comportamenti materiali o provvedimentali del datore di lavoro, indipendentemente dall’inadempimento di
42
specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato» .
La responsabilità che discende dalla norma de qua può concorrere con una responsabilità di tipo
extracontrattuale laddove il datore di lavoro arrechi un vulnus alla persona del lavoratore in relazione a profili
43
indipendenti dal rapporto di lavoro .
In una pronuncia si è osservato: «In ipotesi di “mobbing” laddove la responsabilità del datore di lavoro ha
fonte sia contrattuale – art. 2087 c.c. - sia extracontrattuale - art. 2043 c.c. -, il regime di ripartizione
dell’onere della prova è quello più favorevole al dipendente e pertanto quello contrattuale;
conseguentemente spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie
per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, mentre spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza del
44
nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro» .
41
In senso contrario v. A. LIBERATI (cit., p. 252), per il quale, atteso che il fenomeno del mobbing si caratterizza per
la reiterazione di più comportamenti, per ognuno dei singoli episodi lesivi contestati dal lavoratore occorre una distinta
verifica del relativo termine di prescrizione.
42
Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774.
43
Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
44
Trib. Forlì, 15 marzo 2001, cit.
21
In giurisprudenza, inoltre, è stato ritenuto che in combinato con la norma di cui all’art. 2087 c.c. si
45
potrebbe valorizzare quella recata dall’art. 2049 c.c.
Ciò premesso, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che l’art. 2087 del codice civile
non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in base alla quale il datore di lavoro è da ritenersi
responsabile ogniqualvolta il lavoratore abbia a subire un danno nell’esecuzione della prestazione lavorativa.
Occorre, invece, che l’evento lesivo sia pur sempre riferibile ad una condotta colposa, connessa alla
violazione di obblighi di comportamento – imposti da norme di legge o da previsioni regolamentari, o
ricavabili da previsioni contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall’esperienza – il cui accertamento
costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se
46
logicamente e congruamente motivato .
Volgendo adesso l’attenzione ai repertori giurisprudenziali, può ricordarsi che recentemente la Corte di
cassazione in una pronuncia ha avvallato il percorso ermeneutico compiuto dal giudice di secondo grado,
che, al fine di escludere la responsabilità del datore di lavoro, ha valorizzato il tentativo di superare la
situazione conflittuale creatasi tra la ricorrente e le proprie colleghe col trasferimento della stessa ad altro
reparto (in adesione a quanto richiesto o comunque suggerito dalla stessa lavoratrice), tenendo conto anche
del fatto che il responsabile del personale – così come la responsabile del servizio infermieristico – si erano
47
adeguatamente attivati, sia pure inutilmente, per risolvere la situazione .
È, poi, da escludersi, ad avviso della Suprema Corte, che l’operare un distacco provvisorio e
successivamente un trasferimento (peraltro cercando di sacrificare il meno possibile le esigenze familiari)
per incompatibilità ambientale tale per cui «mantenere in sede il dipendente potrebbe causare una grave
lesione al prestigio, al decoro ed alla funzionalità dell’ufficio di appartenenza» integri mobbing, mancando un
48
intento persecutorio .
Per quanto concerne il profilo probatorio, il lavoratore dovrà provare la sussistenza, sul luogo di lavoro, di
fattori pregiudizievoli della propria integrità psico-fisica, così come il nesso causale tra questi ed il vulnus
subito, senza che occorra specificare in maniera puntuale le norme antinfortunistiche violate e le misure non
adottate.
Il datore di lavoro, dal canto suo, dovrà fornire prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad
49
impedire il verificarsi del danno lamentato dal lavoratore .
In particolare, all’imprenditore spetta fornire la prova di avere adottato, nell’esercizio dell’impresa tutte
quelle misure che, secondo la tipologia di mansioni espletate dal dipendente si rendano necessarie per
tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, avuto riguardo alla specificità del lavoro nonché alla natura
dell’ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi.
«La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando
l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti
specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di
50
specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato» .
La Corte di cassazione ha ritenuto che anche una condizione lavorativa stressante può integrare una
51
forma di responsabilità del datore di lavoro .
La responsabilità in commento può essere ridotta proporzionalmente al comportamento imprudente del
lavoratore, ed essere esclusa in presenza di fattori eccezionali.
45
Cass. civ., sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768, in Giust. civ. Mass., 1995, pp. 1385 ss.; Pret. Modena, 29 luglio 1998;
Trib. Lecce, 31 agosto 2001; Trib. Milano, 9 maggio 2003; Trib. Trieste, 10 dicembre 2003.
46
In tal senso di vedano: Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2000, n. 6018; Cass. civ., sez. lav., 12 febbraio 2000, n. 1579.
