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Introduzione
L’islam plurale d’Europa
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L’islam e gli islam
Nonostante la percezione comune rimandi a un’idea unitaria,
quasi monolitica, l’islam è una realtà plurale. A voler essere
provocatori, potremmo esprimerci in maniera anche più radicale. E affermare che, in un certo senso, che specificheremo tra
poco, l’islam non esiste: esistono gli islam. Del resto, non si
tratta di una peculiarità del solo islam. Nel senso che indicheremo, neanche il cristianesimo o l’ebraismo esistono: o meglio,
non esiste un solo cristianesimo, né un solo ebraismo.
Certo, siamo ben consapevoli che esistono – più che come
realtà, come riferimenti che assumono realtà per il fatto che
sono richiamati ed evocati – degli universali culturali e religiosi
che chiamiamo ebraismo, cristianesimo, islam (e altri ancora,
naturalmente), tra loro distinguibili: anche se assai meno facilmente distinguibili, a un’indagine ravvicinata, di quanto si potrebbe supporre a un primo sguardo, o sulla scorta dei nostri
pre-giudizi, e ovviamente al di là anche di quanto attestano i
difensori della specificità dell’uno o dell’altro.
Ma nel solco indicato dal nostro metodo di approccio, a sua
volta determinato dalla nostra disciplina di riferimento (all’ingrosso, lo sguardo interpretativo proprio delle scienze sociali),
possiamo, anzi dobbiamo – per fedeltà all’oggetto di studio,
non per una cieca sudditanza al metodo prescelto – constatare
una pluralità ineliminabile, tale da consentire l’individuazione
di caratteri peculiari, anche all’interno di ciascuno degli universali citati: ci sono insomma molte facce diverse della medesima
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realtà. E talvolta, di converso, delle somiglianze e delle sovrapposizioni talvolta stupefacenti e inattese tra parti di universi culturali differenti: per cui può accadere che modi di intendere alcune modalità e pratiche religiose siano vissute in maniera molto simile tra cristianesimo e islam, o tra ebraismo e islam (o
meglio, tra alcuni gruppi di ebrei, cristiani e musulmani), e conoscano invece differenze radicali nel modo di essere vissute e
interpretate all’interno stesso di questi singoli mondi.
Naturalmente, sia i caratteri peculiari che le somiglianze, e
non possiamo non tenerne conto, sono legate e si richiamano
tutte a quell’universale che, nel nostro caso, ha nome islam. Lo
attestano, innanzitutto, i riferimenti enunciati dai protagonisti:
che, come osservatori, siamo vincolati a prendere sul serio. La
“definizione della situazione” data dall’attore sociale fa testo,
proprio perché induce conseguenze personali e sociali fondamentali; ed è contesto, nel senso forte, etimologico, del termine,
un po’ perduto dall’uso quotidiano: con-tessuto (da contextum,
participio passato di contexere), “tessuto con, intrecciato”. Se
l’attore si definisce musulmano, è chiaro che fa riferimento a un
insieme di credenze e di pratiche supposte come relativamente
unitarie, “intrecciate” e simili a quelle di coloro che come lui si
definiscono allo stesso modo, e questo che si trovi al Cairo, a
Dakar o a Milano: ed è quasi inevitabile che riduca ad unum
questi riferimenti, cioè che li viva, e si viva all’interno di essi,
come se fossero i medesimi; è questa del resto, spesso, la sua
percezione. È compito dell’osservatore verificare se una certa
pratica, o ancor più significativamente una certa credenza, assumono una funzione sociale, un contenuto, o addirittura un significato diverso a seconda della latitudine (in Senegal, in Arabia Saudita, in Indonesia, o in Europa), o magari del sesso, o
del ceto di appartenenza. L’osservatore, insomma, deve partire
dalla definizione della situazione data dall’attore sociale: ma
non può limitarsi ad essa.
