Linee di ricerca sul rapporto bambini-ambiente

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Linee di ricerca sul rapporto bambini-ambiente
Tanti modi di indagare sul rapporto bambini-ambiente
Silvia Caravita
Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del C.N.R.
Roma
Una premessa
“Questo ambiente non è soltanto ciò che ci circonda ma anche ciò che in noi rimane
delle sue caratteristiche precedentemente esperite” Questa citazione del pensiero di
Winnicott, che ho ripreso da una relazione di Boris Zobel, mi sembra illustri bene la
presa di coscienza che è alla base di studi e interventi: la distinzione tra noi e
l’ambiente nel quale ci formiamo come persone, nel quale viviamo è molto labile. Ciò
che è “esterno” a noi diventa “interno” secondo gli strumenti di percezione, di
elaborazione mentale, gli strumenti concreti di cui disponiamo e anche secondo i
bisogni e i desideri. C’è poi una parte di ambiente che è interna a noi per la storia
evolutiva del genere Homo che ci portiamo dentro. Ma contemporaneamente
proiettiamo noi stessi, lasciamo impronte, modelliamo l’ambiente secondo capacità,
bisogni, desideri che sono soggettivi, sociali e culturali. Un processo circolare in cui è
affascinante anche se difficile cercare confini e fare descrizioni stabili.
E’ sempre grazie a questa consapevolezza che le scienze dell’educazione hanno
spostato l’attenzione sugli ambienti di apprendimento piuttosto che su contenuti
d’insegnamento e metodi didattici presi singolarmente, e che utilizzano una visione
più sistemica per affrontare i problemi della formazione, del disadattamento, della
emarginazione.
La mia esposizione prova a sintetizzare e commentare alcune delle idee prodotte dalla
psicologia sulle relazioni tra bambini e ambiente; è guidata dell’orizzonte verso cui
tendiamo: una società di persone che si sentano responsabili del loro rapporto con
l’ambiente e del benessere che ne deve scaturire per entrambi. Da ex-biologa prestata
alla psicopedagogia collaboro da anni con insegnanti ed educatori per creare
condizioni favorevoli alla costruzione di persone che abbiano il desiderio, oltre che le
capacità, di interpretare il mondo intorno a loro, non solo per adattarvisi ma per
metterlo alla prova delle loro idee, desideri, sogni. L’educazione dovrebbe essere la
chiave per (ri-)modellare un tacito sentire in un interesse attivo.
Nei gruppi di lavoro ci siamo chiesti tante cose: che interesse hanno i bambini verso
gli ambienti in cui vivono? Che fattori influenzano le loro interpretazioni
dell’ambiente? Che tipo di messaggi ricevono sul tipo di ambienti a cui dovrebbero
essere attaccati? Che relazioni ci sono tra attaccamento all’ambiente e caratteristiche
fisiche dei luoghi? In che modo i bambini acquisiscono i valori relativi all’ambiente
che essi esprimono, anche con i loro comportamenti?
Come evitare che la tutta la novità, l’energia che ogni bambino porta nel mondo sia
soffocata dalle rappresentazioni sociali sui fenomeni ambientali, nelle quali è
immerso?
I risultati prodotti dalla ricerca psicologica qualche punto fermo lo hanno messo
(accanto a tanti buchi di conoscenza e incertezze) e questo può sostenere con
convinzioni più solide la progettazione della formazione.
L’influenza delle caratteristiche ambientali sullo sviluppo mentale, affettivo, sociale
del bambino rientra nel quadro teorico della psicologia moderna, ma per molti anni
l’attenzione prevalente è stata dedicata alla componente sociale dell’ambiente. Il ruolo
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delle stimolazioni sensoriali provenienti dall’ambiente fisico nelle prime esperienze di
vita è entrato successivamente nelle prospettive della ricerca empirica, e sono state
così raccolte osservazioni sui comportamenti, le preferenze dei bambini in relazione a
spazi interni ed esterni. Ancora più recente è l’interesse ad indagare il legame che i
bambini annodano con l’ambiente e le immagini mentali che vanno elaborando su di
esso. Per ambiente, sempre più si va intendendo quello urbano. Questa attenzione è
anche collegata all’emergenza di un altro ambito di indagine che teorizza
l’importanza di ascoltare i bambini e tener conto dei loro bisogni prima di progettare
luoghi e spazi loro destinati.