47
Cass. civ., sez. lav., 21 aprile 2009, n. 9477.
48
T.A.R. Lazio, sez. I-quater, 5 maggio 2009, n. 4564.
49
Da ultimo v. Cass. civ., sez. lav., 16 febbraio 2012, n. 2251.
50
Cass. civ., sez. lav., 27 dicembre 2011, n. 28962.
51
Cass. civ., sez. lav., 2 gennaio 2002, n. 5.
22
Per quanto attiene alla prescrizione dell’azione risarcitoria (da proporre innanzi al Giudice ordinario, in
funzione di giudice del lavoro) vale un termine decennale, trattandosi, come detto sopra, di responsabilità ex
contractu.
Laddove, invece, si opti per la qualificazione della responsabilità del datore di lavoro come
extracontrattuale ex art. 2043 c.c., l’azione giudiziaria andrà proposta innanzi al Giudice ordinario ed il
termine prescrizionale sarà quinquennale.
8. Il risarcimento del danno da mobbing.
Il lavoratore mobbizzato può chiedere il ristoro di ogni pregiudizio, sia esso patrimoniale o relativo ad
aspetti non patrimoniali, che si ponga in rapporto di causalità rispetto alle condotte di mobbing.
Il mobbing cui sia sottoposto il lavoratore legittima questi innanzitutto alla richiesta del risarcimento del
52
danno patrimoniale .
Si pensi, a titolo esemplificativo, agli esborsi sostenuti per la sottoposizione a cicli di terapia
farmacologica (antidepressivi, ansiolitici, SSRI e neurolettici), a trattamenti mediante tecniche di counseling
o psicoterapia di supporto.
In una pronuncia giurisprudenziale viene precisato che «È principio consolidato in tema di rimborso di
spese sanitarie la circostanza che queste, se effettuate in strutture private, possano essere rimborsate solo
in caso in cui si dimostri che le strutture pubbliche non abbiano quel servizio oppure siano insufficienti o
53
abbiano tempi lunghi di attesa» .
Si tenga presente, inoltre, il costo di eventuali massaggi anti-stress e di cure termali laddove funzionali a
ristabilire l’equilibrio psico-fisico del soggetto vittima delle condotte di mobbing.
Per quanto concerne le spese di collaborazione domestica futura, in difetto della prova della necessità di
54
assistenza, queste non sono esigibili .
Si considerino, ancora, tra gli esborsi economici valorizzabili nell’ambito di una pretesa risarcitoria in tema
di danno da mobbing, quelli correlati al ricorso a consulenze legali per valutare le misure di tutela da
intraprendere.
È risarcibile, poi, il danno alla capacità produttiva di reddito, sia nel senso del danno emergente sia nel
senso del lucro cessante.
In una pronuncia della Corte di cassazione – al cui vaglio era stato sottoposto un caso in cui un primario
di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica aveva posto in essere una condotta volta ad emarginare
l’aiuto anziano già operante nel reparto – in relazione al ristoro dei danni patrimoniali si legge: «dovrà essere
considerato il regime professionale vigente all’epoca dei fatti, e comunque la perdita delle chances
economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell’immagine nella comunità scientifica e nel mercato
55
libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa» .
Sul versante patrimoniale può richiamarsi il danno cd. da demansionamento, che consta della lesione alla
professionalità del soggetto, intesa quale patrimonio di cognizioni teorico-pratiche che decretano l’attitudine
56
di questi ad esplicare una data attività lavorativa .
In una pronuncia giurisprudenziale è stato osservato: «l’impossibilità di svolgere il lavoro per il quale il
lavoratore è idoneo comporta un decremento o, quanto meno, un mancato incremento della professionalità,
intesa come l’insieme delle conoscenze pratiche che sia acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto
57
esercizio della sua attività lavorativa» .
52
Si segnala la lettura di P. BERTI, Criteri di quantificazione del danno, relazione al convegno “Danni da mobbing e
criteri di quantificazione del risarcimento”, Torino 29 giugno 2005, scritto reperibile all’indirizzo internet
http://www.csspd.it/download/ALLEGATI_CONTENUTI/23_08_05_relazione_mobbing.pdf; AA. VV., La prova e il
quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale, vol. I, Utet, 2008.
53
Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
54
Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
55
Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2352.
56
Si vedano le pronunce: Pret. Milano, 2 agosto 1996; Pret. Milano, 21 gennaio 1992; Trib. Roma, 4 aprile 2000;
Trib. Milano, 16 giugno 2000; Trib. Agrigento, 1 febbraio 2005; Trib. Montepulciano, 9 novembre 2006.
57
Pret. Milano, 26 agosto 1996.
