Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo

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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – TERZA SEZIONE PENALE
SENTENZA 20 gennaio 2016, n. 2210
A cura di LORETTA RAPISARDA
Disapplicazione della disciplina della prescrizione per i gravi reati che colpiscono gli interessi
finanziari dell’Unione europea
1. Premessa
Con la sentenza n. 2210 del 20 gennaio 2016, la Corte di Cassazione, per la prima volta a livello
nazionale, ha ammesso la possibilità di una disapplicazione contra reum in diritto penale.
Il problema che la Corte si è trovata ad affrontare nella sentenza in epigrafe riguarda
l’applicabilità o meno al reato di frode in materia di IVA della prescrizione maturata in base al
combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p..
I giudici di legittimità, adeguandosi al diktat della Corte di Giustizia U.E. (sentenza 8 settembre
2015, Grande Sezione, causa C-105/14, cd. sentenza Taricco), ritengono di dover disapplicare le
norme che prevedono un termine massimo di prescrizione pur in presenza di atti interruttivi
perché ritenute in contrasto con il diritto europeo e lesive degli interessi finanziari dell’Unione.
La pronuncia in esame è particolarmente significativa sia perché, come detto, disapplica la
norma penale con effetti in malam partem per l’imputato, sia perché interpreta in maniera
restrittiva il principio di legalità.
Sotto il primo profilo è d’obbligo osservare come, se la disapplicazione di norme nazionali in
contrasto con la normativa comunitaria è ormai da tempo ritenuta legittima, nel caso di specie la
questione è estremamente delicata poiché le conseguenze di tale disapplicazione producono
effetti sfavorevoli per l’imputato, il quale verrà condannato per un fatto ritenuto dalla legge
penale nazionale non più punibile in seguito al decorso del termine prescrizionale.
Sotto il secondo profilo, dopo aver chiarito quali sono le condizioni di operatività dell’obbligo
di disapplicazione imposto al giudice nazionale, la terza Sezione si preoccupa di spiegare perché
tale obbligo non è in contrasto con il principio di legalità, delimitando il significato di
quest’ultimo.
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La pronuncia in commento offre, innanzitutto, lo spunto per alcune brevi considerazioni in
merito allo stato del processo di “europeizzazione” del diritto penale.
2. Rapporto tra ordinamento sovranazionale e ordinamento nazionale in
materia penale
Prima di analizzare la sentenza in commento, e per meglio comprenderne il carattere innovativo,
è necessaria una breve riflessione di carattere generale sullo stato attuale dei rapporti tra diritto
dell’UE e diritto nazionale.
Le principali questioni problematiche attengono a due profili: da un lato alla possibilità di una
competenza penale diretta dell’UE, e, dall’altro, alla influenza indiretta delle norme dell’UE
sull’applicazione del diritto penale interno.
Sotto il primo profilo è indiscutibile ancora oggi, nonostante il continuo evolversi del processo
di integrazione europea, il fatto che le fonti europee non possono introdurre fattispecie
incriminatrici direttamente applicabili nel territorio nazionale.
È pacifico, infatti, che il diritto penale non rientra nelle competenze dell’UE, ma in quella di
ciascuno Stato membro.
Molteplici sono gli ostacoli che si frappongono al configurarsi di una competenza penale diretta
dell’Unione europea.
Innanzitutto il deficit di democraticità che caratterizza gli atti normativi dell’Unione.
Ed invero, sia il Consiglio al quale sono fondamentalmente attribuiti i poteri normativi in seno
all’Unione, sia la Commissione, sono privi di un’adeguata rappresentatività popolare e manca
loro pertanto la legittimazione democratica necessaria all’emanazione di norme penali.
Com’è noto, infatti, in materia penale vige il principio costituzionale della riserva di legge (art.
25 Cost.), inteso come riserva di legge statale, il quale attribuisce esclusivamente al Parlamento
nazionale (quale unica istituzione in grado di garantire la rappresentanza degli interessi di tutti i
cittadini) la competenza ad emanare norme penali incriminatrici.