Il tema del legame tra bambini e natura ha radici antiche nella nostra cultura
occidentale che forse proietta sul bambino la nostra nostalgia culturale per un mondo
più stabile e più sicuro. E su questo è bene stare all’erta quando si interpretano “le
concezioni” dei bambini.
Una psicologa ambientale (Chawla, 1992) osserva che nella visione romantica del
XVIII e XIX secolo la natura e l’infanzia sono stati idealizzati e questo accadeva man
mano che l’industrializzazione erodeva la campagna e i bambini erano mandati nelle
fabbriche. Ci si augurava che le memorie di una infanzia in cui il bambino era stato
affettivamente attaccato alla bellezza della natura avrebbero avuto un effetto benefico.
Con l’espansione delle città è andato emergendo un ideale urbano in cui il vecchio
quartiere era apprezzato per le relazioni sociali più intime, gli stimoli sensoriali più
vividi, l’attività fisica, la diversità, le sfide che rendeva possibili, in contrasto con un
ambiente urbano che andava perdendo in accessibilità, varietà, intimità, ed era
dominato sempre più dal traffico. Forse il coinvolgimento dei bambini nella
progettazione degli spazi urbani rappresenta anche una speranza nel potere salvifico
di una presunta saggia ingenuità. D’altra parte, la nostra cultura mette l’accento sulla
autonomia individuale e sul controllo dell’ambiente e quindi giustamente si preoccupa
di come lo sviluppo di queste capacità sia vincolato dalle condizioni ambientali.
Il panorama di studi è dunque molto vasto: psicologia dello sviluppo, psicologia
clinica, psicologia cognitiva, psicologia ambientale, sociologia, ambiti
multidisciplinari come l’educazione ambientale e la progettazione partecipata.
Ne ho tratto ovviamente solo qualche spunto e penso che sia opportuno sottolineare
che i risultati di questi studi sono orientati da presupposti teorici, obbiettivi
conoscitivi e metodologie di indagine differenti.
Il contesto culturale e ambientale nei quali sono state fatte le indagini sono variabili
particolarmente rilevanti in questo tipo di analisi. Gran parte della letteratura
scientifica disponibile proviene da paesi anglosassoni, anche se tra loro molto diversi
culturalmente, come l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada. Altrettanto
rilevante è la variabile tempo. Nelle nostre società gli ambienti di vita e i nostri modi
di “abitarli”vanno cambiando molto velocemente e quindi certamente si modificano
anche i modi di rappresentarsi l’ambiente e di stabilire con esso delle relazioni, sia
come adulti che come bambini. Per questo è indispensabile che la ricerca accompagni
i progetti e gli interventi educativi in cui ci impegniamo.
L’attaccamento al luogo e l’identità di luogo
La psicologia ambientale definisce ambiente secondo una concezione ampia che
comprende lo spazio, le qualità e condizioni fisiche, affettive, sociali, culturali e
morali in cui vive una persona.
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E’ stato trasferito in questo ambito il concetto di “attaccamento” introdotto da Bowlby
che ha ricondotto a modelli di costruzione del legame madre-figlio differenze di
personalità e comportamentali dei bambini.
Quindi il costrutto di “identità di luogo” è così definito: “quelle dimensioni del sé che
definiscono l’identità personale di un individuo in relazione all’ambiente fisico,
personale attraverso un complesso pattern di idee conscie ed inconscie, credenze,
preferenze. Sentimenti, valori, scopi e tendenze comportamentali r capacità rilevanti
per quell’ambiente” (Proshansky e Fabian 1987).
Le ricerche sulle condizioni che favoriscono o impediscono nei bambini un
attaccamento positivo ai luoghi, come accade in un sano sviluppo, sono state fatte
interpretando i risultati da prospettive teoriche diverse e attraverso approcci
metodologici diversi.
a) teorie psiconalitiche: la relazione con l’oggetto è al centro di queste teorie. Si
prende in considerazione il ruolo dei luoghi e delle cose, all’interno del
contesto sociale, come uno dei principali ingredienti della esistenza psichica
umana. La percezione della realtà è interpretata come fonte di piacere e
l’attaccamento all’ambiente viene descritto come una oscillazione tra modalità
auto-centrica e allocentrica, quando prevale l’eccitazione prodotta dalla
scoperta. Si può sviluppare un autocentrismo secondario, se una persona
diviene così coinvolta in routines chiuse da percepire appena le cose se non
come oggetti di uso e la realtà come un cliché. Un ambiente che non cambia
può divenire il sostituto di un sicuro amore materno.
