Università degli Studi di Perugia Facoltà di Medicina Veterinaria

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Università degli Studi di Perugia Facoltà di Medicina Veterinaria
Università degli Studi di Perugia
Facoltà di Medicina Veterinaria
Istituto di Produzioni Animali
Anno Accademico 1994-'95
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
IL DNA
Oggi si dà per scontato che il materiale genetico è il DNA. Già nel 1928 lo statunitense
Griffith dimostrò che una sostanza iniettata al Diplococcus pneumoniae lo trasformava da
avirulento in virulento. Nel 1944 Avery identificò il DNA e dal 1952 tutta la comunità
scientifica lo accettò come il materiale genetico alla base dell'eredità.
L'acido desossiribonucleico è costituito da una sequenza di quattro molecole fondamentali
denominate nucleotidi, che differiscono solamente per il fatto di contenere ciascuno una
differente base azotata; ogni nucleotide risulta composto da uno zucchero a cinque atomi di
carbonio (desossiribosio), da un gruppo fosfato e da una delle quattro basi azotate; da un
punto di vista strutturale, le basi sono a due a due simili: da una parte adenina e guanina
(purine, con un doppio anello) e dall'altra citosina e timina (pirimidine, ad anello singolo). La
struttura di un nucleotide è quindi composta dall'anello del desossiribosio che lega il gruppo
fosfato al suo carbonio 5' ed una delle quattro basi al carbonio 1'.
Nel 1953, James Watson e Francis Crick proposero il primo modello della molecola del DNA
che conteneva in sé l'indicazione di come il DNA potesse svolgere le sue funzioni di
conservazione e trasmissione dell'informazione genetica. La struttura proposta da questi autori
è quella di una doppia elica avvolta a spirale con avvitamento destrorso (cioè in senso
orario). Ciascuna elica è formata da una catena di nucleotidi tenuti insieme da legami
covalenti; più precisamente si tratta di legami fosfo-diesterici nei quali un gruppo fosfato
forma un ponte tra la posizione 3' di un pentoso e la posizione 5' del pentoso successivo.
Ciascuna catena avrà ad una sua estremità un gruppo 5' libero ed all'estremità opposta un
gruppo 3' libero; le due eliche sono tenute insieme dai legami idrogeno che si stabiliscono tra
le basi complementari (A-T e C-G) per la presenza di due atomi elettronegativi che
condividono un protone. I legami ad idrogeno che uniscono le due catene sono molto più
deboli di quelli covalenti che uniscono due nucleotidi contigui nella stessa catena; per motivi
sterici i legami ad idrogeno possono formarsi solo fra adenina e timina (2 legami) e fra
citosina e guanina (3 legami): il differente numero di legami ad idrogeno che lega le coppie di
basi azotate complementari spiega la diversa densità che il DNA può avere (è più denso se più
ricco in citosina e guanina). Il modello richiede che le due catene siano anti-parallele,
decorrano cioè in senso 5'-3' l'una e in senso 3'-5' l'altra: in altri termini l'estremità 5' di un
filamento si trova di fronte all'estremità 3' dell'altro.
Il modello proposto da Watson e Crick nel 1953 è ancora sostanzialmente valido: è il ß-DNA,
dove l'andamento della spirale e dei filamenti è regolare e si può distinguere un solco minore
(fra le due catene) ed un solco maggiore (quello dovuto alla spiralizzazione vera e propria). E'
importante sottolineare che, in periodi successivi, sono state descritte altre conformazioni
della molecola dell'acido desossiribonucleico. Queste differenti conformazioni strutturali del
DNA sono state messe in rapporto a specifiche sequenze nucleotidiche della molecola stessa.
Ad esempio, alcune sequenze caratterizzate da un regolare alternarsi di basi pirimidiniche e
puriniche sono in grado di indurre la conversione da una normale doppia elica destrorsa ad
una forma Z sinistrorsa, caratterizzata da uno scheletro portante di DNA molto più irregolare,
seghettato, e dalla presenza di un unico solco minore che sostituisce i due solchi maggiore e
minore della classica struttura ß. Altro caso simile è quello per cui le cosiddette ripetizioni
invertite (cioè una sequenza seguita sullo stesso filamento dalla sua sequenza complementare
disposta in ordine inverso) inducono nella molecola la comparsa di una struttura caratteristica
"a croce": ciò è dovuto alla tendenza delle basi ad appaiarsi nell'ambito dello stesso filamento,
con il conseguente ripiegarsi del filamento stesso. Il DNA è dunque una molecola
estremamente flessibile e reattiva, in grado di interagire con tutta una serie di molecole
cellulari grazie anche ad una continua modificazione conformazionale.
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LA DUPLICAZIONE DEL DNA.
Il meccanismo di replicazione del DNA è semiconservativo: la doppia elica madre darà due
doppie eliche figlie, formate ciascuna da un filamento parentale e da un filamento
neoformato; erano stati in precedenza proposti anche altri modelli che però non hanno trovato
conferma (ad esempio, il modello conservativo, il modello dispersivo). La doppia elica si
srotola e forma una doppia Y (la "forcina di replicazione"): la base della Y si srotola
progressivamente mentre le due braccia fungono da stampo (template) per il nuovo filamento.
L'intero meccanismo di replicazione è basato sulla complementarietà delle basi azotate. Lo
srotolamento necessita di 3 proteine specifiche: la replicasi srotola il tratto da replicare, la
proteina SSB si lega al filamento srotolato ed impedisce la sua degradazione e riunione, la
proteina ligasi controlla la zona non despiralizzata proteggendola da trazioni ed altri traumi.
La DNApolimerasi aggiunge un nucleotide ad un tratto preesistente: non è in grado di iniziare
ex novo, ma necessita di un primer (può aggiungere nucleotidi solo all'estremità 3': il verso di
formazione della catena è pertanto 5'-3'); l'energia della scissione del gruppo energetico
fosfato è utilizzata per legare il nucleotide. La DNApolimerasi ha anche il compito di scindere
eventuali legami erronei fra le basi. Il primer è dato dalla RNApolimerasi. Il filamento 3'-5'
viene sintetizzato a tratti, sempre nel verso 5'-3', con un numero elevato di primer di RNA; i
tratti sono detti frammenti di Okazaki. Quando la DNApolimerasi trova al termine di un tratto
il primer di un tratto vicino lo scinde e lo risintetizza come DNA (sostituisce RNA con DNA).
I vari frammenti di Okazaki sono uniti dalla DNAligasi. Negli eucarioti la replicazione del
DNA non comincia in un solo punto ma contemporaneamente ed indipendentemente in più
"forcine di replicazione": questi punti, detti "bolle di replicazione", confluiscono e sono infine
uniti dalla DNAligasi; per dimostrare la molteplicità dei siti di replicazione si è ricorsi a
timidina triziata, cioè marcata con trizio, e si è seguita la distribuzione della radioattività dopo
la replicazione.
LA DIVISIONE FUNZIONALE DEL DNA.
Le dimensioni del genoma vengono espresse in numero di paia di basi (1 Kb = 1.000 paia di
basi). Salendo nella scala evolutiva si nota una certa tendenza all'aumento delle dimensioni
del genoma, ma non vi è una esatta corrispondenza fra la complessità fenotipica o il livello
evolutivo di un organismo e la grandezza del suo genoma: ad esempio, il genoma di una
salamandra e quello del grano tenero hanno entrambi dimensioni superiori al genoma
dell'uomo. Bisogna tenere conto non solo del numero di paia di basi ma anche del numero di
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geni. Il genoma di Eschirichia coli è composto da 4x10 paia di basi e considerando un gene
in media codificato in 2-3 Kb si può sostenere che il genoma di questo batterio contiene poche
migliaia di geni, come si è potuto anche controllare fenotipicamente; il genoma di Drosophyla
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melanogaster ha circa 2x10 paia di basi, ma è stato dimostrato contenere solo 5.000 geni
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circa; il genoma dell'uomo (Homo sapiens) ha circa 3x10 paia di basi, e contiene circa
50.000-100.000 geni.
In realtà, mentre nei batteri le dimensioni del genoma sono proporzionali al numero dei geni,
negli eucarioti ciò non si verifica. Come mai aumenta molto il DNA ma proporzionalmente
non i geni? Esiste del DNA eucariotico che non funziona? In effetti negli eucarioti c'è molto
DNA ripetuto: alcune centinaia di basi vengono ripetute più volte. Per studiare questo
fenomeno si utilizza la cinetica della denaturazione; il DNA viene frammentato e poi
denaturato (cioè trasformato da un doppio filamento in due filamenti singoli, in genere
aumentando la temperatura); quando si riabbassa la temperatura il DNA si rinatura, cioè si
ritrasforma in doppio filamento mediante l'appaiamento delle basi complementari: più
esistono sequenze ripetute e più rapida è la rinaturazione (ci sono più probabilità di
appaiamento fra frammenti complementari).
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In base alla quantità di ripetizioni vengono distinte negli eucarioti 3 classi di DNA:
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- DNA altamente ripetuto, che rappresenta da 0 al 50% del DNA, nel quale esistono oltre 10
copie delle stesse sequenze, come ad esempio nel caso del DNA satellite;
- DNA mediamente ripetuto, che rappresenta dal 10 al 40% del DNA e con sequenze ripetute
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fra 10 e 10 volte, come nel caso dei geni per rRNA, tRNA istoni;
- DNA a sequenza unica, che non è cioè ripetuto, e rappresenta il 40-80% del DNA (ad
esempio, i geni dell'emoglobina, dell'ovoalbumina).
Il DNA satellite è costituito da sequenze altamente ripetute: ultracentrifugando in gradiente di
cloruro di cesio, all'interno della provetta il DNA si stratifica in una banda corrispondente alla
propria "densità di galleggiamento"; nei procarioti si ha una sola banda, mentre negli
eucarioti in prossimità della banda principale si hanno altre bande, da cui il nome di DNA
satellite; il fenomeno è legato al diverso contenuto in coppie di basi guanina-citosina, che
provoca una densità diversa da quella della banda principale.
Da un punto di vista funzionale il DNA può essere distinto in codificante e non codificante, a
seconda che dia o meno esito alla sintesi di una proteina. Il genoma è composto da parti
funzionalmente discontinue: la parte non codificante (introne) viene trascritta ma non dà
alcuna proteina, mentre la parte codificante darà gli esoni e quindi le proteine.
Per quale motivo nel DNA si ripetono più volte le stesse sequenze? Un'ipotesi era che più
erano le sequenze e più poteva essere quantitativamente la sintesi della proteina, ma si è visto
che più che dalla trascrizione la sintesi proteica è limitata da altre fasi. Si tratta di una specie
di copie di riserva, in caso di mutazioni? Il DNA ripetuto modifica la probabilità che le
mutazioni, che sono casuali, riguardino delle sequenze funzionalmente importanti? Si tratta di
famiglie multigeniche, cioè di geni molto simili sia nelle sequenze nucleotidiche che nella
proteina prodotta (ad esempio, le globine dell'emoglobina, oppure le cheratine della lana), con
una qualche testimonianza evolutiva? Se il DNA ripetuto non è codificante, a che cosa può
servire? E' forse la forma più semplice di parassitismo?
IL CODICE GENETICO.
In che modo la sequenza nucleotidica del DNA determina la sequenza aminoacidica delle
proteine? E' il concetto di codice genetico. Il primo problema era di stabilire se nel codice
c'erano o no delle sovrapposizioni, cioè di stabilire se un nucleotide poteva essere "letto" più
di una volta, in diverse posizioni del codice: ad esempio, nel caso di una sequenza
ATTGCTCAG, se il codice è senza sovrapposizione, i primi tre aminoacidi sono codificati
dalle triplette ATT, GCT, CAG, mentre se il codice è con sovrapposizioni, i primi tre
aminoacidi sono codificati dalle triplette ATT, TTG, TGC. Nel 1961 venne accertato che non
ci sono sovrapposizioni: infatti, se muta una sola base muta nella corrispondente proteina un
solo aminoacido; il codice con sovrapposizione farebbe invece prevedere che al cambiamento
di un solo nucleotide corrisponda il cambiamento di più aminoacidi contigui (fino a tre). In
realtà ci può essere una specie di sovrapposizione perché il DNA può essere letto con
differente "frame" (lettura spostata di una o due basi) e quindi dare differenti proteine: si
dicono proteine modificate per scivolamento ("shifting"); si tratta però non di una
sovrapposizione nella lettura del codice genetico per una proteina ma di differenti fasi di
lettura dello stesso tratto di DNA che codifica per proteine differenti.
Le lettere a disposizione del codice genetico sono le 4 basi azotate. Con due basi azotate si
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potrebbero specificare 4 possibilità, cioè 16 differenti aminoacidi, mentre con tre si possono
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teoricamente specificare 64 differenti aminoacidi (4 ); essendo 20 gli aminoacidi c'è un
problema di eccesso di possibilità. Ai 20 aminoacidi bisogna aggiungere un codon per il
segnale di inizio della trascrizione ed uno per il segnale di fine della trascrizione, ma ne
esistono anche che non specificano nulla (e quindi fanno immediatamente interrompere la
trascrizione); si tratta inoltre di un codice degenerato, perché un aminoacido può essere
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indicato da più di un codon. Esperimenti condotti da Brenner (con mutanti del locus rII del
fago T4) hanno dimostrato che un codon è effettivamente di tre lettere (e non più di tre).
Il meccanismo di duplicazione del DNA è molto efficiente: in E. coli, in un minuto vengono
replicate 50.000 basi e in una generazione c'è solo un errore su un milione di replicazioni del
DNA.
LE MUTAZIONI.
Occasionalmente, durante la replicazione del DNA, possono verificarsi degli errori che
vengono trasmessi alla generazione successiva.
Potrebbe avvenire ad esempio che venga sostituito per errore un nucleotide: è una mutazione
puntiforme; l'RNA-polimerasi non è in grado di individuare l'errore, per cui l'informazione
errata viene trascritta con conseguenze più o meno gravi; il cambio di una base azotata può
dare un differente aminoacido o un codice non-senso, che interrompe la sintesi proteica, ma
anche non provocare nulla se il nuovo codice è per lo stesso aminoacido (il codice genetico è
un codice degenerato). Se un aminoacido diverso viene introdotto in una proteina l'attività
della stessa potrà essere più o meno modificata (negativamente la maggior parte delle volte,
positivamente qualche rara volta, ed in quest'ultimo caso il mutante potrà risultare favorito
nella selezione). Se il nuovo codon derivante dalla sostituzione di un singolo nucleotide non
codifica per alcun aminoacido, una volta giunto a questo livello, il processo di trascrizione si
arresta: se ciò avviene subito dopo l'inizio del gene, l'assenza pressoché totale della proteina
ha generalmente gravi conseguenze nell'organismo mutante.
Altro tipo di mutazione puntiforme è la perdita di un nucleotide (delezione); in questo caso
l'RNA-polimerasi non ha più la corretta chiave di lettura (reading frame) e tutti i codon a
valle della mutazione (e quindi i corrispondenti aminoacidi) assumono significati diversi.
Questo tipo di mutazione viene definita frameshift. Le stesse conseguenze si hanno per
l'inserzione di un nucleotide.
In certi casi possono andare perduti o essere inseriti interi tratti di DNA. Si indicano con il
termine di introsoni o trasposoni dei tratti di DNA più o meno lunghi, con sequenze terminali
costanti, in grado di spostarsi da un punto ad un altro del genoma: la loro inserzione
generalmente abolisce l'attività del gene.
E' stato osservato che le coppie di nucleotidi non mutano tutte con la stessa frequenza: in certi
siti la probabilità di mutazione è fino a 100 volte più elevata che in altri ("hot spots", cioè
"punti caldi"). Un esempio di hot spot è il gene lact di E. coli: c'è un punto, a 200 basi
dall'inizio del gene, dove la citosina è metilata in posizione 5'; normalmente la citosina è
trasformata dalla desaminazione ossidativa in uracile, che viene riconosciuto come estraneo al
DNA, allontanato e risostituito da citosina: la 5-metil-citosina è però trasformata dalla
desaminazione ossidativa in timina, che è una normale base del DNA: ne consegue che un
filamento resta normale mentre quello mutato, nella replicazione, avrà un appaiamento
timina-adenina invece che citosina-guanina.
L'RNA.
L'informazione genetica contenuta nel DNA controlla la sintesi delle proteine: tale
informazione viene trascritta in mRNA e trasferita dal nucleo ai ribosomi, dove l'mRNA
fornisce il messaggio per la sintesi della proteina; l'RNA è quindi il tramite tra il DNA e le
proteine: senza di esso l'informazione genetica rimarrebbe inerte e non potrebbe essere
espressa.
A differenza di quanto visto nel DNA, nell'RNA il filamento è singolo invece che doppio, nei
nucleotidi è presente l'uracile al posto della timina, lo zucchero è il ribosio invece che il
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desossiribosio; nel desossiribosio il gruppo chimico legato al carbonio in posizione 2 è un
atomo di idrogeno, mentre nel ribosio nella stessa posizione è presente un ossidrile.
La scelta evolutiva del DNA come molecola deputata alla conservazione dell'informazione
genetica è legata alle differenze chimiche esistenti fra DNA ed RNA; infatti, quando i
ribonucleotidi sono uniti a formare l'RNA, l'ossidrile in posizione 2 del ribosio rimane libero,
e ciò rende l'RNA meno stabile del DNA dal punto di vista chimico: in soluzione acquosa
l'RNA va incontro a rapida idrolisi. Negli esperimenti che tendono a ricostruire in laboratorio
il "brodo primordiale" da cui si ritiene abbia avuto origine la vita, si ha prima la
polimerizzazione dell'RNA: ciò fa ritenere che l'RNA abbia evolutivamente preceduto il
DNA, il quale sarebbe originato da una trascriptasi inversa (DNApolimerasiRNAdipendente) ed avrebbe in seguito soppiantato il DNA grazie alla sua maggiore stabilità,
che lo rende intrinsecamente più adatto per conservare l'informazione per lunghi periodi di
tempo.
LA TRASCRIZIONE.
La trascrizione avviene ad opera della RNApolimerasi; la RNApolimerasi si lega al DNA in
corrispondenza di un promotore, il quale è differente per i vari geni ma è sempre
caratterizzato da una sequenza costante di 6 basi azotate (TATAAT).
La formazione dell'RNA è analoga a quella del DNA, ma non c'è bisogno di un primer; il
verso della sintesi è sempre lo stesso (sul filamento 5'-3'). La sintesi dell'mRNA inizia quando
l'RNA polimerasi comincia a trascrivere il DNA 10-20 nucleotidi a valle della sequenza
TATAAT. L'RNA polimerasi srotola per un breve tratto la doppia elica di DNA ed inizia la
trascrizione: l'enzima si muove lungo il DNA aggiungendo i ribonucleotidi (complementari ai
desossiribonucleotidi del DNA) al 3' del nucleotide terminale del filamento nascente di RNA.
Prima che la lunghezza del trascritto abbia superato i 30 nucleotidi, l'estremità 5' libera del
filamento di RNA neosintetizzato viene ricoperta da una specie di struttura protettiva di
guanosina metilata, legata per mezzo di un gruppo trifosfato. La trascrizione continua finché
l'enzima non oltrepassa una sequenza del DNA che rappresenta il segnale di termine della
trascrizione stessa (in genere AAUAAA): circa 20 nucleotidi più a valle il trascritto viene
scisso ed un enzima aggiunge una coda di 150-200 adenin-nucleotidi all'estremità 3' del
trascritto (poli-A).
Nei procarioti si ha una sola RNA-polimerasi, mentre negli eucarioti si hanno tre diversi
enzimi: uno per la produzione di mRNA, uno per la produzione di rRNA ed uno per la
produzione di tRNA.
LA TRADUZIONE.
Il trascritto primario passa dal nucleo al citoplasma e viene tradotto a livello di ribosomi;
intervengono a questo punto l'RNA transfer (tRNA) e l'RNA ribosomiale (rRNA).
Il tRNA è un filamento corto, di 70-80 nucleotidi; esso ha una caratteristica struttura ripiegata,
e lega ad una estremità un determinato aminoacido ed alla estremità opposta presenta un'ansa
con l'anticodon per quell'aminoacido, ovvero il codon complementare; l'estremità a cui si lega
l'aminoacido è sempre la stessa per tutti gli aminoacidi, in quanto è lo stesso enzima che lega
l'aminoacido al tRNA a farsi carico del riconoscimento dell'anticodon.
L'rRNA si trova legato ad alcune proteine insieme alle quali costituisce le due subunità
ribonucleoproteiche (una maggiore ed una minore) che formano il ribosoma; nei procarioti il
ribosoma ha un coefficiente di sedimentazione (misurato in Svedberg) di 70 S e le due
subunità hanno rispettivamente 50 S e 30 S; negli eucarioti il coefficiente di sedimentazione
del ribosoma è di 80 S e quello delle due subunità di 60 S e di 40 S: nella subunità grande ci
sono 3 molecole di RNA, (una grande, di circa 4500 nucleotidi, due piccole di circa 160 e 120
nucleotidi), mentre nella piccola c'è una sola molecola di RNA (di circa 1800 nucleotidi).
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L'RNA messaggero (mRNA) "scivola" sull'rRNA un codon alla volta e ad uno ad uno si
uniscono alla catena proteica nascente i vari aminoacidi portati dall'tRNA che ha l'anticodon
corrispondente; in genere nei procarioti c'è all'inizio della sintesi sempre lo stesso aminoacido,
che successivamente viene allontanato.