In secondo luogo il fatto che nessuna norma dei Trattati attribuisce alle istituzioni europee la
competenza ad emanare norme penali incriminatrici direttamente applicabili nei territori degli
Stati membri.
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A ciò deve aggiungersi, infine, il fatto che l’art. 117, comma 2, lettera l), Cost., sancisce la
potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento penale”.
Il divieto di introdurre direttamente fattispecie penali incriminatrici nei singoli ordinamenti
statali non esclude, tuttavia, che le istituzioni europee possano esercitare un’influenza indiretta
sui sistemi penali nazionali.
L’interazione tra fonti europee e norme penali si realizza principalmente secondo due modalità.
Pur esclusa una potestà legislativa penale diretta delle istituzioni europee, è oggi ormai pacifico
che dal diritto di fonte europea possono discendere obblighi di prevedere sanzioni che sino
adeguate, sufficienti e proporzionate (e che possono avere anche natura penale) a tutela di beni
di rango comunitario.
Si tratta comunque di una soluzione che passa attraverso l’intermediazione degli Stati membri,
ed è per questo che non è in contrasto con il principio di legalità.
Il diritto dell’Ue incide, altresì, su quello nazionale nei casi di conflitto tra le norme dei due
ordinamenti.
In tali ipotesi si applica il principio del primato del diritto europeo, in forza del quale il giudice
nazionale è obbligato a dare diretta applicazione alla norma comunitaria, disapplicando nel caso
di specie la norma interna.
L’affermazione di tale effetto disapplicativo prodotto dalla norma sovranazionale nei confronti
delle norme penali ha richiesto un lungo tempo di maturazione, essendosi per molti anni ritenuto
che il diritto penale, in quanto prerogativa nazionale, non potesse essere scavalcato dal diritto
comunitario.
Ancora oggi, in realtà, seppur è ammessa la disapplicazione con effetti in bonam partem per
l’imputato, si deve invece escludere che il diritto dell’Ue possa comportare una disapplicazione
della normativa nazionale con effetti contra reum.
Proprio questo principio è stato scalfito dalla sentenza in commento sulla scia di quanto
affermato dalla Corte di giustizia nella nota sentenza Taricco.
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3. L’oggetto della pronuncia: la prescrizione per i reati di frode in materia di
IVA
Con la decisione in commento la Corte di Cassazione affronta il delicato tema della prescrizione
in materia di reati tributari, inserendosi appieno nel dibattito relativo alla tutela degli interessi
finanziari dell’Unione europea.
In particolare, il ricorrente era stato condannato in primo grado per il delitto di cui all'art. 2
d.lgs. 74/2000 in relazione a numerose fatture per operazioni inesistenti poi confluite nelle
dichiarazioni relative ai periodi di imposta dal 2004 al 2007.
Il problema su cui si è interrogata la Terza Sezione è se può o meno rilevarsi d'ufficio la
prescrizione, intervenuta nel frattempo nelle more del giudizio di legittimità, limitatamente al
periodo d’imposta del 2005.
Nel caso di specie, la normativa nazionale su cui si fonda l’avvenuta prescrizione è quella
stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, e dell’articolo 161 c.p., i quali
stabiliscono che l’atto interruttivo, verificatosi nell’ambito di procedimenti penali, comporta il
prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale.
Tali termine rischia però di essere troppo limitato e, pertanto, di vanificare l’efficacia delle
norme penali, non assicurando una tutela effettiva in un numero rilevante di procedimenti.
Questo problema si pone con particolare forza nelle ipotesi di reati di frode in materia di IVA, in
cui la previsione di un termine massimo di prescrizione pregiudica, oltre agli interessi nazionali,
gli interessi finanziari dell’UE.