23
Circostanza, questa, che compromette la dignità professionale, intesa quale diritto di manifestare la
58
propria utilità, attraverso le capacità di cui si è dotati, nel contesto lavorativo , nonché la propria
59
competitività sul mercato del lavoro .
Il cd. danno da demansionamento, che compendia i vulnera – anche di tipo non patrimoniale, riconducibili
60
alla categoria del danno esistenziale – relativi alla cd. professionalità, in genere è quantificato in una
misura percentuale della retribuzione mensilmente percepita dal lavoratore, moltiplicata per il numero di mesi
in cui si è manifestato l’impoverimento professionale del lavoratore.
Ciò posto, si fa presente che con la pronuncia n. 113 del 6 aprile 2004 la Corte Costituzionale ha
dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, nella parte in cui non
munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da
demansionamento subiti a causa dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro».
In esito al decisum della Consulta, dunque, il credito che deriva al lavoratore per il danno da
demansionamento può essere fatto valere, nel giudizio di esecuzione nei confronti del datore di lavoro, come
credito privilegiato e non già come credito chirografario.
Venendo al versante del danno non patrimoniale, questo indica «quella voce di danno che attiene alla
lesione di aspetti variamente riferibili alla persona umana nella sua dimensione socio-relazionale ed alla sua
61
integrità psico-fisica» .
Nell’ambito del presente discorso viene in rilievo innanzitutto il danno biologico, ossia quella «lesione
psicofisica, empiricamente accertabile in quanto avente substrato organico, conseguenza diretta di un dato
62
evento fenomenico» .
Detta tipologia di danno è valorizzabile nell’ambito dei profili non patrimoniali che vengono in rilievo in
sede di risarcimento del danno da mobbing, per la quantificazione dei quali la giurisprudenza ammette il
ricorso alla norma di cui all’art. 1226 c.c., attesa la difficoltá di determinare il loro pregiudizio nel preciso
ammontare.
I criteri di risarcimento del danno biologico sono essenzialmente legati alle prassi presenti presso le
singole corti territoriali (sovente vengono utilizzate le tabelle del Tribunale di Milano), elemento, questo, che
comporta disparità di trattamento tra lavoratori a seconda della regione in cui questi attivano la tutela
giudiziaria.
In dottrina è stato evidenziato che detta circostanza «presenta evidenti limiti di tenuta sul piano
costituzionale, non essendo tollerabile una simile disparità di trattamento fra lavoratori ugualmente
63
sofferenti» .
Ciò posto, sovente la vittima di condotte di mobbing è costretta a modificare significativamente le proprie
abitudini di vita, evenienza, questa, nella quale potrà invocarsi il ristoro del cd. danno esistenziale.
Questo indica «ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto inducendolo a scelte di vita
diverse, quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, da quelle che
64
avrebbe compiuto ove non si fosse verificato il fatto dannoso» .
Sul versante definitorio spiega significativa valenza la decisione del Tribunale di Napoli in cui il danno
esistenziale viene definito come quella «lesione che coinvolge il fare areddituale del soggetto, alterando le
58
Cass. civ., sez. lav., 2 gennaio 2002, n. 10.
V. Cass. civ., sez. lav., 7 luglio 2001, n. 9228.
60
In una pronuncia giurisprudenziale si legge: «ritiene la corte che, contrariamente a quanto affermato dal primo
giudice, il danno non patrimoniale per lesione alla dignità permanga anche durante l’assenza dal lavoro per malattia
tenuto conto altresì che la responsabilità dell’insorgere della malattia è ascrivibile al datore di lavoro ai sensi dell’art.
2087 c.c.» (App. Torino, 25 ottobre 2004).
61
V. IANNI, Danno patrimoniale e danno non patrimoniale, in AA. VV., Trattato dei nuovi danni (diretto da P.
Cendon), vol. I, Cedam, 2011, p. 101.
62
V. IANNI, Danno patrimoniale e danno non patrimoniale, cit., pp. 101-102. Per quanto concerne il risarcimento del
danno biologico si rinvia alla lettura di L. GRECO, Danno biologico: gli effetti del cd. mobbing, in Guida al lavoro,
1999, 11, pp. 12 ss.
63
P. BERTI, cit.
64
Cass. civ., sez. III, 6 febbraio 2007, n. 2546.
59
24
sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e
65
privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno» .
Può riportarsi, inoltre, l’efficace descrizione contenuta in una pronuncia del Tribunale di Montepulciano:
«il danno esistenziale risulta costituito dalla somma di impedimenti subiti in relazione al libero svolgimento
delle attività che contribuiscono alla realizzazione individuale: limitazioni all’agenda quotidiana o alla normale
qualità della vita ovvero il cambiamento delle proprie abitudini di vita, dei propri usi di vita sociale, delle
66
proprie scelte individuali o sociali, della libera estrinsecazione della personalità» .