La sequenza dei codon sull'mRNA, dipendente dall'informazione contenuta nel DNA,
determina a sua volta l'ordine degli aminoacidi nella proteina.
LA MATURAZIONE DELL'RNA.
Sin dal 1960 esperimenti effettuati marcando con isotopi radioattivi l'mRNA hanno
dimostrato che alcune molecole di mRNA isolate a livello nucleare hanno dimensioni
superiori (ad esempio, 5.000bs) a quelle dei medesimi mRNA isolati dopo il trasferimento nel
citoplasma (ad esempio, 1.000bs): infatti l'mRNA marcato non si riibridizza completamente
con il DNA denaturato, perché delle parti di DNA non si ritrovano nell'mRNA citoplasmatico.
I precursori nucleari vengono tagliati e riuniti per dare origine agli RNA maturi, senza
alterazioni all'estremità protettiva di guanosina metilata ed alla coda di poli-A, che si
ritrovano anche nell'mRNA maturo. Questo processo di maturazione dell'mRNA è indicato
con il termine di splicing.
I geni degli organismi eucarioti sono discontinui, costituiti cioè da tratti effettivamente
codificanti (indicati con il termine di esoni) inframmezzati da sequenze che non hanno alcuna
funzione codificante (introni). Sia gli esoni che gli introni vengono trascritti
dall'RNA-polimerasi in un trascritto primario: tale trascritto subisce una maturazione a
livello nucleare che comporta l'allontanamento delle porzioni introniche; l'mRNA maturo che
arriva ai ribosomi contiene pertanto solamente la porzione esonica, l'unica ad essere
effettivamente espressa. Lo splicing dell'mRNA non avviene invece nei batteri dove i geni
sono continui.
Durante il processo di maturazione, un ruolo fondamentale nell'allontanamento degli introni è
svolto dalle snRNP, costituite da un gruppo di molecole proteiche legate ad un'unica molecola
di RNA: si tratta di un RNA particolare, ricco di uracile (RNA U). Nel trascritto primario, nel
punto di passaggio tra esoni ed introni, esistono delle sequenze caratteristiche ricche di
guanina ed uracile: le snRNP si legano a tali sequenze G-U e tagliano la catena RNA in quel
punto. Gli introni vengono così allontanati mentre gli esoni vengono saldati tra loro dando
origine all'RNA messaggero maturo.
Agli scienziati che hanno scoperto la discontinuità dei geni è stato assegnato nel 1993 il
premio Nobel.
L'ESPRESSIONE DEI GENI.
Le scoperte sulla discontinuità funzionale dei geni sono state fatte nel corso delle ricerche
sull'espressione dei geni: le diverse cellule di un organismo hanno tutte lo stesso DNA, per
cui come si spiegano le differenze? Un problema di fondamentale importanza nello studio del
genoma è rappresentato dalla regolazione dell'espressione genica: è chiaro che una cellula, in
un determinato istante, non contiene tutti gli mRNA codificati dal suo DNA, ma trascrive
alcuni geni e produce le proteine corrispondenti solo quando ne ha la necessità.
Nei procarioti non ci sono introni (quelli identificati sono trascurabili), mentre negli eucarioti
si è posto immediatamente il problema di stabilire quale importanza può avere la maturazione
dell'RNA nella regolazione dell'espressione genica. Secondo una teoria si ipotizzava che la
scelta di quale proteina produrre, in quale cellula ed in quale momento, fosse legata alla
maturazione differenziale di un'unica molecola di mRNA trascritta in maniera totale ed
indifferenziata in tutte le cellule: ad esempio, un trascritto contenente più esoni avrebbe
potuto essere tagliato e poi nuovamente saldato in modo da includere nell'mRNA maturo tutti
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o solo alcuni degli esoni, purché fossero conservati gli esoni alle estremità del gene
(contenenti il "cappuccio" protettivo di guanosina metilata in posizione 5' e la coda di poli-A
in posizione 3'), e che gli esoni fossero rimasti nello stesso ordine. Sono stati effettivamente
scoperti diversi geni che si comportano in questo modo: si tratta di "unità di trascrizioni
complesse", che codificano per più mRNA (ottenuti mediante splicing differenziale). Un
esempio di unità di trascrizioni complesse è rappresentato dal segmento di DNA che codifica
per la calcitonina, ormone prodotto a livello della tiroide: è stato osservato che tale sequenza
si ibridizza anche con un mRNA prodotto nell'ipofisi. Il trascritto primario che si trova nelle
cellule tiroidee si ritrova anche a livello dell'ipofisi e contiene due siti poli-A; nella tiroide
viene accettato come segnale terminale il primo sito poli-A: i primi quattro esoni vengono
saldati e danno origine ad un mRNA che codifica per la calcitonina; nell'ipofisi invece lo
stesso trascritto primario termina in corrispondenza del secondo sito poli-A: al momento della
saldatura il quarto esone viene allontanato insieme agli introni, mentre vengono uniti il quinto
ed il sesto esone, dando così origine all'mRNA per una proteina, completamente diversa dalla
calcitonina, nota come CGRP.
Con la scoperta delle più recenti tecniche di biologia molecolare si è accertato che
l'importanza dello splicing nella regolazione dell'espressione genica è relativa; la regolazione
è effettuata essenzialmente attraverso un controllo della trascrizione primaria, quando alcuni
geni vengono trascritti ed altri no: non si ha tanto una trascrizione indifferenziata seguita da
una maturazione differenziale dell'mRNA, ma direttamente una trascrizione differenziale del
DNA. L'importanza della trascrizione differenziale è stata dimostrata isolando e clonando dei
geni; vennero isolate e clonate delle sequenze nucleotidiche per proteine specifiche del fegato
e per delle proteine non-specifiche; questi geni sono stati posti su un filtro di nitrocellulosa e
messi a contatto con il trascritto primario, marcato con isotopi radioattivi, di cellule epatiche,
renali e cerebrali: il trascritto delle cellule epatiche si ibridizzava sia con i geni per le proteine
del fegato che con i geni delle proteine non specifiche, mentre il trascritto primario delle
cellule renali e quello delle cellule cerebrali si ibridizzava solo con le sequenze nucleotidiche
per le proteine non-specifiche.
Come è controllata l'attivazione e la disattivazione del gene? E' questo un problema
particolarmente sentito da chi si occupa di ingegneria genetica, perché inserire un gene
estraneo in un genoma (animali transgenici) è relativamente semplice, ma controllare
l'espressione di questo gene è un problema ancora non risolto. Le conoscenze disponibili
riguardano soprattutto i procarioti.
Esperimenti condotti principalmente sul fago lambda hanno evidenziato come l'espressione
genica può essere controllata da proteine regolatrici che si legano a siti specifici del segmento
di DNA: tali proteine vengono indicate con il termine di repressori. Il repressore si lega ad
una specifica sequenza di DNA denominata operatore, situata immediatamente accanto al
promotore, cioè accanto a quella breve sequenza di DNA che rappresenta il punto di attacco
dell'RNA polimerasi e quindi di inizio della trascrizione: la presenza del repressore sul sito
operatore impedisce il legame della RNA polimerasi al promotore e di conseguenza la
trascrizione del gene. Nel fago lambda è stato anche evidenziato un meccanismo di
autoamplificazione: l'RNA polimerasi non si lega al promotore del gene ma al promotore del
gene per la proteina che funge da repressore.
Molto spesso un solo repressore controlla l'espressione coordinata di più geni: tale sistema nel
suo complesso viene definito operone. Un esempio è l'operone lact di E. coli, che comprende
tre geni (Z, Y, ed A) responsabili del catabolismo del lattosio attraverso la sintesi di tre enzimi
(ß-galattosidasi, permeasi, transacetilasi). Il gene lact di E. coli è un sistema inducibile: se non
c'è lattosio nel mezzo, il repressore si lega all'operatore ed inibisce la trascrizione dei geni per
le tre proteine enzimatiche che dovrebbero catabolizzare il lattosio; se invece nel mezzo c'è
lattosio, questo si lega al repressore che, così modificato nella forma, non è più in grado di
inattivare l'operatore: l'RNA polimerasi trascrive l'informazione per i tre geni Z, Y ed A in
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un'unica molecola di RNA policistronico. L'operone lact è un esempio di sistema inducibile
nel senso che la sintesi di un enzima è indotta dalla presenza del suo substrato.
Esistono anche dei sistemi reprimibili, nei quali il prodotto finale determina il blocco della
trascrizione dei geni per gli enzimi responsabili della sintesi del prodotto stesso: un esempio è
l'operone trp, responsabile della sintesi del triptofano. Il meccanismo di controllo
dell'espressione genica di un sistema reprimibile comporta la presenza sul DNA di un'altra
regione specifica denominata attenuatore, responsabile di una riduzione della velocità di
trascrizione dell'mRNA in presenza del prodotto finale (triptofano): l'assenza di questa
regione in alcuni mutanti è associata ad una produzione continua e massiccia di triptofano.
GLI INTRONI, GLI ESONI E L'EVOLUZIONE.
Fino agli anni '60 la maggior parte degli studiosi riteneva che i batteri, per la loro semplicità,
dovessero essere simili alle prime cellule ancestrali e che gli eucarioti si fossero evoluti da
procarioti primordiali. Lo splicing del trascritto primario, costantemente presente negli
eucarioti, avviene molto raramente nei procarioti che non contengono, se non in quantità
trascurabile, introni: di conseguenza gli esoni venivano considerati come delle complessità
introdotte relativamente tardi nel corso dell'evoluzione.
La prima cosa ad essere messa in dubbio fu che i batteri fossero effettivamente gli organismi
più antichi. Woese e collaboratori tracciarono una mappa delle genealogie cellulari
confrontando le sequenze nucleotidiche degli rRNA di differenti organismi; si utilizzava una
particolare subunità 16 S dell'rRNA perché è una struttura precedente la stessa cellula ed è
una molecola che non ha mai mutato la sua attività funzionale; si digeriva l'rRNA con
ribonucleasi che spezzavano la catena in corrispondenza della guanina e si confrontavano i
frammenti di almeno 6 basi azotate (una ventina di frammenti circa): più le sequenze sono
conservate, maggiore è la probabilità che gli organismi discendano da un antenato comune. Ci
si rese conto che gli archibatteri, un piccolo gruppo di metanobatteri, non rientravano
nell'albero filogenetico dei batteri classici: essi non erano più vicini dal punto di vista
filogenetico agli eubatteri di quanto lo fossero agli eucarioti. Si è quindi ipotizzata l'esistenza
di tre linee evolutive separate, discendenti da un unico progenitore comune definito
"progenote": eubatteri ed archibatteri sarebbero evoluti direttamente dal progenote, mentre gli
eucarioti deriverebbero dalla fusione di un eucariote ancestrale con due tipi di eubatteri;
l'eucariote ancestrale avrebbe dato origine al nucleo della cellula, mentre mitocondri e
cloroplasti sarebbero derivati rispettivamente dai solfobatteri purpurei e dai cianobatteri
(determinando le sequenze dell'rRNA contenuto nei mitocondri si è dimostrato che sono
analoghe a quelle dei solfobatteri purpurei, mentre le sequenze dell'rRNA dei cloroplasti sono
analoghe a quelle dei cianobatteri).
L'origine di eucarioti e procarioti è quindi da considerare indipendente e contemporanea;
essendo il nucleo degli eucarioti antico quanto i batteri, ed essendo il nucleo la sede dove
avviene la maturazione dell'mRNA, non vi è alcuna ragione per ritenere che tale processo
abbia avuto inizio solo più tardi. Addirittura la maturazione dell'RNA potrebbe essere iniziata
ancora prima della comparsa del progenote: probabilmente sin dall'inizio la molecola era
caratterizzata dalla presenza di esoni ed introni e ciò sembrerebbe confermato anche dalla
posizione che introni ed esoni occupano in molti geni moderni; ad esempio, nei geni che
codificano per le emoglobine, per le immunoglobuline e per altri enzimi, ogni esone codifica
per un dominio della molecola proteica riconoscibile come unità funzionale: è poco plausibile
ritenere che l'introduzione degli introni avvenuta casualmente possa aver determinato questa
precisa suddivisione e molto più probabile invece uno sviluppo graduale dello splicing che
avrebbe portato alla sintesi di proteine più grandi e più utili.
E' molto probabile che i geni dei primi archibatteri ed eubatteri fossero discontinui e che,
attraverso un'evoluzione durata innumerevoli generazioni, i batteri oggi esistenti abbiano
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
eliminato quasi totalmente le sequenze non codificanti dal loro genoma; il DNA degli
eucarioti, uomo compreso, si è invece evoluto più lentamente (maggior intervallo di
generazione): i geni degli eucarioti presentano quindi "inutili" introni ed il sistema di
traduzione è rimasto ancorato ad un complesso procedimento di maturazione, evolutivamente
già superato dalle cellule procariote. Non tutti gli studiosi condividono però queste ipotesi:
alcuni ritengono che l'organizzazione del genoma in esoni ed introni sia evolutivamente più
recente.
LA BIOLOGIA
FILOGENETICA.
MOLECOLARE
E
LO
STUDIO
DELL'EVOLUZIONE
Nel 1951 venne determinata la sequenza aminoacidica dell'insulina bovina. I primi studi di
biologia molecolare sull'evoluzione filogenetica sono stati fatti mediante analisi delle
sequenze proteiche in quanto non si disponeva ancora di tecniche per determinare la sequenza
nucleotidica dei geni. Il concetto di omologia proteica è simile, ma un po' più "grossolano", a
quello di omologia genetica: proteine di organismi diversi che svolgono le stesse funzioni
hanno spesso somiglianze nella sequenza di aminoacidi e, quando queste somiglianze sono
elevate, si dice che le proteine stesse sono omologhe. Nell'uso corrente con omologia si indica
un'origine genetica comune: i geni che codificano catene polipeptidiche omologhe, in
qualsivoglia specie si trovino, hanno avuto un gene ancestrale comune e si sono evoluti
indipendentemente a cominciare dalla divergenza delle specie alle quali appartengono.
In base al concetto di omologia è possibile, quando si conosca la sequenza di proteine che
hanno la stessa funzione ma si trovano in organismi tassonomicamente lontani, stabilire la
loro storia evolutiva mediante il confronto delle sequenze e ricostruire un albero filogenetico
sulla base delle differenze in aminoacidi.
Molto utilizzata per gli studi tassonomici è stata la sequenza aminoacidica del citocromo c:
questo perché è presente in tutte le specie che utilizzano l'ossigeno, è una proteina molto
antica (presumibilmente comparsa quando l'ossigeno si è accumulato nell'atmosfera per
azione dei primi organismi procarioti fotosintetici) ed infine perché ha sempre conservato la
stessa attività funzionale. Molto utilizzate anche le globine (mioglobina ed emoglobina);
l'emoglobina, pur essendo nei vertebrati una proteina tetramerica, presenta in ogni catena la
struttura dell'emoglobina monomerica tipica degli invertebrati: il confronto permette quindi di
risalire a tempi molto lontani dell'evoluzione; altro motivo di interesse è legato al fatto che
nell'emoglobina si riscontra, oltre ad un'evoluzione ortologa (una stessa proteina conservatasi
nel corso della divergenza evolutiva di specie diverse), anche un'evoluzione paraloga (più
forme della stessa proteina in un'unica specie, formatesi probabilmente per duplicazione
genica).
L'elevato grado di somiglianza tra le sequenze di tutte le globine finora studiate fa pensare che
i geni che le codificano derivino da un unico gene ancestrale. Le globine degli invertebrati
differiscono tra di loro e dalle globine dei vertebrati molto più di quanto non differiscano le
mioglobine e l'emoglobine dei vertebrati. Queste osservazioni indicano che mentre le globine
monomeriche degli invertebrati sono codificate da raggruppamenti di geni, nei vertebrati sono
rimasti solo due geni: uno si è specializzato per la formazione dell'emoglobina con funzione
di trasporto dell'ossigeno e l'altro, derivato dal precedente, per la formazione della mioglobina
con funzione di riserva dell'ossigeno. Per successive duplicazioni, il gene dell'emoglobina ha
dato origine prima a geni specializzati per le catene α e ß del tetramero, poi a quelli di tutte le
altre catene; tra le sequenze delle catene emoglobiniche esiste un'alta correlazione con le
distanze filogenetiche delle specie: le catene α dell'uomo e della scimmia Rhesus differiscono
solo per 4 posizioni su 141, quelle dei bovini e dei primati per 16 posizioni, quelle degli
uccelli e dei mammiferi per 37-45, mentre le catene α dei pesci cartilaginei differiscono da
quelle dei vertebrati superiori per 84-89 posizioni. Anche per proteine paraloghe la sequenza è
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
quindi tanto più diversa quanto più lontane sono le specie animali a cui appartengono: infatti i
geni delle specie più distanti, essendosi separati in epoche più remote, hanno avuto più tempo
per accumulare mutazioni casuali ma accettate (nel senso che hanno prodotto a livello
proteico modifiche adattative o almeno selettivamente neutre). Bisogna considerare che i
calcoli effettuati con le sequenze aminoacidiche sono meno precisi di quelli effettuati con le
sequenze nucleotidiche perché, essendo il codice genetico degenerato, non tutte le
modificazioni riscontrate a livello della proteina hanno lo stesso peso evolutivo in termini di
mutazioni intercorse: un'unica sostituzione in una tripletta può, ad esempio, non causare
cambiamenti a livello aminoacidico; esistono dunque mutazioni silenti che non possono
essere valutate anche se hanno la stessa importanza evolutiva di quelle che causano la
sostituzione di un aminoacido; esistono al contrario mutazioni di un aminoacido che indicano
mutazioni in due o tre basi azotate.
Tutte le volte che ci si basa su criteri di omologia genetica per studiare la filogenesi o
genericamente la somiglianza fra organismi viventi bisogna considerare se la mutazione è
neutrale alla fitness o meno: la non-neutralità potrebbe infatti rendere inesatti i calcoli, non
tanto per quanto riguarda la forma dell'albero che si ricostruisce, ma soprattutto per la scala
dei tempi (non si parla cioè delle mutazioni in genere, ma di quelle che si sono mantenute
perché erano viabili o addirittura adattative).
Il metodo ideale per valutare l'omologia è quello di confrontare direttamente le sequenze
nucleotidiche dei geni, invece delle sequenze aminoacidiche delle proteine: ciò è attualmente
possibile con tecniche di biologia molecolare. Ogni gene che esiste in una cellula oggi è una
copia di un gene che esisteva nelle generazioni precedenti: non è però una copia esatta, perché
le mutazioni hanno alterato la sequenza originale, ma spesso persistono sequenze molto
antiche; se due geni sono simili per un segmento che comprende un numero considerevole di
nucleotidi, ciò significa che hanno un antenato comune.
La biologia evoluzionistica è fondata sull'ipotesi dell'"orologio molecolare", formulata da
Zuckerkandl nel 1962. Secondo tale ipotesi il materiale genetico di popolazioni
riproduttivamente isolate va incontro nel tempo ad una progressiva differenziazione: le
popolazioni divergono perché nel loro DNA si verificano delle mutazioni casuali, che
vengono trasmesse alle generazioni successive; le mutazioni possono interessare regioni del
DNA effettivamente codificanti (gli esoni) oppure gli introni, senza alterare in questo caso la
sequenza aminoacidica di una proteina. Poiché le mutazioni si accumulano nel tempo, il grado
di differenziazione di due diverse specie, sia nella sequenza aminoacidica che, soprattutto, in
quella nucleotidica, è un indicatore della distanza filogenetica: in base alle differenze
riscontrate è possibile valutare il momento approssimativo in cui due specie si sono
allontanate da un antenato comune; sono state con queste premesse riviste delle classificazioni
tassonomiche.
Sibley ed Ahlquist hanno ricostruito l'albero filogenetico delle principali specie di uccelli
attraverso i metodi della biologia evoluzionistica. Gli elementi necessari per ricostruire un
albero filogenetico sono essenzialmente due: uno schema di ramificazione e la datazione di
ogni ramificazione (ad esempio, quando una barriera, spesso di tipo geografico, divide una
specie in due popolazioni, che possono così divergere geneticamente e dare luogo a specie
differenti). Finora alla scoperta delle metodologie di biologia evoluzionistica l'unica fonte di
informazione sui rapporti filogenetici tra specie era il confronto dei caratteri morfologici ed
anatomici; i caratteri anatomici si sono però modellati su precise esigenze funzionali: non è
quindi detto che una somiglianza morfologica indichi relazioni di parentela in quanto forme
simili possono comparire per "convergenza evolutiva" anche in organismi filogeneticamente
lontani (ad esempio rondini e rondoni, nelle prime classificazioni degli uccelli, venivano
considerati insieme per la notevole somiglianza morfologica: tale somiglianza è in realtà
dovuta soltanto ad analoghe esigenze di adattamento, essendo entrambi predatori di insetti
alati, mentre filogeneticamente le due specie sono molto differenti, essendo i rondoni prossimi
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
ai colibrì e le rondini dei tipici passeriformi). La datazione delle ramificazioni era basata
esclusivamente su reperti fossili, ammesso che fossero disponibili: anche in questo caso però
la datazione di un fossile indica quando quell'organismo è vissuto, ma non quando la sua linea
filetica ha cominciato a divergere dalle altre.
