P.Nisi, Esercizi S.Lucia Augusta (marzo 2015)

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P.Nisi, Esercizi S.Lucia Augusta (marzo 2015)
DIONISIO CANDIDO
Il libro dell’Esodo. La libertà di servire Dio
Il libro dell’Esodo
La libertà di servire Dio
1. Introduzione
Il titolo intende giocare su un paradosso, che scivola sotterraneo come un
fiume carsico lungo tutto il libro dell’Esodo: Liberi di servire. Com’è possibile che si
sia liberi nel servizio? Nel linguaggio comune il termine “servizio” si addice più
all’area semantica della dipendenza. Nel quadro dei legami cosiddetti one up – one
down, si può arrivare sino al servilismo, alla dipendenza patologica o forzata. Ma
così si sarebbe agli antipodi della libertà, della possibilità di auto-determinazione.
La Sacra Scrittura invita invece ad entrare con fiducia nei paradossi della
vita, cercando di tenere insieme gli opposti, facendoli dialogare con fiducia e
sapienza. Il libro dell’Esodo si configura come il racconto della metamorfosi
possibile verso una nuova vita: è un vero e proprio “battesimo”, in cui il bambino è
Mosè con il popolo di Dio, l’acqua è il Nilo o il Mar Rosso, la parola è la Torah
donata sul Sinai e il congedo finale è il cammino nel deserto insieme con il Signore
che libera, nella speranza dell’ingresso un giorno nella Terra promessa. Per
apprezzare questi elementi, si può attraversare il libro rilevando solo alcuni episodi
più significativi.
1. La vita nella storia
A mo’ di premessa, è bene almeno accennare ad un dato che spesso suscita
perplessità: la storicità dei racconti biblici, in particolare dell’esodo nel nostro caso1.
L’esodo – inteso come l’evento del passaggio del Mar Rosso – è forse il dato
centrale della fede di Israele (cfr. Dt 26,5-9; Gs 24,1-13). Ma la fede biblica è
interessata non alla storia in sé, quanto piuttosto alla sapienza della storia.
Così, ad esempio, non è un problema che l’evento del passaggio del Mar
Rosso sia storicamente databile al sec. XIII a.C. circa, mentre la redazione finale del
libro dell’Esodo sia di epoca post-esilica, cioè intorno al sec. VI. Sono passati
almeno sette secoli tra il fatto e il suo racconto definitivo: ma proprio in quell’arco
di tempo l’intelligenza di quell’evento è divenuta sempre più profonda.
2. La struttura del libro
Per il bene della semplicità, si potrebbe dire che il libro dell’Esodo si divide in
due ampie parti: la sezione narrativa dei capitoli 1-18 e la sezione legislativa dei
capitoli 19-402. In realtà, la struttura del libro è ben più complessa3, ma in questa
sede ci si concentrerà soprattutto sulla trama della prima parte del racconto
esodico.
1
Cfr. C. WIÉNER, Le livre de l’Exode (Cahiers Evangile 54), Cerf, Paris 2001, pp. 49-52.
In particolare, i capp. 25-31 e 35-40 – di redazione sacerdotale (sec. VI a.C.) – contengono la legislazione
relativa al culto.
3
Cfr. B.G. BOSCHI, Esodo (Nuovissima Versione della Bibbia, 2), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 51999, pp.
8-12.
2
1
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Il libro dell’Esodo. La libertà di servire Dio
3. Il racconto
3.1. L’incipit
Come è noto, all’interno del Pentateuco il libro dell’Esodo occupa il secondo
posto: segue il libro della Genesi e precede il libro del Levitico. L’antecedente
quindi di tutta la storia del libro dell’Esodo è costituito dal finale di Genesi (Gen 3750), ovvero dalla storia di Giuseppe: ultimo dei dodici figli di Giacobbe, Giuseppe
trascorre quasi tutta la sua esistenza presso la corte egiziana (cfr. Es 1,1-4).
Morti però Giuseppe e i suoi fratelli, e morto anche il faraone che aveva
accolto benevolmente Giuseppe nella sua corte, le sorti degli ebrei cominciano a
mutare. Il nuovo faraone – che non aveva conosciuto Giuseppe (cfr. Es 1,8) –
diventa sempre più sospettoso nei loro confronti.
«[Il faraone] disse al suo popolo: “Ecco che il popolo dei figli d’Israele è
più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi
riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà
ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese”.
Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per
opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le cittàdeposito, cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo,
tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire
come un incubo la presenza dei figli d’Israele. Per questo gli Egiziani
fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la
vita con il lavoro duro dei mattoni di argilla, con ogni sorta di lavoro
(‘abodah) nei campi e con tutti i lavori che facevano con durezza» (Es 1,914).