Stante la latitudine degli aspetti valorizzabili sotto le insegne del danno esistenziale, la risarcibilità di tale
voce di danno si pone come strumento d’elezione per una efficace tutela del lavoratore, sovente leso, più
che nel bene della salute, nei profili dell’autostima, nonché dell’immagine professionale e, di riflesso, sociale,
ridimensionati senza sua colpa a seguito delle condotte di mobbing. Ciò costringe il lavoratore ad una qualità
di vita deteriore, con gravi ripercussioni nelle relazioni sociali e nei rapporti familiari.
Posta tale premessa, può ricordarsi che per la liquidazione del danno esistenziale in una pronuncia
questo è stato ritenuto potersi commisurare, così come avvenuto per la quantificazione del danno morale,
67
nella percentuale di ½ del danno biologico .
Tanto detto, i cambiamenti cui è costretta la vittima di mobbing importano uno snaturamento della sua
personalità, legittimando il risarcimento del cd. danno morale, vale a dire quel vulnus transeunte riferibile al
tono dell’umore e, più in generale, alla vitalità di una data persona. Trattasi, in sostanza, di una sofferenza
interiore.
68
Il danno morale solitamente viene liquidato in percentuale rispetto al danno biologico (in una misura che
va da 1/5 ad 1/2), avuto riguardo alla durata ed alla frequenza delle vessazioni subite, alla posizione
occupata dal lavoratore all’interno dell’azienda, nonché all’età ed alla personalità dello stesso.
69
In una occasione il danno morale è stato liquidato in percentuale rispetto a quello esistenziale .
9. I profili probatori nell’ambito dell’azione giudiziaria volta ad ottenere il risarcimento del danno da
mobbing.
Per quanto concerne l’onere probatorio in tema di risarcimento del danno da mobbing, questo si modula
in maniera diversificata a seconda che in sede giudiziale si invochi una responsabilità extracontrattuale o
contrattuale.
Nello schema sopra tracciato si è prospettata una rassegna del reticolato normativo che presiede alla
distinzione tra le ipotesi in cui l’autore del mobbing è il datore di lavoro e quelle in cui i comportamenti
persecutori vengono posti in essere da un collega della vittima.
Richiamando brevemente quanto sopra detto, in tale ultima evenienza l’autore delle condotte mobbizzanti
potrà essere chiamato a rispondere a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., mentre al
datore di lavoro sarà riferibile (ma detta impostazione non è condivisa dallo scrivente) la previsione di cui
all’art. 2049 c.c., eventualmente in uno a quella dall’art. 2087 c.c.
Quando, invece, l’autore delle violenze psicologiche è il datore di lavoro, questi risponderà per
inadempimento delle obbligazioni che sottendono al contratto di lavoro giusta la previsione di cui all’art. 2087
c.c., oltre che di eventuali comportamenti riconducibili sotto le insegne della norma di cui all’art. 2043 c.c. in
quanto lesivi di aspetti della persona non correlati all’espletamento dell’attività lavorativa ed in relazione ai
quali può dirsi che il rapporto di lavoro venga a costituire una mera occasione per la realizzazione delle
condotte illecite.
Resta fermo, che il lavoratore può azionare una pretesa risarcitoria, nei confronti del datore di lavoro,
anche (ed esclusivamente) sulla scorta dell’art. 2043 c.c.
Posta tale premessa, in ordine alle tipologie di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, è a dirsi,
innanzitutto, che differente è il termine di prescrizione, fissato in 10 anni nel primo caso ed in 5 nel secondo.
65
Trib. Napoli, 4 maggio 2007.
Trib. Montepulciano, 9 novembre 2006.
67
Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
68
Trib. Agrigento, 1 febbraio 2005; Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
69
Trib. Pinerolo, 4 marzo 2004.
66
25
L’azione extracontrattuale pur garantendo un termine più lungo onera il lavoratore della prova della
colpevolezza (e dunque di un atteggiamento doloso o colposo) del datore di lavoro, oltre che del nesso
causale tra condotta ed evento nonchè dell’ingiustizia del danno.
Come notorio, invece, la responsabilità contrattuale è sostanzialmente ancorata alla dimostrazione del
dato oggettivo dell’inadempimento, delle conseguenze pregiudizievoli da esso derivate e del nesso causale.
Tuttavia, in una pronuncia giurisprudenziale è stata evidenziata la necessità di valorizzare, anche
70
nell’ambito della responsabilità di tipo contrattuale, l’elemento soggettivo .