Alcuni autori (Erickson,1963) fanno risalire alle prime sensazioni positive o
negative legate all’allattamento una visione del mondo come benevolo o
pericoloso, frustrante. La paura del mondo e dei suoi non gestibili pericoli
viene compensata a volte attraverso tentativi di ipercontrollo sui luoghi, sulle
cose, sulle persone.
Searles (1959) usa il termine embeddedness (inglobamento) nell’ambiente per
descrivere una prima fase che viene superata o che comunque resta in
alternativa a - e in continua tensione con - la condizione di sentirsi in
relazioni molteplici e significative con un ambiente da cui si è capaci di
distanziarsi. Il passaggio da una iniziale indifferenziazione tra sé e il mondo
passa attraverso una fase di vivo senso di identità, un periodo di ambivalenza e
una matura acquisizione di senso di relazione con il mondo, che non esclude
sensazioni momentanee di unità col proprio ambiente. “Più il nostro senso di
relazione è liberato da trasferimenti e proiezioni distorcenti, più la nostra
esperienza dell’ambiente è soddisfacente dal punto di vista emotivo e (….) ne
deriva un senso di continuità, di stabilità, di certezza”.
Gli studi che si inquadrano in questa cornice teorica si avvalgono soprattutto
di osservazioni, videoregistrazioni, interviste agli adulti.
b) autobiografia ambientale: in questo tipo di indagini, il centro dell’attenzione è
il ricordo che gli adulti hanno dei luoghi che sono stati cari, importanti. Non
solo le caratteristiche fisiche dei luoghi sono risultate significative nei ricordi
delle persone. Affezione, ambivalenza, idealizzazione, trascendenza appaiono
come forme di attaccamento ai luoghi dell’infanzia, connesse anche con
aspetti socioeconomici e politici del contesto ambientale personale. Ambienti
felicemente ricordati formano un centro interno di stabilità e di calma nella
vita delle persone.
E’ necessario però sottolineare che il ricordo trasforma i fatti. Gli adulti
selezionano i ricordi d’ambiente della loro infanzia: gli aspetti percettivi
sembrano prevalere, le immagini sono frammentate, anche perché forse da
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bambini la modalità di rapportarsi all’ambiente è diversa da quella di un
adulto. Le esperienze infantili sono usate come chiavi di lettura delle
esperienze successive, dell’identità che l’adulto ha costruito.
La metodologia prevalente, in questo campo d’indagine, è l’intervista
strutturata, l’esame di documenti come le fotografie, oppure la richiesta agli
intervistati di disegni o mappe.
c) mappatura dei comportamenti: la frequentazione di luoghi da parte dei
bambini è il centro dell’attenzione per la rilevazione dei luoghi preferiti.
Ovviamente, nel trarre conclusioni si tiene conto di quanto la disponibilità dei
luoghi e la autonomia di scelta influenzino la frequentazione e di quanto la
visibilità ai ricercatori dei luoghi frequentati incida sui dati raccolti. I risultati
di questo tipo di studi sono quindi molto dipendenti dal contesto e risentono
molto delle decisioni degli adulti. Osservazioni sistematiche, interviste,
richiesta di compilare diari sono gli strumenti prevalenti.
Gli studi hanno riguardato per lo più lo sviluppo di bambini sani e non condizioni
patologiche. I luoghi procurano tre tipi di soddisfazione: sicurezza, affiliazioni sociali,
espressione di creatività e volontà esplorativa.
In sintesi, i risultati mostrano che:
- in età prescolare i bambini sono attaccati al luogo dove trovano sicurezza,
conforto, cure e dove possono esplorare e appropriarsi di cose che li
attraggono. La spinta verso un centro familiare è bilanciata, in condizione
ottimale, da una spinta verso l’esterno, verso le attrazioni del mondo. La
coordinazione tra queste due spinte ha successo tanto più alta è la qualità delle
relazioni e il senso di identità degli individui. Le esperienze dei luoghi sono
fortemente colorate dalla qualità dei principali legami affettivi, familiari e
sociali.
- In età scolare e pre-adoloscenziale, l’attaccamento riguarda una successione di
luoghi che espandono via via lo spazio di vita: da quelli vicino casa per i
giochi con altri bambini, maschi e femmine, a quello del paesaggio locale. I
confini sono oggetto di negoziazione con la famiglia, bilanciando connessione
e separazione in relazione alle caratteristiche sia dei bambini che
dell’ambiente, oltre che dei criteri culturali di cui sono portatori i genitori.