Modificando l’attuale traduzione italiana che scorre ben più fluida, si rileva
come nei soli due ultimi versetti compaia ben cinque volte la radice ebraica ‘abad4,
che si può tradurre con “lavorare”, ma anche con “servire” o “essere schiavi”. Su
questa radice si potrebbe far ruotare la lettura dell’intero libro dell’Esodo5. Ecco il
paradosso, che attraversa il libro: essere schiavi o essere servi? Essere sottomessi a
qualcuno o lavorare per qualcuno? Subire un padrone o scegliere un padre?
L’alternativa non è quindi tra “essere liberi” o “essere servi”, ma tra “essere servi”
o “essere schiavi”. La spiritualità biblica è troppo realistica per far sognare uno
stato di auto-sufficienza: per la Bibbia si è sempre legati o dipendenti da qualcuno o
da qualcosa. La domanda vera è: «Sei legato a qualcuno che ti libera o a qualcuno
che ti schiavizza?».
3.2. La cesta
Nella prima pagina di Esodo fa capolino quasi d’improvviso lo scenario fosco
della schiavitù d’Egitto. Israele si riconosce come popolo di Dio in questo contesto
4
Cfr. C. WESTERMANN, ‘ebed, in E. JENNI – C. WESTERMANN (curatori), Dizionario Teologico dell’Antico
Testamento, vol. II, Marietti, Torino 1982, pp. 165-181.
5
Cfr. G. AUZOU, Dalla servitù al servizio. Il libro dell’Esodo, EDB, Bologna 2008.
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Il libro dell’Esodo. La libertà di servire Dio
mortificante: tutto è iniziato quando si era soltanto una debole minoranza
all’interno di una nazione potente e oppressiva. Forse anche questa è una scelta
preferenziale del Dio della Bibbia.
Al cap. 2 appare per la prima volta la figura di Mosè6, il protagonista non
solo del libro dell’Esodo, ma di tutto il Pentateuco. Mentre il faraone decide di far
uccidere i bambini ebrei maschi (Es 1,15-16), in una famiglia di leviti nasce un
bambino: è la forza della vita che si ostina a sbocciare in un contesto di morte. La
madre lo tiene nascosto per quanto può, poi capisce che deve darlo via per farlo
vivere. Questo sarà un Leitmotiv della vita di Mosè e della spiritualità biblica: il
paradosso della perdita che fa ritrovare, della morte che dà la vita.
Qui il rischio della vita è legato alle acque, che tanta importanza rivestono
non solo nel libro dell’Esodo7. Nelle primissime pagine della Bibbia le acque hanno
un che di minaccioso, sono sinonimo del caos malefico su cui Dio solo può
intervenire sovranamente per mettere ordine (cfr. Gen 1,6.9-10). A queste acque
mortifere sembra destinato anche il piccolo Mosè. Eppure, una mano amica depone
il neonato tra la vegetazione sulla riva del Nilo, dentro una cesta di papiro. Il
termine ebraico per indicare la cesta (Es 2,3.5) è il medesimo usato in Genesi per
l’arca di Noè (cfr. Gen 6,14-19). La cesta svolge per Mosè lo stesso ruolo che l’arca
aveva svolto per Noè: salvarlo dalle acque. Mosè, che più tardi salverà Israele dalle
acque del mare, è stato lui per primo salvato dalle acque del fiume8.
Lo conferma un altro piccolo dettaglio: la figlia del faraone lo trova «in
mezzo ai giunchi» (Es 2,5; cfr. v. 3). Il termine giunchi richiama il mare dei giunchi,
ovvero il Mar Rosso (cfr. Es 15,4.22; 23,31; Gs 2,10). Si evoca qui per la prima volta
l’esodo. Questo bambino è destinato a tornare nelle acque, ma senza più temerle:
Dio sarà con lui.
3.3. Il nome di Mosè
Inoltre, nel nome stesso di Mosè sono nascosti alcuni tratti peculiari. In Es
2,10 si dice che la figlia del faraone, ricevendo il bambino dopo l’allattamento «lo
chiamò Mosè, dicendo: “Io l’ho salvato dalle acque”» (Es 2,21). Quest’ultima
espressione verbale è passiva ad indicare che il piccolo ha ricevuto il dono della
vita (“tratto dalle acque”); mentre, in realtà, il nome Mosè, in ebraico è una forma
attiva: “colui che trae fuori”9. Ecco un altro paradosso, nascosto nelle pieghe della
lingua biblica: Mosè diventerà un giorno “colui che salva dalle acque” perché
anzitutto lui stesso è stato salvato dalle acque.
6
In assenza di fonti extra-bibliche sulla persona di Mosè, il Pentateuco resta il punto di riferimento quasi
esclusivo. Al di fuori del Pentateuco i testi sono pochi e non sempre offrono un’immagine coerente (cfr. Sal
105, Sal 106; Ger 15,1; Mi 6,4; Ne 9,14; Sir 45,1-5).