In particolare, con specifico riferimento all’art. 2087 c.c. è stato osservato che «la natura contrattuale
dell’illecito non comporta che si versi in una fattispecie di responsabilità oggettiva, […] occorrendo pur
sempre l’elemento della colpa, che accomuna la responsabilità contrattuale e quella aquiliana (Cass. 8 luglio
1992 n. 8325)».
Proprio la necessarietà o meno dell’elemento soggettivo, come si dirà nel prosieguo del presente
paragrafo, è uno degli aspetti più discussi in tema di mobbing laddove si agisca in sede giudiziale sulla
scorta dell’art. 2087 c.c.
Attesa l’intenzionalità connaturale al fenomeno del mobbing, deve ritenersi che la previsione di cui all’art.
71
1225 c.c. , correlata ad una responsabilità di tipo contrattuale, quale è quella di cui all’art. 2087 c.c., non
operi in relazione alla determinazione dei profili risarcibili in materia di danno da mobing, ragion per cui,
anche alla luce di quanto detto sopra (termine prescrizionale più lungo e onere probatorio più agevole), è
preferibile che il lavoratore leso da una condotta mobbizzante del datore di lavoro, incentri la propria
richiesta sulla norma dell’art. 2087 c.c. e non già su quella prevista dall’art. 2043 c.c.
Ciò posto, in sede giurisprudenziale è stato precisato: «il fatto che il “mobbing” sia stato oggetto di
attenzioni sociologiche e anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico
allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno. In questa
prospettiva occorre che chi invoca tale fatto come produttivo di danno ne provi l’esistenza e ne dimostri la
72
potenzialità lesiva» .
In sede di risarcimento del danno l’onere probatorio discende, come chiarito dal Consiglio di Stato, dal
fatto che «L’azione risarcitoria non è soggetta alla regola del principio dispositivo con metodo acquisitivo,
bensì al principio dell’onere della prova (artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c.) in quanto inerente a processo avente ad
oggetto diritti (risarcitori); ed invero, trattandosi di giudizio che verte principalmente sull’esistenza delle
condizioni, perché un danno possa ritenersi ingiusto, occorre innanzitutto la prova della sua esistenza e del
suo ammontare, consistente nella verifica positiva degli specifici requisiti e, in particolare, nell’accertamento
di una effettiva lesione alla propria posizione giuridica soggettiva tutelata ovvero la violazione della norma
73
giuridica che attribuisce la protezione a tale interesse» .
Ciò premesso, chi lamenta di aver subito un comportamento di mobbing da parte del datore di lavoro
74
(censurabile, come visto, ex art. 2087 c.c.), in ossequio ai dettami della Corte di cassazione , dovrà fornire
prova circa:
– la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente, che, sorretti da un intento persecutorio (la cui prova è necessaria, stando a quanto
afferma la Corte di cassazione), siano stati posti in essere, in modo sistematico e per un lasso di
75
tempo apprezzabile, in pregiudizio del dipendente ;
– la riconducibilità dei predetti comportamenti entro uno schema unitario;
70
Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2000, n. 5491.
L’art. 1225 c.c. recita: «Se l’inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato
al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione».
72
Trib. Milano, 20 maggio 2000.
73
Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 2009, n. 2435.
74
Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785. In una pronuncia giurisprudenziale della Suprema Corte si legge:
«grava sul lavoratore l’onere di provare sia la lesione dell’integrità psicofisica, sia il nesso di causalità tra tale evento
dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa (v. sul punto, Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763)» (Cass. civ., sez.
lav., 2 maggio 2000, n. 5491).
75
Cons. Stato, Sez. IV, 21 aprile 2010, n. 2272.
71
26
–
–
l’evento lesivo della salute o della personalità;
il nesso eziologico tra la condotta ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore.
In relazione al primo profilo, in ottica probatoria risulta necessario che le condotte mobbizzanti, siano
esse reato (per esempio abuso di potere, minacce, violenza privata, diffamazione, calunnia, lesioni
personali, etc…) o meno, ovvero integrino illecito amministrativo (demansionamento, dequalificazione,
etc...), siano state documentate nel modo più accurato possibile, o comunque possano essere ricostruite
nella maniera più puntuale possibile.
È utile allegare alla domanda eventuali richieste del datore di lavoro (per le quali in precedenza si sia
opportunamente richiesto che le stesse venissero poste per iscritto e protocollate).
Al fine di permettere una puntuale ricostruzione delle dinamiche degli atteggiamenti mobbizzanti, è
opportuno, in relazione ad ogni singolo episodio di mobbing che si sia verificato, aver annotato data, ora,
luogo, autore, descrizione dell’accaduto e persone che ad esso hanno assistito.