Nell’età in cui si costruisce una propria identità e una reputazione sociale, i
luoghi sono apprezzati anche per le possibilità che offrono di esibire le proprie
capacità (forza, destrezza, conoscenza) ai compagni e quindi permettono
giochi di gruppo. Secondo alcuni psicologi (Shepard, 1967) i ragazzi tra 6 e 12
anni sono geneticamente predisposti alla esplorazione e al legame con la
natura in quanto la nostra specie Homo acquisiva le abilità e le capacità di
percezione necessarie alla sopravvivenza proprio in questa fase della vita.
- In seguito si formano di nuovo gruppi misti e ri-appare un radicamento nei
luoghi vicini, però si osserva sia apprezzamento per gli spazi privati della casa
sia attrazione verso luoghi nuovi.
Tra luoghi più frequentati a diverse età e luoghi preferiti non c’è una sovrapposizione,
mentre c’è tra questi e i luoghi della memoria. Emergono anche differenze tra maschi
e femmine.
I ricordi autobiografici fanno emergere l’importanza degli ambienti fuori casa,
indipendentemente dal tempo passato in questi luoghi. I luoghi felicemente ricordati
sono associati ad un senso di libertà, al vagare e alla manipolazione fisica. Gli
ambienti interni appaiono come quelli di dominio degli adulti e dove le norme da
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seguire pesano. Una intimità indisturbata caratterizza i nascondigli e i luoghi che ci si
costruisce per isolarsi dalle tensioni interpersonali ed essere quieti.
Un dato interessante: la maggior parte degli ambientalisti, in interviste retrospettive,
attribuisce l’impegno verso l’ambiente alle tante ore passate durante l’infanzia o
l’adolescenza in luoghi aperti, “naturali”, e al contatto con un particolare adulto che
ha insegnato loro il rispetto per la natura.
Implicazioni per l’intervento educativo
Si può anzitutto chiedersi se è possibile ripensare alle caratteristiche degli ambienti in
cui i bambini passano gran parte del loro tempo, come la scuola o la casa.
Il piacere emozionale e fisico per un luogo dipende anche dalla possibilità di
esercitare dei diritti: di esserci, di uso e di azione, di appropriazione, di modifica, e di
poterne disporre. Per i bambini il godimento di questi diritti è legato a quanto gli
adulti tollerano o ignorano le loro attività. In spazi non pre-definiti e quindi che
possono essere abitati “creativamente” l’esercizio di questi diritti dipende dalla
malleabilità del luogo e dal fatto che gli adulti siano lontani. Permettere ai bambini di
intervenire nella strutturazione e nell’uso di spazi comuni e anche di disporre di
ambienti che sentano come indisturbati dovrebbe rientrare nella normale vita
scolastica.
Gli ambienti possono sostenere lo sviluppo della identità in due modi: attraverso
condizioni/situazioni convenzionali in cui i ragazzi possono sperimentare ruoli sociali
pre-definiti, oppure offrendo spazi non “programmati” dove sia possibile crearsi i
propri mondi privati. Il grado in cui l’ambiente permette di praticare ruoli sociali può
essere misurato da quanto rende possibili una gamma di situazioni e comportamenti.
E poi la mediazione didattica dell’insegnante, oltre che attività create con questi
obbiettivi e che magari si ispirano anche ad alcuni dei metodi utilizzati nelle indagini
scientifiche, possono far emergere i legami profondi che connettono noi all’ambiente,
che permeano la nostra storia personale. La poesia più che la relazione narrativa può
essere un mezzo congeniale ai bambini.
E non soltanto nel tempo dedicato all’ educazione ambientale si può cogliere
l’occasione per ragionare sui segnali che riceviamo dall’ambiente (dai tanti luoghi con
cui interagiamo in modi diversi), sulle differenze di percezione tra individui con storie
diverse o di età diversa, per riflettere sulle qualità dei legami rispetto alle qualità dei
luoghi, sui loro cambiamenti nel corso della vita e anche sui condizionamenti culturali
dai quali sono influenzati. Lo studio storico di un ambiente può aggiungere spessore e
realismo alle percezioni.
La concettualizzazione dell’ambiente come ecosistema
La rappresentazione di ambiente è sia di natura sociale e culturale che frutto di
esperienza ed elaborazione cognitiva personale. L’ambiente costituisce la nostra
cornice di riferimento e lo sfondo del nostro vissuto e, come hanno notato alcuni
autori (Grauman e Kruise, 1990) le cornici e gli sfondi sono “trasparenti” dal punto di
vista psicologico, almeno fintanto che non si verificano dei cambiamenti.