7
Cfr. Storie d’acqua della Bibbia, LDC-ABU, Leumann (TO)–Roma 2007.
8
«Il parallelo è suggestivo. Come Noè nella sua arca è stato salvato dai flutti del diluvio (cc. 6-9), così Mosè
nella sua cesta è salvato dalle acque del Nilo. Primo salvato, diventerà salvatore del popolo» (G.
VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosè. Dall’Egitto alla Terra Promessa, EDB, Bologna 2004, p. 110).
9
Cfr. P. STEFANI, Mosè, in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (curatori), Nuovo Dizionario di Teologia
Biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 51994, p. 1025.
3
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3.4. La terra straniera
Una volta cresciuto, però, Mosè compie un atto imprudente: per difendere un
suo connazionale più debole ne uccide il rivale egiziano (Es 2,11-12). Si sente in
diritto di ricoprire il ruolo del “giustiziere”10: ma la delusione è dietro l’angolo. La
violenza, in fondo, non libera. Ricercato per il delitto, è costretto ad allontanarsi
dall’Egitto e fuggire verso est, fino ad arrivare al territorio di Madian, dove
incontra e sposa Sippora, che gli darà il primo figlio a cui metterà il nome
significativo di Gherson, «perché diceva: “Sono un emigrato in terra straniera!”» (Es
2,22).
Un nuovo paradosso: la futura guida d’Israele assume il modo di pensare
dello straniero, di chi non è proprietario di una terra, ma solo ospite, pellegrino.
Lontano da casa, Mosè impara a desiderare una terra propria, ma soprattutto
impara ad essere pastore errante, impara la dinamicità della vita.
3.5. L’incontro con Dio
E proprio mentre è in cammino, pascolando il gregge presso il monte Oreb,
cioè il Sinai, incontra per la prima volta Dio: è la celebre visione del roveto ardente
(Es 3,1-6).
Al di là del significato specifico del roveto che brucia senza consumarsi11,
questa teofania si rivela paradossale: in effetti, nell’AT Dio è allo stesso tempo
comprensibile e incomprensibile, misteriosamente vicino e lontano. La fede biblica
consiste proprio nel sapere rispettare questi due aspetti, senza pretendere di
sopprimerne uno per risolvere la complessità del rapporto con Dio.
È anche interessante la curiosità di Mosè, che dice in cuor suo: «Voglio
andare a vedere questo grande spettacolo» (Es 3,3a). La curiosità è il carburante
dell’uomo di Dio: non solo gli dà il coraggio di non scappare, ma lo stimola a
lasciare tutto e ad andare a capire cosa stia succedendo12. È la capacità di farsi delle
domande e di andare fino in fondo alla ricerca della risposta: «Perché il roveto non
brucia?» (Es 3,3b). Questa è una delle leggi del cuore umano, che il Dio biblico non
mortifica mai: persino quando i “perché?” sono carichi di dolore come nel caso di
Giobbe (cfr. Gb 3,12; 21,4.7; 24,1).
Subito dopo (cfr. Es 3,7-15) parla Dio e il testo ebraico si fa sconvolgente. Una
serie tambureggiante di verbi alla prima persona: “ho osservato la miseria del mio
popolo” (v. 7), “ho udito le sue grida” (v. 7), “conosco le sue sofferenze” (v. 7),
“sono sceso per liberarlo e per farlo uscire” (v. 8), “ho visto l’oppressione” (v. 9).
Qui c’è tutto il pathos del Dio biblico che ama gelosamente e non sopporta di vedere
il proprio amato soffrire per il sopruso e la schiavitù.
10
Cfr. P. STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo, Borla, Roma 31994, pp. 26-27.
Il fuoco è il simbolo violento dell’ira di Dio (cfr. Gen 19,24; Nm 11,1-3; 1Re 18,38; 2Re 1,10-14). Ma in Es
3,1-6 sembra trattarsi piuttosto di un fuoco come quello che si ritroverà sul Sinai (Es 19,8; Dt 4,12; 5,24-26): è
soprattutto un fuoco non violento, che brucia senza consumare.
12
Una tale idea può essere colta nell’espressione “voglio scostarmi” (Qal impf. coortativo dal verbo sûr). Il
testo lascia intendere che Mosè abbia abbandonato il gregge, preso dal desiderio di capire il fenomeno del
roveto ardente. Cfr. F. SCERBO, Dizionario ebraico e caldaico del Vecchio Testamento, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze 1912, p. 234.
11
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Ma la salvezza del popolo passa anche attraverso la collaborazione di Mosè.