Indispensabile risulta, poi, aver tenuto un resoconto delle conseguenze psico-fisiche sull’organismo delle
azioni mobbizzanti: ansia, depressione, attacchi di panico, insonnia, emicrania, cefalea, dolori muscolari,
precordialgie, palpitazioni cardiache, acidità gastrica, tremori, mancanza d’appetito od appetito eccessivo,
impotenza e calo del desiderio sessuale, perdita dell’autostima, etc...
Ciò posto, acciocchè possa dimostrarsi la sussistenza di condotte vessatorie, discriminatorie,
persecutorie, moleste, la prova testimoniale, specie di colleghi, è di fondamentale importanza.
Quanto alla riconducibilità dei singoli episodi entro un disegno unitario, i Giudici di Palazzo Spada hanno
rilevato: «La condotta di mobbing dell’Amministrazione pubblica datrice di lavoro, consistente in
comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione,
indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali nei confronti di un suo dipendente, deve
da quest’ultimo essere provata e, a tal fine, valenza decisiva, è assunta dall’accertamento dell’elemento
76
soggettivo, e cioè dalla prova del disegno persecutorio» .
Il carattere unitariamente persecutorio e discriminante delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro
potrà ricavarsi sostanzialmente dalla dimostrazione del dato per cui vengono reiterati solitamente i medesimi
comportamenti, che verosimilmente appaiono inquadrabili in un’ottica unitaria.
L’aspetto più problematico, in relazione all’onere probatorio in tema di mobbing, è quello relativo alla
necessarietà o meno della prova in merito alla sussistenza di un intento vessatorio, sotto le cui insegne
77
possano essere ricondotti i singoli comportamenti di cui il lavoratore, in giudizio, lamenti la lesività .
Ad avviso di chi scrive è preferibile, in aderenza al dato nozionistico relativo alla responsabilità ex art.
1218 c.c. (nel cui alveo è ricondotta la previsione di cui all’art. 2087 c.c.), ritenere elemento non
indispensabile, ai fini del riconoscimento in capo al datore di lavoro di una forma di responsabilità giusta la
previsione dell’art. 2087 c.c., la dimostrazione dell’elemento soggettivo della condotta mobbizzante, e
considerare sufficiente l’oggettiva sottoposizione del lavoratore ad una condizione lavorativa lesiva della sua
78
salute o della sua personalità morale .
Per quanto concerne la lesione dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore, questi potrà prospettare, a
sostegno dell’accoglimento della propria domanda, l’accadimento di eventuali incidenti legati allo stress,
come un attacco d’ansia o di iperventilazione, registrati nel registro infortuni, documento aziendale
obbligatorio, regolato dal d.lgs. n. 626/94.
L’art. 4 di tale normativa prevede che il datore di lavoro, nell’adottare le misure necessarie per la
sicurezza e la salute dei lavoratori, debba tenere un registro nel quale siano annotati cronologicamente gli
infortuni sul lavoro che comportino un’assenza dal posto di lavoro di almeno un giorno, specificando dati
76
Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2010, n. 1991.
Nel senso che l’elemento psicologico sia necessario si vedano Trib. Como, 22 maggio 2001; Trib. Como, 22
febbraio 2003; Trib. Bari, 23 marzo 2004. Contra v. T.A.R. Lazio, sez. III-bis, 5 aprile 2004.
78
Conformemente al pensiero dello scrivente si è espresso A. CASTELNUOVO, Mobbing e reato, in P. G.
MONATERI – A. MARIGLIANO – M. BONA – S. BONZIGLIA – U. OLIVA – A. ANGLESIO – A.
CASTELNUOVO – M. F. GAZALE – N. CASUCCIO – M. C. GUERRERI, Accertare il mobbing. Profili giuridici,
psichiatrici e medico legali. Proposta per la valutazione medico legale del danno psichico da mobbing, cit., p. 53. In
senso contrario v. Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785.
77
27
anagrafici del lavoratore, cause e circostanze dell’infortunio, data di abbandono del posto di lavoro e quella
di ripresa dell’attività lavorativa.
Tramite documentazione medica bisognerà provare la sussistenza di patologie psico-somatiche al fine di
ottenere il risarcimento del danno biologico.
Lo scopo della valutazione peritale risiede nella determinazione di quella che è la genesi del fenomeno
mobbing nonché nella definizione della dinamica circostanziale connessa al fenomeno stesso.
Quanto alla dimostrazione del danno esistenziale, assoluta centralità riveste la testimonianza del coniuge
o dei figli del lavoratore.
In sede di giudizio occorrerà, infine, dimostrare il nesso causale tra la condotta e la patologia sviluppata
79
dal lavoratore .