La soluzione prospettata dalla sentenza Taricco e seguita dalla Corte di Cassazione nel caso di
specie, ossia la disapplicazione della disciplina in esame (con conseguente condanna
dell’imputato per un fatto ritenuto dalla legge penale nazionale non più punibile in seguito al
decorso del termine prescrizionale), se da un lato rende effettiva la tutela rivolta agli interessi
finanziari dell’Unione dall’altro finisce però con l’entrare in possibile contrasto con il principio
di legalità in materia penale.
La sentenza in commento tenta di risolvere il dilemma cui sono sottoposti i giudici nazionali,
ossia scegliere tra l’adeguarsi all’obbligo di punire chi abbia compiuto frodi in danno del
bilancio dell’Unione e il rispetto del principio di legalità.
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4. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea: il caso Taricco
La sentenza Taricco, richiamata dalla pronuncia in commento, si è interrogata proprio sulla
conformità al diritto dell’Unione della normativa nazionale in tema di termine massimo di
prescrizione.
Con questa sentenza la Corte di Lussemburgo afferma che la disciplina nazionale della
prescrizione (e, in particolare, della previsione di un termine massimo in presenza di atti
interruttivi) è in contrasto con le norme europee poiché determina, in concreto, la sistematica
impunità delle frodi in materia di IVA, lasciando senza tutela adeguata gli interessi finanziari
italiani e dell’Unione Europea.
Afferma, innanzitutto, la Gran Camera “che, in base al combinato disposto della direttiva
2006/112 e dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, gli Stati membri hanno non solo l’obbligo di
adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che l’IVA dovuta nei
loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma devono anche lottare contro la frode”.
L’applicazione di una normativa come quella italiana rischia, invece, di assicurare un’impunità
di fatto non permettendo una lotta efficace contro la frode in materia di IVA.
In particolare, chiarisce la Corte, l’articolo 325 TFUE impone agli Stati membri l’obbligo di
“lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure
dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva
degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode
lesiva dei loro interessi finanziari”.
La previsione di un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti
interruttivi, viola il diritto dell’UE sotto diversi profili.
In primo luogo infrange l’obbligo di adottare tutte le misure dissuasive ed effettive, idonee a
combattere le frodi lesive degli interessi finanziari dell’UE.
“Se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni
applicabili, che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di
una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti
dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle
disposizioni della direttiva 2006/112 e all’articolo 325 TFUE, possono tuttavia essere
indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi
di gravi frodi in materia di IVA.”
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“Occorre del resto ricordare che, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF,
gli Stati membri devono prendere le misure necessarie affinché le condotte che integrano una
frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive,
proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative
della libertà.”
In secondo luogo viola l’obbligo di prevedere le stesse misure adottate dagli Stati per
combattere i casi di frode di pari gravità che ledono i loro interessi finanziari.
Le misure sanzionatorie previste, oltre ad essere dotate di carattere effettivo e dissuasivo, infatti,
“devono essere le stesse che gli Stati membri adottano per combattere i casi di frode di pari
gravità che ledono i loro interessi finanziari”.
Osserva la Corte di giustizia come l’ordinamento italiano, invece, non assicura uguale
trattamento alle frodi contro imposte solo nazionali e quelle di pertinenza dell’Unione come
l’IVA, considerato che il termine massimo di prescrizione di cui gli artt. 160 e 161 c.p. non
opera nel caso di associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all’art. 291-quater
d.P.R. 23 gennaio 1943 n. 436, mentre opera per le associazioni finalizzate alle frodi in materia
di IVA.
Il carattere innovativo della sentenza però non riguarda questo aspetto.
Ed invero, è ormai assolutamente consolidato nella giurisprudenza comunitaria l’obbligo (che
ha oggi anche una sua canonizzazione nei trattati) di prevedere sanzioni che siano adeguate,
sufficienti e proporzionate e che possono avere anche natura penale.