La tecnica più usata per misurare le differenze genetiche fra le specie attualmente esistenti è
l'ibridazione DNA-DNA. Si estrae il DNA dalle cellule delle due specie da confrontare,
mediante degli enzimi che fanno fuoriuscire gli acidi nucleici; si ultracentrifuga per isolare il
DNA che viene frammentato (frammenti di circa 500 nucleotidi) e privato della parte
ripetitiva attraverso procedimenti di denaturazione e rinaturazione, fino a conservare solo le
sequenze presenti in singola copia (si eliminano i frammenti che dopo denaturazione si
rinaturano per primi: più un frammento è ripetuto, prima è probabile che si ricombini
rapidamente con un frammento complementare); il DNA di una specie viene marcato con
isotopi radioattivi ("tracer", cioè tracciante) e, come monofilamento, viene messo a contatto
con quello dell'altra specie ("driver", cioè elemento guida), sempre denaturato ma non
marcato; l'ibrido eteroduplex che così si forma è tanto più stabile quanto più i due genomi
sono complementari: alzando la temperatura si ha una progressiva liberazione del DNA
ibridizzato da delle colonnine di idrossiapatite, le quali sono in grado di trattenerlo solo se
sotto forma di doppia elica; la stabilità dell'eteroduplex viene confrontata con quella dei due
DNA omoduplex, cioè molecole a doppio filamento in cui sia il tracciante che l'elemento
guida appartengono alla stessa specie. Gli omoduplex costituiscono lo standard con cui
confrontare la stabilità termica dell'eteroduplex: si può tracciare un grafico della curva di
fusione che mostra la quantità di eteroduplex che si denatura a temperature crescenti; la
differenza media in gradi centigradi tra la curva media dei due omoduplex e quella
dell'eteroduplex è una misura della differenza genetica tra la specie confrontate.
La differenza tra i DNA di due specie può essere utilizzata come indicatore della distanza
genealogica tra le due specie solo se è possibile affermare che il DNA muta con una velocità
media uguale in qualsiasi linea filetica; diversi autori ritengono di aver dimostrato ciò
mediante il test della velocità relativa: si confrontano tre specie, due delle quali più
imparentate fra loro che con la terza; se, come si è sempre potuto verificare, la distanza fra la
terza (che fornisce nella prova il tracciante) e le prime due (che forniscono gli elementi guida)
è uguale, è perché le due specie più imparentate, a partire dalla loro separazione, hanno
mantenuto lo stesso tasso di mutazione.
Si può quindi parlare di uniformità del ritmo dell'orologio molecolare, cioè di una costanza
nel ritmo delle mutazioni, la quale è difficilmente comprensibile perché sembra sottintendere
una neutralità delle mutazioni alla fitness. L'apparente costanza potrebbe dipendere dal fatto
che si misurano differenze tra sequenze composte da miliardi di coppie di basi dopo milioni di
anni di evoluzione; la selezione naturale fa sì che geni diversi si evolvano a velocità diverse e
che uno stesso gene evolva a velocità diverse in tempi diversi: tuttavia l'intervallo entro cui
variano le velocità di evoluzione di tutti i geni è piccolo ed il numero dei geni enorme, e
mentre la velocità di evoluzione di alcuni geni aumenta è probabile che quella di altri
diminuisca in eguale misura; inoltre il bilanciamento tra le velocità di mutazione dei vari geni
non deve essere simultaneo poiché l'apparente costanza emerge dopo milioni di anni. Rimane
da considerare che la tendenza di fondo dell'evoluzione è da strutture semplici a strutture più
complesse, per cui una mutazione, fenomeno per definizione casuale, è sempre più probabile
che sia sfavorevole (piuttosto che neutrale o favorevole) mano a mano che l'evoluzione ha
reso più complessi gli organismi: forse l'orologio molecolare sta sempre più rallentando? Per
evitare i problemi collegati a mutazione e fitness si sta sempre più cercando di spostare
l'indagine dal DNA esonico a quello intronico, che non esprimendosi dovrebbe essere neutro
alla fitness: ma secondo un'ipotesi anche gli introni sono stati in qualche maniera oggetto di
evoluzione, in quanto sembra che i procarioti inizialmente avessero nel loro genoma introni
che in seguito hanno eliminato.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
E' comunque un dato dimostrabile che il DNA sembra evolversi con una velocità media
uniforme; l'errato appaiamento dei DNA ibridi è il risultato di cambiamenti genetici che si
sono fissati nelle due linee filetiche dal momento in cui si sono separate, per cui il numero di
appaiamenti errati è proporzionale al tempo trascorso dalla divergenza delle due linee: la
temperatura media di fusione dell'ibrido DNA-DNA è quindi una misura indiretta del tempo
trascorso dall'inizio della divergenza filetica.
La datazione assoluta dell'orologio molecolare viene effettuata grazie ad un evento geologico,
cronologicamente definito, che ha causato la divergenza di due linee filetiche. Ad esempio, un
progenitore comune allo struzzo africano ed al nandù sudamericano viveva nella Gondwana,
separata circa 80 milioni di anni fa dalla deriva dei continenti che ha portato alla formazione
dell'oceano Atlantico: questa barriera geografica ha causato l'isolamento riproduttivo, e quindi
la divergenza, delle linee filetiche dello struzzo e del nandù. Dividendo 80 milioni di anni per
la differenza tra la temperatura di fusione media dell'eteroduplex DNA di struzzo - DNA di
nandù e la temperatura di fusione media dell'omoduplex DNA struzzo - struzzo e
dell'omoduplex nandù - nandù si ricava la costante di taratura (espressa in milioni di anni di
divergenza per grado centigrado di riduzione della temperatura media di fusione). Da quello
esposto e da altri calcoli effettuati su divergenze di linee filetiche diverse, causate da altri
eventi geologici cronologicamente definiti, si è sempre ricavato un valore per la costante di
taratura pari a circa 4,5 milioni di anni per grado centigrado: una riduzione media di un grado
centigrado nella temperatura di fusione equivale a circa 4,5 milioni di anni trascorsi da
quando le due linee filetiche si sono separate. La costante di taratura, nonostante sia simile in
diverse evoluzioni filetiche, non viene generalizzata per le varie specie: nel caso non sia
possibile utilizzare eventi geologici cronologicamente definiti e collegati alla divergenza
filetica si utilizzano metodiche di datazione indiretta, come nel caso del panda gigante.
Occorre sottolineare che le tecniche di biologia molecolare presentano delle limitazioni;
innanzitutto per la datazione del tempo trascorso in senso assoluto è sempre indispensabile
riferirsi a testimonianze fossili; inoltre non si tiene conto del fatto che molte mutazioni
svantaggiose dal punto di vista selettivo scompaiono dalla popolazione, per cui non vengono
considerate: per evitare ciò, l'attenzione dei ricercatori è attualmente rivolta soprattutto alla
porzione intronica del genoma che, sprovvista di attività codificante, dovrebbe
presumibilmente conservare qualsiasi mutazione casuale senza indurre maggiori o minori
vantaggi dal punto di vista evolutivo.
I marcatori della filogenesi possono essere distinti in marcatori precoci e marcatori non
precoci: dei primi fanno parte gli enzimi (i quali potrebbero essere utilizzati come sequenze
nucleotidiche o proteiche anche per studiare le distanze fra razze, dove l'ibridazione
DNA-DNA non è applicabile), fra i secondi, ad esempio, l'rRNA 16 S utilizzato da Woese.
Le classificazioni filogenetiche effettuate dalla biologia evoluzionistica hanno dimostrato che
gli avvoltoi del vecchio mondo sono strettamente imparentati con falchi ed aquile, mentre gli
avvoltoi del nuovo mondo (condor, avvoltoio dal collo rosso, etc.) hanno solo una
somiglianza superficiale con gli avvoltoi del vecchio mondo, pur essendo storicamente stati
inclusi entrambi nell'ordine dei falconiformi: i confronti dei DNA hanno accertato che gli
avvoltoi del nuovo mondo sono evolutivamente più vicini alle cicogne (con le quali hanno
cominciato a divergere solo 35 milioni di anni fa) che agli avvoltoi del vecchio mondo (le
somiglianze esteriori sono dovute ad un'evoluzione convergente, causata dal divorare le
carogne). Altri studi hanno stabilito che i barbuti del nuovo mondo sono più vicini ai tucani
che ai barbuti del vecchio mondo, ed ancora che i corvidi originarono in Australia e
successivamente colonizzarono prima l'Eurasia e poi il Sud-America.
L'esempio del panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) è utile per illustrare come le tecniche
di biologia molecolare possano risolvere dei casi di difficile discriminazione tassonomica e
contemporaneamente per spiegare il principio della datazione indiretta. La collocazione
tassonomica del panda gigante è stato un problema che per più di un secolo ha interessato gli
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
scienziati: solo recentemente il problema della ascendenza genealogica di questo animale è
stato risolto, dopo che per circa 120 anni si è stati incerti se includerlo nella famiglia degli
ursidi, in quella dei procionidi o in una famiglia appositamente creata (ailuropodidi).
Il panda gigante rassomiglia ad un orso, ma rispetto a questo presenta delle caratteristiche
atipiche:
- è erbivoro, nutrendosi soprattutto di bambù;
- è l'unica specie, oltre alle scimmie ed all'uomo, ad avere il pollice opponibile;
- non va in letargo;
- non ringhia ma bela;
- presenta un numero (2n=42) ed una morfologia dei cromosomi più simili al panda minore
(procionide con 2n=44) che agli orsi (2n=74).
Utilizzando la tecnica dell'ibridazione del DNA si è riusciti a tracciare un diagramma
filogenetico da cui risulta che i procionidi furono il primo gruppo a separarsi da un antenato
comune alle due famiglie degli orsi e dei procioni: subito dopo il panda minore si separò dalla
linea principale dei procionidi, mentre il panda gigante si differenziò soltanto più tardi dagli
orsi, ai quali è quindi risultato filogeneticamente più vicino. Questi risultati sono stati
confermati da un confronto tra le sequenze aminoacidiche di 50 enzimi omologhi.
Un'ulteriore conferma è stata ottenuta mediante esami immunologici; con questo metodo la
distanza evolutiva tra le specie viene valutata confrontando l'intensità della reazione di una
siero proteina (albumina) di una specie con gli anticorpi prodotti contro quella proteina da
parte di una specie diversa: meno molecole di anticorpo si legano, maggiore è l'affinità tra le
specie, e viceversa.
Per datare l'evoluzione del panda maggiore non si avevano a disposizione degli eventi
geologici adatti: si è ricorsi ad una datazione indiretta mediante altre specie con stessa
velocità evolutiva e cronologia nota; è stato possibile correlare la velocità dell'evoluzione
molecolare nei carnivori (gruppo a cui appartiene il panda) con un secondo gruppo non affine,
i primati, le cui molecole proteiche sembrano evolversi alla medesima velocità di quelle dei
carnivori ma la cui storia fossile è ben documentata. Se due specie di primati hanno i
medesimi valori di distanza molecolare di due specie di ursidi, si può affermare che entrambi i
gruppi si sono separati circa allo stesso tempo: in altri termini, dimostrando che la molecola
dell'albumina presenta tra l'orso nero e l'orso malese le stesse differenze percentuali
riscontrate tra gorilla e scimpanzé, si può concludere che questi due gruppi si sono separati
approssimativamente nella stessa epoca geologica. Basandosi sui dati della divergenza tra
scimmie antropomorfe africane ed ominidi, avvenuta intorno a 35 milioni di anni fa, si è
concluso che la divergenza tra gli antenati degli ursidi e dei procionidi è avvenuta tra 35 e 50
milioni di anni fa; dopo circa 10 milioni di anni da questa divergenza, il gruppo dei procionidi
si scisse in due rami: quello dei procionidi del vecchio mondo (panda minore) e quello dei
procionidi del nuovo mondo (procione, coati, etc.). Circa nel momento in cui i gibboni si
separarono dalle scimmie antropomorfe (18-25 milioni di anni fa) gli antenati del panda
gigante si separarono dal gruppo degli ursidi, da cui poi, circa 10 milioni di anni fa, presero
origine le varie specie di orsi.
Anche le differenze nel numero di cromosomi sono state spiegate; gli orsi del genere Ursus
hanno 74 cromosomi acentrici, mentre il panda gigante possiede 42 cromosomi, la maggior
parte dei quali metacentrica: confrontando con il bandeggio i cromosomi del panda gigante
con quelli provenienti dalle sei specie di Ursus, si è dimostrato che le bande dei cromosomi
degli orsi sono esattamente identiche a quelle delle braccia dei cromosomi del panda gigante;
questa osservazione dimostra che durante il processo di evoluzione si è ripetutamente
verificato il fenomeno della "fusione acrocentrica" in cui due cromosomi acrocentrici si
fondono per formare un unico cromosoma metacentrico.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
I GENI HOMEOBOX.
In un embrione, già molto tempo prima che la maggior parte delle cellule che lo costituiscono
cominci a differenziarsi, si delinea un piano di sviluppo che stabilisce le principali regioni
corporee: testa, tronco, arti, coda, etc.: ciò fa sì che combinazioni di tessuti, apparentemente
identici, si distribuiscano in strutture anatomiche nettamente distinte quali gli arti anteriori e
gli arti posteriori.
Grazie all'utilizzo di tecniche di biologia molecolare è stato possibile isolare e caratterizzare
alcuni geni che, durante lo sviluppo, svolgono un'azione determinante nella definizione del
piano corporeo dell'embrione. Tali geni ripartiscono precocemente l'embrione in campi di
cellule che hanno la potenzialità di trasformarsi in tessuti ed organi specifici. Questi geni, in
grado di controllare l'attività di molti geni subordinati, presentano dei tratti di DNA altamente
invariati che si ritrovano non solo negli invertebrati ma anche nei vertebrati: tali tratti
altamente conservati, cioè che si ripetono con sequenze nucleotidiche invariate, sono detti
homeobox; anche le proteine prodotte dai geni homeobox presentano una sequenza invariata
di circa 60 aminoacidi, definita omeodominio. Le proteine prodotte dai geni homeobox si
legano ai geni subordinati, attivandone o reprimendone l'espressione.
Rimane ancora da chiarire in quale modo i geni homeobox riescano effettivamente a regolare
lo sviluppo embrionale. E' da sottolineare che i geni homeobox sono disposti lungo il
cromosoma in un ordine preciso, ordine che corrisponde alla sede del corpo in cui i geni stessi
andranno ad esprimersi: infatti i geni homeobox disposti all'estremità sinistra del complesso si
esprimono nell'estremità posteriore del corpo, mentre quelli all'estremità destra del complesso
si esprimono vicino alla testa. I differenti geni homeobox si esprimono quindi in fasce ben
distinte lungo l'asse antero-posteriore del corpo: rimane da chiarire il meccanismo che regola
la loro stessa espressione.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
LA DOMESTICAZIONE
Oggi si dà per acquisita la differenza fra specie domestiche e specie selvatiche, ma occorre
spiegare meglio il concetto di domesticazione per poter capire l'attuale situazione delle specie
(e non solo di quelle produttive) nel mondo intero.
Verrà sottolineata nel corso l'importanza antropologica dell'etnozootecnia: capire i tre
elementi animale-ambiente-uomo.
Il termine "risorse genetiche" è in voga da alcuni anni: si intende con esso tutta la variabilità
che esiste all'interno di specie domestiche; "genetiche" sta ad indicare l'origine ed il sistema
con cui studiare le risorse: non solo dal lato produttivo, morfologico o addirittura estetico, ma
proprio a livello genetico (e quindi, se vogliamo, anche da un punto di vista più scientifico).
Cercheremo di vedere il problema dinamico delle specie, e non il vecchio e sicuramente
superato concetto zootecnico di razza come qualcosa di statico; resteremo comunque
all'interno della suddivisione tassonomica di specie, la quale potrebbe a sua volta non essere
considerata statica (ad esempio, vedremo il rapporto fra Bos taurus e Bos indicus, oppure il
problema generale di differenziare gli animali in specie come nel caso del cavallo e dei suoi
progenitori, ed ancora i rapporti fra il suino domestico ed il cinghiale, o quelli fra i bovidi in
genere). Sorgerà la domanda: è giusto considerare la speciazione per eventi zootecnici non
ben definiti?
Studieremo quali sono le forze in grado di far variare le popolazioni, con enfasi sulla
selezione che sottolinea il ruolo dell'uomo nella produzione animale (non solo dunque
selezione naturale, ma anche selezione "artificiale", cioè provocata dall'uomo); è la premessa
indispensabile allo studio del problema del miglioramento genetico.
Capiremo per quali motivi è sorto il problema di conservare le risorse genetiche, e quali sono i
metodi adatti per preservarle. Non si parlerà quasi mai del singolo, ma di popolazioni. Che
cosa è la popolazione? Come va definita per poterla utilizzare nei nostri studi? Come
evolvono le popolazioni?
L'etnografia studia la produzione animale nelle sue tre componenti essenziali: uomo, animale
ed ambiente. Le risorse genetiche sono le differenze genetiche all'interno della specie. Non si
può capire la creazione delle risorse genetiche se non si parte dalla domesticazione: non
bisogna credere che la domesticazione si sia verificata su specie "pronte" ad essere
domesticate. Prima della domesticazione, l'uomo era legato all'animale solo dai problemi di
caccia ("uomo-cacciatore"). La caccia ha avuto ed ha tuttora sovente un ruolo dannoso sulle
popolazioni animali, fino addirittura alla distruzione di specie, ma non è stata una forza così
potente da determinare spinte evolutive sulle popolazioni (non ha cioè creato dinamiche
particolari); forse oggi la caccia può avere degli aspetti selettivi (ad esempio, si cacciano più i
maschi delle femmine, oppure più gli adulti dei giovani).
Fino a circa 15000 anni fa l'uomo cacciava grandi specie: intervenne un grosso mutamento
ambientale. Perché l'uomo è passato dalla caccia alla domesticazione, cioè all'allevamento
animale? Comunemente si pensa che l'allevamento sia superiore alla caccia: oggi ciò è vero,
ma non lo era allora, basti pensare ad alcuni paesi attualmente in via di sviluppo, dove a volte
i cacciatori stanno meglio degli allevatori ed agricoltori (ad esempio, i Boshimani africani),
perché si lavora meno, la dieta è più varia, si è meno in balìa di epizoozie ed eventi
atmosferici.
Un evento simile alla domesticazione degli animali è la "domesticazione" dei vegetali, che
interagisce con quella animale: senza certe condizioni agronomiche non si sarebbe infatti
potuto domesticare gli animali. Sono esistiti al mondo almeno 6 centri di domesticazione delle
piante; la domesticazione degli animali è invece un fatto verificatosi esclusivamente nel
medio-oriente, con l'eccezione dell'America latina, dove comunque il ruolo della
domesticazione animale è inferiore a quello della domesticazione dei vegetali. Si potrà da
questo inizio risalire a come si è popolato il mondo dal punto di vista etnozootecnico.
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La domesticazione e quindi l'allevamento si sono diffusi molto rapidamente nelle popolazioni
umane: non si è però trattato di un processo "finalistico". Capiremo perché l'ambiente ha
avuto un ruolo fondamentale nella scelta. La domesticazione delle piante è stata più difficile:
per molto tempo l'uomo ha domesticato le piante ma senza averne capito il sistema
riproduttivo (ancora oggi ci sono, in certe culture, cerimonie e riti di fecondazione della terra);
negli animali l'uomo vedeva attuate le sue stesse modalità riproduttive. Oggi ci sono almeno
700-800 piante "domesticate", alcune in maniera molto spinta come nel caso dei cereali, nei
quali la variabilità naturale è praticamente scomparsa. Sono individuabili sei centri di
domesticazione delle piante. Negli anni '20 Babiloff, un genetista russo scomparso sotto
Stalin, ha fissato i concetti di centro di origine e di centro di diffusione.
CENTRI DI DOMESTICAZIONE DEI VEGETALI
1- Medio Oriente: frumento, orzo, avena, lenticchia, veccia
2- Africa equatoriale: sorgo, pisello da foraggio
3- Cina: riso
4- Sud Est asiatico: riso, noce di cocco, mango,canna da zucchero, banana
5- America centrale: mais, patata dolce, avocado, papaya, cacao, cotone
6- America meridionale: arachide, manioca, cotone, soia, patata, ananas, tabacco
L'uomo è riuscito a domesticare i vegetali autofecondanti: se c'è fecondazione incrociata c'è il
problema del reincrocio con varietà selvatiche; questo stesso problema c'è negli animali, ma
in questo caso l'uomo è in grado di impedire il reincrocio con i selvatici: ecco perché fino a
pochi decenni fa la selezione era stata più attiva sugli animali che sui vegetali.
Per gli animali abbiamo due centri di domesticazione: nel medio-oriente sono comparse
cinque specie domestiche: cane, bovino, ovino, capra, suino; nelle Ande il porcellino d'India
(domesticato a scopo nutritivo), il lama e l'alpaca. La nostra attenzione si focalizzerà sul
centro medio-orientale.