La Suprema Corte ha precisato che «La valutazione degli elementi di fatto emersi nel corso del giudizio,
ai fini dell’accertamento della sussistenza del mobbing e della derivazione causale da detto comportamento
illecito del datore di lavoro di danni alla salute del lavoratore, costituisce apprezzamento di fatto riservato in
via esclusiva al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente
80
motivato (cfr Cass. n. 3785/2009, n. 28893/2008, n. 22858/2008)» .
In una recente pronuncia degli stessi Ermellini si legge: «ai fini della configurabilità del nesso causale tra
un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come
conseguenza certa ed inequivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale del
primo dal secondo possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato
l’intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata (Cass. 11
giugno 2009 n. 1353, in base al principio di cui all’art. 41 c.p. quale norma di carattere generale applicabile
81
nei giudizi di responsabilità civile (da ultimo, Cass. 30 novembre 2009 n. 25236)» .
In relazione alla possibilità per l’organo giudicante di servirsi della consulenza tecnica d’ufficio – mezzo
elettivo per accertare e valutare la natura delle lesioni, l’entità della conseguente menomazione, la loro
durata (temporanea o permanente), la loro valenza nella vita quotidiana del soggetto danneggiato, così
come la sussistenza del nesso eziologico – si segnalano due pronunce in cui si ravvisano diverse posizioni
circa il concreto utilizzo dello strumento de quo.
In una pronuncia giurisprudenziale il Giudice è ricorso ad una CTU al fine di verificare la sussumibilità di
determinate condotte nella perimetrazione concettuale usualmente ritenuta propria del fenomeno del
82
mobbing .
In altro decisum si legge che: «È […] precipuo compito del giudice, non demandabile ad un consulente,
valutare se, nella fattispecie concreta posta alla sua attenzione, sussistano o meno gli estremi della figura
del mobbing, al riguardo utilizzando la descrizione fenomenologia che di esso ne danno le scienze del lavoro
che se ne occupano; potrà essere invece demandato al consulente l’accertamento se siano rinvenibili sulla
persona del lavoratore che denunzia di aver subito una siffatta persecuzione, eventuali postumi da essa
derivanti; tuttavia, poiché il mobbing supera e non si risolve nel tradizionale danno biologico (o danno alla
salute medicalmente accertabile), la consulenza non necessariamente sarà medico-legale e potrà anche
83
non essere necessario disporla» .
In merito allo strumento in esame la Corte di cassazione ha osservato: «sebbene la c.t.u. non sia
qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perché volta a coadiuvare il giudice nella valutazione
degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, essa può essere
disposta non solo al fine di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche al
fine di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte
79
In una recente pronuncia la Corte di cassazione ha avallato la valutazione effettuata dalla Corte territoriale circa
l’esclusione degli estremi del mobbing, evidenziando, tra l’altro, l’assenza del nesso causale fra la patologia psichica da
cui era risultato affetto il lavoratore ed il disagio asseritamente derivante dall’ambiente lavorativo, nonché il fatto che
non era possibile individuare i soggetti responsabili di comportamenti specifici e rilevanti in ordine al mobbing (Cass.
civ., sez. lav., 10 gennaio 2012, n. 87).
80
Cass. civ., sez., lav., 26 marzo 2010, n. 7382.
81
Cass. civ., sez. lav., 17 giugno 2011, n. 13356.
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Trib. Forlì, 15 marzo 2001, cit.
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Trib. La Spezia, 1 luglio 2005.
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deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda
specifiche cognizioni tecniche (Cass. 13 marzo 2009 n. 6155; Cass. 26 novembre 2007 n. 24620; Cass. 15
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aprile 2002 n. 5422; Cass. 7 marzo 2001 n. 3343)» .
In chiusura del presente paragrafo può ricordarsi che, per l’emissione di una sentenza di condanna nei
confronti del mobbizzante in una pronuncia giurisprudenziale è stata ritenuta bastevole anche la semplice
concomitanza tra l’adibizione a nuove mansioni da parte del prestatore di lavoro e l’insorgenza della lesione
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psichica temporanea , ovvero l’accertamento tramite prove testimoniali e documenti medici prodotti dalla
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parte che propone l’azione .
Ciò posto, trattandosi di responsabilità contrattuale, il rigetto della domanda presuppone la dimostrazione,
da parte del datore di lavoro, di avere adempiuto all’obbligo di protezione posto dall’art. 2087 c.c., o,
comunque, che gli episodi prospettati dal lavoratore, non sono riconducibili ad un disegno deliberativo
unitario volto a vessare il lavoratore.
Il datore di lavoro potrà anche fornire la prova, ex art. 1218 c.c., che l’inadempimento è stato determinato
da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile.