Piuttosto la questione più delicata, affrontata dalla Grande Sezione nel caso Taricco, concerne le
conseguenze che il giudice nazionale è chiamato a trarre dalla verifica dei profili di violazione
del diritto UE, in ragione del principio del primato del diritto UE rispetto a quello nazionale.
Ed invero, la Corte di giustizia afferma ora l’obbligo per il giudice penale italiano di
disapplicare il combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p. nella misura in cui egli ritenga che
tale normativa – fissando un limite massimo al corso della prescrizione – impedisce allo Stato
italiano di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell’Unione
imposti dall’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione.
La Corte di giustizia è perentoria al riguardo, ed afferma che “Qualora il giudice nazionale
giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli
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obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta
contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto
dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la
conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere
la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro
procedimento costituzionale”.
In verità, il principio della disapplicazione enunciato dalla sentenza è ormai ampiamente
consolidato nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, innovativa è soltanto la
previsione, nel caso di specie, di un effetto contra reum.
Per concludere, la Corte di Lussemburgo affronta anche il problema di un eventuale contrasto
con il principio di legalità.
A tal proposito, osserva la Gran Camera, “la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui
trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale
nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei
fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni
volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica
italiana.”
Sulla base di tali considerazioni la Corte giunge ad una conclusione: “Una disapplicazione del
diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’articolo 49
della Carta.”
Tale conclusione è, inoltre, avvalorata anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo relativa all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, secondo la quale “la proroga del termine di prescrizione e la sua
immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della
suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta
a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora
prescritti”.
Alla luce di tali considerazioni, il giudice nazionale, ricorrendo i presupposti indicati dalla
sentenza Taricco, ha l’obbligo – discendente direttamente dal diritto dell’Unione – di
condannare l’imputato ritenuto colpevole del reato ascrittogli, senza tener conto dell’eventuale
decorso del termine di prescrizione calcolato sulla base degli artt. 160 e 161 c.p.
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5. La sentenza della Cassazione
La Cassazione, con la pronuncia indicata in epigrafe, dopo aver ripercorso i passaggi
fondamentali della decisione della Corte di giustizia, perimetra l’area di applicazione della
sentenza.
In particolare, i giudici di legittimità individuano tre condizioni di operatività dell’obbligo di
disapplicazione enunciato dalla sentenza Taricco.
Innanzitutto, è stato rilevato come “la Grande Sezione non pretende tout court la
disapplicazione dei termini di prescrizione previsti dall’art. 157 c.p., che in quanto tali vengono
giudicati del tutto compatibili con gli obblighi dell’UE”, né tantomeno, afferma la pronuncia in
commento, la sentenza si occupa della disapplicazione degli atti interruttivi, ma si limita a
delegittimare la previsione di un termine massimo pur in presenza di atti interruttivi.
“A dover essere disapplicata, chiariscono i giudici comunitari, è soltanto l’ultima proposizione
dell’ultimo comma, successiva al punto e virgola, ove si dispone che “in nessun caso i termini
stabiliti nell’art. 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all’art. 161, secondo
comma, fatta eccezione per i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di
procedura penale”.
Seguendo tale impostazione il termine ordinario di prescrizione ricomincerà a decorrere dopo
ogni atto interruttivo, senza essere vincolato da limiti massimi stabiliti dalla legge.
In secondo luogo, la Corte di Cassazione chiarisce come l’obbligo enunciato dalla sentenza
Taricco “non concerne soltanto i procedimenti relativi alle “frodi” in materia di IVA”,
nonostante il caso affrontato riguardi proprio tali tipi di reato, “ma teoricamente potrebbe
estendersi a qualsiasi reato tributario che comporti, nel caso concreto, l’evasione in misura
grave di tributi IVA”.
Infine, affinché il giudice interno abbia l’obbligo di disapplicare la normativa in tema di
prescrizione, è necessario che la frode (o eventualmente il reato in materia di IVA) di cui si
controverte assuma connotati di gravità tali da mettere seriamente a repentaglio gli interessi
finanziari dell’Unione Europea.