Naturalmente l’elaborazione teologica e l’autopercezione islamica quasi sempre rifiutano l’enunciato da cui siamo partiti: per
esse l’islam è uno. Questo, per l’analisi sociologica, potrebbe essere considerato un problema secondario, alla lettera irrilevante:
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essa non si cura di definire la legittimità dottrinale, i confini del
sistema, qualunque sia l’ortodossia in questione. Ha più volentieri, come punto di partenza, l’ortoprassi, rispetto all’ortodossia; e semmai cerca di stabilire i legami tra l’una e l’altra, ma
senza necessariamente dare la priorità, o l’ultima parola, alla seconda. Non per mancanza di rispetto, o per inevitabile alternatività; ma semplicemente perché svolge un’altra funzione: fa,
insomma, un altro mestiere.
Non è però solo la teologia musulmana a insistere sull’unicità dell’islam. Sorprendentemente, a prima vista, questo è
anche il modo di ragionare dell’occidentale non musulmano
medio (e anche “medio-alto”). E qui il problema interpretativo si fa più serio. Siamo noi, spesso, ad adottare quel tipico
procedimento essenzialista che consiste nel definire una cultura, una religione (nel caso dell’islam, l’una e l’altra), per poi
dedurne a cascata come sono fatti i suoi membri: nel nostro
caso, i musulmani. Perdendo così la capacità di distinguere e,
in definitiva, di conoscere e ri-conoscere davvero: la pluralità
interna, innanzitutto.
Fa comodo, del resto, questo modo di procedere e quest’immagine ingannevolmente “monolitica”. Allo studioso, cui
facilita il compito di definire e di spiegare, tagliando la realtà
con l’accetta, a misura dei propri concetti e, magari, dei propri
pre-concetti. Al giornalista, cui consente di prendere per buona
qualsiasi generalizzazione senza bisogno di verifica, legittimato
in questo da chi, almeno nell’approfondimento degli studi, dovrebbe essergli superiore. Al politico che su questo tema specula, per lo stesso motivo, e per altri, anche più abietti. All’utente
finale, al destinatario del processo di comunicazione, che vede
così confermati i suoi pre-giudizi. E, paradossalmente, anche a
qualche musulmano, che trova modo di ri-conoscersi in maniera semplice e immediata in un sistema concettuale; in particolare all’imam e al credente ortodosso e al militante islamico radicale, all’islamista 1, che come ogni ideologo gioca lo stesso gioco di semplificazione della realtà, di riduzione del reale all’immaginario ideologico (una realtà troppo complessa, come è
sempre la “realtà reale”, sarebbe difficile da piegare a troppo
facili slogan: il popolo non capirebbe...).
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Possiamo dunque aggiungere che l’islam prodotto da una
certa proiezione fantasmatica occidentale, che lo vede come
universo monolitico e inquietante, in quanto tale non esiste.
Esiste però, e le sue conseguenze non sono di secondaria importanza, come incubo dell’Occidente e, specularmente, come
sogno, destinato a non avverarsi, dell’islam politico-ideologico.
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Islam di carta e islam di carne: tra principi e realtà
È vero: l’islam, per il credente, è uno solo, la verità è una sola.
Del resto così affermano spesso, in un certo senso senza davvero rendersi conto di quello che dicono, in tutte le sue implicazioni, credenti di tutte le fedi. Pochi hanno il coraggio, da credenti, di recarsi fin sull’orlo del precipizio, e di osservare da lì,
per esempio, il panorama della pluralità religiosa: un panorama
che dà le vertigini se partiamo dall’assunto che la verità è una,
e una sola religione è quella “vera” (del resto, il ragionamento,
a prenderlo sul serio, è valido anche all’interno delle religioni,
di fronte a interpretazioni tra loro contraddittorie e concorrenti). Pochissimi, poi, dall’orlo di quel precipizio hanno il coraggio di spiccare il volo, di esplorarlo, quel panorama a prima
vista inquietante. E nel timore di cadere e di perdersi i più non
si accorgono che potrebbero anche, invece, innalzarsi...
