F. Engels: La condizione della classe operaia inglese V. Robert: Le

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F. Engels: La condizione della classe operaia inglese V. Robert: Le
F. Engels: La condizione della classe operaia inglese
All'età di 22 anni, nel 1842, Friedrich Engels fu mandato dal padre - un ricco industriale tedesco - a
lavorare nella filiale inglese della sua ditta, a Manchester. Il giovane, che già negli anni passati aveva
descritto le condizioni di vita degli operai tedeschi, fu molto colpito da quelle, ancora più terribili, in cui
viveva il proletariato inglese, al punto da auspicare una rivoluzione sociale.
Se un individuo isolato arreca ad un altro un danno fisico di tale gravità che la vittima muore, chiamiamo
questo atto omicidio; se l'autore sapeva in precedenza che il danno sarebbe stato mortale, la sua azione si
chiama assassinio. Ma se la società pone centinaia di proletari in una situazione tale che debbano
necessariamente cadere vittime di una morte prematura [...]; se toglie a migliaia di individui il necessario per
l'esistenza, se li mette in condizioni nelle quali essi non possono vivere; [...] se sa, e sa anche troppo bene, che
costoro in tale situazione devono soccombere, e tuttavia la lascia sussistere, questo è assassinio, esattamente
come l'azione di un singolo, ma un assassinio mascherato e perfido, un assassinio contro il quale nessuno può
difendersi, che non sembra un assassinio, perché non si vede l'assassino. [...]
È veramente rivoltante il modo con cui la grande massa dei poveri viene trattata dalla società odierna. Li si
attira nelle grandi città, dove respirano un'atmosfera peggiore che nelle loro terre di campagna. Li si relega in
quei quartieri che per la struttura della loro edilizia sono meno ventilati di tutti gli altri. Vengono privati dei
mezzi atti ad assicurare pulizia, vengono privati dell'acqua, poiché le condutture vengono collocate solo dietro
pagamento, ed i fiumi sono così sporchi che non possono essere più utilizzati a scopi di pulizia; li si costringe a
gettare sulla strada tutti i rifiuti e le immondizie, tutta l'acqua sporca, anzi, spesso tutto il sudiciume più
ripugnante e lo sterco, poiché si tolgono ad essi tutti i mezzi per sbarazzarsene, costringendoli in tal modo ad
appestare i propri quartieri.
Ma non basta. Tutti i mali possibili vengono accumulati sul capo dei poveri. Se, in generale, la popolazione
delle città è già troppo densa, tanto più essi vengono ammucchiati in uno spazio particolarmente ristretto. Non
contenti di aver guastato l'atmosfera nelle strade, li si rinserra a dozzine in un'unica stanza, nella quale l'aria
che respirano di notte è ancora più soffocante. [...] Si tolgono loro tutti i piaceri, tranne quelli del sesso e
dell'alcool, mentre ogni giorno li si fa lavorare fino all'estremo limite di tutte le forze fisiche e morali, eccitandoli così costantemente al più smisurato abuso degli unici due piaceri ad essi concessi. E se tutto ciò non
basta, se essi tuttavia sopravvivono, cadono tuttavia vittime di una crisi che, gettandoli nella disoccupazione, li
priva anche di quel poco che fino allora era stato loro lasciato.
Data questa situazione, come è possibile che la classe più povera sia sana e possa vivere a lungo? Che altro
c'è da aspettarsi, se non una mortalità enorme, continue epidemie, un progressivo indebolimento fisico della
classe operaia? Osserviamo un poco i fatti. [...] La malattia che provoca le più spaventose stragi tra gli operai
(è) il tifo. Questa malattia universalmente diffusa è senz'altro attribuita, dal rapporto ufficiale sulle condizioni
di salute della classe operaia, al pessimo stato in cui sono le abitazioni per ciò che riguarda la ventilazione, il
prosciugamento e la pulizia. [...] Se si richiamano alla mente le condizioni nelle quali vivono gli operai, se si
ripensa quanto sono affollate le loro abitazioni, come ogni angolo sia stipato di individui, come malati e sani
dormano in un'unica stanza, su un unico giaciglio, ci si dovrà anzi meravigliare che una malattia contagiosa
come questa febbre non si propaghi ancor di più.
F. ENGELS, La situazione della classe operaia in Inghilterra. In base a osservazioni dirette e fonti autentiche,
Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 132-137, trad. it. R. PANZIERI
V. Robert: Le prime indagini sulle condizioni di vita degli operai
Nelle sue riflessioni sulla situazione economica e sociale prodotta dall'industrializzazione, Thomas R.