Il predetto schema, concernente l’onere probatorio laddove si valorizzi la previsione di cui all’art. 2087
c.c., può essere utilmente riferito anche alla responsabilità del lavoratore che abbia posto in essere condotte
di mobbing a danno di altro dipendente (od a quella del datore di lavoro per l’ipotesi che il lavoratore ancori
la propria pretesa, nei riguardi di quest’ultimo, alla norma di cui all’art. 2043 c.c.).
Tuttavia, in detto caso il riconoscimento della responsabilità è correlato, indefettibilmente, alla
dimostrazione di un atteggiamento, da parte soggetto agente, sorretto quantomeno da colpa.
Tuttavia, sembra potersi osservare che, normalmente, al mobbing presiede una condotta dolosa.
In dottrina è stato osservato, al proposito, che «La giurisprudenza intervenuta sul tema tende ad
individuare nel dolo l’elemento soggettivo della responsabilità del mobber-persona fisica», aggiungendosi,
poi, che «il mobber, a prescindere da quali siano le sue finalità, direziona volontariamente le sue “attenzioni”
(moleste, discriminatorie, vessatorie), nei confronti di un soggetto ben determinato, il mobbizzato. In altri
termini pare essere insito nel fenomeno stesso che la condotta del mobber sia alla radice
intenzionale/consapevole ed è per questa ragione che la giurisprudenza è portata ad evidenziarne il
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carattere doloso» .
Conclusivamente, può dirsi che l’assolvimento dell’onere probatorio, nell’ambito di un’azione giudiziaria
volta ad ottenere il risarcimento del danno da mobbing, si presenta non sempre agevole per il lavoratore,
anche perché questi, sovente, è chiamato a dimostrare la riconducibilità di provvedimenti formalmente
legittimi in un disegno vessatorio unitario.
Si consideri, inoltre, la probabile reticenza degli eventuali testi chiamati a deporre, in quanto dipendenti
del datore di lavoro.
In dottrina, in relazione alla problematicità che connota il profilo dell’onus probandi in tema di mobbing, è
stato osservato: «prima di iniziare una controversia vertente sul mobbing, bisogna sapere di poter superare
positivamente una serie ostacoli che, nel caso specifico, sono fondamentalmente legati: alla estensione
temporale dei fatti narrati; alla molteplicità e complessità di eventi occorsi; alla attendibilità, consistenza,
validità, ed efficacia probatoria dei documenti che si intende produrre; all’eventuale presenza di accordi
transattivi inoppugnabili o inimpugnabili; all’eventuale decorso di termini di prescrizione e/o decadenza;
all’ammissibilità, all’attendibilità e, soprattutto, all’affidabilità delle potenziali testimonianze favorevoli; ed
infine, ma non perchè meno importante, alla verifica della consistenza del danno subito e della sua
riconducibilità eziologica agli eventi narrati, in particolare con riguardo all’assenza di patologie
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neuropsichiatriche pregresse o natali e al peso di eventuali concause o altre cause determinanti» .
Alla luce dei profili di criticità testè evidenziati, occorre vagliare attentamente l’eventualità di intraprendere
un’azione giudiziaria volta ad ottenere il risarcimento del danno da mobbing.
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Cass. civ., sez. lav., 17 giugno 2011, n. 13356.
Trib. Torino, 16 novembre 1999, cit.
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Trib. Torino, 30 dicembre 1999.
87
A. CASTELNUOVO, cit., pp. 54-55.
88
D. CANTISANI, cit.
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Si rammenti, altresì, che la giurisprudenza ha ritenuto giustificato, ex art. 2119 c.c., il licenziamento di un
lavoratore il quale in sede giudiziaria non era riuscito a provare la fondatezza della sua pretesa,
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asseritamente vantata nei confronti del datore di lavoro .
In particolare, ad avviso della giurisprudenza in commento «è esente da vizi logici e sottesa da
motivazione congrua e coerente la decisione del giudice di merito in base alla quale accuse non provate di
mobbing giustificano il licenziamento ex art. 2119 c.c. per il venir meno del rapporto fiduciario fra le parti».
Ciò detto, lo scrivente ritiene che solo un compiuto inquadramento legislativo del mobbing, attraverso
l’approntamento di previsioni specifiche, possa consentire il superamento delle oscillanti ermeneutiche
ravvisabili in merito alla “gestione” giuridica del fenomeno.
Il legislatore, sostanzialmente, dovrebbe definire in maniera puntuale un reticolato normativo entro il
quale il fenomeno possa essere trasposto; un reticolato, che si ponga su un piano di stretta aderenza ai
referenti ordinamentali in tema di responsabilità.
L’impressione è che spesso siano stati conferiti confini “fluidi” alle forma di responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale pur di armonizzare il dato sociologico del mobbing con quello prettamente giuridico.
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Cass. civ., sez. lav., 8 gennaio 2000, n. 143, cit.
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