Certo, il Corano è uno solo. E naturalmente uno solo è il
modo ortodosso di essere musulmani: salvo scoprire che nell’islam, religione senza clero ufficiale e senza un centro riconosciuto, nessuno, diremmo costitutivamente, ha la patente per
definirsi ortodosso, né tanto meno l’autorità per dirlo degli altri, o per negarlo ad altri, o comunque per imporsi loro, e che
le molte ortodossie tra loro si contraddicono, si combattono.
Uno è il modo di pregare, uno il contenuto del credere, e così
via. Questo almeno il punto di vista “interno”.
Tuttavia il punto di vista “esterno” si pone in un’ottica diversa. In Occidente sappiamo – per l’esperienza fatta sulla nostra pelle, studiando innanzitutto la religione dominante dalle
nostre parti, il cristianesimo (ed è una scoperta che, in altro
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modo, ha fatto anche l’islam) – che sì, è vero, Cristo è unico, e
forse la verità, a un certo livello di astrazione, una sola: ma tanti sono i modi di credere, tantissime e non di rado tra loro contraddittorie le diverse reincarnazioni storiche di quest’unico immutabile principio, infiniti i comportamenti possibili a partire
dai medesimi riferimenti, testi sacri compresi. E in ciò non c’è
scandalo, nemmeno dal punto di vista religioso: è una verità
banale, intrinseca alle religioni, anche se quasi sempre combattuta dalle istituzioni che vorrebbero rappresentarle, senza riuscire a esaurirle.
Non c’è bisogno nemmeno dello sguardo esterno dell’osservatore, sociologo o meno. Si tratta di un’osservazione persino
ovvia, intrinseca in fondo alla sensibilità “abramitica”, se pensiamo che già il Talmud viene da sempre impaginato con un
testo al centro e i vari commenti, spesso tra loro contraddittori,
tutti intorno, a corona. E da allora non si è mai smesso di discutere. Nell’ebraismo, come nel cristianesimo, come nell’islam.
La fatica ermeneutica non prevede una soluzione, una fine. È la
fatica stessa della vita; anzi, una anche più difficile: quella di
darle senso.
Si tratta di qualcosa di più profondo del semplice contrasto
tra la verità (in particolare la verità dei testi), che sarebbe una e
immutabile, e le interpretazioni, che sono molte e variabili. A
proposito di esso, peraltro, già l’ermeneutica contemporanea ha
proposto di “rettificare” il nostro modo, culturalmente marcato,
di pensare anche le verità di fede, suggerendo di intenderle
come un cammino, un itinerario proiettato nel futuro (un
a-venire), più che un passato già acquisito, un dato, o peggio
una unità di misura, paradossalmente derivata e ricalcata dai
modelli matematici e dalle procedure sperimentali di verifica e
di falsificazione, come ci ha ricordato Paul Ricœur.
Ma questo è problema interno alle religioni, e ad esse lo lasciamo. Preferiamo fermarci qui, per manifesta incompetenza e
per non uscir di tema, oltre che di disciplina. Quel che ci interessava era porre il problema, ai nostri fini e in un certo senso
a nostra giustificazione: non è questa la sede per tentare di proporre anche una soluzione, che del resto forse non c’è, né sul
piano dell’ermeneutica né, men che meno, su quello della/e
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teologia/e. Quanto accennato ci basta per ribadire che quanto
diciamo, a proposito dell’islam, o almeno di un certo modo di
intendere l’islam – cioè che esso, al singolare, non esiste – vale
anche per un credente. Ma poiché molti preferiscono comunque – legittimamente – non riconoscervisi, ci limiteremo a ripetere in questo modo la frase da cui siamo partiti; ultima versione, riveduta e corretta, e basata sui fondamentali della nostra
disciplina di riferimento. L’islam, per un sociologo, non esiste.
Esistono gli islam, al plurale.