Su questo punto, però, si rileva una criticità: in mancanza di indicazioni da parte della Corte
europea circa la soglia minima di gravità in presenza della quale scatta l’obbligo di disapplicare,
sarà compito della giurisprudenza stabilire il limite oltre il quale si deve ritenere che il giudice
nazionale abbia l’obbligo di disapplicare.
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Nel delimitare l’operatività dell’obbligo enunciato dalla sentenza della Corte di giustizia, si
osserva come i giudici di legittimità sembrano voler porre in evidenza un punto: le regole
limitative del termine di prescrizione non sono in sé incompatibili con il diritto dell’Unione, ma
solo in quanto impediscano una tutela effettiva degli interessi finanziari dell’UE.
La prima parte della sentenza in esame si conclude osservando come tutte le condizioni
individuate sono riscontrabili nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, motivo per cui
la stessa decide di ritenere disapplicabile la normativa nazionale e ritenere i reati contestati non
ancora prescritti.
La parte più interessante della pronuncia è, però, quella relativa alla compatibilità degli obblighi
posti a carico del giudice nazionale dalla sentenza Taricco con il principio di legalità in materia
penale.
La Corte di Cassazione nega la possibilità di rimettere la questione alla Corte costituzionale
affermando che “nel caso in esame non vi sono sufficienti ragioni per sollevare una questione
di legittimità costituzionale, dal momento che è evidente la mancanza di contro limiti e di dubbi
ragionevoli sulla compatibilità degli effetti della imposta disapplicazione con le norme
costituzionali italiane”.
Ed invero, in via preliminare, i giudici di legittimità osservano come “la stessa Corte di
giustizia ha affrontato il problema se la disapplicazione di una norma del codice penale in
materia di prescrizione contraria al diritto dell’UE, con effetti sfavorevoli per l’imputato, violi
di per se stessa il principio di legalità in materia penale” in quanto tale principio è un principio
fondamentale anche nell’ordinamento comunitario, perché previsto dall’art. 49 Carta dei diritti
fondamentali dell’unione (norma che recepisce il principio del nullum crimen di cui all’art. 7
CEDU).
Nell’ottica della Corte di Lussemburgo “la materia della prescrizione del reato attiene in realtà
alle condizioni di procedibilità del reato, e non è pertanto coperta dalla garanzia del nullum
crimen.”
In particolare, la Corte di giustizia dell’UE chiarisce che “i fatti commessi dagli imputati
integravano i reati previsti dalle norme allora già in vigore, ed erano passibili delle stesse pene
che oggi dovrebbero essere loro applicate: e tanto basta per garantire il rispetto del principio
di legalità, nella sua funzione di baluardo delle libere scelte d’azione dell’individuo (che ha
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diritto a non essere sorpreso dall’inflizione di sanzioni penali per lui non prevedibili al
momento della commissione del fatto)”.
La Cassazione condivide le affermazioni della sentenza Taricco e ritiene che le norme sulla
prescrizione sono totalmente estranee a questa “prevedibilità”, pertanto non si prospetta alcun
dubbio di illegittimità costituzionale considerato che non sussiste per l’individuo un affidamento
meritevole di tutela.
Inoltre, osserva la Suprema Corte, la specifica norma di cui all’ultima parte del terzo comma
dell’art. 160 c.p. e del secondo comma dell’art. 161 c.p. “non gode - anche secondo la
giurisprudenza costituzionale, oltre che secondo quella europea – della copertura della citata
norma costituzionale di cui all’art. 25”.
A tal proposito precisa, altresì, che “non rileva nella specie, la questione, peraltro di natura
dogmatica, se la disciplina della prescrizione, o di alcuni elementi di essa, abbia natura
sostanziale o processuale, perché, quale che sia la risposta che si voglia dare dogmaticamente,
comunque la specifica norma che ci interessa non è coperta dalla tutela dell’art. 25 Cost. e
dall’art. 7 CEDU”.