Circa 20000 anni fa è cominciato il ritiro dei ghiacci dall'ultima glaciazione, ritiro che è
tuttora in corso; nella storia della terra ci sono state almeno quattro glaciazioni, intervallate
con periodi interglaciali; il ghiaccio arrivava fino a circa metà del Mediterraneo. Si sono
alzati i livelli delle acque (la Gran Bretagna e la Sicilia sono diventate delle isole), ed è
aumentata la quantità d'acqua a disposizione dei vegetali; le parti libere dai ghiacciai erano
prive di boschi, la fauna era molto omogenea: in quel periodo in Italia avevamo animali
adesso considerati tipicamente africani ed in America vivevano i cavalli, che successivamente
si estingueranno e verranno reintrodotti dagli Europei. L'uomo cacciava i grossi animali con
tecniche sofisticate, ma non cacciava uccelli, non pescava, non raccoglieva i vegetali: era un
nomade che seguiva gli animali nei loro spostamenti stagionali (sul tipo di quanto attualmente
fanno i Lapponi con le renne). L'Europa è interessata da una massiccia riforestazione: sono
coperte da foreste tutte le aree mediterranee, comprese le regioni africane attualmente
desertiche; al Nord al posto delle foreste abbiamo le praterie. Le specie animali di grossa mole
si spostano dal Mediterraneo al Nord, perché adatte alla vita in spazi aperti e non a quella nei
boschi (ad esempio, il bisonte europeo, attualmente in Polonia). L'uomo non caccia più solo i
grossi animali, ma diventa un cacciatore a largo spettro (avifauna, pesca); impara a cibarsi di
vegetali ed animali attraverso la raccolta (ad esempio molluschi). In genere un maggior
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utilizzo di vegetali diventa sinonimo di un periodo di "decadenza": dai resti umani si nota una
"decadenza" fisica dell'uomo in questo periodo; è il periodo mesolitico, che segna il passaggio
dal paleolitico al neolitico, l'epoca della domesticazione. Con la caccia l'uomo comincia ad
essere dannoso per alcune specie, già minacciate dai mutamenti ambientali (in Nord America
scompaiono almeno trenta specie selvatiche, come il cavallo, la pecora, la capra, il cinghiale).
La domesticazione comincia come un affinamento della caccia; per avere la domesticazione
l'uomo deve adattarsi ad una vita sedentaria (8000-9000 anni fa), come nel neolitico, nella
zona medio-orientale (a Gerico ci sono strutture murarie che risalgono all'8000 a. C.). L'uomo
era "immobile" e cacciava animali "immobili". Non è stato l'animale a spingere l'uomo a
diventare allevatore; all'inizio ci saranno state tecniche miste tipo la transumanza, dove le
donne, i bambini ed i vecchi restavano nei villaggi e gli adulti andavano con gli animali.
Perché l'uomo ha cambiato il suo sistema di vita e quali sono state le conseguenze? L'uomo
aveva grandi disponibilità di cereali nelle zone ricche d'acqua (ancora oggi è una situazione
osservabile in alcune aree dell'Anatolia), per cui non era più costretto a spostarsi per
l'esaurimento delle risorse locali. Sembra che all'epoca il grano crescesse continuativamente
(ai tempi dei Romani venne selezionato quello che matura in un periodo particolare), e forse
lo stesso accadeva con gli altri cereali. Solo 3000-4000 anni dopo la immobilizzazione degli
animali compaiono specializzazioni economiche e produttive degli animali stessi (lavoro,
trasporto, fibre, mungitura): siamo intorno al 4000-3000 a. C.; in medio-oriente compaiono i
segni diretti della domesticazione (non ci si basa più solo sulla struttura delle ossa ma
compaiono finimenti, ricoveri, mangiatoie, abbeveratoi, aratri metallici fatti per il traino
animale). L'uomo capisce di poter manipolare aspetto e produttività degli animali (selezione):
si vedono consigli in opere greche e latine (il cavallo veloce è sauro, le pecore incrociate
fanno lana più fine, il cane nero è più aggressivo).
Un'eccezione è la domesticazione del cane: all'inizio forse il termine "domesticazione" era
improprio; probabilmente il rapporto cane-uomo è molto antecedente il neolitico (si
rinvengono resti di cani domestici vissuti in Nord America prima che in medio-oriente, datati
9000 a. C. al C14). I cani sono arrivati in Nord America con l'uomo, attraverso l'Asia (la
possibilità di attraversare lo stretto fra Siberia ed Alaska si è interrotta almeno nel
16000-15000 a. C.). Si trattava di un caso di simbiosi uomo-progenitore selvatico del cane (il
lupo: non può essere accettata la teoria polifiletica dell'etologo Konrad Lorenz che voleva per
antenati il lupo e lo sciacallo); probabilmente era un lupo asiatico e non il lupo europeo. Forse
il lupo si è avvicinato in modo non aggressivo (grazie alle strutture sociali del branco) e/o
l'uomo ha allevato cuccioli orfani, oppure il lupo agiva da "spazzino" intorno ai villaggi.
Molto rapidamente la simbiosi si è trasformata in vera domesticazione. In Australia c'è il
dingo, un canide che rappresenta il ritorno allo stato selvatico di un cane domestico: è arrivato
con l'uomo forse nel 35000-30000 a. C..
La domesticazione non è una simbiosi: c'è una prevaricazione sulla specie domesticata, la
quale può comunque trarre vantaggi, ma a prezzo di maggiori svantaggi (ad esempio, viene
cibata ma è confinata); la domesticazione non è un parassitismo assoluto: è un parassitismo
relativo. La domesticazione si ha quando un'altra specie (domesticante) controlla le
modalità riproduttive della specie domesticata; il rapporto può variare nel tempo e nelle
culture, ma vantaggi e svantaggi si ritrovano sempre, in tutte le situazioni (basta pensare
all'attuale allevamento intensivo ed all'allevamento durante la mezzadria). Sono domesticate
non solo specie di mammiferi, ma anche pesci, insetti (ad esempio il baco da seta, non
completamente l'ape). La domesticazione non è un evento "tutto o nulla", ma ha gradazioni:
vedi l'elefante asiatico (lavora, ma non si riproduce in cattività). L'importanza di ottenere la
riproduzione di specie selvatiche in giardini zoologici e parchi: è alla base di una possibile
domesticazione. Il cane si è rapidamente specializzato: la lotta ai predatori è stata la prima
specializzazione (difesa delle greggi da lupo ed orso: ad esempio, il pastore
maremmano-abruzzese, bianco per mimetizzarsi con la neve), poi animale da caccia (la
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caccia aveva ancora un fondamentale ruolo economico). Per tutte le specie ad eccezione del
cane la domesticazione non è iniziata in maniera così poco traumatica. L'uomo controllava la
riproduzione: lo capiamo dal fatto che si mantenevano delle mutazioni non dotate di "fitness",
come l'assenza di corna negli erbivori (che in natura servono soprattutto per la riproduzione).
Qual è stato l'impatto della domesticazione sull'aspetto genetico degli animali? Non ha portato
nulla, ma si sono mantenute le mutazioni comparse nei selvatici; la domesticazione ha reso
"viabili" le mutazioni, ed ha aumentato il numero di animali presenti in uno spazio ristretto.
Non aumenta il tasso di mutazione, ma aumentano i soggetti mutati.
Il neolitico è una cultura ancora presente in alcune popolazioni africane (alcune sono
addirittura allo stato preneolitico): si parla del neolitico medio-orientale (da 8000 a 5000-4000
anni a. C.). Il neolitico si ha quando ci sono quattro condizioni: vita sedentaria, agricoltura,
allevamento e capacità di costruire oggetti in ceramica.
In Europa come è arrivata questa domesticazione? O con una trasmissione "demica" o con
una trasmissione "culturale", cioè o con il trasferimento dell'uomo stesso o con la
trasmissione del sapere (culturale); sicuramente ci sono stati fenomeni demici, poiché il
miglioramento della vita dell'uomo ha consentito incrementi demografici con conseguenti
spostamenti migratori; ci sono anche stati trasferimenti culturali con il commercio (l'uomo si
spostava molto rapidamente nel Mediterraneo con la navigazione: l'ossidiana, prodotta in
poche zone, si ritrova quasi ovunque); la trasmissione culturale spiega la domesticazione in
grandi isole come Corsica e Sardegna, nelle quali l'allevamento compare nello stesso tempo
che sul continente (il muflone probabilmente non è una specie selvatica ma una specie
domestica rinselvatichita); in Sardegna ed in Corsica non ci sono resti di ovini selvatici nel
paleolitico, poi compaiono improvvisamente (5000 a. C.) i resti del muflone nel neolitico
(l'uomo arriva portandosi dietro un animale domestico e poi l'isolamento geografico ha dato
all'ovino la possibilità di ritornare anche allo stato selvatico).
A volte nel neolitico non ci sono tutti i 4 segni: in Provenza non c'è sedentarietà, nel Nord
Europa non c'è ceramica. C'è un po' un concetto di "frontiera" fra paleolitico e neolitico; ci
sono due possibilità di contatto fra neolitico e culture precedenti; la possibilità statica: il
neolitico prevale oppure viene ricacciato; la possibilità dinamica (frontiera "porosa"):
interscambi fra le due culture. Anche gli attuali modelli di vita non sono stati imposti
culturalmente ma politicamente. La via è stata medio-oriente, Turchia, Grecia, Balcani,
Europa centrale e da lì in Italia ed in Europa orientale; pochissimi i reperti in Africa,
nonostante fosse all'epoca una terra rigogliosissima (almeno altri sette fiumi grandi come il
Nilo).
LA DOMESTICAZIONE DELL'OVINO.
La pecora domestica (Ovis aries) è stata domesticata in Medio-Oriente nell'ambito delle
culture neolitiche comparse sulla terra intorno all'8000-7000 a.C..
Ancora oggi non è stato del tutto chiarito quale sia stato il progenitore selvatico. La pecora
domestica ha un corredo cromosomico 2n=54; le pecore selvatiche presentano invece un
polimorfismo che varia da 2n=58 (urial: Ovis vignei) a 2n=52 (pecora delle nevi: Ovis
nivicola), passando per 2n=56 (ammone o argali: Ovis ammon) e per 2n=54 (muflone
orientale o di Cipro: Ovis orientalis): non è incluso in questo elenco di pecore selvatiche il
muflone sardo-corso (Ovis musimon, 2n=54), in quanto si tratta probabilmente di una pecora
rinselvatichita. La variazione del numero di cromosomi non aiuta nell'identificazione del
progenitore selvatico in quanto il numero di braccia fondamentali è lo stesso in tutte le specie:
la riduzione del numero è dovuta a fusioni centriche (o traslocazioni robertsoniane) con le
quali da due cromosomi acrocentrici si ha il riarrangiamento in un cromosoma metacentrico o
submetacentrico.
Delle specie selvatiche citate sia l'urial che l'ammon-argali che il muflone orientale potrebbero
essere il progenitore selvatico o direttamente (cioè da specie selvatica a specie domestica) o
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indirettamente (cioè attraverso specie intermedie): la pecora delle nevi, oltre che per il numero
dei cromosomi, è da escludere perché localizzata solo nelle Americhe.
Lo scopo della domesticazione è stato, nelle fasi iniziali, il miglioramento dei metodi di
caccia, dato che tutte e tre le specie selvatiche menzionate erano ampiamente cacciate dalle
popolazioni locali. Nell'evoluzione della pecora domestica ha però giocato un ruolo
fondamentale la comparsa del carattere lana, cioè la trasformazione del classico mantello
degli animali domestici in un vello per la produzione di fibra adatta alla tessitura; questa
trasformazione è comparsa in epoca preistorica o protostorica ed ha interessato quasi tutta la
specie (attualmente il 10% ca. delle pecore, per lo più quelle che vivono in regioni tropicali,
ha mantello non lanoso). Nelle pecore selvatiche il mantello è costituito da un doppio strato:
quello interno lanuginoso e quello esterno giarroso; si hanno grossi follicoli primari e pochi
follicoli secondari: sono questi ultimi che producono la lanugine che poi diventerà l'attuale
lana. Inizialmente non si modifica il colore e la muta, ma diminuisce la differenza fra
lanugine e giarra (soay lanosa e soay pelosa, che vennero portate nel nord dell'Inghilterra
circa 1500 anni dopo la loro comparsa in medio-oriente). Forse l'uomo venne stimolato a
considerare la lana dall'osservazione del feltro che si accumulava sui cespugli e sugli arbusti
dove gli animali, durante il prurito dato dalla muta, si strofinavano. Nel 2000 a. C. in
Mesopotamia compare la richiesta di lana con prezzi diversi a seconda della finezza. L'attuale
Merinos ha tutte fibre di lana, senza midollo, con diametro sui 22-25 µm.
Probabilmente per arrivare alla merinos l'uomo ha utilizzato inizialmente due mutazioni:
- mutazione angora, che dà filamento morbido, elastico e lungo;
- mutazione rex, i follicoli sia primari che secondari danno lo stesso tipo di filamenti;
e successivamente altre due mutazioni:
- mutazione merinos;
- mutazione permanenza dell'accrescimento (scomparsa della muta), la quale venne
ovviamente fissata solo quando c'erano degli utensili adatti per sfruttarla, cioè le cesoie (prima
i peli si ricavavano pettinando gli animali oppure venivano strappati).
Il colore è progressivamente cambiato fino al bianco delle produttrici di lana; un ruolo
potrebbero aver avuto i Fenici, che utilizzavano il rosso porpora ricavato dai murici: quando
si è in grado di impregnare una fibra per colorarla, allora diventa importante che la fibra sia
bianca. Nell'età del bronzo le pecore sono ancora pigmentate (i manufatti di quest'epoca erano
neri o grigi). Vennero selezionate anche altre mutazioni, simili alla soay pelosa, con peli
eterotipici (simili alla giarra, ma senza muta): pecore per lana da tappeto o semplicemente
pecore da carne.
Un altro carattere che ha giocato un ruolo importante nell'evoluzione della specie è l'accumulo
di grasso nella coda e/o nella regione lombo-sacrale; comparso probabilmente in
Medio-Oriente verso il 3000 a.C., tale carattere è stato poi ampiamente diffuso in tutte le
regioni dove l'apporto calorico della dieta umana è basato essenzialmente su grassi animali e
dove non sia possibile allevare suini. Attualmente pecore a coda e/o groppa grassa vivono in
diverse regioni africane ed asiatiche; in Italia due razze (la Barbaresca e la Laticauda), di
probabile origine africana, conservano un rudimento di questo carattere.
Minore importanza rispetto al bovino ed alla capra ha invece avuto la produzione di latte:
ancora oggi le razze da latte sono caratteristiche del bacino mediterraneo.
LA DOMESTICAZIONE DELLA CAPRA.
La capra, così come la pecora, sembra discendere filogeneticamente da un capostipite (genere
Tossunnoria) vissuto in Cina circa 10 milioni di anni fa (Pliocene inferiore). Le diverse forme
selvatiche del genere Capra vivono esclusivamente nelle montagne dell'Eurasia e del
Nordafrica: a questo genere appartengono anche lo stambecco delle Alpi (Capra ibex) e lo
stambecco dei Pirenei (Capra pyrenaica). La capra domestica (Capra hircus) deriva
dall'egagro o capra del Bezoar (Capra aegagrus), diffuso in Asia Minore, a Creta, in alcune
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isole greche: le capre selvatiche presenti attualmente in altre isole del Mediterraneo sono da
considerare come capre domestiche rinselvatichite. Le capre dell'Himalaya deriverebbero
invece dal markor o capra di Falconer (Capra falconeri).
Si pensa che la sua domesticazione possa essere addirittura precedente a quella del bovino (IX
millennio a.C., in Iran occidentale; VII millennio a.C., a Gerico in Palestina). Abbiamo
rappresentazioni di capre sull'isola di Creta risalenti alla civiltà minoica (2000-1100 a. C.)
dove si vedono due capre trainare un cocchio, ed un papiro egiziano dove si vedono delle
capre che sono sicuramente domestiche perché hanno il mantello pezzato. Il fine della
domesticazione era la produzione di carne e di latte, ma anche la produzione di pelliccia (era
richiesto il tipo selvaggio) ed attualmente quella di fibre (Angora in Sud-Africa, Kashmir in
Asia centrale). Le somiglianze con la pecora rendono difficili alcune interpretazioni fossili.
Sono stati più volte segnalati degli incroci della capra con la pecora, (incroci comunque
infecondi).
LA DOMESTICAZIONE DEL BOVINO.
Per il bovino le prime testimonianze archeologiche sono contemporanee a quelle della pecora
e sono medio-orientali (in realtà la più antica in assoluto è in Grecia, ad Argìssa Màcula,
vicino Salonicco: circa 6000 a. C.). Per stabilire la domesticità nel bovino si fa riferimento
alla struttura ed alla densità delle ossa lunghe: con la domesticazione si ha rarefazione
dell'osso e variazioni nella trabecolatura. Le datazioni sono basate sul decadimento del C14,
con errori in più o in meno di circa 150 anni (più il campione è vecchio e più la datazione è
precisa).
Una volta per il bovino si sosteneva una teoria polifiletica, cioè con diverse specie selvatiche
progenitrici: forse si era influenzati dalla grande variabilità morfologica delle razze oggi
esistenti. Attualmente si dà per certa la discendenza del bovino dal Bos primigenius o uro, una
specie oggi estinta; l'uro è originario dell'India e comparve in Germania 250000 anni fa, prima
della glaciazione di Riss; l'estinzione avvenne nel 1627 in Polonia, in una foresta a 55 Km da
Varsavia: era una specie molto cacciata, già in epoca romana, non a scopo alimentare ma
perché rappresentava un trofeo prezioso (nelle civiltà "barbare" venivano utilizzate le corna
per elmi, corni, boccali, corone); già in epoca romana l'uro viveva ai confini dell'impero.
Tacito descrive l'incontro dei Romani con l'uro nelle foreste germaniche. Si trattava di una
specie grande, simile agli odierni bovini podolici, dal mantello molto scuro e lunghe corna a
lira; è l'animale raffigurato nella grotta di Lascaux. Sorge una domanda: come si è potuto
domesticarlo e modificarlo rapidamente? Infatti i primi bovini domestici sono piccoli, e nella
classificazione dello svizzero Rutimeyer si pensava ad una vera e propria specie diversa, il
Bos brachyceros, dalla quale si faceva derivare la Bruna-alpina: veniva anche chiamato
"bovino delle miniere di torba", dai numerosi siti svizzeri dove venne rinvenuto; la torba ha
ottime capacità di conservazione.
Tutti i bovini sono derivati dall'uro: come si spiega l'improvvisa variazione di dimensioni?
Probabilmente le condizioni di vita di questi animali all'inizio della domesticazione erano
molto dure, a causa della scarsa disponibilità di cibo: il confinamento impediva all'animale di
procurarselo da solo e l'uomo non ne forniva abbastanza; questo fenomeno della riduzione
improvvisa e drastica della taglia degli animali si ritrova in tutte le specie domesticate in
questo periodo.
La classificazione craniologica del Rutimeyer è da ritenersi ancora valida, tenendo però
presente che non si tratta di vere e proprie specie come presupponeva lo studioso svizzero ma
di "linee" (se non le consideriamo più delle vere specie, forse sarebbe meglio sostituire al
termine Bos il termine "tipo"):
- Bos brachyceros: a cranio leggero, da cui deriva la Bruna-alpina;
- Bos primigenius: ha dato origine alle razze simili all'uro (podoliche e derivate, la razza greca
isca, l'ungherese grigia delle steppe, alcune razze yugoslave, albanesi, francesi, spagnole);
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hanno tutte il caratteristico mantello fromentino che diventa bianco con l'età, corna sviluppate
e cranio pesante;
- Bos frontosus: che ha dato origine alla Simmental e derivate, con corna di vario portamento.
Altri autori hanno provato ad individuare altri tipi, come il longifrons, l'acheratos, ma non c'è
stato un seguito scientifico: ad esempio, per l'acheratos si può dire che l'assenza di corna è
una mutazione genetica dominante facilmente osservabile e che è stata selezionata in diverse
razze ("polled" shorthorn, hereford, ma anche nella frisona e nella charolaise).
L'opinione attuale è che l'uro sia da considerare anche il progenitore dello zebù; all'interno del
genere Bos si hanno le specie B. taurus e B. indicus (lo zebù), con i "sanga", che sono degli
intermedi fra bovini e zebuini diffusi in Africa, nell'area centrale di passaggio fra i bovini
(diffusi al Nord) e gli zebuini (diffusi al Sud). L'uro da cui sono originati i bovini viveva nel
medio-oriente, quello da cui sono originati gli zebuini secondo alcuni in Africa e secondo altri
in India-Pakistan.
Inizialmente l'uro fu domesticato per poter essere cacciato meglio; era un animale tipicamente
boschivo, e quando le foreste si ritirarono al Nord l'uro abbandonò il bacino del Mediterraneo.
Verso il 3000 a. C. compaiono segni di nuove utilizzazioni: compare la mungitura (c'è una
raffigurazione di un uomo che munge nella civiltà cretese, nel palazzo di Cnosso); Greci ed
Egiziani praticavano la caseificazione: non si trattava di un animale specializzato però per la
lattazione, il latte era una specie di "sottoprodotto"; la seconda specializzazione era quella del
lavoro che, anche attualmente, è la specializzazione del bovino più diffusa a livello mondiale
(Asia, Africa, Sud-America): si trattava quindi di un animale "a triplice attitudine".