L’islam, insomma, ci appare uno solo finché non lo conosciamo. E, per scorno dei sapienti, mai questa pluralità è così visibile come nella differenza tra l’islam “di carta” e l’islam “di
carne”, distinzione diventata cifra caratterizzante del nostro
modo di pensare e di procedere 2. Nella differenza, cioè, tra l’islam descritto dai libri e dai giornali e quello incontrato (incarnato) nelle strade delle nostre città. Sembrerebbe ovvio: ma pochi si prendono la briga di andare a vedere, di confrontare, e
troppo spesso ci si accontenta delle spiegazioni scritte, di carta
appunto, trovate qua e là. Poco importa che siano descrizioni
della realtà come essa è o come la vorremmo o la immaginiamo: che siano insomma de-scrizione, copia dal vero, per così
dire, come tale anche empiricamente verificabile, o, al contrario, fiction.
Non vogliamo naturalmente confondere ciò che è di pertinenza dei principi e ciò che è di pertinenza delle realtà sociali
(anche se la tentazione di ricordare che le realtà sociali hanno
spesso avuto influenza sui principi, e non solo il contrario,
come implicitamente spesso si postula, è comunque forte). Sappiamo (di più: crediamo) che i principi hanno una loro autonomia rispetto alle loro incarnazioni, e come tali vanno non solo
rispettati ma anche analizzati. Lungi da noi l’idea di voler dedurre gli uni dalle altre. Ma non accettiamo neanche l’approccio contrario, il voler dedurre la realtà dai principi. Consideriamo tale modo di procedere altrettanto intellettualmente disonesto, e gravido di pericolose conseguenze, del suo contrario. È
per questo che abbiamo voluto sottolineare, al limite della provocazione intellettuale, che l’islam, in questo senso (così come il
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cristianesimo, e qualsiasi altro mondo cultural-religioso sufficientemente articolato e complesso), non esiste come realtà univoca, ma solo come realtà plurale. È per una scelta pedagogica,
se si vuole, e forse anche per un’opzione deontologica, che scegliamo, almeno in questa sede (dopo tutto di analisi sociologica), questo punto di partenza, quest’ottica particolare. Che non
consideriamo né l’unica legittima né la più esaustiva, né tanto
meno una scelta esclusiva, la sola possibile: al contrario, visto
che degli altri tipi di apporti e di indagini, ivi compresi quelli
più strettamente interni all’ottica religiosa, ce ne nutriamo noi
stessi, per indigenza nostra, e per autentica fame.
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“Meccano” e “ummico”: peculiarità dell’islam immigrato
Se molti sono dunque gli islam concreti, storici, e in fondo anche teologici, noi ci occuperemo qui di uno in particolare, assai
specifico (anche se a sua volta plurale al suo interno: anzi, forse
più plurale di altri, come vedremo tra poco): quello che è presente nella realtà sociale in cui viviamo: l’islam venuto, attraverso gli immigrati, in Europa. Un islam concettualmente particolare, per almeno due ragioni.
La prima è che si tratta di un islam in situazione di minoranza.
Non assimilabile dunque all’islam talvolta sbrigativamente riassunto nella formula delle “3 D” – din, dunya e dawla – cioè
religione, vita quotidiana (lett. il basso, l’esistenza temporale, la
vita terrena) e vita organizzata, collettiva, istituzionale, governo,
cioè nella sua forma moderna, Stato e comunque politica. Del
resto questa immagine, con cui viene spesso interpretato l’islam
maggioritario, è probabilmente un mero costrutto intellettuale
o, come è stato detto, un caso di “eccedenza culturale” 3, e non
implica comunque che l’islam sia inevitabilmente e irrimediabilmente quel monstrum teocratico totalitario e totalizzante che
abita gli incubi di un certo Occidente (che sono poi i sogni dell’islamismo radicale). È interessante peraltro notare – a sostanziare la nostra polemica nei confronti di certe letture tutte
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schiacciate sulla dimensione politica dell’islam, che non esitiamo a qualificare (esse, prima ancora dei soggetti cui si riferiscono) “fondamentaliste” – che la radice araba della parola
dawla, utilizzata per indicare un regno, una dinastia, e per
estensione un potere, significa anche alternanza, cambiamento,
instabilità, quasi a sottolineare l’inevitabile dimensione transeunte e peritura di qualsiasi struttura politica e in generale istituzionale (non a caso si usa anche per indicare il volgere delle
stagioni). Incidentalmente, ciò vale anche per la struttura religiosa, in quanto non esiste, come già si è detto, se non nella
minoranza sciita (e anche qui, in maniera plurale), un centro
legittimante in grado di erogare patenti di ortodossia come di
eterodossia (un clero sul modello ecclesiale cattolico, per capirci), e questa dimensione è, perciò, sostanzialmente soggetta alle
logiche dei poteri di fatto, della contrattualizzazione e della
contestazione ma anche della rigenerazione permanente. Il disequilibrio, in maniera molto moderna, è vissuto in sostanza
come strutturale. E se questo è vero per l’islam maggioritario e
dunque egemone, è tanto più vero per l’islam minoritario, quale è quello presente in Europa.