Malthus fu colpito da due dati: la frequenza delle ricorrenti crisi di sovrapproduzione e l'elevato numero
di figli che venivano generati dalle famiglie operaie. Si trattava di una miscela micidiale, che rendeva insopportabile e durissima la vita di milioni di uomini e donne del XIX secolo.
Gli anni Trenta (dell’Ottocento) sono quelli delle prime grandi inchieste sulla condizione operaia, pubblicate
dapprima in Francia e in Germania. [...] Le prime inchieste rivelano tutte la miseria operaia, quella che fu
definita pauperismo. Gli operai erano malnutriti, andavano vestiti di stracci, abitavano in condizioni terribili, i
loro quartieri erano focolai malsani di epidemie. Ciò che colpì fu innanzitutto la durezza e la relativa frequenza
delle crisi industriali, che lasciavano senza lavoro e senza risorse, in una stessa città o regione, decine, forse
centinaia di migliaia di persone. A Roubaix, nel 1846-1847, il 60 per cento degli operai tessili era disoccupato,
e a Rouen lo erano i tre quarti. I grandi stabilimenti di Berlino occupavano, nel 1875, 70000 operai, tre anni
più tardi soltanto 29000. Il minimo rallentamento dell'attività industriale si abbatteva subito sui lavoratori. Se
lavoravano a domicilio per un produttore, questi non era in alcun modo tenuto a fornire loro le materie prime
o il lavoro. Coloro che erano salariati potevano essere assunti e licenziati in un'ora; erano ancora rare le
imprese sufficientemente moderne da aver bisogno di specialisti che valesse la pena di mantenere qualunque
fosse la congiuntura, ai quali garantire una certa sicurezza d'impiego e un pagamento mensile. In queste
condizioni, l'operaio viveva alla giornata: la sua situazione fu tremenda nel corso delle crisi della prima metà
del secolo e, dal momento che le difficoltà dell'industria erano largamente connesse a quelle dell'agricoltura,
esse coincidevano con i periodi di rincaro del prezzo del grano. [...]
I primi osservatori furono unanimi: anche in periodo di piena occupazione, e a prestare fede alle cifre fornite
dai padroni e non alle testimonianze dei lavoratori, i salari erano appena sufficienti ai bisogni di un giovane
operaio celibe: erano, come noto, troppo scarsi per una giovane operaia nubile pressoché condannata alla
prostituzione occasionale - essendo la retribuzione delle donne la metà di quella degli uomini - o per i
lavoratori e le lavoratrici in età avanzata, costretti a ricorrere alla pubblica carità. Non erano sufficienti al
sostentamento di una famiglia nel caso vi fossero dei bambini. Allora, in tempi normali, la maggior parte delle
risorse disponibili -sempre più della metà, spesso i tre quarti - era destinata all'alimentazione: al pane,
soprattutto, chiaramente nero o integrale, ai frutti e alla fecola, ai legumi e ad altri cibi, ma raramente alla
carne o al pesce. Un'alimentazione monotona, a base di prodotti di cattiva qualità, quando non volutamente
alterati da venditori o commercianti poco scrupolosi. Per una ragione o per l'altra, i tempi erano duri, la fame
si faceva sentire, e per sopravvivere si doveva ricorrere agli scarti dei ristoranti e delle mense, dei quali, nella
Francia di fine secolo, ancora si faceva commercio. [...]
Ma la ragione essenziale della miseria degli operai derivava dal fatto che mettevano su famiglia troppo presto
e sfornavano figli senza limite alcuno quando non erano in grado di mantenerli. Si riteneva necessario che i poveri avessero meno prole, anzitutto perché l'acquisizione di una maggiore moralità in materia di procreazione
non poteva che avere effetti benefici sui comportamenti -giudicati evidentemente deplorevoli - delle classi
inferiori, e poi perché avrebbe permesso loro di risparmiare per provvedere ai rischi inevitabili dell'esistenza
e predisporre adeguate condizioni alla vecchiaia. Si legge qui il moralismo maltusiano delle classi dirigenti, che
negli ambienti operai incontrò una violenta opposizione di principio: numerosi episodi attestano come l'idea
potè apparire inverosimile, se persino uno storico locale, d'ispirazione conservatrice, della regione lionese,
annotava di sfuggita che la sola novità in tema di insulti politici era, nel 1848, l'appellativo di maltusiano. Il
sarcasmo di Marx e di Proudhon rispetto alle teorie di Malthus, o della lettura che se ne faceva allora, è forse
discutibile e non rende giustizia alle peraltro ottime intenzioni del reverendo, ma non v'è alcun dubbio che
esso nasceva da un confronto tra economisti. In effetti, dal punto di vista degli ambienti proletari in senso
stretto, i figli erano considerati una ricchezza, un'assicurazione sull'avvenire: presto destinati al lavoro, spesso
con gli stessi genitori, i loro guadagni consentivano di equilibrare il bilancio familiare sino a quando non
lasciavano la casa. [...]