Che rapporto c'è fra bovino e cavallo intesi come animali da lavoro? Il bovino era l'animale
da lavoro delle zone povere, il cavallo di quelle ricche (TPR in pianura padana). Un altro
esempio è dato dal cavallo Murgese delle Puglie: l'economia ricca della zona favorì la
comparsa dell'equino da traino, mentre in tutto il Sud-Italia c'erano bovini da lavoro; una
situazione analoga in Francia: al Nord il Percheronne, al Sud il bovino Limousine. La carne
veniva ricavata da animali a fine carriera. Rispetto al cavallo, il bovino forniva del latte,
aveva bisogno di meno cure, in fatto di cibo era meno esigente e la sua attività riproduttiva
più efficiente: questo lo rendeva superiore al cavallo in un'economia di sussistenza. La
possibilità di aggiogare gli animali all'aratro fece enormemente aumentare le rese in
agricoltura e portò all'uso dei buoi. Si tenga presente che, nell'antichità e fino all'Alto Medio
Evo, l'importanza degli animali da lavoro era inferiore a quanto comunemente non si creda: e
questo perché fino alla comparsa di industrie "pesanti" la richiesta di forza-lavoro non era
esasperata, perché la forza-lavoro del cavallo e del bovino non veniva correttamente sfruttata,
perché gli schiavi erano economicamente competitivi con i grandi animali.
Le razze bovine specializzate per la produzione di carne e di latte sono comparse molto
recentemente: negli ultimi 100-150 anni quelle da latte (anche se già nel XVII secolo in
Olanda c'erano bovine famose per il latte), nella metà del XVIII secolo quelle da carne (in
Inghilterra: Shorthorn, Aberdeen Angus); dell'opera degli allevatori inglesi si conosce
praticamente tutto: lavorarono con la consanguineità, spingendola anche a punte del 40%
(oggi si ritiene rischioso andare oltre il 5%), con conseguenti cadute della fertilità.
Il bisonte non è mai stato domesticato, ma è stato utilizzato in incroci con il bovino domestico
(beefalo o cattalo) incrociando la femmina con tori derivati da varie razze (Shorthorn, Angus,
S. Gertrudis).
LA DOMESTICAZIONE DEL SUINO.
I primi reperti archeologici di animali del genere Sus risalgono all'Eocene ed all'Oligocene
(Era Terziaria, 20-13 milioni di anni fa).
Fra le diverse specie è quella sulla cui domesticazione persistono più dubbi: da quale
progenitore selvatico deriva? In quale zona geografica è stato domesticato?
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Alcuni autori distinguono due differenti specie: il suino selvatico (Sus scrofa) ed il suino
domestico (Sus domesticus); altri autori ritengono invece che il suino domestico vada
classificato nella stessa specie del selvatico (Sus scrofa domesticus). La specie selvatica viene
distinta in una serie di varietà geografiche, che inizialmente furono considerate delle specie
differenti. Il numero diploide di cromosomi delle varietà selvatiche non è costante: in alcune
2n=36, in altre 2n=38, in altre si ha polimorfismo addirittura nella stessa popolazione. Per
maggior precisione si può affermare che le popolazioni a 36 cromosomi si trovano in Medio
Oriente ed in Europa, mentre quelle a 38 cromosomi si trovano in Asia orientale (Cina, etc.):
in realtà i 36 cromosomi hanno lo stesso numero di braccia, e quindi la stessa informazione
genetica dei 38 cromosomi: si è verificata una traslocazione robertsoniana (fusione centrica
fra due cromosomi acrocentrici, il cui risultato è un cromosoma metacentrico).(1)
Le testimonianze archeologiche più antiche di suino domestico sono state rinvenute in Medio
Oriente (7500-6000 a.C.): in tali zone non esistono però varietà selvatiche di suini che
abbiano un numero di cromosomi pari a quello del suino domestico (2n=38). Tutte le varietà
selvatiche medio-orientali sono caratterizzate da 2n=36: poiché non conosciamo un
meccanismo che possa far aumentare il numero dei cromosomi come in questo caso (da 36 a
38), come si può spiegare la derivazione del suino domestico da quello selvatico medioorientale?
Forse la domesticazione è avvenuta in Cina e non in Medio Oriente (10000 a.C.): in quella
regione le varietà selvatiche hanno 38 cromosomi, ma non sono state rinvenute testimonianze
archeologiche a conforto di questa ipotesi.
Un'altra ipotesi, probabilmente più plausibile, è che nel passato in Medio Oriente ci siano
state delle varietà selvatiche con numero di cromosomi 2n=38, e che da queste varietà siano
derivati i suini domestici; queste varietà selvatiche potrebbero in seguito essersi estinte oppure
essere andate incontro alla traslocazione robertsoniana (che invece non avrebbe interessato il
suino domestico).
Il suino, a differenza della maggior parte delle altre specie domestiche, ha sempre avuto una
sola specializzazione: fornire all'uomo carne e, soprattutto in passato, grasso; si tenga però
presente che le possibilità di conservazione della carne erano inizialmente limitate
all'essiccamento ed all'interramento. La domesticazione ridusse inizialmente la mole
dell'animale, che cominciò ad aumentare a partire dall'età imperiale romana: una nuova
riduzione di mole si ebbe nell'Alto Medio Evo. Per i Greci ed i Romani non era certo
l'allevamento più importante (più importanti ovini, bovini, api): abbiamo comunque molte
ricette a base di maiale (vulva e mammella di scrofa); più importante era l'allevamento nelle
Gallie.
La stessa evoluzione dell'allevamento di questi animali ha sempre avuto una linea costante in
stretto equilibrio con l'ambiente (cfr. l'Odissea: allevamento semibrado in boschi di quercia
con uomini e cani per la guardia, porcilaie per i parti e la brutta stagione). Tutto ciò si è
verificato fino a 100-200 anni fa, quando ha cominciato a svilupparsi un allevamento
estremamente intensivo. Osservando l'evoluzione dell'allevamento del suino nei secoli è
possibile rilevare un andamento parallelo allo sviluppo del bosco e del manto forestale. Lo
sfruttamento intensivo di tali zone con tecniche agricole sempre più affinate e l'incremento
(1)
Il riarrangiamento del numero di cromosomi è un evento estremamente frequente negli animali domestici
(pecora, bovino), ed è probabilmente alla base di numerosi processi evolutivi. Nel bovino è particolarmente
frequente la traslocazione 1-29: venne inizialmente considerata un'anomalia, con conseguente eliminazione dalla
riproduzione dei portatori; in realtà:
1)- non viene perduta alcuna informazione;
2)- probabilmente sui cromosomi interessati non si trovano geni che controllano caratteri produttivi importanti
per l'animale.
Un possibile problema dei traslocati è la formazione di gameti sbilanciati nel numero di cromosomi, con
conseguente ipofertilità. Nel complesso, si tratta di una traslocazione perfettamente compatibile con la linea
evolutiva della specie (probabile progressivo passaggio del bovino da 60 a 58 cromosomi).
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
della pressione demografica portano gradualmente ad un impoverimento del suolo ed alla
desertificazione. Scomparse le foreste e ridotta la disponibilità alimentare, il suino entra in
competizione alimentare diretta con l'uomo. L'allevamento del suino, fra l'altro non
giustificato da altre esigenze (lavoro, etc.) diventa svantaggioso per l'uomo che comincia
quindi a vietarlo adducendo motivazioni religiose (impurità della carne nella religione ebraica
e musulmana). La religione assicura l'astinenza da questa carne "sconveniente" anche della
gente più povera. Gli Egiziani identificarono Set, il dio del male, nel suino già nel 2000 a.C.:
l'allevamento del suino da parte di una casta a parte continuò fino alla conquista islamica; gli
animali pascolavano lungo il limo del Nilo insieme ai cavalli, per ridurre il rischio di
epizoozie.
Differente è l'evoluzione dell'allevamento suinicolo in Europa, dove rimangono vaste zone
boschive, habitat ideale del suino. Anche in Europa l'allevamento del suino raggiunge i livelli
più elevati quando le condizioni ambientali e sociali fanno prevalere il bosco sulle zone
coltivate. L'allevamento del suino era molto diffuso nell'Alto Medio Evo, quando apposite
leggi regolavano l'uso del bosco da parte dei suini. Vi era un allevamento di grandi branchi, di
proprietà dei signori e quello piccolo, colonico, integrato dagli scarti della mensa umana. Nel
Medio Evo, soltanto dopo l'origine dei primi villaggi l'allevamento suinicolo era enormemente
diffuso in un habitat ideale rappresentato da boschi e foreste (carico ca. 1 animale/ettaro, età
alla macellazione 12-24 mesi, resa in carne del 60% ca., pari a 60-70 Kg). Con un andamento
altilenante questo stretto rapporto suino-bosco si trascina fino a circa 200 anni fa, quando il
perfezionamento delle tecniche agricole porta ad una enorme disponibilità di cereali con una
brusca caduta dei prezzi di mercato. Nasce così la convenienza di convertire alimenti vegetali
in carne, alimento dal costo più elevato; è la convenienza ad allevare non più per sé ma per il
mercato: scompare l'importanza dell'equilibrio con l'ambiente (allevamento intensivo). In
realtà tutto questo si verificò 200 anni fa solo nei paesi nordici (Olanda, Danimarca,
Inghilterra, etc.), più ricchi ed evoluti, i quali hanno dato origine successivamente alle razze
più produttive (Large White, Landrace): nei paesi dell'Europa meridionale il cambiamento fu
molto più tardivo, mentre nei paesi in via di sviluppo il rapporto suino-bosco è rimasto fino ad
oggi. Il Large White fu importato in Italia nel 1872.
Morfologicamente il suino ha conservato un aspetto estremamente simile al cinghiale fino a
quando è vissuto a stretto contatto con il bosco: ciò soprattutto a causa dell'accoppiamento
con il progenitore selvatico che viveva nello stesso habitat; le differenze morfologiche sono
comparse negli ultimi 200 anni: accorciamento del grugno, prevalente sviluppo del treno
posteriore (mentre nel cinghiale è più sviluppato l'anteriore); in linea generale, andando da
Occidente ad Oriente si nota che il cranio (soprattutto le ossa lacrimali) diventa più corto e più
alto; altri segni della domesticazione sono la mancata eruzione del I premolare inferiore (già
presente in epoca romana), la coda arricciata, le orecchie pendenti, le setole più fini e più
rade, le colorazioni non mimetiche, la pelle sottile.
LA DOMESTICAZIONE DEL CAVALLO.
Lo sviluppo filogenetico degli equidi è uno dei meglio conosciuti (cfr. l'opera del
paleontologo americano Marsh).
La distribuzione degli equidi selvatici, seppur continua, raramente sembra presentare
sovrapposizioni. L'Eurasia del nord era popolata dal cavallo, il Medio Oriente e l'Asia
centrale principalmente dall'onagro, l'Africa del Nord-Est dall'asino e la restante parte del
continente dalla zebra: questo ha portato ad identificare centri di domesticazione distinti per le
diverse specie.
Le zebre non sono mai state domesticate; si tratta di tre specie diverse: Equus burchelli o
zebra di Grant (2n=44, con striature larghe, la più diffusa, presente in Africa centrale), Equus
grevyi o zebra di Grevy (2n=46, con striature sottili, la più grande, diffusa nell'Africa nordorientale) ed Equus zebra o zebra di montagna o zebra di Hartmann (2n=32, la più piccola,
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
con giogaia e con striature che sulla groppa formano una specie di triangolo, presente
nell'Africa del Sud, ormai rara). Gli ibridi delle zebre con gli altri equidi prendono il nome di
zebroidi. Il quagga era una zebra dell'Africa meridionale, estinta nel 1883 dagli Europei nel
tentativo di affamare gli Zulù; aveva il mantello bruno con striature solo nella parte anteriore
del corpo.
L'asino (Equus asinus, 2n=62) probabilmente fu addomesticato nel Nord-Est dell'Africa
intorno al 4000 a.C.; in Europa venne introdotto dagli Etruschi nel 2000 a.C..
L'onagro (Equus hemionus, 2n=56), ampiamente diffuso e per questo conosciuto con diversi
altri nomi (emione, kiang, dziggetai, kulan), fu domesticato in Medio Oriente intorno al 3000
a.C. e sembra che i primi "muli" comparsi intorno al 2000 a.C. fossero ibridi fra onagri ed
asini domestici. Sappiamo che i Romani utilizzavano nei circhi "muli" ricavati dall'incrocio
onagro x cavalla.
I primi reperti archeologici del cavallo domestico (Equus caballus) sono stati rinvenuti in
Ucraina: si tratta di scheletri di animali presunti domestici del 2500 a. C., utilizzati
sembrerebbe a scopo religioso. Si ritiene tuttavia che la domesticazione del cavallo sia
avvenuta altrove, probabilmente in Asia centrale, da parte di tribù mongole, le quali non
allevavano pecore in maniera stanziale ma nomade. Il nomadismo era indispensabile per le
caratteristiche climatiche ed ambientali della zona, con periodi di siccità per gran parte
dell'anno. Il cavallo permetteva in questo contesto una maggiore facilità di spostamento. Si
può pertanto ritenere che i reperti ucraini siano successivi, ed infatti l'utilizzo a scopo
religioso degli animali è in genere successivo alla domesticazione.
I cavalli sono per la prima volta citati in un editto dell'imperatore cinese del 3468 a.C. ed in
tavolette degli Ittiti databili 3400 a.C..
Non si hanno ormai più dubbi nell'individuare il progenitore selvatico del cavallo: è
identificato nell'Equus prezwalski, rinvenuto in Mongolia nel 1879, che ha un numero di
cromosomi 2n=66 (il cavallo domestico ha 2n=64); gli incroci fra cavallo domestico e cavallo
di Prezwalski sono indefinitamente fertili. E' invece scartata l'ipotesi che identificava il
progenitore selvatico del cavallo domestico nel tarpan, estintosi in Ucraina nel 1879 (i
"tarpan" oggi esistenti sono stati "ricostruiti" accoppiando razze di cavalli domestici).
Sicuramente da ricusare è l'ipotesi polifiletica, secondo la quale alla base dell'odierno
polimorfismo (dal pony all'animale da tiro) ci sono diversi progenitore (cfr. la domesticazione
del cane e del bovino).
Sin dall'inizio il cavallo venne domesticato per il trasporto, sia diretto che da traino (veicoli a
ruota da poco scoperti): sostituisce l'onagro, diffusamente utilizzato a questi scopi.
Un'ulteriore diffusione della specie si ebbe con il suo utilizzo a scopo bellico: inizialmente il
cocchio e poi la monta diretta consentirono un'incontrastabile supremazia bellica alle
popolazioni che cominciavano ad utilizzarli.
Più tardivamente, e solo in zone ricche ed avanzate, cominciò anche l'utilizzo agricolo del
cavallo: nelle zone più povere si continuò a preferire il bovino.
Culturalmente poco diffuso è il consumo di carne equina.
Importante è anche l'ibrido interspecifico fra l'asino e la cavalla: il mulo. In alcuni ambienti
geografici, come ad esempio gli Stati Uniti, c'è stata una netta predilezione per il mulo nei
lavori agricoli. L'incrocio fra cavallo ed asina è detto bardotto. Mulo e bardotto sono
generalmente sterili, ma almeno un caso di mula fertile scientificamente controllato è stato
segnalato nel 1981 (la mula aveva prodotto un gamete con tutti cromosomi di cavallo, il che si
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verifica 1/2 volte: il prodotto era un mulo, e nonostante il padre del prodotto fosse anche
padre della madre il prodotto stesso è da ritenersi non consanguineo).
Bisogna sottolineare che la domesticazione del cavallo è avvenuta circa 4000 anni dopo quella
dei primi animali; l'uomo ha ormai fatto proprie le tecniche di domesticazione e sceglie quindi
gli animali da domesticare in maniera finalizzata, secondo i propri scopi (nel caso del cavallo
per il trasporto). La domesticazione "conscia", cioè "finalizzata", porterà intorno allo stesso
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
periodo a domesticare altri animali "finalizzati": il dromedario, il gatto (per la difesa dei
granai in Egitto).
Nel complesso possiamo quindi distinguere due fasi:
1)- domesticazione "improvvisata", quasi una continuazione della caccia, finalizzata
esclusivamente alla fornitura di carne;
2)- domesticazione "conscia", cioè "finalizzata", che comincia con il cavallo e continua con
altri animali fino ad arrivare a quelli domesticati per soli scopi estetici (scimmie, etc.).
La domesticazione rimane ancora un processo dinamico che, proprio perché dinamico, può
avvenire in entrambi i sensi: gli animali verso i quali l'uomo non ha più interesse tornano a
rinselvatichirsi (ad esempio, nel cavallo, i mustangs americani ed i brumby australiani).
LA DOMESTICAZIONE DEL CANE.
Per molto tempo si è discusso su quale fosse stato il progenitore selvatico del cane domestico:
alcuni autori ritenevano che esso derivasse dallo sciacallo (Canis aureus L.) mentre altri
affermavano che derivasse dal lupo (Canis lupus L.).
L'etologo Konrad Lorenz, nel suo libro "E l'uomo incontrò il cane" (1950) ipotizza l'inizio
della domesticazione dello sciacallo, che secondo l'autore (premio Nobel per la medicina nel
1973) è, insieme al lupo, il progenitore selvatico del cane. Inizialmente l'uomo fornì cibo allo
sciacallo, in modo tale che rimanendo vicino ai suoi accampamenti di notte assicurasse una
forma di vigilanza; in seguito lo sciacallo potrebbe aver seguito l'uomo nella caccia, con una
forma di simbiosi: l'uomo sfruttava il fiuto dell'animale, lo sciacallo riceveva parti di prede
che probabilmente non sarebbe in stato di sopraffare senza l'uomo; in seguito, un bambino
potrebbe aver adottato un cucciolo orfano che, diventato adulto, avrebbe riconosciuto come
padrone il capofamiglia: questi, individuando dei vantaggi nel comportamento dell'animale
domesticato rispetto al selvatico, avrebbe deciso di adottare altri cuccioli.
In base al comportamento, Lorenz distingue fra cani "lupini" e cani "aureus", rispettivamente
con preponderanza di sangue di lupo o di sangue di sciacallo: i lupini (generalmente razze
nordiche come eschimesi, samoiedo, laika) identificano nell'unico padrone il capobranco, gli
aureus possono ammettere più di un padrone ed anche da adulti si comportano nell'uomo
come un cucciolo con i genitori.
L'origine polifiletica proposta da Lorenz è senz'altro da rifiutare.
Attualmente, sulla base dell'analisi comparativa degli elementi morfologici e fisiologici, si
ritiene che l'unico progenitore selvatico sia stato il lupo. La domesticazione di giovani lupi
avviene del resto senza particolari difficoltà, soprattutto per quel che riguarda le sottospecie di
mole più ridotta, quali il Canis lupus pallipes Sykes, diffuso in Iraq ed in India, ed il Canis
lupus arabs Pocok, diffuso in Arabia; molto meno semplice risulta invece la domesticazione
delle sottospecie di mole maggiore diffuse nell'emisfero nord: tali varietà avrebbero quindi
avuto un ruolo minore delle prime nella domesticazione del cane.
L'addomesticamento ha provocato nel lupo una serie di modificazioni anatomiche: molto
evidenti, ad esempio, quelle a carico dei denti; nel lupo, animale esclusivamente carnivoro e
dedito alla caccia, la lunghezza del canino superiore è maggiore della lunghezza complessiva
dei due molari: nel cane, che si alimenta anche con vegetali, il rapporto è invece rovesciato;
risulta inoltre ridotta l'intera arcata dentaria. Nel cane vi è una notevole riduzione delle
dimensioni della porzione anteriore del cervello, quella cioè deputata all'integrazione degli
stimoli sensoriali: in un animale non più costretto a procacciarsi il cibo con la caccia, gli
stimoli olfattivi, visivi ed auditivi diventano infatti meno importanti mentre aumenta di
importanza, e quindi di volume, la porzione cortico-cerebrale.
Non vi è alcun dubbio che la domesticazione del cane sia avvenuta per la prima volta durante
il Mesolitico, prima della nascita dell'agricoltura. I primi lupi hanno cominciato ad avvicinarsi
agli accampamenti mobili dell'uomo in maniera non aggressiva, grazie anche all'abitudine alla
struttura sociale del branco. Si è così progressivamente instaurata tra le due specie una sorte di
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
simbiosi. I resti più antichi di cane domestico, risalenti all'8400 a.C., sono stati ritrovati in
Nord America, nella cava del Giaguaro nella Birch Creek Valley, nell'Idaho; sulla base delle
caratteristiche della loro dentizione, tali resti sono stati identificati come appartenenti a cani
discendenti dai lupi del Vecchio Mondo: probabilmente tali animali sono arrivati nel
continente americano insieme all'uomo, attraverso l'Asia (ricordiamo che la possibilità di
attraversare lo stretto di Bering, tra Siberia ed Alaska, si è interrotta almeno nel 16000-15000
a.C.). I ritrovamenti più antichi in Europa, risalenti al 7500 a.C., sono avvenuti a Seckenberg
in Germania ed a Starr Carr in Inghilterra. In una prima fase l'uomo ha utilizzato il cane anche
come fonte alimentare; poi, dalla fine dell'età del bronzo, il consumo di carne di cane è
cessato e questo animale è diventato un indispensabile compagno di caccia e di difesa.
Assiri e Babilonesi allevavano mute di cani simili agli alani.