La sua risposta alla chiamata divina è meno prosaica e romantica di quello che si
immagina: due obiezioni, l’una sul proprio valore e l’altra sull’identità di Dio.
Nuovamente il Dio biblico non mortifica l’obiezione del suo interlocutore: non
respinge, ma purifica la pretesa di Mosè. Risponderà alla domanda, ma a modo
suo. Da qui la celebre risposta che suona forse come volutamente enigmatica: «Io
sono colui che sono» (v. 14). È noto che questa celebre frase si presta a tante
interpretazioni: in questa sede basti dire che qui Dio assicura la sua presenza
costante e soprattutto il suo essere dalla parte del popolo oppresso. Un fatto
inusitato, mai visto nelle letterature religiose antiche: il Dio dell’Esodo, il Dio della
Bibbia, sta dalla parte dei più deboli, delle vittime.
3.6. Il faraone
Accompagnato dal fratello Aronne, Mosè incontra per la prima volta il
faraone, al quale chiede subito che lasci il popolo libero di partire per celebrare la
festa (Es 5,1; cfr. Es 3,18). Ma la richiesta ha l’effetto di rivelare la tracotanza del
faraone e ne inasprisce le intenzioni (Es 5,4-9). In queste pagine di Esodo si legge
più volte che Dio “rese ostinato il cuore del faraone” (cfr. Es 7,3; 9,12; 14,4): è
un’espressione per noi disorientante, ma per la cultura biblica del tutto ovvia: si
tratta del modo consueto presso gli antichi di ricondurre tutto a Dio, anche la
decisione umana del tutto responsabile di opporsi a lui.
Si inserisce qui la lunga sezione (Es 7-11) dedicata alle cosiddette “piaghe
d’Egitto”, che sarebbe meglio chiamare “segni” o “prodigi”13. Ancora una volta,
l’intento del narratore biblico non è storico, ma teologico: si vuole cioè affermare la
supremazia della potenza di Dio su quella del faraone. Lo scopo del racconto è di
mostrare che Dio è superiore anche in trasferta: nonostante l’ostinatezza del
faraone, la signoria di Dio non fatica ad imporsi in Egitto. Il faraone, per quanto si
vanti del suo potere, non è affatto alla stregua di Dio.
3.7. L’esodo
Quando il faraone lascia partire il popolo (Es 13,17), si può finalmente
celebrare la liturgia di Pasqua. Nel racconto di Es 12-13 (Es 12,37-13,16) vengono
raccolti elementi di religiosità naturale, che però sono inseriti in un quadro storico
preciso.
In altri termini, nel sostrato della narrazione della Pasqua ebraica si possono
riconoscere altre antiche celebrazioni14: ai riti antichi della vita che rinasce ora
Israele lega il ricordo concreto della liberazione dalla schiavitù. Da una parte la
13
Si dovrebbe più propriamente parlare di nove “segni” o “prodigi” (Es 7,8-10,29) e della “decima piaga”
(Es 11,1; cfr. 12,13.23.27): in particolare, quest’ultima è quella dei primogeniti e può essere riferita piuttosto al
racconto successivo della Pasqua. «Nel corso della narrazione dell’ultima ‘piaga’, la morte dei
primogeniti, è inserita l’istituzione della Pasqua e della festa degli azzimi (Es 12,1-28.43-51; 13,3-10),
presentata come memoriale (zikkarôn, Es 12,14) della liberazione dall’Egitto (cfr.. Es 13,3)» (STEFANI, Mosè,
cit., p. 1027).
14
Cfr. M. BERDER et ALII, La Pâque et le passage de la Mer. Dans les lectures juives, chrétiennes et musulmanes.
(Exode 12-14) (Supplément Cahiers Evangile 92), Cerf, Paris 1995, p. 6.
5
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natura con la sua promessa ciclica di vita, dall’altra la storia con un evento inatteso
di libertà. Due orizzonti che si fondono nell’unica liturgia della Pasqua. È il garbo
del Dio biblico, il Dio della vita e della storia, che esalta la natura nelle sue istanze
più nobili.
Dopo la celebrazione della Pasqua avviene l’esodo vero e proprio (Es 13,1714,31), cioè l’uscita degli ebrei dal territorio egiziano. Il racconto biblico è
probabilmente frutto dell’intreccio di almeno un paio di tradizioni su questo
episodio, più volte rielaborate, definite jahvista e sacerdotale15.