Una parte importante della formazione ambientale riguarda la comprensione dei
sistemi e processi che costituiscono l’ambiente, l’acquisizione del concetto di ecosistema ma anche dei sistemi umani (sociali, economici, …) e delle loro influenze
reciproche. Questo richiede una sintesi di conoscenze trasversali alle discipline
tradizionali che di norma è lasciata alla capacità e buona volontà degli studenti invece
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di essere programmata attraverso un ripensamento dei contenuti e metodi di
insegnamento.
Le indagini che vari ricercatori hanno svolto sulle concezioni così dette ingenue e la
loro evoluzione in relazione all’apprendimento scolastico hanno riguardato soprattutto
la padronanza di concetti che fanno parte dell’insegnamento scientifico: ecosistema,
catene alimentari, processi di decomposizione,….
Non è possibile per la brevità di questa relazione entrare nei dettagli di commenti
critici riguardo ai metodi utilizzati per far emergere le idee dei bambini e anche al
significato che viene attribuito ai dati. Sottolineo che ai questionari si sono
giustamente andati sostituendo modi che rilevano le idee in situazioni di uso:
ragionare su casi, risolvere problemi, argomentare spiegazioni date per scritto o in
situazioni di discussione. Inoltre è cresciuta la consapevolezza che il linguaggio
verbale è solo una delle modalità di espressione, non sempre la più adeguata.
Dibattuto è il senso da dare a questo tipo di ricerca rispetto all’educazione: le
conclusioni che si possono trarre dai risultati riguardano spesso più l’efficacia
dell’istruzione stessa che le capacità di elaborazione cognitiva dei bambini, tanto più
se questa riguarda concetti scientifici la cui costruzione è interna ad un sapere oggetto
o di insegnamento o di informazione mediatica.
Mi limiterò ad alcune generalizzazioni che traggo anche da Autori che hanno preso in
considerazione questo tipo di letteratura (Shepardson, 2005), come:
- le concezioni “ingenue” costruite dagli studenti sono fortemente influenzate da
osservazioni limitate, dalle interazioni sociali nel loro contesto di vita, dal
linguaggio
- appaiono simili attraverso le età, le abilità, il genere, le culture
- non cambiano facilmente
- influenzano l’apprendimento in modi difficilmente controllabili.
I gradi di comprensione del concetto di ambiente, visto in relazione alla presenza
dell’uomo, sono stati così descritti da (Longhland e coll. 2002):
- ambiente è uno spazio, un luogo
- ambiente è un luogo che contiene animali e piante
- ambiente è un luogo che contiene animali, piante e persone
- l’ambiente fa qualcosa per le persone
- le persone sono parte dell’ambiente e sono responsabili per esso
- le persone e l’ambiente sono in mutua relazione e sostegno reciproco.
Queste tendenze sono state confermate anche quando è stato chiesto a ragazzi di
scuola media di disegnare un ambiente o di commentare fotografie: gli ambienti sono
in gran maggioranza paesaggi naturali, gli esseri umani sono di rado inclusi nei
disegni, anche se i più grandi lo fanno un poco di più. Gli ambienti sono descritti più
come luoghi dove vivono gli animali più che come habitat a sostegno della loro vita.
Astolfi e Drouin (1987), confermati in seguito da Leach e coll.. (1995), Palmer e coll..
(1996) hanno messo in evidenza come l’idea intuitiva di ambiente riferita a ecosistemi
naturali corrisponda a quella di luogo come oggetto, questa può evolvere con la
distinzione di componenti fisiche e biologiche. Il superamento di un modo statico di
guardare porta poi a considerare le componenti come fattori e poi come fattori
interdipendenti, per il riconoscimento di relazioni che possono essere non solo
univoche. L’idea di bio-relatività dell’ambiente è la più sofisticata, è quella che fa
perdere ad ambiente il suo carattere materiale e antropomorfico, perché fa capire che
uno stesso luogo può essere un insieme di parecchi ambienti diversi. Questo livello di
comprensione non è raggiunto nemmeno dalla maggioranza degli studenti
universitari.