In una iscrizione egiziana del 2300 a.C. sono contemporaneamente rappresentati 4 cani di
diversa morfologia: un terrier, un volpino, un segugio ed un levriero. Gli Egiziani allevavano
levrieri di elevate dimensione e dal pelo fulvo chiaro per la caccia alle antilopi. Anubi (da
"a'nûp", antico vocabolo che indicava lo sciacallo), la divinità che custodiva il defunto
nell'oltretomba, ha aspetto di cane o, a volte, la testa di cane su corpo umano: la sua testa
rappresenta un levriere. Gli Egiziani furono ottimi allevatori: in dei bassorilievi sono
rappresentate delle antilopi che, legate, si alimentano ad una mangiatoia ed in altri uomini che
nutrono forzatamente una iena attraverso un imbuto.
Aristotele classificò i cani secondo l'area geografica mentre Senofonte li distinse a seconda
dell'attitudine in cani da caccia, da pastore e da guardia.
E' durante il periodo dell'Impero Romano che l'allevamento vero e proprio del cane si
diffonde largamente: comincia così quel processo di selezione ad opera dell'uomo che, nel
corso dei secoli, porterà alla creazione dell'elevato numero di razze attualmente esistenti.
In epoca romana i cani venivano distinti in cani da pastore (pastorales), cani da guardia
(villatici) e cani da caccia (venatici); i cani da caccia erano ulteriormente distinti in sagaces
(cani che seguono le tracce), celeres (cani che inseguono la preda) e pugnaces (cani che
attaccano la preda).
Nel corso dei secoli si sono poi succedute diverse altre classificazioni; tra queste merita di
essere ricordata quella fatta da John Keys nel 1570 e riguardante tutti i cani britannici.
Una classificazione ancora oggi considerata valida è quella fatta da Mègnin nel 1897, nella
quale i cani esistenti erano classificati in quattro differenti gruppi: lupoidi (testa a forma di
piramide, orecchi generalmente diritti, muso allungato, labbra superiori non oltrepassanti la
base delle gengive inferiori), braccoidi (testa tendente alla forma prismatica, muso
ugualmente largo alla base ed all'estremità, orecchi cadenti, labbra superiori pendenti oltre il
livello della mascella inferiore), molossoidi (testa voluminosa rotonda o cuboide, orecchi
piccoli e cadenti, labbra spesse e lunghe, corpo massiccio e generalmente di alta statura) e
graioidi (testa a forma di cono allungato, orecchi piccoli ed all'indietro, corpo slanciato,
membra gracili, ventre molto retratto).
Le diverse razze canine, così come le intendiamo attualmente, sono nate ufficialmente nel
corso del diciannovesimo secolo, con la nascita cioè dei Kennel club nelle diverse nazioni del
mondo. Nel 1911 nasce in Belgio la Federazione Cinologica Internazionale (FCI) che, ancora
oggi, ha il compito di uniformare gli standard delle diverse razze nei vari paesi del mondo. In
Italia l'associazione che si occupa della conservazione e dell'aggiornamento del Libro delle
Origini è l'ENCI (Ente Nazionale Cinofilia Italiana).
Attualmente la FCI classifica le razze canine riconosciute in quattro categorie, sulla base degli
utilizzi di ciascuna razza. Della prima categoria fanno parte tutti i cani da pastore, guardia
difesa ed utilità; nella seconda troviamo i cani da caccia; nella terza i cani da compagnia e
nella quarta i levrieri.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
LA DOMESTICAZIONE DEL GATTO.
Fino ad alcuni anni fa era opinione diffusa che il gatto avesse avuto come antenato selvatico il
gatto selvatico del deserto libico, Felis lybica o gatto guantato. I lavori di Schanenberg, basati
sul rapporto tra lunghezza del cranio e volume endocranico (indice cranico), hanno cambiato
questo punto di vista: l'indice cranico del gatto domestico è infatti di molto superiore a quello
del gatto guantato, mentre è molto prossimo a quello di Felis ornata, animale che attualmente
vive allo stato selvatico in Iran, in Afghanistan ed in Pakistan; è dunque molto probabile che
la domesticazione del gatto abbia avuto origine in Persia o in Pakistan e che solo
successivamente l'animale sia arrivato in Egitto, a partire da un ceppo domesticato importato
dal Medio Oriente. La questione è comunque ancora controversa.
Resti di gatto domestico databili 7000 a.C. sono stati rinvenuti a Gerico; delle statuette di
donne che sembrano giocare con un animale oppure allattare un animale identificato da alcuni
nel gatto sono databili 6000 a.C.. Il gatto compare in Egitto nel 4000 a.C..
L'avvento dell'agricoltura nel Neolitico e la costituzione di riserve di grano attirarono i topi,
che si moltiplicavano nei silos: di conseguenza, anche i gatti hanno cominciato a vivere presso
gli insediamenti umani. Nel corso del primo millennio a. C. si è sviluppato in Egitto, per
ragioni politico-religiose, il culto degli animali: il gatto, già fortemente apprezzato come
protettore dei granai contro i roditori, venne associato al culto dell'antica dea Bastet, temibile
dea violenta che, una volta placata, era rappresentata da una donna con la testa di gatto. Alla
loro morte, questi animali erano mummificati ed inumati nei cimiteri situati in prossimità dei
templi. Onomatopeicamente, gli Egizi chiamavano il gatto "miu", poi "emu" e "mau".
Il gatto domestico è stato introdotto sul continente europeo dai Greci, che lo avevano
conosciuto in Egitto. Di Erodoto è lo scritto più antico nel quale sia menzionato il gatto (425
a. C.): a proposito delle guerre persiane, racconta che nell'Egitto dei Faraoni il gatto era
oggetto di adorazione. Diodoro Siculo (I sec. a. C.) racconta che vigeva in Egitto la pena di
morte per chi uccidesse un gatto, e che sovente i colpevoli venivano linciati. Greci e Romani
lo importarono dall'Egitto, e quasi sempre nominano il gatto a proposito degli Egiziani.
Il gatto non era conosciuto da Assiri, Babilonesi ed Ebrei, mentre era noto ai Cinesi.
Nell'Islam era animale protetto: si raccontano numerosi aneddoti sulla simpatia di Maometto
per i gatti.
Nel Medio-Evo venne identificato come un animale diabolico o come una reincarnazione
delle streghe, e sovente veniva arso vivo.
Attualmente è un animale sacro per Siamesi e Birmani.
LA DOMESTICAZIONE DEL CONIGLIO.
Il coniglio venne scoperto dai Fenici in Spagna, nel 1100 a.C.: essi confusero questo animale
sconosciuto con una procavia ("Hispania" significava nella loro lingua "isola delle procavie").
Il coniglio è uno degli ultimi animali domesticati: la sua domesticazione, infatti, è avvenuta
soltanto all'inizio del Medio Evo, probabilmente nella penisola iberica. Già i Romani
tenevano i conigli all'interno di recinti, i cosiddetti leporaria: non si trattava tuttavia di
allevamento ma piuttosto di trappole di cattura. Nelle Isole Baleari i Romani introdussero dei
conigli che, a causa della assenza di nemici naturali, si moltiplicarono a tal punto da spingere
gli abitanti a mandare un messaggero a Roma perché l'imperatore intervenisse contro quello
che era diventato un vero flagello dell'agricoltura (cfr. quanto è successo con l'introduzione
del coniglio in Australia).
Dal Medio Evo in poi questa specie domestica si è diffusa ovunque, ma alcuni paesi sono stati
raggiunti solo nel diciannovesimo secolo (Ungheria, Australia). La Chiesa acconsentì durante
il Medio Evo al consumo di carne di coniglio durante la quaresima. Le prime razze di coniglio
sono state selezionate nel XVI secolo.
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LA DOMESTICAZIONE DEL LAMA E DELL'ALPACA.
Si riteneva una volta che il lama fosse originato dal guanaco e l'alpaca dalla vigogna: invece
sembra ormai accertato che tanto il lama (Lama glama glama) quanto l'alpaca (Lama glama
pacos) siano forme domestiche originatesi dal guanaco, un camelide sud-americano che oggi
vive soltanto in zone montane ma un tempo era diffuso su territori molto più vasti.
Attualmente non esistono più lama o alpaca allo stato "selvatico" (cioè non controllati
dall'uomo).
L'addomesticamento del lama è avvenuto in Perù, verso il 2550-2500 a. C. ad opera di
popolazioni preincaiche. Adibiti da millenni alla produzione di carne, lana ed al trasporto,
fino ad alcune centinaia di anni fa i lama costituivano il principale animale domestico delle
popolazioni andine. I maschi adulti, castrati, venivano e vengono utilizzati come animali da
carico (circa 50 Kg di peso), mentre le femmine, i piccoli ed alcuni maschi riproduttori sono
mantenuti all'interno di recinti.
L'alpaca (domesticato probabilmente nel 200 a.C.) ha un carattere più caparbio del lama; a
causa della sua pelliccia, viene tosato e la lana viene utilizzata per confezionare indumenti e
coperte: attualmente questo prodotto è considerato molto pregiato ed esportato in tutto il
mondo (sostituisce il mohair, fibra prodotta dalla capra d'Angora).
Dall'incrocio lama x alpaca si ottiene il suri; dall'incrocio vigogna x alpaca il paco-vigogna.
LA DOMESTICAZIONE DELLA RENNA.
La renna cominciò ad essere cacciata nel periodo tardo-glaciale e gli studiosi identificano una
"età della renna"; la renna era una delle più importanti specie nell'economia dell'uomo del
paleolitico superiore; si può ritenere che, a partire dal 12000 a.C., la sua domesticazione si sia
sviluppata parallelamente alla domesticazione del cane.
Ancora oggi esistono tribù lapponi ed eschimesi per le quali questo animale rappresenta la
principale fonte di cibo e di materie prime. In alcune zone l'addomesticamento di questa
specie è solo parziale e l'uomo continua a seguirne le migrazioni; in altre zone la renna è stata
invece totalmente domesticata ed è utilizzata come animale da tiro e per la produzione di latte.
LA DOMESTICAZIONE DELL'ELEFANTE.
Ancora oggi non è possibile parlare di domesticazione completa per questa specie, sebbene gli
elefanti asiatici siano utilizzati dall'uomo per compiere lavori particolarmente pesanti sin dal
quarto millennio a. C.. La domesticazione è probabilmente avvenuta presso il fiume Indo nel
3500 a.C. e fin dall'inizio l'animale fu utilizzato per il lavoro ed a scopi bellici. In Italia gli
elefanti furono introdotti da Pirro (280 a.C.: erano correntemente utilizzati nei regni
ellenistici) e poi da Annibale (218 a.C.); non è stato chiarito se gli elefanti di Annibale fossero
africani o asiatici. Gli elefanti indiani sono cavalcati dietro le orecchie, quelli africani sul
dorso.
Il loro allevamento non è mai stato praticato con regolarità, probabilmente perché allevare un
elefante è senza dubbio più costoso e meno conveniente che catturarlo quando è già adulto,
soprattutto se si considera che essi non possono venire destinati al lavoro prima che abbiano
raggiunto i dieci o venti anni. Si preferisce domesticare le femmine perché più mansuete. A
causa della contrazione numerica sono cominciati anche dei veri e propri allevamenti.
LA DOMESTICAZIONE DELLA CAVIA.
La cavia venne domesticata dagli Incas a scopo alimentare. Gli Europei, avendo inizialmente
identificato l'America con le Indie, gli attribuirono il nome di "porcellino d'India". Ancora
oggi viene allevata in ambito familiare.
LA DOMESTICAZIONE DEL CAMMELLO E DEL DROMEDARIO.
Il dromedario è riconoscibile per la presenza di una sola gobba; venne domesticato in Arabia
nel 4000 a.C. e successivamente si diffuse ad Ovest in tutto il Nord Africa ed ad Est fino
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all'India. Viene citato nel Vecchio Testamento per un episodio databile 1800 a.C.. Non esiste
attualmente la forma "selvatica" (cioè non direttamente controllata dall'uomo), ma in
Australia ci sono dei dromedari rinselvatichiti.
Più a Nord del dromedario è diffuso il cammello, animale con due gobbe, che venne
addomesticato in Asia centrale nel IV-III secolo a.C.; è poco trasformato rispetto all'animale
selvatico, il quale è attualmente quasi scomparso.
Il cammello ed il dromedario danno un ibrido in cui il carattere gobba singola è dominante.
LA DOMESTICAZIONE DEL BUFALO.
Il bufalo domestico discende dal bufalo indiano, ed ancora oggi la forma domestica si incrocia
con quella selvatica (entrambe appartengono al genere Bubalus). Sulla domesticazione e la
diffusione del bufalo vi sono numerose incertezze. Un tempo il bufalo indiano era diffuso
anche in Mesopotamia ed in Nord Africa (se non addirittura in Europa meridionale), e forse
venne domesticato in Mesopotamia nel III millennio a.C.: altri possibili centri di
domesticazione sono l'India centrale (paleolitico), la valle dell'Indo (III millennio a.C.) o la
Cina (II millennio a.C.). La domesticazione del bufalo appare collegabile ai territori coltivati a
riso. In Europa venne diffuso dalle popolazioni islamiche; in Italia, a parte la possibilità di
un'origine autoctona (confortata dalla particolarità di alcune proteine ematiche che
testimonierebbero una diversa filogenesi dal bufalo indiano, nonché da fossili ritrovati nel
Lazio e nell'arcipelago toscano), venne portato o dalle popolazioni islamiche oppure da
popolazioni nomadi danubiane (VI sec. d.C.); secondo alcuni era invece allevato già in epoca
romana.
Il bufalo africano (bufalo cafro, Syncerus caffer) non si addomestica e non si incrocia con i
bovini.
LA DOMESTICAZIONE DELLO YACK.
Lo yack venne addomesticato dalle popolazioni tibetane nel I secolo a.C.; viene utilizzato per
il trasporto, la carne, il latte, la lana: anche gli escrementi sono utilizzati come combustibile.
E' più piccolo dell'animale selvatico e può essere incrociato con il bovino domestico (anche
con lo zebù) dando un ibrido in cui le femmine sono generalmente fertili.
LA DOMESTICAZIONE DEL GALLO.
Il gallo domestico (Gallus gallus) è stato domesticato intorno al 2000 a.C. in Asia dai popoli
dell'Indo, a partire dal gallo bankiva o gallo dorato, un abitante della giungla simile alle attuali
razze nane. Nel XV-XIV secolo a.C. venne introdotto in Cina dall'India; sia i Cinesi che gli
Egizi conoscevano la tecnica di incubare l'uovo; furono gli Egizi ad introdurlo nell'Europa
meridionale. La produzione iniziale erano le uova, solo successivamente il combattimento ed
a fine carriera la carne. Il gallo non viene nominato nel Vecchio Testamento ma era
conosciuto dai Greci (V-IV secolo a.C.), dai Romani (che avevano i "galli sacri", in quanto
già precedentemente il gallo era considerato un simbolo di fertilità), dai Germani e dai Celti.
LA DOMESTICAZIONE DEL COLOMBO.
Il colombo viene nominato nel Vecchio Testamento in riferimento all'arca di Noè. Sappiamo
che in Egitto era conosciuto nel IV secolo a.C., ma sicuramente era stato domesticato molti
secoli prima in Asia, dove l'allevamento avveniva in torri. Nel 478 a.C. si fa riferimento in
Grecia ad una razza di colombi bianchi e di poco dopo è il primo episodio di piccione
messaggero. Erodoto narra che i colombi facevano il nido sotto i tetti dei templi. I Romani li
allevavano in torri (columbaria) e li alimentavano con pane; per impedirgli di volare venivano
tagliate le ali o rotte le zampe.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
LA DOMESTICAZIONE DELLA GALLINA FARAONA.
La gallina faraona era sicuramente nota ai Greci, in quanto nel mito di Meleagro si narra che
le macchie bianche del piumaggio di questo animale erano le lacrime versate dalle sorelle di
Meleagro alla morte del fratello, quando vennero trasformate in faraone.
Filogeneticamente discendono dai pavoni africani. Gli animali domestici odierni discendono
dalle galline di Numidia portate in Europa ed in America dai Portoghesi nel 1500, ma
l'animale era già stato domesticato nell'antichità in Marocco e successivamente dai Romani
nell'Africa Nord-Orientale.
LA DOMESTICAZIONE DELL'OCA.
L'oca è stata domesticata nel neolitico a partire dell'oca grigia (Anser anser) e dall'oca a fronte
bianca (Anser albifrons). La sua zona di domesticazione e di diffusione erano Europa ed Asia,
esimo
parallelo. La domesticazione veniva effettuata dai piccoli, i quali venivano
sopra il 45
facilmente ipernutriti sia per produrre più carne che per impedirgli di volare; gli incroci con le
forme selvatiche contrastavano la formazione di razze. Molto allevate dai Germani, le oche
venivano nutrite dai Greci con grano per produrre carne ed uova; i Romani, oltre che per
produrre carne ed uova, le nutrivano anche con grano, latte e miele in alimentazione forzata
per produrre il fegato grasso: successivamente venne utilizzato anche il piumino per i cuscini
e, a partire dal V secolo d.C., la penna per la scrittura.
LA DOMESTICAZIONE DEL TACCHINO.
Il tacchino deriva da una sottospecie dell'altopiano messicano: già domesticato dagli Aztechi,
venne portato in Europa dagli Spagnoli.
LA DOMESTICAZIONE DELLA CARPA.
La carpa (Cyprinus carpio) era diffusa in quasi tutta l'Europa due milioni di anni fa e subito
dopo l'ultimo periodo glaciale (durante il quale si era ritirata a Sud-Est) rioccupò il suo
territorio di diffusione. La carpicoltura ebbe inizio in Cina e veniva praticata anche dai
Romani. Nel IX secolo furono i monaci a diffonderla nell'Europa occidentale e settentrionlale.
LA DOMESTICAZIONE DEL PESCE ROSSO.
Il pesce rosso (Carassius auratus) veniva allevato artificialmente nelle zone con acqua
putrescente, stagnante, ricca di vegetazione, nella quale non si poteva allevare la carpa. Una
leggenda cinese ne fissa la domesticazione al 769 a.C.. Fino al 1200-1300 veniva allevato dai
monaci cinesi a scopo religioso e l'uso alimentare era proibito; successivamente venne sia
allevato in casa (con la creazione di molte varietà) che destinato all'alimentazione; nel 1500 si
diffuse in Corea e Giappone, all'inizio del 1600 in Inghilterra ed alla fine dello stesso secolo
arrivò in Europa continentale.
LE CONSEGUENZE DELLA DOMESTICAZIONE.
Le conseguenze della domesticazione: come si è arrivati all'attuale distribuzione delle razze?
Allevamento ed agricoltura hanno ovunque interessato e modificato la vita dell'uomo: ciò si è
verificato molto più come trasferimento demico (migrazione delle popolazioni umane) che
come trasferimento culturale (ad esempio, in Africa, Nord-America, Oceania con l'arrivo
degli Europei). Attualmente solo una piccolissima percentuale dell'umanità non pratica
agricoltura ed allevamento. Tutto ciò è avvenuto in circa 10000 anni. La domesticazione è
avvenuta in aree ristrette (fenomeno localizzato), su animali abbastanza uniformi (piccole
popolazioni): oggi, invece, all'interno delle specie domestiche c'è grandissima variabilità, sia
nei caratteri qualitativi (colore del mantello, corna ed altre appendici ectodermiche, proteine
del sangue: caratteri ad eredità mendeliana o comunque semplice), sia nei caratteri
quantitativi (o biometrici, quale struttura, mole, altezza, produzioni). L'uomo è addirittura
32
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
meno variabile delle specie che egli stesso alleva. Le specie selvatiche sono uniformi non solo
esteriormente, ma probabilmente anche negli altri caratteri (ad esempio, nella pecora ci sono 5
varietà emoglobiniche e nel muflone una).
Teniamo in mente tre punti, che ci serviranno per capire i concetti di razza, varietà, linea:
1)- popolazione di partenza piccola, ristretta, uniforme;
2)- si arriva a specie con molta variabilità interna;
3)- la specie selvatica è monomorfa.
Non c'è stato con la domesticazione un intervento diretto sul DNA (mutazioni, che danno
nuova variabilità): non si notano con la domesticazione modifiche nella frequenza delle
"mutazioni ricorrenti", cioè dei loci con tassi di mutazione sensibili e costanti (mediamente
-5
10 ). La domesticazione non ha creato caratteri nuovi.
Le specie selvatiche sono integrate nell'ambiente, con un loro valore di adattamento
("fitness") che misura come l'individuo è in grado di riprodursi nell'ambiente in cui vive
(indirettamente è una misura dell'effetto dell'ambiente sull'individuo). Ogni individuo è
sottoposto ad un coefficiente selettivo: si tratta delle forze ambientali che favoriscono o
sfavoriscono le possibilità riproduttive dell'individuo (ad esempio, il carattere assenza di
corna nei maschi selvatici ha un valore di adattamento pari a 0, perché gli animali che non
hanno corna non si riproducono: il coefficiente selettivo è del 100%).
w = fitness
s = coefficiente di selezione
s=1-w
w=1-s
dove 1 rappresenta la possibilità di riprodursi in maniera assoluta.
La domesticazione ha modificato i valori di s e w, attribuendo a caratteri con fitness 0 dei
valori positivi: i caratteri si sono pertanto potuti trasmettere. La domesticazione è quindi stata
un intervento selettivo. Nelle prime fasi della domesticazione si sono avute enormi variazioni
delle frequenze geniche, perché entravano nella popolazione delle mutanti che non si
potevano fino ad allora riprodurre. E' chiaro che ci possono anche essere state delle mutazioni
occasionali, che sono state selezionate, ma esse non erano dovute al fatto che l'animale era
domesticato.