Nel racconto J, si parla di un “mare” (Es 14,21.24.27). Più probabilmente si
tratta di un lago o di un terreno paludoso a nord-est del delta del Nilo, nei pressi
dell’istmo di Suez. Quello che chiamiamo “Mar Rosso” si traduce meglio con
“Mare dei Giunchi” o “Mare delle Canne”: sarebbe questo il teatro del cosiddetto
“passaggio del Mar Rosso”. In particolare si legge che il popolo in fuga sfrutta il
terreno reso più asciutto da un forte vento caldo orientale (Es 14,21), mentre le
truppe egiziane restano impantanate nelle acque della laguna. Secondo P, invece, lo
scenario è molto più liturgico e solenne: il popolo passa, come in processione,
attraverso le acque raccolte come due muri a destra e a sinistra, mentre il Signore
impedisce agli egiziani di raggiungere i fuggitivi.
Se si cerca tra le righe dello stile letterario biblico, si può provare a capire
cosa sia avvenuto e quale sia stata la percezione del popolo che visse l’esodo16.
Intorno al sec. XIII a.C. un gruppo di ebrei residenti in Egitto avrà deciso di
liberarsi dalla vessazione dei dominatori scappando verso est: al loro inseguimento
si sarà messo un reparto di carri egiziani, che però non sarà riuscito a raggiungerli
prima del tramonto. Nella notte il vento orientale, proveniente quindi dal deserto,
avrà reso più asciutto il tratto di terra paludosa sulla sponda di uno di quelli che
una volta erano i “Laghi Amari”. A questo fenomeno forse si è aggiunta una bassa
marea. I carri egiziani si sarebbero invece impantanati in questa zona sabbiosa e
paludosa. A rendere più difficile il compito degli inseguitori si sarebbe messa anche
la nebbia, ovvero la sabbia sollevata dal vento dell’est. Le condizioni atmosferiche
sarebbero poi cambiate: il vento sarebbe scemato e la marea tornata al livello
consueto. I carri egiziani si sarebbero così trovati bloccati nel fango, impossibilitati
a raggiungere i fuggitivi ormai lontani.
Nella rilettura sapienziale che la Bibbia fa di questo episodio, la liberazione è
un gesto di amore di Dio, che si rivela tale sconfiggendo la minaccia della morte
imminente. Ed è significativo il contrasto tra la paura del popolo di essere
annientato dai carri del faraone (cfr. Es 14,10) e la rassicurazione divina tramite
Mosè:
«Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi
opera per voi; perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai
più! Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli» (Es 14,13-14).
15
Partendo dal cap. 14, bisogna anzitutto distinguere tra la mano del redattore J (Es 13,20-22; 14,5-7.1014.21a.24.27-31) e quella del redattore P (Es 14,1-4.8-9.15-20.21b-23.25-26).
16
Cfr. J.L. SKA, La Parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 22003, pp. 56-58.
6
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3.8. Il deserto
Immediatamente dopo la liberazione dall’Egitto, si schiude un tempo
inatteso: quello della permanenza di Israele nel deserto (cfr. Es 15,22-18,27 per la
parte narrativa ed Es 19-40 per la parte legislativa; cfr. anche Nm 10,11ss). In realtà,
il buon senso avrebbe forse suggerito che i fuggitivi proseguissero il cammino
lungo la costa, battendo la famosa via maris, direttamente verso la terra di Canaan,
la Terra promessa. Invece Mosè fa virare il gruppo verso sud (cfr. Es 15,22), verso la
penisola desertica del Sinai dove il popolo itinerante rimarrà per quasi
quarant’anni. Se è vero che la Bibbia illustra una storia della salvezza, è anche vero
che suggerisce una “geografia della salvezza”. In questo ampio e lungo cammino,
Dio si fa compagno con il segno concreto e dinamico dell’arca della testimonianza
(cfr. Es 25,10-22)17.
Nel deserto il popolo comincia a faticare18 e inizia a mormorare. Sono passati
solo tre giorni dal canto di esultanza di Es 15 (vv. 1-2119) e il popolo assetato nel
deserto si lamenta perché le acque sono amare (Es 15,22-27). La severità del deserto
comincia ad educare alla libertà.
«Se è vero che gli Ebrei si sentono liberi, dunque, è ugualmente vero che
essi debbono constatare quanto sia grave la loro inesperienza della libertà.
Non basta essere dichiarati formalmente liberi, una volta per tutte: la
libertà è un mestiere difficile, che si impara attraverso tutta una serie di
esperienze, all’interno delle quali il deserto svolge una funzione
pedagogica decisiva. Il deserto, infatti, è il vero maestro di libertà»20.
Le vicende che si volgono presso la località chiamata “Mara” (Es 15,22-27) o
poco più tardi presso Massa e Meriba (Es 17,1-7) sono emblematiche. Più ci si
inoltra nel deserto, più sorge il sospetto che sia tutto sbagliato. Ci si fa trascinare
dalla sfiducia in Dio, che si trasforma facilmente in protesta. La libertà pesa, dà
vertigine: ancora una volta, il deserto diventa maestro di vera libertà.