L’islam di minoranza non è perciò deducibile dall’immagine
dell’islam contenuta nell’islam “di carta” (quello serio: non,
quindi, quello dei giornali. Ci riferiamo alla parte più nobile
della tradizione arabistica e orientalistica, e ai testi stessi dell’autointerpretazione islamica). Precisamente perché tutta questa produzione considera sostanzialmente come un dato che l’islam sia maggioranza. Non potrebbe che essere così, del resto:
l’islam stesso si autodefinisce come tale. Non per caso è proprio dal momento in cui diventa maggioranza, a Medina, che
l’islam istituisce il suo calendario; e in questo suo spostarsi dalla Mecca a Medina, nella hijra del 622 d.C. (quella che noi
chiamiamo Egira, che non significa altro che migrazione), trova
la propria data di nascita. Non in quella del profeta Muhammad suo fondatore, ma in quella della sua comunità, la umma.
L’islam non nasce con un singolo, per quanto inviato da Dio,
ma con la comunità da questi fondata perché, come ha notato
Lewis, Muhammad «alla Mecca aveva predicato l’islam; a Medina poteva praticarlo» 4. Spostandosi dalla Mecca a Medina,
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infatti, l’islam, da gruppo minoritario, una setta mal tollerata e
marginale, diventa maggioranza, dunque legge, e governo. E
Muhammad, da guru di un movimento di rinnovamento religioso che, pure, pescava i suoi adepti più facilmente nel livello
basso che in quello alto della scala sociale (la vulgata islamica
vuole che lo stesso Muhammad fosse analfabeta, anche se il suo
mestiere di mercante e il suo ruolo di sposo della ricca Khadija
lo poneva ad un livello di status più elevato), diventa quello
che alla Mecca era solo per i suoi pochi seguaci: profeta e inviato di Dio, autorità religiosa ma anche politica, giuridica, militare persino; in tutti i sensi guida e condottiero. Qui, a Medina, e soltanto qui, nasce davvero la umma musulmana nel suo
significato storico forte, pregnante: ancora adesso così ricco di
conseguenze nell’autopercezione del credente musulmano.
Ora, il caso vuole che l’odierno islam europeo, a differenza dell’islam storico conquistatore di al-Andalus o di Sicilia,
si ritrovi in una situazione molto più “meccana” che non
“medinese”: minoranza appena tollerata, talvolta brutalmente
stigmatizzata, talaltra fraternamente accolta, ma comunque
soggetto debole e minoritario. Uno tra i tanti, e certamente
non dominante.
Oltre al suo carattere “meccano”, la seconda ragione che ci fa
parlare di una peculiarità dell’islam europeo è il suo carattere,
per usare un sintetico neologismo, “ummico” (da umma, comunità: parola che nell’uso comune include i musulmani nel loro
insieme). Nella storia dell’islam l’espansione, a partire dalla penisola araba dove è nato 5, è stata sempre originata da una
spinta in qualche modo etnica, anche se le etnie hanno potuto
di molto variare, e assumere in proprio il primato islamico e
l’incarico della sua diffusione: che si trattasse degli originari
combattenti arabi (plurali nei loro apporti interni, peraltro), dei
persiani, dei turchi, dei mongoli, e di quanti altri hanno preso
in mano, non solo metaforicamente, la spada dell’islam. Carattere etnico ugualmente plurale ha avuto anche la presenza in
Europa, in particolare nella Sicilia musulmana, che ci tocca più
da vicino. In questo caso, infatti, quando parliamo di dominazione islamica ci dobbiamo in realtà riferire a una pluralità di
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apporti, che vanno dagli aghlabiti sunniti (arabi, persiani e berberi), che costituiranno il grosso del primo corpo di spedizione
in Sicilia, ai kalbiti di obbedienza fatimida, di fatto assimilabili
allo sciismo, cui si dovrà la fase forse più incisiva di preminenza culturale dell’islam, quella che Francesco Gabrieli ha definito «l’età dell’oro dell’islam siciliano».