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E’ stato anche detto (Driver e coll., 1994): che le caratteristiche del pensiero
ecologico di bambini in età di scuola elementare sono:
- ragionamenti di tipo teleologico
- tendenza a identificare ambiente con natura
- nelle catene alimentari i consumatori (gli animali) sono visti come portatori di
bisogni (acqua, cibo, rifugio,…)
- cibo, energia e materia sono considerati come equivalenti, come una stesa cosa
- la conversione di cibo in energia risulta meno problematica della conversione
del cibo in materia.
Quando si chiede ai bambini di rappresentare un bosco (Strommen, 1995) questi si
riferiscono facilmente al prototipo di foresta con grandi animali e le loro idee sugli
specifici animali sono guidate da domande come “dove vive” e “cosa mangia e da chi
è mangiato” (ma è appunto ciò che si trova sui libri per bambini!). I ragazzi più
grandi, che pur utilizzano concetti di adattamento delle strutture alle caratteristiche
degli habitat in cui gli animali vivono, tendono a pensare che se intervengono
cambiamenti nell’ambiente gli animali si sposteranno. Qui forse bisogna chiedersi il
peso dei molti altri difficili concetti chiamati in causa e se questi siano stati
seriamente considerati dall’insegnamento: visione del tempo per ere geologiche,
concetto di specie, di popolazione, ecc.
Studiando l’evoluzione del concetto di corpo come sistema (quindi di organismo) ho
documentato come i bambini partano da una intuitiva visione olistica (il cammino
della percezione procede dal tutto alle parti) che viene perduta e sostituita da una di
tipo analitico/descrittivo/statico trasmessa dall’insegnamento scolastico e non fatta
evolvere verso una visione di tipo sistemico/interpretativo/dinamico (Caravita, 1996).
Lavorando con classi di quarta e quinta elementare ho visto che ciò accade anche per
il concetto di ambiente, specialmente se l’ambiente è quello vissuto, il quartiere, nel
nostro caso (Caravita, 2006; 2006).
Durante la discussione sulla progettazione didattica con gli insegnanti avevamo
ipotizzato che i bambini guardassero all’ambiente o come natura o come a luoghi,
utilizzando cioè o stereotipi culturali o un concetto spaziale di ambiente, ma che sugli
ambienti in cui si svolge la loro vita avessero interiorizzato una gran quantità di
conoscenze, riguardanti diversi piani strutturali e funzionali del sistema urbano, e
avessero quindi accumulato più competenza di quanto l’esperienza di ambienti
naturali possa invece permettere di fare. Pensavamo che fosse importante far
emergere questa competenza, probabilmente implicita e tacita anzitutto per renderla
confrontabile e più coerente.
Le nostre previsioni si fondavano anche su un piccolo sondaggio fatto attraverso
poche domande scritte. La prima sollecitava a mettere a fuoco il proprio ambiente:
“Noi diciamo che il fiume è l’ambiente della trota e di molti altri animali, oppure che
il sottobosco è l’ambiente dei funghi. Sapresti dire qual è il tuo ambiente?”. Infatti ha
prodotto soprattutto immagini di luoghi e di presenza di affetti, ma ha anche delineato
varie dimensioni di ciò che costituisce l’ambiente di chi lo vive: la stabilità nel luogo,
le attività che permette di svolgere, la presenza di risorse e qualità funzionali, la
condivisione con altri viventi, il senso di sicurezza, l’idea di libertà e di scelta, la
presenza di condizioni sfavorevoli come l’inquinamento.
Abbiamo chiesto con un’altra domanda la definizione di ambiente: “Scrivi una
definizione di ambiente, come quella che puoi trovare su una enciclopedia”. Abbiamo
constatato che accanto alla prevalenza della dimensione spaziale rispetto a quella di
insieme di componenti, emergeva anche una idea di ambiente come luogo “giusto”
per chi ci vive, in larga parte delle risposte identificato con luoghi naturali. Dunque,
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quando si fa appello a conoscenze più di tipo scolastico, la complessità dell’ambiente
sembra perdersi!
Il lavoro di quasi due anni scolastici ha richiamato l’attenzione sui cambiamenti che
avvengono negli ambienti in cui viviamo per evidenziare il funzionamento del
sistema, rintracciare fattori, variabili in gioco (cause/agenti/ recettori di cambiamento,
ricadute, processi collaterali), e ha mostrato una crescita rilevante della
concettualizzazione. In entrambe le classi i bambini sono divenuti via via più capaci
di riconoscere numerose componenti dell’ambiente urbano e di metterle in relazione:
persone, strutture, servizi, istituzioni, risorse, fattori fisici, componenti naturali.