3.9. La manna
Quello del deserto è un tempo difficile, perché l’Egitto non è ancora
abbastanza lontano da essere dimenticato e la Terra promessa non è ancora
abbastanza vicina da essere apprezzata. Si materializza così la nostalgia della
schiavitù. Il cuore preferisce la tranquillità nella schiavitù, che l’incertezza nella
17
Cfr. R. DE VAUX, Istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti 1820, Genova 32002, 295-298.
La visione positiva del deserto sembra essere piuttosto legata alla cultura profetica. Così Ger 2,2 usa
l’immagine del popolo che “va dietro il Signore” nel deserto, come una fidanzata verso il fidanzato. Oppure,
in Os 2,16-17, il Signore vuole ricondurre Israele nel deserto per poter parlare direttamente al suo cuore.
19
Il Cantico di lode di Es 15, in cui si ringrazia Jhwh per aver custodito la vita del suo popolo, può essere
considerato una delle più alte espressioni liturgiche dell’AT e il prototipo di ogni liturgia biblicamente
fondata. A questo proposito, scrive F. Scalia: «Che liturgia è mai quella che celebra la morte quasi fosse un
dono, e la vita quasi fosse una pena? Che liturgia, quella che non ha celebrato o illuminato la vita concreta
nella “buona notizia”? O quella che non genera futuro?» (Il Cristo degli uomini liberi, La meridiana, Molfetta
[BA] 2010, 48).
20
STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo, cit. p. 96.
18
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libertà. Si finisce così per lamentarsi con Dio e per rimpiangere il faraone21. Cosa fa
Dio nel frattempo? Si indispettisce? No: si rende presente con alcuni segni concreti,
tra cui il dono dell’acqua (Es 17,1-7) e soprattutto di uno strano cibo, chiamato
“manna” (Es 16,35).
«Allora il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per farvi piovere pane dal
cielo: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione quotidiana”»
(Es 16,4a).
Ci si aspettava una condanna definitiva ed invece arriva un sostegno per
proseguire il cammino. Ma un sostegno in chiave squisitamente biblica: Dio invita
il popolo ad uscire dall’accampamento ogni giorno, per raccogliere la sua razione
quotidiana di manna. Il verbo ebraico è lo stesso: come il popolo è uscito
dall’Egitto, così ora è chiamato ad uscire di nuovo. Non si dice da dove. Si deve
presumere che debba uscire dall’accampamento: ma forse, più in profondità, il
testo vuole lasciare intendere che il popolo deve uscire dal suo Egitto interiore,
dalla sua patologica nostalgia del faraone.
Quindi, come un sapiente farmacista, per guarire dai mali del deserto Dio
espone quella che si potrebbe definire “la posologia della manna”.
«“Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, […], secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria
tenda”. Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto chi poco. 18[…]
Colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo, colui che ne
aveva preso di meno non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto
ciascuno poteva mangiarne. Poi Mosè disse loro: «Nessuno ne faccia
avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne
conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. […]
Essi dunque ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno
mangiava» (Es 16,16-21a).
Questa è la dura pedagogia del deserto, con cui Dio educa il suo popolo.
Ogni giorno, come poveri mendicanti, bisogna uscire e andare a raccogliere la
manna: un cibo leggero, da viaggio, che basta per una sola giornata. Non lo si può
conservare in una riserva, perché presto fa i vermi e diventa immangiabile. È lo
stile del Dio dell’esodo, che vuole insegnare a godere del dono della libertà, ad
apprezzare il dono senza trattenerlo. Qui c’è tutto il realismo spirituale della Parola
di Dio.
3.10. L’alleanza nella Torah
Tre mesi dopo la Pasqua (Es 19,1), battendo il deserto verso sud, la carovana
del popolo dei salvati arriva alle pendici del Sinai, dove rimarrà per circa due anni
21
Cfr. J.L. SKA, Ricchezza e povertà nell’esperienza e la legislazione dell’Esodo, in V. LIBERTI (curatore), Ricchezza e
povertà nella Bibbia, Dehoniane, Roma 1991, pp. 19 e 26.
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(Nm 10,11). Il Sinai era noto dalla scena del roveto ardente del capitolo 3: è la
montagna sacra22 (cfr. Gdc 5,5; Is 37,32; Sal 48), il luogo dell’incontro, il luogo
dell’alleanza, che Dio ha scelto per donare la Legge, la Torah.
«Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato
voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. […] Ora, se vorrete
ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la
proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me
un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,4-6).
Il Signore è stato come un’aquila: ha guardato dall’alto la miseria del suo
popolo, gli è piombato addosso per sottrarlo alle grinfie dei nemici e condurlo in
alto laddove nessun faraone umano possa nuocergli o sedurlo con la sua forza.