Il lavoro minorile fu presto motivo di scandalo, donde i divieti e le limitazioni relativamente tempestivi. Per
prima la Gran Bretagna, con il Factory Act del 1833, proibì il lavoro dei bambini al di sotto dei nove anni nelle
industrie tessili, e, dal 1842, nelle miniere. Provvedimenti simili vennero adottati in Prussia nel 1839, in Baviera nel 1840, in Francia nel 1841, in Austria nell'anno seguente. Le prime leggi al riguardo mancavano
sovente di efficacia, non prevedendo un servizio ispettivo indipendente, e si scontravano con la cattiva volontà
dei datori di lavoro, che adducevano a pretesto il non poter far a meno dei bambini per certe operazioni più
delicate, complementari a quelle degli adulti, e che dunque non potevano essere svolte in orari diversi.
Tuttavia è probabile che il lavoro minorile sia scomparso abbastanza rapidamente, almeno là dove la
legislazione era intervenuta e grazie alla diffusione delle scuole elementari.
Una forte riduzione dell'impiego dei fanciulli dagli otto ai dodici o tredici anni fu indotta, almeno una
quarantina d'anni più tardi, dall'istituzione dell'obbligo scolastico. Malgrado ciò, anche nella Germania di fine
secolo - a voler prestar fede a un'inchiesta dei Gewerbeinspektoren {ispettori del lavoro) del 1898 - il numero
dei ragazzi in età scolare impiegati nell'industria aveva superato il mezzo milione; in Sassonia, dove la
legislazione era intervenuta più tardivamente che altrove, e dove l'industria tessile era molto sviluppata, quasi
un quarto dei fanciulli lavorava.
V. Robert, L'operaio, in U. Frevert, H.-G. Haupt (a cura di), L'uomo dell'Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2000,
pp. 5-14, trad. it. P.C. Hansen
P. Deane: Il dibattito storiografico sul tenore di vita degli operai inglesi
Engels, Marx e numerosi altri osservatori che vissero nell'epoca della Rivoluzione industriale
focalizzarono la loro attenzione sulle terribili condizioni di vita e di lavoro nelle città britanniche.
Recentemente, alcuni storici hanno osservato che invece, nel giro di alcuni decenni, la situazione migliorò
notevolmente e permise alla classe lavoratrice britannica di vivere meglio di come viveva prima
dell'industrializzazione.
L'opinione pessimistica, sostenuta da numerosi osservatori che vanno dai contemporanei agli storici moderni da Engels, Marx, Toynbee, dagli Webb, dagli Hammond e molti altri e, più recentemente, da Hobsbawm - è che i
primi stadi dell'industrializzazione britannica, se per alcuni significarono anche il benessere, provocarono un
netto deterioramento delle condizioni di vita dei poveri appartenenti alla classe lavoratrice. L'opinione
ottimistica, sostenuta da altrettanto numerosi osservatori - da McCulloch, Tooke, Giffen, Clapham, Ashton e più
recentemente da Hartwell - è che lo sviluppo economico, pur lasciando alcuni lavoratori in completa miseria,
permise alla maggioranza di godere di migliori condizioni di vita in seguito alla riduzione dei prezzi, alla
maggiore stabilità dell'occupazione e alla moltiplicazione delle occasioni di impiego remunerato. La polemica è
stata viziata dal pregiudizio politico e dalle miopie che questo spesso provoca. Capita di frequente che degli
scrittori di sinistra che partecipano alle sofferenze del proletariato sostengano l'interpretazione pessimistica;
ed è ugualmente facile trovare degli scrittori di destra, più fiduciosi nelle fortune assicurate dalla libera
iniziativa del sistema capitalistico, che sostengono la tesi ottimistica. Engels, la cui opera La condizione della
classe operaia in Inghilterra, che apparve per la prima volta nel 1844, costituisce una delle denunce più
vigorose e appassionate del sistema industriale, non nasconde le sue intenzioni politiche. In una lettera scritta a
Karl Marx egli chiamò il suo libro «un atto d'accusa». «Davanti al tribunale dell'opinione pubblica mondiale»,
egli scrisse, «accuso la borghesia inglese di strage, di furto continuato, e di tutti gli altri crimini previsti dal
codice». La tesi del peggioramento delle condizioni di vita si appoggiava ad una descrizione in certo modo
leggendaria dell'età dell'oro che avrebbe preceduto la rivoluzione industriale, un'Inghilterra di contadini felici e
prosperi e di artigiani indipendenti, liberi dallo sfruttamento e privi di preoccupazioni. In realtà, il lavoratore a
domicilio non era meno sfruttato dall'industriale-padrone che forniva alla sua famiglia il cotone da filare e il
filato da tessere, che l'operaio di fabbrica dal proprietario; spesso, donne e bambini lavoravano per lo stesso
numero di ore nelle faticose occupazioni dell'industria domestica, come davanti alle macchine in fabbrica. [...]