Il meccanismo descritto vale solo per geni che sono non neutri rispetto alla selezione naturale.
Il neo-darwinismo distingue i geni in geni con valore di fitness perché interagiscono con
l'ambiente e geni neutri, che non hanno né s né w (su di loro non agisce l'ambiente, come ad
esempio nel caso dei gruppi sanguigni). I geni che ci interessano in zootecnia sono
generalmente non neutri. Anche i geni neutri possono essere variati con la domesticazione,
ma solamente in maniera casuale ("drift": deriva genetica). Per studiare le differenze fra le
popolazioni ci interessiamo soprattutto ai geni neutri, sui quali l'uomo non ha agito.
La domesticazione ha aumentato la numerosità degli individui: le specie domestiche hanno
2
più individui delle selvatiche (nel muflone medio-orientale, si è passati da 4 animali/Km a
2
centinaia/Km ); pertanto è anche stato più probabile, dato che c'erano più animali, il
verificarsi di una certa mutazione.
Dal centro di domesticazione gli animali si diffondono in tutto il mondo: ciò può spiegarci la
parcellizzazione della variabilità in sottogruppi rispetto alla specie; in una popolazione
domestica generalmente non c'è tutta la variabilità presente nell'intera specie domesticata. Una
popolazione è una sub-unità della specie, che non ne esprime tutta la variabilità. Nella
diffusione dal centro di domesticazione si è avuta la suddivisione degli animali per condizioni
geografiche (suddivisione allopatrica o allopatria); allontanandosi dal centro di
domesticazione si interrompe il flusso genetico fra le varie popolazioni e quello fra la singola
popolazione ed il centro di domesticazione (ad esempio, gli animali portati in Grecia non
avevano più rapporti con quelli rimasti in Medio Oriente); l'isolamento geografico ha
aumentato la probabilità di scambio genico all'interno della popolazione. A seconda
33
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
dell'ambiente il coefficiente selettivo si modifica: dall'unico coefficiente selettivo del centro di
domesticazione si formano più coefficienti selettivi. La selezione naturale continuava
comunque ad agire sugli animali domesticati, così come anche oggi accade in alcune aree: in
Europa siamo ormai portati a non considerare quasi più la selezione naturale sulle specie
domesticate.
Una suddivisione nella specie si è verificata molto prima che l'uomo creasse le razze. La razza
primaria è quella creata essenzialmente da un meccanismo allopatrico, in funzione della
selezione naturale su specie domesticate. In Africa, Asia, Sud-America spesso la razza ha il
nome della zona geografica dove viene allevata: si tratta di razze create per allopatria; in Italia
qualcosa di simile è ancora possibile vederlo nella capra (vive nell'Italia meridionale ed
assume nomi geografici).
Le razze primarie si distinguono dalle razze secondarie perché generalmente conservano della
variabilità nei caratteri esteriori qualitativi (marcatori ad effetto visibile): non c'è stata la
preoccupazione della corrispondenza a degli standard morfologici uniformi; questo criterio
non è valido per il cavallo. La razza secondaria è stata creata esclusivamente per opera
dell'uomo a partire dalle razze primarie: generalmente si tratta di alcuni genotipi presenti nella
razza primaria (ad esempio, nell'Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza vogliono
creare una razza caprina di mantello rosso, la "derivata di Siria"; Blackwell, allevatore inglese
del '700, per creare i bovini Shorthorn scelse nella popolazione alcuni animali che
rispondevano ai suoi criteri); dall'interruzione del flusso genico con la razza primaria si crea la
razza secondaria (meccanismo peripatrico, per forze diverse dall'ambiente, cioè nel nostro
caso ad opera dell'uomo). La razza secondaria è caratterizzata da uno standard morfologico di
razza, stabilito dall'uomo, ed in genere da un registro anagrafico, un sistema di registrazione
delle performance, un'associazione degli allevatori. E' questo un problema fondamentale nella
conservazione delle risorse genetiche: è sicuramente più grave perdere una razza primaria che
una secondaria (distruzione della variabilità nei paesi in via di sviluppo con l'importazione di
razze estere).
Le razze sintetiche e le razze mendeliane sono sempre delle razze secondarie; le razze
sintetiche si formano ristabilendo il flusso genetico fra razze primarie e/o secondarie; le razze
mendeliane si formano scegliendo gli animali in base ad un carattere (un gene) che tipizza la
razze (ad esempio, groppa doppia del bovino Piemontese albese o del suino Pietrain): le razze
mendeliane sono tipiche degli animali d'affezione.
Differenziazione delle specie: gli animali domestici sono gli animali con la massima
variabilità nella specie; negli animali domestici la specie si suddivide in gruppi sub-specifici.
Come si può definire la razza? I sistemi tradizionali non sono più validi. La zootecnia è una
scienza giovane, nata circa 150 anni fa, ad opera di autori inglesi e francesi che
principalmente erano allevatori. Il criterio più semplice è la specializzazione produttiva
(carne, latte, lavoro, lana); non permette però di differenziare i gruppi etnici (ad esempio,
Frisona e Bruna Alpina), e per di più le specializzazioni cambiano con il tempo (ad esempio,
la Chianina dal lavoro alla carne). Fra gli altri criteri proposti, ed ormai superati, ricordiamo le
razze ecologiche, le razze geografiche, le razze create dall'uomo.
Il criterio deve essere genetico: la differenziazione genetica non è necessario che sia assoluta
(come nelle razze mendeliane), ma riguarda le frequenze dei geni all'interno delle diverse
razze.
Per definire le razze utilizziamo 5 criteri, i primi quattro relativi alla descrizione di una razza
ed il quinto che decide dell'esistenza reale o meno di una razza.
34
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
CRITERI ZOOTECNICI DI DEFINIZIONE DELLE RAZZE
1) ORIGINE
- casuale (genetica)
- storica (descrittiva)
2) STORIA ED EVOLUZIONE
- indirizzi e criteri selettivi adottati nelle varie epoche
- azione miglioratrice e caratteristiche dei principali razzatori e delle linee da essi derivate
- fondazione e sviluppo delle associazioni degli allevatori
- istituzione ed organizzazione dei libri genealogici e dei controlli funzionali
3) AREA DI ORIGINE E ZONA DI ESPANSIONE
4) DESCRIZIONE E VALUTAZIONE DEI CARATTERI ETNICI
caratteri morfologici tipici
caratteri funzionali
- qualitativi
- produttivi
- biometrici
- riproduttivi
- di costituzione
5) STRUTTURA GENETICA
caratteri patologici a base genetica
- ramo di appartenenza
- orientazione zootecnica
- variabilità genetica (tasso di eterozigosi)
L'origine è casuale per le razze primarie, derivate per allopatria (interruzione del flusso
genico): erano trascurate dalla zootecnia tradizionale. L'origine è storica per le razze create
dall'uomo mediante estrazione di animali da una popolazione (razze secondarie, sintetiche e
mendeliane).
Storia ed evoluzione fanno diretto riferimento all'azione dell'uomo, ed è un fenomeno tipico
dell'Europa. Gli indirizzi e criteri selettivi adottati nelle varie epoche spiegano perché la
popolazione animale non è statica: il rapporto economico uomo-animale cambia con il
cambiare delle esigenze dell'uomo (ad esempio, le razze bovine da carne sono originate solo
dopo che la meccanizzazione agricola ha reso nullo l'interesse per il lavoro ed ha consentito di
sviluppare il treno posteriore a danno dell'anteriore, nei suini la carne è diventata sempre più
magra, il cavallo da animale ad uso militare è diventato animale da diporto). L'azione
miglioratrice può verificarsi in maniera differente: ad esempio, nella produzione carnea solo
da pochi anni si è passati dalla ricerca della quantità alla ricerca della qualità; dei razzatori di
sesso maschile potrebbero aver avuto importanza nella storia della razza, al punto di
determinare dei sottogruppi all'interno della razza (linee genetiche): bisogna considerare
l'effetto dei fondatori e l'importanza della parentela; per esempio si potrebbero citare gli
stalloni capostipite del cavallo maremmano o i 24 montoni e 200 pecore merinos dai quali è
originata tutta la popolazione australiana (è stato anche possibile differenziare le
caratteristiche degli animali attuali e rapportarle ai fondatori). La fondazione e lo sviluppo
delle associazioni degli allevatori è indispensabile: non esiste una razza secondaria se non c'è
l'associazione degli allevatori, responsabile della gestione della razza e della definizione dei
criteri di selezione; in Italia abbiamo A.I.A., A.R.A., A.P.A., (rispettivamente, associazione
italiana, regionale e provinciale degli allevatori), le associazioni di razza (A.N.A.F.I.,
A.N.A.R.B., A.N.A.B.I.C., A.N.A.Bo.Ra.Pi.: associazioni nazionali allevatori rispettivamente
di frisona italiana, razza bruna, bovini italiani da carne, bovini di razza piemontese), A.N.A.S.
(associazione nazionale allevatori suini), Asso.Na.Pa.(associazione nazionale della
pastorizia), ed altre ancora, con i rispettivi comitati di razza. L'istituzione ed organizzazione
dei libri genealogici e dei controlli funzionali ha permesso un graduale passaggio della
selezione dal fenotipo al genotipo; i controlli devono essere produttivi, riproduttivi e sanitari:
per motivi di facilità ed economia, i più diffusi sono quelli del latte.
35
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Area di origine e zona di espansione sono dei concetti che valgono essenzialmente per razze
non primarie; ad esempio, la Frisona viene dalla Frisia, la Bruna Alpina da un cantone
svizzero, la Marchigiana dalle Marche, etc.; se la razza ha successo, può in seguito essere
esportata e diventare addirittura cosmopolita, come nel caso della Frisona; attualmente la
pecora sarda è in espansione nel bacino del Mediterraneo. In una razza secondaria si possono
avere dei meccanismi allopatrici secondari, come nel caso della frisona di alcuni continenti (e
soprattutto di quella dei paesi dell'Europa orientale e dei paesi in via di sviluppo) che non ha
avuto contatti con altre zone ed ha risentito della selezione naturale, da cui l'allopatria;
possono anche esserci state delle scelte diverse da parte dell'uomo (linee genetiche). Come
esempi si possono ricordare i bovini islandesi, portati 1000 anni fa dai vichinghi norvegesi e
da allora soggetti a drift, l'uso di seme di Brown Swiss nordamericano che ha trasformato la
Bruna Alpina italiana da una razza a duplice attitudine ad una razza da latte, il purosangue
inglese con le sue successive differenziazioni nella varie nazioni. Per le razze primarie
restano validi i criteri geografici.
Nei caratteri etnici distinguiamo i caratteri morfologici, i caratteri funzionali ed i caratteri
patologici con base genetica. I caratteri morfologici sono scelti dall'uomo; per quelli
qualitativi (colore, etc.), la cui eredità è mendeliana o comunque abbastanza semplice, non ci
sono in genere difficoltà (ad esempio, il pezzato rosso della frisona è stato accettato da poco,
dopo che è stato dimostrato che non è correlato con la produzione lattea): certe volte però si
creano situazioni insostenibili (nella pecora massese si voleva selezionare per gli animali
color grigio piombo, ma si tratta di un eterozigote fra il nero ed il grigio chiaro). Per i caratteri
biometrici, la cui eredità è più complessa, l'uomo generalmente può solo fissare i limiti
inferiori.
Nei caratteri funzionali, quelli produttivi sono il fine per cui l'animale viene allevato; più
importanti degli stessi caratteri produttivi sono quelli riproduttivi, senza i quali non avrebbe
nemmeno significato parlare di allevamento (valore d'allevamento); i caratteri di costituzione
(temperamento, fondo, etc.) hanno particolare importanza in alcune produzioni (ad esempio,
cavalli sportivi), e comprendono caratteri di difficile definizione fra cui quelli "psicologici".
I caratteri patologici a base genetica sono una nuova acquisizione, conseguente alla selezione
ed al miglioramento genetico: occorre conoscere l'origine genetica di alcune patologie che
interessano le popolazioni (ad esempio, sindrome PSE dei suini) o al contrario di resistenza ad
alcune patologie (ad esempio, selezione per animali da allevare in zone africane che siano
resistenti alla tripanosomiasi).
Nella struttura genetica prendiamo in considerazione il ramo di appartenenza, l'orientazione
zootecnica e la variabilità genetica. Il ramo di appartenenza esprime l'originalità allelica
d'insieme: è tipico delle razze primarie, ma le sue conseguenze si osservano anche nelle razze
secondarie; si tratta dell'appartenenza a dei tipi primordiali (ad esempio, come visto a
proposito della classificazione del Rutimeyer, la Chianina deriva dal B. primigenius, la Bruna
Alpina dal B. brachyceros, la Simmental dal B. frontosus; nel cavallo, il ramo dei cavalli
pesanti come Percheronne o Bretone, il ramo dei purosangue prima arabo e poi inglese, il
ramo dei ponies). Una volta la differenziazione di questi rami veniva fatta corrispondere ad
un'origine polifiletica (nel cavallo, alla fine del 1800, si pensava addirittura ad otto differenti
progenitori selvatici). Il fenomeno è visibile fenotipicamente, ma ad esso corrisponde una
differenza effettiva di origine genetica.
All'orientazione zootecnica corrisponde il progressivo accumulo di particolari alleli, che
corrispondono alle caratteristiche produttive della razza; ad esempio, se confrontiamo una
razza bovina da latte con una razza da carne, la loro rispettiva caratterizzazione per una
capacità produttiva è evidente, ma che cosa c'è di diverso a livello genetico? E' un accumulo
di particolari alleli, quelli "per il latte" e quelli "per la carne", che sono presenti con elevata
frequenza nelle rispettive popolazioni. La popolazione frisona e chianina hanno gli stessi geni,
ma la frequenza è diversa (bassa nella chianina ed alta nella frisona per il latte, al contrario
36
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
per la carne). Se ci si limita all'orientazione zootecnica Frisona e Bruna Alpina sono più
vicine che Frisona e Chianina, ma nel complesso il gruppo di geni che determinano la
produzione zootecnica è molto limitato rispetto a quello del ramo di appartenenza, ed infatti le
varie razze da latte sono fra loro diverse.
La variabilità genetica rappresenta l'originalità genetica e zootecnica della razza;
mediamente, nei mammiferi, il 30% circa dei loci è polimorfo (può cioè presentare più alleli).
Alcuni loci sono variabili in tutte le specie (ad esempio le transferrine, il locus Agouti che
determina la ripartizione del nero e del rosso nel mantello, le emoglobine, le caseine). Per i
loci monomorfi gli animali sono tutti uguali: dato che le differenze si possono avere solo per i
loci polimorfi, bisogna sapere quanto la razza varia ed in quali loci varia. I caratteri produttivi
sono molto variabili, e ciò ha dato all'uomo la possibilità di selezionare: la scelta è avvenuta
solo a carico di loci polimorfi. Qual è il limite che permette di parlare di originalità genetica
e zootecnica di una razza? Per rispondere alla domanda bisognerebbe avere il genoma e poter
confrontare il 30% di loci polimorfi, ma fino ad ora sono state individuate poche decine di
loci polimorfi (non considerando quelli responsabili di patologie metaboliche); nell'uomo si
conoscono circa 50 di questi loci, negli animali al massimo una ventina. Il polimorfismo viene
classicamente studiato in maniera indiretta, risalendo dal fenotipo al genotipo e quindi al
gene: ciò è possibile con precisione solo nel caso di loci codominanti, mentre nel caso di
dominanza-recessività in genere si sovrastima il dominante; oggi il polimorfismo può anche
essere studiato attraverso l'analisi diretta del DNA, la quale consentirebbe di utilizzare tutto il
polimorfismo presente.
LA G E N E T I C A D I P O P O L A Z I O N E
Mendel morì nel 1884: le leggi che oggi portano il suo nome, e che egli aveva scoperto nel
1866, erano dimenticate. La "riscoperta" delle leggi di Mendel avvenne nel 1900 ad opera di
tre botanici che lavoravano indipendentemente: H. De Vries (olandese), C. Correns (tedesco)
ed E. Tschermak (ungherese).
Nacque negli stessi anni la genetica delle popolazioni; la legge fondamentale venne
individuata dal matematico inglese G. H. Hardy e dal medico tedesco W. Weinberg (legge di
Hardy-Weinberg, 1908).
Genetica delle popolazioni: per genetica si intende "struttura genetica", e dunque è la
struttura genetica delle popolazioni. Ma perché popolazioni e non specie, o razze? La
popolazione è in genere aggettivata: popolazione "mendeliana", che può essere una specie
oppure una sub-unità della specie. Una popolazione mendeliana è una popolazione in cui gli
individui sono sottoposti ad un flusso genico (gene flow), cioè possono "scambiarsi" geni
grazie alla riproduzione. Fino a quando degli individui sono sottoposti al flusso genico? Due
sono i meccanismi che possono interrompere il flusso genico: la speciazione e la creazione di
barriere riproduttive. La speciazione è il meccanismo più importante e comporta l'incapacità
riproduttiva per le differenze biologiche esistenti fra gli animali; la barriera riproduttiva non
richiede invece la perdita di capacità riproduttiva, ma l'impossibilità di riprodursi per motivi
spazio-temporali (ad esempio, l'isolamento geografico, come nel caso degli animali selvatici
australiani oppure degli animali che gli Europei hanno portato con loro nelle colonie).
Speciazione e barriere riproduttive possono anche coesistere e variamente intrecciarsi.
La definizione di popolazione mendeliana può adattarsi a specie (come nel caso in cui una
specie è una popolazione molto ristretta), oppure adattarsi a suddivisioni della specie (come
nel caso degli animali domestici, ma a volte anche nel caso di selvatici diffusi in aree molto
vaste e con differenti habitat). Nell'animale domestico le barriere riproduttive principali le
crea l'uomo, addirittura all'interno della popolazione (ad esempio, quando sceglie i
riproduttori).
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Il soggetto della trattazione teorica può essere un gene qualsiasi facente parte di un locus
polimorfo. La grandezza fondamentale da misurare è la frequenza genica, cioè la frequenza
del gene nella popolazione mendeliana. La frequenza si ha solo se il gene è un allele di un
locus polimorfo: cioè nella popolazione è presente, oltre al gene, il suo o i suoi alleli. Si parla
di frequenze, cioè di grandezze relative (fra 0 ed 1), e che come tali si possono confrontare fra
popolazioni mendeliane.
Gli scopi della genetica delle popolazioni sono due:
- definire la struttura genetica della popolazione;
- individuare e studiare le forze che possono provocare delle variazioni all'interno delle
popolazioni (cioè variazioni delle frequenze geniche).
Se si parla di variazione, si tratta di un concetto dinamico; se si cambia, si cambia nel tempo,
cioè nel susseguirsi delle generazioni. Applicheremo dei modelli teorici, che non si
differenziano nelle specie (si applicano alla riproduzione sessuata dei mammiferi, e non si
tiene conto di individui che non si riproducono). Il nostro pool genetico deriva da animali che
effettivamente si riproducono.
La struttura di una popolazione è definita da tre grandezze:
- le frequenze fenotipiche;
- le frequenze genotipiche;
- le frequenze geniche.
Biologicamente è la frequenza genica che determina le altre due, ma il nostro cammino
pratico è inizialmente l'opposto, dal fenotipo al genotipo al gene, in quanto non vediamo
direttamente il gene ma solo i suoi effetti. Nella trattazione teorica si può supporre di
conoscere la frequenza genica e da questa arrivare a genotipi e fenotipi: questa potrà essere la
via reale in futuro, grazie allo studio diretto del DNA.
La genetica di popolazione è basata sulla legge di Hardy-Weinberg, o legge dell'equilibrio
genetico. L'equilibrio genetico è il non variare da una generazione alla successiva delle
frequenze geniche, e quindi di quelle genotipiche e fenotipiche. Esiste innanzitutto un
equilibrio intra-locus e poi un equilibrio di tutti i loci (equilibrio effettivo della popolazione).
Bisogna prima di tutto accertare alcune condizioni relative al campione; la popolazione reale
in genere non rispetta le condizioni della popolazione ideale, ma nonostante ciò la legge è
nella sostanza valida anche per le popolazioni reali. Fenomeno di Walhund: nel campione
non deve esistere accavallamento di generazioni e la popolazione non deve tendere a
distribuirsi per sottopopolazioni. Nell'uomo in genere le generazioni non si sovrappongono,
ma l'accavallamento delle generazioni è la regola negli animali domestici, dove l'intervallo di
generazione è più breve. Walhund dimostrò che in certe situazioni si può avere l'equilibrio
nella popolazione generale e non nelle sottopopolazioni o viceversa.
Per essere in equilibrio ci deve essere una corretta ripartizione dei sessi, la popolazione deve
essere di effettivo illimitato (cioè la più grande possibile), il sistema riproduttivo deve essere
panmittico (popolazione in panmissia), nella popolazione non devono esistere mutazioni,
migrazioni, selezione e deriva genetica (queste ultime quattro sono proprio le forze che fanno
variare l'equilibrio genetico).
La panmissia è la situazione genetica che consegue ad una riproduzione panmittica, cioè ad
una riproduzione realmente e totalmente casuale, in cui tutti gli individui hanno la stessa
possibilità di riprodursi dando una prole fertile che è a sua volta in panmissia. In realtà la
riproduzione sessuata non è mai casuale. Più la popolazione è grande e più tutti i geni hanno
la possibilità di esprimere il corrispondente fenotipo.