Questo atto di salvezza gratuita rende Israele possesso di Dio: ma ora Israele deve
imparare a vivere all’altezza di questa dignità (cfr. Es 24).
Tre giorni dopo, inizia uno sconvolgimento climatico impressionante sul
Sinai:
«Sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e
un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell’accampamento
fu scosso da tremore. […] Essi stettero in piedi alle falde del monte. […] Il
Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e […]
chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì» (Es 19,16-17.20).
Per i rabbini questo fu il momento del parto della Torah23, quando Dio scese
sul monte e Mosè vi salì: qui si realizza l’alleanza e si compendia la rivelazione del
Primo Testamento24. Nello stile narrativo biblico, si sintetizza in poche battute una
grande lezione. La presenza di Dio che scende sul monte scombussola tutto: è la
prossimità stessa di Dio, che non può non incutere timore.
Eppure Mosè non vuole che il popolo resti in casa: «Mosè fece uscire il
popolo dall’accampamento per fargli vedere Dio» (Es 19,17). L’espressione verbale
“fare uscire” è la stessa riservata a Dio, che aveva fatto uscire Israele dall’Egitto.
Ora è Mosè a dover giocare il ruolo del liberatore: accompagna per mano il suo
popolo, come per farlo venire fuori dalla paura di Dio25.
A questo punto del libro dell’Esodo, in pieno deserto, nasce l’alleanza tra Dio
e il suo popolo. Così dirà più tardi il libro del Deuteronomio: «Ricordati di tutto il
22
Cfr. E. ANATI, Har Karkom. Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Jaca Book, Milano 1984.
Cfr. J.J. PETUCHOWSKI, La liturgia del cuore, Dehoniane, Napoli 1985, pp. 66-67.
24
In chiave cristiana l’intero Antico Testamento può essere considerato come “Legge” (cfr. P. GRELOT, Sens
chrétien de l’Ancien Testament, Desclée, Paris 21962, pp. 167-247).
25
«Mosè invita a trasformare questa paura naturale, che allontana da Dio, in un timore religioso ed etico, un
misto di rispetto e di fiducia, che permette l’approfondimento della fede e tiene lontano il peccato. Se il
popolo non deve aver paura – paura viscerale e infantile davanti ai lampi e al tuono –, deve però essere
penetrato dal “timore di Yhwh”, inteso contemporaneamente come conoscenza, attaccamento e profondo
rispetto di Dio» (VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosè, cit., pp. 160-161).
23
9
DIONISIO CANDIDO
Il libro dell’Esodo. La libertà di servire Dio
cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel
deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e
se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2). In concreto questi comandi
sono contenuti nel Decalogo di Es 20,1-17 (cfr. Dt 5,6-21), seguito dal cosiddetto
“codice dell’alleanza” (Es 20,22-23,33).
Si tratta di un vero e proprio insieme di norme di vita. Ma l’elemento chiave
risiede nel suo inizio: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese
d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,2)26. L’intero Decalogo si regge sulla
relazione liberante con il Dio dell’esodo, che ama, è coinvolto nella storia del suo
popolo ed è geloso: «... non avrai altri dèi all’infuori di me» (Es 20,2).
Chi vuole entrare nella libertà del Dio biblico deve sentirsi responsabile della
relazione con lui e con il resto del popolo dei salvati. Questa è la berít, l’alleanza,
intesa come impegno bilaterale: Jhwh si impegna ad essere il custode d’Israele (“Io
sarò il vostro Dio”) e Israele si impegna ad osservare la Torah per essere “il popolo
di Jhwh” (cfr. Ez 36,28).
3.11. La riscrittura
Quanto durerà questo idillio? Poco, anzi pochissimo. L’episodio del vitello
d’oro (Es 32) mostra subito la fragilità dell’impegno di Israele. Ma proprio in questa
circostanza Dio decide di riscrivere le tavole della legge. È un gesto di una dolcezza
infinita: «[Dice a Mosè:] “Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò le
parole che erano sulle tavole di prima”» (Es 34,1; cfr. v. 28).
«Sembra che tutto riparta daccapo, che tutto ritorni al punto di partenza.
In realtà, sarebbe troppo superficiale l’atteggiamento di chi volesse
semplicemente cancellare ciò che è stato: ormai l’intera vicenda dei
rapporti tra Dio ed Israele si trova in una fase più avanzata, rispetto alla
quale non si può immaginare un semplice ritorno alla situazione iniziale.
Il peccato di cui Israele si è macchiato non viene né dimenticato né
banalmente cancellato: esso viene perdonato! Il rinnovamento
dell’alleanza introduce Israele in un’esperienza nuova: appunto
l’esperienza del perdono. […] Nulla ci “santifica” come l’esperienza del
perdono: infatti, chi è perdonato non può non riconoscere di essere
rinnovato, di essere reso altro, diverso da sé, di essere reso santo. Solo i
peccatori perdonati sanno realmente cosa sia la santità»27.