Hanno considerato i collegamenti tra il quartiere e la città, dinamiche (temporali,
sociali) e variabili, distinzioni tra sfera pubblica e privata. Sono cioè divenuti
consapevoli degli “intrecci”, come qualcuno di loro ha proposto, e come gruppi di
lavoro hanno descritto attraverso modelli plastici presentati ad un uditorio di
compagni. In classe quinta la parola “sistema” era entrata nel vocabolario delle classi
dopo una lunga conversazione con un responsabile del piano regolatore e dopo che si
era discusso sul significato di “sistema urbano”. Più avanti il significato di questa
parola è stato trasferito al corpo umano.
Relazioni di interdipendenza o di regolazione, causalità circolari sono risultate invece
di più difficile intuizione, a parte una isolata affermazione che “le regole sistemano
l’ambiente”. Questi concetti meritano però attenzione e sarebbe opportuno progettare
e sperimentare percorsi didattici nella scuola media che ne tengano conto.
I comportamenti pro-ambientali
Ciò che una persona pensa sulle relazioni uomo/ambiente costituisce una specie di
teoria ecologica ingenua da cui scaturiscono le credenze sulle conseguenze negative
dei cambiamenti ambientali. Cosa è all’origine dei comportamenti pro-ambientali
delle persone (non degli attivisti ambientalisti che costituiscono una categoria
specifica)? Quanto sono una estensione dei comportamenti pro-sociali, in quanto
riguardano la cura e la protezione del mondo condiviso con altri ?
Alcuni li mettono in relazione con visioni complessive del mondo, altri con tipi di
valori, altri con teorie generali di valori. Le ricerche mostrano però che gli interventi
educativi di per sé, hanno poco o nessun effetto nel promuovere comportamenti nei
modi di agire abituali. Qualcuno ha anche parlato di un effetto “saturazione”: il
confronto tra pre-test e post-tests effettuati a distanza di tempo da ragazzi che
partecipano ad esperienze di soggiorno in parchi mostrano che queste incidono di più
sui ragazzi che in precedenza non avevano avuto esperienze del genere.
Anche rispetto a questo problema, lo sguardo della ricerca si è volto sui bambini.
Musser e Diamond (1999) hanno adattato a bambini di età pre-scolare un questionario
costruito per sondare atteggiamenti verso l’ambiente attraverso l’espressione di gradi
di accordo o consenso rispetto ad affermazioni o comportamenti, da correlare con i
dati di un questionario con informazioni biografiche. Questi Autori hanno
somministrato anche ai genitori un questionario equivalente. Un dato interessante
prodotto da questa indagine è che non è stata trovata una relazione tra gli
atteggiamenti dei genitori e quelli dei bambini. Questo è spiegato sia col fatto che,
anche a qell’età, i genitori non sono l’unica fonte, sia col fatto che i bambini possono
inferire gli atteggiamenti da una grande varietà di comportamenti osservati nei
genitori, che non corrispondono necessariamente a quelli da loro dichiarati. Un altro
dato è che invece risulta una relazione tra gli atteggiamenti dei bambini e la loro
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partecipazione ad attività ambientali, come il ri-ciclaggio, la utilizzazione di compost,
rilevate dal questionario biografico.
E rilevazioni di atteggiamenti con questo tipo di strumenti metodologici hanno il
difetto di evidenziare forse più le intenzioni, i comportamenti desiderati che quelli
reali. Ad esempio, sembra che nel periodo scolare con l’età aumentino i
comportamenti pro-ambientali, e questo potrebbe dipendere dal fatto che i ragazzi
diventano più consapevoli delle risposte attese.
Implicazioni per l’intervento
La teorizzazione usata per spiegare comportamenti ambientalisti non è sufficiente per
capire come promuovere l’acquisizione di questi. Sono molte le variabili che entrano
in gioco e un fattore chiave sono le abitudini di vita, le routines casalinghe, la volontà
di risparmiare.
Ma anche quelle che Stern chiama forze contestuali: le entrate economiche, le
infrastrutture locali disponibili, la non conoscenza degli effetti di certe scelte, la
difficoltà a verificare informazioni, le aspettative della comunità, influenze o conflitti
interpersonali, ecc.
Stern (2000) propone una sua teoria che connette Valori-Convinzioni-Norme per
rispondere alla domanda.
La catena causale parte da elementi centrali di personalità, relativamente stabili,
connessi quindi a valori e sistemi di convinzioni generali, per es. riguardanti
l’altruismo, la frugalità, l’importanza data alle relazioni familiari, ecc.. Poi chiama in
causa convinzioni più specifiche relative alle relazioni uomo-ambiente, alle loro
conseguenze e alla responsabilità individuale nel prendere iniziative correttive.