Questo carattere di pluralità si accentua in maniera molto
più marcata nell’Europa odierna, e nell’Europa meridionale in
maniera ancora più radicale e visibile che nell’Europa del centro-nord, dove almeno in parte sono ancora presenti delle primazie etno-nazionali, ancorché non esclusive, come è il caso dei
turchi in Germania, degli algerini in Francia e degli indopakistani in Gran Bretagna. Le provenienze sono comunque molteplici, è a stento identificabile un’etnia “dominante” (dominante,
in ogni caso, solo rispetto alle altre presenze immigrate), e
quando lo è numericamente (per esempio in Italia un terzo circa dei musulmani provengono dal Marocco) non lo è comunque fattualmente, non c’è una origine né un centro di potere
originario facilmente identificabile, nemmeno un finanziatore
occulto, distributore di islamodollari, cui talvolta sembrano lasciarsi andare alcune fantasie occidentali su una sorta di “grande vecchio” musulmano. Il panorama osservabile ci mostra invece una pluralità di presenze, una pluralità di apporti: in termini di scuole giuridiche (tutte compresenti; il che fa loro perdere molto del significato tradizionale, assimilandole sempre
più alle differenze di interpretazione talmudiche succitate), di
confraternite mistiche (molto più facilmente “incontrabili” in
tale diversità in Occidente che altrove, e le cui “frontiere” sono
in Europa più facili da attraversare), ma anche una pluralità di
etnie, una pluralità di “famiglie religiose” (sunniti di tutti i tipi,
sciiti, ismailiti ecc.). Non ultimo una pluralità di lingue: quelle,
molte, dei paesi di provenienza (arabo innanzitutto 6, turco,
persiano, urdu, wolof e molte altre); a cui bisogna aggiungere le
lingue europee, le lingue dominanti nei rispettivi paesi d’accoglienza: spesso le sole in cui, in qualche modo, tutti gli immigrati di provenienza musulmana possono comunicare tra loro, e
tanto più quanto più è lontano il momento dell’immigrazione, e
sempre più man mano che si passa dalla prima alla seconda, e
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poi terza generazione di immigrati (non più definibili come tali,
per la verità, visto che i figli e i nipoti, a differenza dei padri,
non si sono mai mossi).
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Una pluralità più visibile
Un musulmano emigrato in Europa scopre spesso qui il vero
significato della umma: andando a pregare in moschea, o vedendo i modi diversi di celebrare il sacrificio dell’aid al-kabir, o
costumi funerari diversi, modi diversi di vestire, di mangiare, di
rapportarsi tra i sessi, età in cui circoncidersi, e quant’altro.
Prima dell’emigrazione questi elementi dell’ortoprassi tradizionale venivano quasi invariabilmente attribuiti a una supposta
cultura musulmana d’origine; dopo, invece, sono bisognosi, ai
suoi stessi occhi, di motivazione altra. Qui, in Europa, si è infatti costretti a riconoscere la loro origine spesso non religiosa
ma etno-culturale: essi non sono più di per sé giustificati in
quanto unici e dominanti, come accade nei paesi d’origine,
questi sì più o meno “monoculturali”, o almeno in cui l’islam è
la cultura più visibile, quella che domina il panorama sociale e
impone il ritmo al vivere quotidiano.