Solitamente ci si sofferma sulla Legge che il Signore dà in Es 20. In realtà,
nella spiritualità di questo libro, Dio riscrive sempre nuovamente questa legge, la
aggiorna, la rammenta, la ripropone, perché sa che nel deserto ci si può perdere
dietro ad idoli falsi e schiavizzanti. Non solo la sua legge libera, ma libera lo stile
affettuoso con cui la propone.
26
Cfr. C. DOHMEN, Per amore della nostra libertà. Origine e fine dell’etica biblica nel ‘comandamento principale’ del
decalogo, «Communio» 121 (1992), pp. 27-46.
27
STANCARI, Lettura spirituale dell’Esodo, cit., pp. 124-125.
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DIONISIO CANDIDO
Il libro dell’Esodo. La libertà di servire Dio
4. Conclusione
Per Israele l’esodo non è stato soltanto un episodio circoscritto della sua
storia passata, ma ha costituito piuttosto la chiave di lettura della sua fede: l’evento
fondativo del suo essere popolo, libero di servire Dio. Si può capire così la
narrazione della Pasqua ebraica e della Pasqua di Gesù, come celebrazione
perpetua ed attualizzazione definitiva di un evento fondatore della fede.
D’ora in poi la fede biblica è una fede di liberazione28. D’ora in poi l’uomo
biblico sarà particolarmente allergico ad ogni forma di schiavitù ai faraoni terreni,
perché amerà servire solo il Dio unico. Anche per questo non è difficile immaginare
la ragione per cui il libro dell’Esodo sia diventato per molti un testo davvero
rivoluzionario.
In chiave biblica, per essere davvero liberi bisogna anzitutto essere e sentirsi
liberati. Come Mosè, che porta iscritto nel suo nome il paradosso di chi potrà
salvare gli altri dalle acque solo perché prima è stato salvato a sua volta dalle acque
(cfr. Es 2).
In chiave biblica, per essere davvero liberi bisogna imparare ad interloquire
con Dio su tutto: come Mosè, che non ha mai nascosto i suoi dubbi e i suoi
“perché?” sin dal momento della sua vocazione (cfr. Es 3).
In chiave biblica, per essere davvero liberi bisogna saper sfidare con coraggio
i faraoni del mondo, quelli che stanno fuori e dentro di noi: come Mosè che confida
nel solo Dio che è Signore della vita e della morte (cfr. Es 7-11).
In chiave biblica, per essere davvero liberi bisogna imparare ad attraversare i
marosi della vita con la compagnia di Dio (cfr. Es 12-15).
In chiave biblica, per essere davvero liberi bisogna percorrere a lungo e con
pazienza le strade pietrose del deserto: lì si apprende ad apprezzare il dono
dell’acqua, a raccogliere umilmente un po’ di manna ogni giorno, ma soprattutto a
fidarsi di Dio e a servirlo con umiltà (cfr. Es 15-16).
In chiave biblica, per essere davvero liberi bisogna imparare che la libertà si
paga a caro prezzo: con la fedeltà matura e l’obbedienza umile al Dio dell’alleanza,
al Dio della Torah (cfr. Es 19).
Forse l’icona più plastica in questo senso è quella di Mosè contenuta in un
piccolo episodio del capitolo 33 del libro dell’Esodo. Mosè chiede a Dio, con un una
buona dose di audacia, di mostrargli la sua Gloria e si sente rispondere:
«Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la
mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano,
finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il
mio volto non lo si può vedere» (Es 33,18.21-23).
Mosè si sente libero di avanzare al suo Dio una richiesta un po’ legittima, un
po’ sfrontata: gli chiede di vederlo in faccia, forse perché pensa che così sarà felice.
Dio gli risponde proponendogli di vederlo sì, ma di spalle. E Mosè accetta.
28
Cfr. J. MOLTMANN, Il linguaggio della liberazione (Nuovi Saggi, 13), Queriniana, Brescia 1973.
11
DIONISIO CANDIDO
Il libro dell’Esodo. La libertà di servire Dio
In fondo, cosa vuol dire “vedere Dio di spalle”? Significa che Dio chiede a
Mosè di seguirlo: perché si vedono le spalle della persona che precede, che guida,
che fa da maestro saggio ed esigente, da padre buono.
Mosè impara così l’ennesima lezione dell’esodo: la libertà di seguire e servire
Dio. Il Dio dell’esodo non promette la felicità, ma la libertà29.
d. Dionisio Candido
29
Cfr. P. WATZLAWICK, La realtà della realtà. Comunicazione – disinformazione – confusione, Astrolabio, Roma
1976, p. 71.
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