Regole personali di azione pro-ambientale sono attivate dalla convinzione che le
condizioni ambientali minacciano cose a cui la persona dà valore (gli altri, gli altri
viventi, la salute, il benessere, ecc.), e che le azioni personali possono ridurre la
minaccia. Queste norme di comportamento creano una predisposizione generale che
influenza tutti i tipi di comportamento. Ognuno dei passaggi della catena influenza gli
altri.
Politiche che mirano a cambiare solo gli atteggiamenti delle persone difficilmente
cambiano i comportamenti se questi richiedono sforzi e costi personali eccessivi.
Insieme a tipi multipli e contemporanei di intervento volti a influire su fattori
psicologici, occorre che cambi anche il contesto immediato in cui un certo
comportamento ha ragion d’essere.
Buone pratiche educative si preoccupano anche di questo a cominciare dall’ambiente
vicino, oltre che di far ragionare su abitudini e routines: cosa è una abitudine? Come
sono influenzate da diversi contesti, scopi, categorie di risorse, cose, persone e
luoghi? Quali esperienze di cambiamento e in relazione a cosa?
E poi ragionare su processi decisionali e strutture decisionali che operano in ambiti
diversi della organizzazione sociale e su responsabilità individuali e collettive.
La casa e la scuola possono essere i primi oggetti nei quali contestualizzare le analisi
e far partecipare i bambini.
La progettazione partecipata
Il concetto di partecipazione è una prospettiva in via di sviluppo nel campo delle
ricerche sulla modificazione ambientale ed è riferito spesso ai bambini e all’ambiente
urbano, che costituisce sempre più “l’ambiente naturale” dei bambini. Questa pratica
che coinvolge competenze pluridisciplinari, fa ricorso da un lato al punto di vista
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degli adulti riguardo ai bambini, dall’altro richiede le opinioni dei bambini e che gli
adulti siano capaci di ascoltarle, di entrare nel loro mondo.
Nelle attività di progettazione ci sono adulti che svolgono un ruolo di facilitatori e
devono quindi selezionare metodologie appropriate all’età e fornire un’ampia gamma
di scelte per coinvolgere sull’uso di vari mezzi: verbale, grafico, plastico.
Può succedere che gli adulti abbiano una visione romantica dell’infanzia e credano
che questi posseggano una forma innata di creatività che deve manifestarsi da sola.
Sebbene il disegno sia il metodo più comune utilizzato per ottenere le idee dei
bambini, esso soffre di due inconvenienti: la resistenza dei bambini già all’età di
scuola elementare a servirsene come mezzo, la difficoltà di interpretazione per gli
adulti. L’uso di diapositive, il collage con foto o immagini, il disegno collettivo, la
costruzione di plastici sono attività utilizzate per preparare i bambini a mettersi alla
prova nel disegno. I plastici sono un mezzo molto flessibile perché si possono
adoperare molti e diversi materiali (dalla creta al legno, cartone, materiali di scarto),
rende più facile integrazioni di idee e modifiche successive, intimidisce meno alcuni
bambini, è un prodotto significativo da mostrare e per altri da interpretare.
Arrivare al plastico o al disegno in scala è un importante punto di arrivo per capire
come anche le buone idee debbano fare i conti con i vincoli esterni.
Gli studi che sono scaturiti da questo approccio riguardano principalmente mobilità
dei bambini nell’ambiente urbano e la visione che essi esprimono e che in gran parte
riflette le ansie e le paure dei loro genitori. Al di là di osservazioni che si
differenziano molto secondo i contesti reali, si può dire che le bambine più che i
bambini risultano limitati nella loro autonomia e che ad una maggiore possibilità di
autonomia corrisponde un buon rapporto con l’ambiente e una maggiore conoscenza
delle sue caratteristiche e dei suoi vincoli. Tra questi l’inquinamento .
Le conclusioni che si possono trarre da questa rapida rassegna sono abbastanza ovvie.
Mi importa di sottolinearne solo una: “ascoltare” i bambini non è facile per noi adulti
ed è insieme una disposizione mentale - rivolta anche all’interno di noi stessi - e la
capacità di sapersi mettere in rapporto attraverso molteplici strumenti di
comunicazione. La cosa più triste che possa succedere è tradire senza rendercene
conto.
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