I giudici di legittimità ci ricordano, inoltre, come non è la prima volta che applicando una
sentenza della Corte di giustizia si giunge ad una conclusione contra reum.
Già in passato, con la sentenza Niselli (sentenza 11 novembre 2004, C-457-02), la Corte di
giustizia aveva obbligato i giudici nazionali a disapplicare la norma nazionale che prevedeva
una interpretazione autentica della nozione di rifiuto favorevole al reo e successiva alla
commissione del fatto, perché ritenuta in contrasto con la normativa europea.
Osserva la Corte come, in questo caso, il principio di legalità non era violato perché la norma
più favorevole al reo, di cui si obbligava la disapplicazione, era successiva alla commissione del
fatto, mentre, al momento della condotta, il soggetto aveva in mente la nozione di rifiuto a lui
più sfavorevole e quindi poteva prevedere la sanzione.
Nel caso Taricco, invece, “la legalità penale non è violata in quanto la disciplina della
prescrizione (o almeno la disciplina della interruzione della prescrizione) ha, per la CGUE,
natura processuale. La legalità penale riguarderebbe insomma l’incriminazione e la garanzia
di libere scelte di azione da parte del cittadino, ma non avrebbe tale copertura l’affidamento
del cittadino «che le norme applicabili sulla durata, il decorso e l’interruzione della
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prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al
momento della commissione del reato»”.
Nella sentenza oggetto di commento, la Corte di Cassazione ritiene che anche nell’ordinamento
italiano le disposizioni in materia di prescrizione non rientrino nella copertura costituzionale del
principio di legalità e fonda tale affermazione su tre ragioni.
In primo luogo, osservano i giudici di legittimità, lo stesso legislatore italiano non ha sempre
convintamene aderito all’affermazione per cui la prescrizione è elemento sostanziale nella
fattispecie penale, ma sembra piuttosto averne riconosciuto la natura processuale, il che ha come
conseguenza una tutela meno intesa di quelli che sono invece gli elementi sostanziali della
fattispecie penale.
In particolare, la Cassazione ha affermato che il minor vigore della legalità processuale in sede
europea “sembrerebbe, secondo alcuni, “accettato” o “tollerato” dallo Stato italiano che
firmando il Quarto Protocollo alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1957 sulla
estradizione, nella cui formulazione si accetta il principio per cui il decorso della prescrizione
nello Stato richiesto non impedisce la consegna della persona allo Stato richiedente,
sembrerebbe testimoniare come anche per il legislatore la prescrizione non è propriamente un
elemento della fattispecie penale.”
Un secondo argomento, a sostegno del fatto che non viene violato il principio di legalità, è
ricavato dalla natura meramente "dichiarativa" e non "costitutiva" della sentenza della Corte di
giustizia.
Nel caso Taricco, osservano i giudici di legittimità, la Corte di Lussemburgo si limita a ribadire
una regola già presente nel sistema del diritto primario UE, e quindi vigente già al momento in
cui i reati per cui si procede sono stati commessi, con la conseguenza che gli imputati non
possono dolersi ora di un'applicazione, a proprio sfavore, di una norma già pienamente in vigore
al momento del fatto.
Infine, la Cassazione ritiene decisivo, a favore della tesi sostenuta, un passaggio della sentenza
n. 236/2011 della Corte costituzionale, nel quale quest'ultima afferma che è irrilevante la natura
della prescrizione perché emerge dalla stessa giurisprudenza europea che essa “non forma
oggetto della tutela apprestata dall’art. 7 della Convenzione” e pertanto non è sottoposta al
principio di legalità.
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Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione conclude affermando che il termine di
prescrizione, di cui all’art. 160 e 161 c.p., con riferimento alle frodi IVA gravi debba essere
disapplicato direttamente dal giudice nazionale, senza che vi sia la possibilità di rimettere la
questione alla corte costituzionale.