Tutto questo porta inevitabilmente, nella prassi molto prima
che nella riflessione, a un confronto tutto diverso con l’immaginario “ummico”: molto più denso e “carnale” dell’immagine
oleografica, da catechismo, che se ne può avere laddove della
umma non si fa l’esperienza, ma ci si limita a richiamare la necessità, o a manifestare l’auspicio, che sia unita e magari anche
forte e potente.
Il musulmano medio ha forse solo un’altra occasione forte e
solenne per vedere e “toccare” la umma: in occasione dello
hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, che infatti è stato sempre il
luogo simbolico per eccellenza della sua rappresentazione. Ebbene oggi, in emigrazione, in Europa, in maniera certo meno
solenne ma più concretamente fattuale e “invadente”, questa
esperienza può farla tutti i giorni, e magari più intensamente,
frequentando la moschea nei giorni di ramadan, o andando con
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gli altri musulmani a festeggiare la rottura del digiuno o la festa
del sacrificio nel campo sportivo della città, come spesso accade. Lì la umma è già visibile: nel suo aspetto più nobile e spirituale di comunità di credenti riunita, e in quello talvolta fastidioso e, non di rado, scoperta inquietante e inaspettata per il
musulmano medesimo, di Babele in cui è difficile comprendersi
persino tra supposti simili, tra fratelli nella fede.
Noi ci occuperemo di questo islam, “meccano” e “ummico”.
Ma non faremo l’errore di considerarlo né idealtipico, in senso
weberiano, né rappresentativo. Non intendiamo con questo
islam spiegare quello che sta altrove, né tanto meno l’islam nei
suoi fondamenti e nei suoi principi, così come rifiutiamo il
modo di procedere contrario, che porta nei casi peggiori, forse
i più diffusi nei mass media, a confondere, poniamo, la presenza di moschee in Europa con gli attentati in Algeria, e a dedurre dai secondi chissà quali perniciose influenze sulla prima.
Ci accontenteremo di descrivere alcuni aspetti specifici di
questo islam, e quella che ci sembra essere una possibile linea
di tendenza. Anzi, nella buona logica della pluralità, un certo
numero di possibili linee di tendenza: non univoche, peraltro, e
talvolta tra loro francamente contraddittorie. I fatti sociali, nelle
società complesse, non sono mai semplici. E le spiegazioni
troppo semplici, troppo univoche, non rendono loro giustizia.
Rispondono più a un bisogno di sollievo dall’ansia dell’indecifrabilità del reale che a una decentemente oggettiva de-scrizione. È per questo che hanno successo 7.
Quello che presentiamo qui non vuole essere propriamente solo
un saggio, uno studio, distaccato e oggettivo, puramente scientifico, nella misura almeno in cui possono esserlo le scienze sociali. È questo, certamente, ma è anche dell’altro. Abbiamo anche un intento più scopertamente pedagogico, che ci sembra
corretto enunciare da subito: quello di proporre un pacato tentativo di interpretazione di un fenomeno la cui lettura è spesso
“inquinata” da altri e assai meno pacati approcci, veicolati dai
mass media e non solo da essi. In questo senso è un atto deliberato di contrapposizione a molte delle letture correnti del fe26
INTRODUZIONE
nomeno: in ambito politico, religioso, giornalistico, ma anche,
talvolta, accademico (scientifico è spesso dire troppo). Se è un
saggio, dunque – e crediamo lo sia –, lo è nel senso originario,
e più “aperto”, proposto da Montaigne quando introdusse il
genere nei suoi celebri Essais: insieme “esperimento”, “esperienza”, “assaggio”, “tentativo”. Non molto di più. Il che è inevitabile, del resto, analizzando un fenomeno in divenire, e proponendo alcune interpretazioni non solo del passato e del presente, ma anche delle possibili evoluzioni future.