Ancora una volta, come per quasi tutti i problemi di storia dell'economia relativi allo studio dei fenomeni di
crescita o di declino, o dei punti di svolta che ne segnano l'inizio o la fine, i dubbi nascono perché la
documentazione storica è insufficiente. In particolare, i dati quantitativi sono scarsi o troppo diversi o troppo
selettivi per essere del tutto sicuri. Dobbiamo ancora una volta ricostruire un mosaico in cui le tessere più
importanti mancano e in più indovinarne il significato. [...] Tuttavia, il tratto più significativo dei dati sulla
mortalità, se vogliamo utilizzarli come indice del livello di vita, è che i tassi di mortalità smettono di diminuire,
anzi crescono, nel periodo in cui la rivoluzione industriale era in pieno corso e cominciava a far risentire in
modo sensibile i propri effetti sul modo di vivere della maggioranza della popolazione. I tassi di mortalità, stimati in base ai dati sui funerali, raggiunsero una media di 35,8 per mille negli anni '30 [del XVIII secolo, n.d.r.] e
poi si ridussero continuamente (con un'interruzione negli anni 70, quando si ebbe una lieve ripresa) fino a
toccare la media di 21,1 per mille nel decennio 1811 -20. Si trattava di un risultato impressionante. In seguito,
ripresero a crescere un'altra volta fino a toccare il 23,4 per mille nel decennio 1831-40 e rimasero più o meno
costanti al di sopra del 22 per mille (queste ultime sono cifre ufficiali basate sulle registrazioni anagrafiche)
negli '40, '50 e '60.
La ragione principale dell'aumento del tasso di mortalità agli inizi del 1800 va fatta risalire all'afflusso di
popolazione nelle città, dove il tasso di mortalità era elevato, in qualche caso crescente. Il tasso medio di
mortalità delle cinque maggiori città inglesi, Londra esclusa (Birmingham, Bristol, Leeds, Liverpool e
Manchester) passò dal 20,7 nel 1831 a 30,8 nel 1841. Per il distretto di Liverpool, il tasso di mortalità risultò in
media del 39,2 per mille durante il decennio 1841-50 e a Manchester del 33,1. Il fatto è che le città erano
diventate troppo grandi rispetto alla tecnologia allora applicata alla vita urbana. «Oltre la metà dei decessi era
causata dalle sole malattie infettive... Le malattie infantili, prodotto della sporcizia, dell'ignoranza, della malnutrizione e del sovraffollamento, portavano via prima che raggiungessero i cinque anni un bambino su due fra
quelli nati in città» (R. Lambert). Man mano che le città si estesero sulle campagne circostanti e si moltiplicò la
popolazione residente nei centri, i sistemi sanitari vigenti diventarono così inadeguati da costituire una
minaccia sempre più grave per la salute. «Nelle strade, le fogne erano immense caverne di mattoni, con il fondo
e le pareti piatte, nelle quali scorreva solo un lieve filo d'acqua» (R. S. Lewis) e venivano svuotate dallo scavo
delle strade ogni 5-10 anni. In alcuni casi, le fognature delle città venivano scaricate nei fiumi da cui gli
acquedotti attingevano l'acqua da distribuire. Ci vollero numerose epidemie di colera e alcune allarmanti
inchieste sulla situazione sanitaria per indurre le autorità centrali e locali ad intraprendere un'azione positiva
per rimuovere l'immondizia dalle strade e dai cortili, ad adottare la canalizzazione e costringere le società
private di erogazione dell'acqua alla clorazione [ad aggiungere cloro, a scopo disinfettante, n.d.r.]. Perciò è
corretto affermare che nella maggior parte delle aree urbane l'ambiente umano si era visibilmente deteriorato
durante la prima metà dell’Ottocento e che probabilmente non cominciò a «migliorare in generale fino agli anni
'70 e '80.
P. DEANE, La prima rivoluzione industriale, il Mulino, Bologna 1990, pp. 318-324, trad. it. C. ROSIO