Infine la sentenza in commento fa alcune precisazioni.
Innanzitutto afferma che la disapplicazione non può provocare la reviviscenza di una norma
anteriore: “la disapplicazione della specifica norma indicata dalla sentenza europea non può
infatti comportare la reviviscenza parziale della precedente disciplina perché non incide sulla
norma abrogatrice (e sull’effetto abrogativo) ma, appunto, secondo la esplicita indicazione
della sentenza europea, comporta solo l’applicazione alla grave frode IVA del termine massimo
previsto per i reati di cui all’art. 51 bis c.p.p.: in questa mancata applicazione la sentenza
europea ha ravvisato il contrasto col principio del Trattato”.
In secondo luogo rileva come l’obbligo di disapplicazione enunciato dalla sentenza Taricco non
può nemmeno determinare la revoca della dichiarazione di estinzione del reato già intervenuta,
“perché il soggetto al quale l’autorità giurisdizionale abbia dichiarato estinto il reato
acquisisce un diritto soggettivo che prevale sulle istanze punitive dello Stato”.
Infine, per i reati oggi non ancora estinti per prescrizione, la Corte distingue due ipotesi: “a) se
la eventuale futura dichiarazione di prescrizione dipende dal mancato rispetto dei termini di cui
all’art. 157 c.p., nulla quaestio, non essendo stato questo punto toccato dalla pronuncia della
CGUE; b) se la eventuale futura dichiarazione di estinzione dipende invece dal meccanismo del
combinato disposto degli artt. 160, comma terzo, e 161, comma secondo, cod. pen., queste
norme devono essere disapplicate”.
Nel caso analizzato dalla Cassazione, pertanto, la disapplicazione delle norme di cui agli artt.
160 e 161 c.p. comporterà, per l’ipotesi di reati concernenti gravi frodi in materia di IVA, in
applicazione della regola già prevista da dette disposizioni per i reati di cui all’art. 51, commi 3bis e 3-quater, c.p.p., che il termine ordinario di prescrizione ricomincerà da capo a decorrere
dopo ogni atto interruttivo, senza essere vincolato a limiti massimi stabiliti dalla legge.
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6. Considerazioni conclusive
Alla luce delle sopra esposte considerazioni deve prendersi atto del fatto che la decisione in
esame rappresenta, in uno scenario come quello attuale, un passaggio epocale verso un diverso
modo di intendere i rapporti tra diritto dell’Unione europea e diritto penale.
La sentenza n. 2210 del 20 gennaio 2016, infatti, accogliendo le conclusioni proposte dalla
sentenza Taricco, determina una modifica in malam partem della situazione giuridica
dell’imputato fino ad oggi esclusa per contrasto con il principio di legalità.
Essa costituisce un esempio della sempre maggiore influenza che le fonti sovranazionali
svolgono sul diritto penale moderno, soprattutto in quei settori, come quello relativo ai reati in
materia tributaria, che incidono sugli interessi finanziari dell’Unione Europea.
Però, se è vero che la Cassazione con la pronuncia in commento ha aderito pienamente alle
conclusioni della sentenza Taricco, dobbiamo dare atto del fatto che nella giurisprudenza
nazionale si è fin da subito determinato un contrasto sul punto.
Ed invero, la Corte d’Appello di Milano, dopo aver rilevato che nel caso sottoposto alla sua
attenzione ricorrono le condizioni dalle quali la sentenza Taricco fa discendere l’obbligo di
disapplicazione delle norme di cui agli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p.,
ritiene che la disapplicazione di tali norme comporta la violazione del principio di legalità e
pertanto ritiene di dover invece rimettere la relativa questione alla Corte Costituzionale.
Significativa, al fine di stabilire un’eventuale nuova configurazione nei rapporti tra ordinamento
penale nazionale e diritto dell’Unione europea, sarà pertanto la decisione della Corte
Costituzionale, che presto dovrà esprimersi sul punto.
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