Ma forse più che un saggio questo scritto è meglio definibile come un discorso: un tentativo di “correre di qua e di là”
(dis-currere) alla ricerca della comprensione di un fenomeno
che, del resto, non sta nelle pagine dei libri, ma è incontrabile e
riscontrabile solo incarnato, nella frequentazione delle persone
che ad esso si richiamano, e che in questi anni siamo andati
incontrando; persone che, almeno in questa fase, hanno probabilmente troppo altro da fare per occuparsi di mettere per
iscritto quanto accade loro.
Questo è il compito di chi si ritrova a “inciampare” nel fenomeno, a osservarlo, a sforzarsi di intenderlo e di farlo intendere. Questo, insomma, è il compito nostro. Di quelli almeno,
tra di noi, che non si accontentano delle facili spiegazioni, e
che hanno voglia di compiere lo sforzo per nulla tranquillizzante del comprendere: e solo poi, eventualmente, di giudicare.
Note
1. Definizione mutuata dall’uso corrente francese (anche se in italiano
tale dizione si confonde ancora, talvolta, con il significato di studioso dell’islam, che dovrebbe più propriamente essere definito, come in francese, islamologo), che preferiamo a quella più diffusa ma più imprecisa, e dopo tutto
derivata dal mondo cristiano, in specifico protestante, di fondamentalista.
2. «Felice icona», l’ha benevolmente definita qualcuno (M. Nordio, L’islam e il problema della minoranza, in I. Siggillino, a cura di, I luoghi del
dialogo. Cristiani e musulmani in Italia, CENS, Milano 1997): oggi talvolta ripresa anche da alcuni responsabili musulmani, nei loro interventi pubblici.
3. In cui «le rappresentazioni sociali prendono il sopravvento sui fatti
reali e li caricano di un significato simbolico e mitico eccezionale»; E. Pace,
Islam e Occidente, Edizioni Lavoro, Roma 1995.
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4. B. Lewis, Gli Arabi nella storia, Laterza, Roma-Bari 1998.
5. Non molto lontano da dove sono nati ebraismo e cristianesimo, tra
l’altro, il che la dice lunga sulla pertinenza della terminologia utilizzata quando si parla di islam e di Occidente come di mondi alter-nativi, e quando li si
confronta come tali. Incidentalmente, quando noi l’abbiamo fatto (in L’Occidente di fronte all’islam, Franco Angeli, Milano 1996), è stato per esprimere
modestamente la tesi che lo sono molto meno di quanto credono di esserlo.
Per dirla secondo l’espressione di Lévi-Strauss, che manifestava così tutto il
suo disagio di antropologo affascinato dall’alterità assoluta, dall’altro-da-sé
“primitivo”, moderno testimone (moderno anche in questa sua ricerca, diremmo) quale l’antropologo, dopo tutto, è: «Conosco fin troppo bene il motivo
del disagio provato in vicinanza dell’Islam: ritrovo in esso l’universo da cui
provengo; l’Islam è l’Occidente dell’Oriente» (C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il
Saggiatore, Milano 1960).
6. E sarebbe anche in questo caso più corretto declinare la parola al plurale. Se è vero, infatti, che la lingua del Corano è l’arabo da noi detto classico, è anche vero che una buona parte degli immigrati parla l’arabo “dialettale” del paese d’origine, e intende con maggiore difficoltà l’arabo colto della
tradizione islamica. Non per caso si parla per i paesi arabo-musulmani di diglossia (da non confondere con il bilinguismo), cioè dell’esistenza di una lingua alta, colta, delle élite (ivi comprese quelle “sacerdotali” degli ulama), e di
una lingua popolare, quotidiana, quella in cui si svolge lo scambio sociale.
7. Penso al potenziale seduttivo di alcuni ragionamenti proposti di recente nel dibattito italiano sull’islam, prima ma soprattutto dopo i fatti dell’11
settembre: alle dure prese di posizione di noti intellettuali come di ignoti politici in scala locale. Ad alcune prese di posizione (tanto per non far nomi,
Fallaci, Sartori e qualche altro) ho provato a rispondere, molto direttamente,
nel mio La tentazione della guerra. Dopo l’attacco al World Trade Center: a
proposito di Occidente, islam e altri frammenti di conflitto tra culture, Zelig,
Milano 2001.
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