I presupposti della legge di Hardy-Weinberg non esistono nelle popolazioni reali: è sufficiente
avvicinarcisi il più possibile (ad esempio, nell'uomo ci sono circa 8 mutazioni per ogni
generazione).
Rispetto alla panmissia, il sistema omeogamico tende a far riprodurre fra di loro gli individui
più simili, mentre il sistema eterogamico tende a far riprodurre fra loro individui dissimili; il
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
sistema omeogamico è tipicamente rappresentato dall'accoppiamento fra parenti, ma
nell'uomo anche da criteri di scelta basati sul colore della pelle, su criteri estetici, su criteri
culturali, su criteri intellettivi; il sistema eterogamico è quello che in genere lega fra loro
diverse popolazioni mendeliane: zootecnicamente è l'incrocio.
La formula matematica della legge di Hardy-Weinberg è rappresentata dal quadrato di un
binomio o di un polinomio:
Due alleli: A a
Frequenze geniche:
f(A) = p
f(a) = q
Frequenze genotipiche:
[AA]
[Aa]
[aa]
Frequenze fenotipiche:
[A]
[a]
[AB] (nella codominanza non c'è differenza fra frequenze genotipiche e fenotipiche)
Fare attenzione al fatto che, in loci codominanti, in genere la notazione Aa è sostituita dalla
notazione AB, dove A e B sono due alleli codominanti dello stesso locus.
Utilizzando il quadrato di Punnet nel caso di un locus biallelico:
¦
p
q
-----------------------------p
¦
pp
qp
¦
q
¦
pq
qq
ed essendo:
p+q = 1
e
(p+q)² = p²+2pq+q² = 1
si hanno nella generazione filiale le stesse frequenze geniche della generazione parentale:
f(A) = (2p² + pq + pq) / (2p² + 2pq + 2pq + 2q²) =
= (p² + pq) / (p² + 2pq + q²) = p² + pq = p (p+q) = p
f(a) = (pq + pq + 2q²) / (2p² + 2pq + 2pq + 2q²) =
= (pq + q²) / (p² + 2pq + q²) = pq + q² = q (p+q) = q
39
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Anche nel caso di un locus triallelico con:
f(A) = p
f(B) = q
f(C) = r
calcolando la composizione della generazione filiale con il quadrato di Punnet si ha:
¦
p
q
r
--------------------------------------p
¦
p²
pq
pr
¦
q
¦
qp
q²
qr
¦
r
¦
rp
rq
r²
poiché
p+q+r = 1
e
(p+q+r)² = p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr = 1
si ottengono nuovamente le frequenze geniche della generazione parentale:
f(A) = (2p²+pq+pq+pr+pr) / (2p²+2pq+2pr+2pq+2q²+2qr+2pr+2qr+2r²) =
= (p²+pq+pr) / (p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr) = p²+pq+pr = p(p+q+r) = p
f(B) = (2q²+pq+pq+qr+qr) / (2p²+2pq+2pr+2pq+2q²+2qr+2pr+2qr+2r²) =
= (q²+pq+qr) / (p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr) = q²+pq+qr = q(p+q+r) = q
f(C) = (2r²+pr+pr+qr+qr) / (2p²+2pq+2pr+2pq+2q²+2qr+2pr+2qr+2r²) =
= (r²+pr+qr) / (p²+q²+r²+2pq+2pr+2qr) = r²+pr+qr = r(p+q+r) = r
Anche partendo dalle frequenze genotipiche si può dimostrare la validità della legge di
Hardy-Weinberg:
¦
AA
Aa
aa
¦
p²
2pq
q²
--------------------------------------------------------------------4
3
2 2
2p q
pq
AA
p²
¦
p
¦
3
2 2
3
Aa
2pq ¦
2p q
4p q
2pq
¦
2 2
3
4
aa
q²
¦
pq
2pq
q
40
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
da cui riassumendo si ha:
4
AA x AA
=
p (tutti AA)
AA x Aa
=
4p q (metà AA e metà Aa)
AA x aa
=
2p q (tutti Aa)
Aa x Aa
=
4p q (1/4 AA, 1/2 Aa, 1/4 aa)
Aa x aa
=
4pq (metà Aa e metà aa)
aa x aa
=
q (tutti aa)
3
2 2
2 2
3
4
e sommando i genotipi simili si ha:
4
3
2 2
AA = p +2p q+p q = p²(p²+2pq+q²) = p²
3
2 2
2 2
3
Aa = 2p q+2p q +2p q +2pq = 2pq(p²+2pq+q²) = 2pq
2 2
3
4
aa = p q +2pq +q = q²(p²+2pq+q²) = q²
Se partiamo da una popolazione che non è in equilibrio, in quanto tempo si raggiunge
l'equilibrio genetico? Generalmente basta una sola generazione di accoppiamento casuale per
ottenere l'equilibrio: dopo una generazione le frequenze geniche non mutano più; ciò è valido
indipendentemente dall'entità del polimorfismo, ovvero non dipende dal numero di alleli
presenti al locus considerato. Un'eccezione è per i loci del cromosoma sessuale X (geni
X-linked); ricordiamo che non basta dire genericamente "legati al sesso" perché esistono
anche geni Y-linked, i quali danno l'eredità olandrica, cioè solo maschile, come nel caso
dell'antigene HY, collegato alla repressione e derepressione dello sviluppo sessuale
dell'embrione. Nel caso di un allele X-linked, se le frequenze sono diverse nei due sessi, esse
tendono all'uguaglianza solo all'infinito; nei mammiferi non è mai stata dimostrata
complementarietà totale fra X ed Y, come accade in alcuni esseri inferiori; il maschio non è
omozigote o eterozigote, bensì emizigote, ed il carattere si manifesta comunque,
indipendentemente dal fatto che sia dominante oppure recessivo.
f(XA) = 2/3 f(XAf) + 1/3 f(XAm)
L'eredità si manifesta "criss-cross", o incrociata; i maschi ricevono il cromosoma X dalla
madre, mentre le femmine ricevono un cromosoma X dal padre ed un cromosoma X dalla
madre: pertanto la generazione filiale maschile riceve le frequenze geniche delle femmine
della generazione parentale, mentre la generazione filiale femminile riceve le frequenze
geniche medie dei due sessi nella generazione parentale. Nel tempo, l'andamento delle
frequenze nei due sessi ha l'aspetto di una linea "a dente di sega", con differenze che ad ogni
generazione si dimezzano e cambiano di segno.
Per gli alleli legati al cromosoma X, nelle femmine c'è differenza fra frequenze geniche e
frequenze genotipiche, mentre nei maschi (emizigoti) le due frequenze sono uguali. E' molto
importante comprendere questi meccanismi per studiare le patologie recessive legate alla X
(ad esempio, l'emofilia).(1)
--------------------------------------------------------------------(1)
Non confondere l’eredità “legata al sesso” con quella “limitata dal sesso” e con quella “influenzata dal sesso”. L’eredità
legata al sesso riguarda caratteri portati dall’eterocromosoma X, ma che possono manifestarsi in entrambi i sessi. L’eredità
limitata dal sesso riguarda caratteri che sono normalmente ereditati da entrambi i sessi, ma che si manifestano solo il un sesso
(ad esempio la produzione lattea). L’eredità influenzata dal sesso è quella in cui il carattere si eredità normalmente in
entrambi i sessi, ma si manifesta differentemente nei due sessi (magari per influenza degli ormoni sessuali): ad esempio, il
carattere corna si manifesta nei maschi in maniera più evidente.
41
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
ESEMPIO
Locus biallelico X-linked
f(XAm) = pm
= 0,2
f(XAf) = pf
= 0,5 (la differenza fra le frequenze di maschi e femmine è -0,3)
Generazione successiva:
pm
= 0,5
pf
= (0,2+0,5)/2 = 0,35 (la differenza fra le frequenze è adesso +0,15)
Generazione successiva:
pm
= 0,35
pf
= (0,5+0,35)/2 = 0,425 (la differenza è adesso -0,075)
Notare che in ogni generazione la frequenza genica nella popolazione è 0,4
esima
[f(XA) = 2/3f(XAf) + 1/3f(XAm)]: alla n
generazione la frequenza genica sarà 0,4 anche in
entrambi i sessi.
GENI X-LINKED
Andamento delle frequenze geniche
1,0
F
r
e
q
u
e
n
z
a
,8
,6
,4
,2
0,0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
8
9
10
Generazione
maschi
femmine
GENI X-LINKED
Andamento delle frequenze geniche
1,0
F
r
e
q
u
e
n
z
a
,8
,6
,4
,2
0,0
1
2
3
4
5
6
7
Generazione
maschi
femmine
42
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
ESEMPIO
In una popolazione con un locus autosomico biallelico Tt:
TT
Tt
tt
= 0,4
= 0,4
= 0,2
¦
TT
Tt
tt
¦
0,4
0,4
0,2
---------------------------------------------------TT
0,4
¦
0,16 0,16 0,08
Tt
0,4
¦
0,16 0,16 0,08
tt
0,2
¦
0,08 0,08 0,04
(notare che le combinazioni fuori della diagonale sono simmetriche e possono quindi essere
facilmente sommate)
TT
TT
TT
Tt
Tt
tt
x
x
x
x
x
x
TT
Tt
tt
Tt
tt
tt
=
=
=
=
=
=
0,16 (tutti TT)
0,32 (metà TT e metà Tt)
0,16 (tutti Tt)
0,16 (1/4 TT, metà Tt, 1/4 tt)
0,16 (metà Tt e metà tt)
0,04 (tutti tt)
per cui, sommando i genotipi simili, otteniamo:
TT
Tt
tt
=
=
=
0,36
0,48
0,16
Le frequenze ottenute sono diverse da quelle di partenza, ma possiamo dimostrare che
l'equilibrio è stato raggiunto in una sola generazione, in quanto:
¦
TT
Tt
tt
¦
0,36
0,48
0,16
------------------------------------------------------------------------TT
0,36 ¦
0,1296
0,1728
0,0576
Tt
0,48 ¦
0,1728
0,2304
0,0768
tt
0,16 ¦
0,0576
0,0768
0,0256
TT
TT
TT
Tt
Tt
tt
x
x
x
x
x
x
TT
Tt
tt
Tt
tt
tt
=
=
=
=
=
=
0,1296 (tutti TT)
0,3456 (metà TT e metà Tt)
0,1152 (tutti Tt)
0,2304 (1/4 TT, metà Tt, 1/4 tt)
0,1536 (metà Tt e metà tt)
0,0256 (tutti tt)
43
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
da cui nuovamente otteniamo:
TT
Tt
tt
=
=
=
0,36
0,48
0,16
ESEMPIO
Una popolazione con un locus autosomico biallelico Aa, ma frequenze diverse nei due sessi:
ad esempio, i maschi provengono da una razza con frequenze geniche p e q rispettivamente
pari a 0,6 e 0,4, mentre le femmine da un'altra razza con frequenze geniche 0,8 e 0,2
(entrambe le razze erano comunque, al loro interno, in equilibrio).
Maschi
AA
Aa
aa
q = 0,4
p = 0,8
q = 0,2
= p² = 0,36
= 2pq = 0,48
= q² = 0,16
Femmine
AA
Aa
aa
p = 0,6
= p² = 0,64
= 2pq = 0,32
= q² = 0,04
¦
AA
Aa
aa
¦
0,36
0,48
0,16
------------------------------------------------------------------------AA
0,64 ¦
0,2304
0,3072
0,1024
Aa
0,32 ¦
0,1152
0,1536
0,0512
aa
0,04 ¦
0,0144
0,0192
0,0064
AA
AA
AA
Aa
Aa
aa
x
x
x
x
x
x
AA
Aa
aa
Aa
aa
aa
=
=
=
=
=
=
0,2304 (tutti AA)
0,4224 (0,1152+0,3072: metà AA e metà Aa)
0,1168 (0,1024+0,0144: tutti Aa)
0,1536 (1/4 AA, metà Aa, 1/4 aa)
0,0704 (0,0192+0,0512: metà Aa e metà aa)
0,0064 (tutti aa)
per cui, sommando i genotipi simili, otteniamo:
AA
= 0,2304 + 0,2112 + 0,0384
= 0,48
Aa
= 0,2112 + 0,1168 + 0,0768 + 0,0352
= 0,44
aa
= 0,0384 + 0,0352 + 0,0064
= 0,08
Le frequenze geniche sono la media di quelle delle due razze di origine:
p
= 0,48 + 1/2 (0,44)
= 0,7 [cioè (0,6+0,8)/2]
q
= 0,08 + 1/2 (0,44)
= 0,3 [cioè (0,4+0,2)/2]
44
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Si può dimostrare che le frequenze geniche sono già in equilibrio, mentre le frequenze
genotipiche ancora non lo sono: infatti dovrebbe essere
p²
2pq
q²
= 0,7²
= 0,49
= 2 (0,7) (0,3) = 0,42
= 0,3²
= 0,09
L'equilibrio delle frequenze genotipiche si raggiunge nella generazione seguente:
¦
AA
Aa
aa
¦
0,48
0,44
0,08
------------------------------------------------------------------------AA
0,48 ¦
0,2304
0,2112
0,0384
Aa
0,44 ¦
0,2112
0,1936
0,0352
aa
0,08 ¦
0,0384
0,0352
0,0064
AA
AA
AA
Aa
Aa
aa
x
x
x
x
x
x
AA
Aa
aa
Aa
aa
aa
=
=
=
=
=
=
0,2304 (tutti AA)
0,4224 (metà AA e metà Aa)
0,0768 (tutti Aa)
0,1936 (1/4 AA, metà Aa, 1/4 aa)
0,0704 (metà Aa e metà aa)
0,0064 (tutti aa)
da cui otteniamo, sommando i genotipi simili:
AA
= 0,2304 + 0,2112 + 0,0484
= 0,49
AA
= 0,2112 + 0,0768 + 0,0968 + 0,0352
= 0,42
AA
= 0,0484 + 0,0352 + 0,0064
= 0,09
e le frequenze geniche:
p = 0,49 + 1/2 0,42 = 0,7
q = 0,09 + 1/2 0,21 = 0,3
IL CONTROLLO DELL'EQUILIBRIO GENETICO.
In pratica è sempre necessario partire da frequenze fenotipiche per arrivare alle frequenze
geniche e stabilire se, in quel determinato locus, esiste una condizione di equilibrio, cioè se
quelle frequenze geniche si trasmetteranno immutate nelle successive generazioni. In un locus
polimorfo (biallelico), se i fenotipi evidenziabili sono solamente due significa che fra i due
alleli i rapporti sono di dominanza-recessività, mentre se i fenotipi presenti sono tre i rapporti
fra i due alleli sono di codominanza. Nel locus codominante, esistendo un'assoluta
uguaglianza fra frequenza genotipica e frequenza fenotipica, l'eventuale equilibrio può essere
valutato direttamente dalle frequenze fenotipiche: ciò non può essere fatto per alleli con
rapporti di dominanza-recessività.
La valutazione della condizione di equilibrio in un locus consiste nel confrontare le frequenze
genotipiche osservate con le frequenze teoriche, attese secondo la legge di Hardy-Weinberg.
Se la differenza fra frequenze attese ed osservate non è significativa, allora le frequenze
genotipiche possono dirsi "in equilibrio"; il confronto fra frequenze attese ed osservate è fatto
mediante il test Χ² (leggi "chi quadrato").
45
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
I dati di partenza per i calcoli sono i valori di p e di q, ovvero le frequenze dei due alleli nella
popolazione; il metodo è differente, a seconda del tipo di rapporto esistente fra i due alleli: nel
caso di codominanza si utilizza il metodo della conta diretta, mentre nel caso di
dominanza-recessività il metodo della radice quadrata del fenotipo recessivo.
Ad esempio, nel caso di codominanza (cioè A=B), abbiamo:
p = f(A) = ([2A + ½[AB] + ½[AB]) / 2n = ([A + ½[AB]) / n
dove n rappresenta il numero degli individui; è stato in pratica sufficiente contare i differenti
fenotipi. Supponiamo si tratti di bovini Shorthorn, che possono essere di mantello bianco,
rosso o roano (eterozigoti); per calcolare la frequenza dell'allele per il rosso si contano i
bovini rossi, si sommano a questi la metà degli individui roani e si divide il tutto per il
numero totale di bovini (rossi+bianchi+roani); per ottenere q si potrebbe utilizzare lo stesso
tipo di calcolo, ma è più semplice q=1-p (poiché p+q=1).
Nel caso di dominanza-recessività fra alleli (cioè A>a), sappiamo che il fenotipo [a]
corrisponde al genotipo [aa], mentre il fenotipo [A] è dato da due genotipi, [AA] e [Aa]: non è
possibile cioè stabilire se un fenotipo dominante è dato da un genotipo omozigote dominante
o eterozigote. Le frequenze geniche possono essere calcolate solo presupponendo che la
popolazione sia in equilibrio:
½
q = f(a) = ([a]/n) , (dove n rappresenta il numero degli individui)
e quindi p = f(A) = 1 -q.
E' importante sottolineare che, poiché nel caso di dominanza-recessività le frequenze sono
state ricavate presupponendo che la popolazione sia in equilibrio, non si potrà poi controllare
se l'equilibrio è effettivamente esistente: in altre parole, a partire dalle frequenze geniche
calcolate con questo metodo si otterrebbero come frequenze fenotipiche attese quelle stesse
frequenze fenotipiche che erano state realmente osservate.
Un esempio più complesso è il locus triallelico AB0, quello dei gruppi sanguigni dell'uomo,
dove sono presenti contemporaneamente rapporti di dominanza e codominanza:
A=B
A>0
B>0
f(A) = p
f(B) = q
f(0) = r
[A] = [AA] + [A0]
[B] = [BB] + [B0]
[AB] = [AB]
[0] = [00]
p+q+r = 1
(p+q+r)² = p²+q²+r²+2pq+2pr+2q r= 1
[A] = p²+2pr
[B] = q²+2qr
[AB] = 2pq
[0] = r²
Per meglio comprendere i rapporti di dominanza e codominanza del locus AB0, ricordiamo
che l'allele A fa produrre la proteina omonima (agglutinogeno A), l'allele B fa produrre
l'agglutinogeno B, mentre l'allele 0 ("zero") non fa produrre alcun agglutinogeno.
Si presuppone che la popolazione sia in equilibrio e si comincia quindi il calcolo estraendo la
radice quadrata della frequenza dell'omozigote recessivo [00]=[0]; il valore di r così ottenuto
viene poi utilizzato per calcolare p e q.
46
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Ad esempio, avendo osservato in 190.177 avieri britannici la seguente distribuzione dei
gruppi sanguigni:
[A] = 79.334
[B] = 16.279
[AB] = 5.782
[0] = 88.782
si calcola dapprima la frequenza r:
½
r² = 88.782/190.177
r = (0,46684) = 0,6833;
ed utilizzando il valore di r trovato si calcola p e q:
q²+2qr+r² = (q+r)² = (1-p)²
da cui:
½
q+r = ([B]+[0]) = 1-p
½
½
p = 1-([B]+[0]) = 1-(0,5524) = 1-0,7432 = 0,2568
ed analogamente:
p²+2pr+r² = (p+r)² = (1-q)²
da cui:
½
p+r = ([A]+[0]) = 1-q
½
½
q = 1-([A]+[0]) = 1-(0,8840) = 1-0,9402 = 0,0598
Notare che, una volta calcolato p (oppure q), anche la frequenza dell'ultimo allele è stata
calcolata mediante una formula che fa riferimento ad un presunto equilibrio secondo
Hardy-Weinberg, e non per differenza rispetto ad 1 (cioè grazie a p+q+r = 1) oppure
utilizzando il genotipo AB (cioè 2pq = 5.782/190.177 = 0,0304). La somma delle frequenze
geniche è nel caso esposto 0,9999, cioè inferiore ad 1: la differenza non è dovuta solamente
all'arrotondamento, ma anche al fatto che le frequenze geniche non sono perfettamente in
equilibrio e non tutta l'informazione è utilizzabile (nel nostro caso, non si è fatto uso
dell'informazione data dalla frequenza del genotipo AB). Se si fosse utilizzato il genotipo AB
oppure la somma delle tre frequenze, si sarebbero ottenuti risultati leggermente diversi (ma
probabilmente meno esatti, perché ricavati da una quantità inferiore di informazioni); infatti:
se r = 0,6833 e p = 0,2568, si ha:
q = 1-p-r = 0,0599 oppure 2pq = 5.782/190.177 = 0,0304 e q = 0,0304/0,5136 = 0,0592
mentre se r = 0,6833 e q = 0,0598, si ha:
p = 1-q-r = 0,2569 oppure 2pq = 5.782/190.177 = 0,0304 e p = 0,0304/0,1196 = 0,2542
Ricordiamo ancora una volta che il procedimento illustrato PRESUPPONE che le frequenze
siano in equilibrio, ed una buona corrispondenza dei valori di p e q calcolati con i due
procedimenti può confortare l'ipotesi di equilibrio genetico, la quale NON PUO' PERO'
ESSERE DIMOSTRATA.
47
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Ad un risultato simile si perviene anche, dopo aver calcolato r, risolvendo due equazioni di
secondo grado, e scegliendo ovviamente la soluzione positiva:
p²+2pr = 79.334/190.177
q²+2qr = 16.279/190.177
p²+1,3666p-0,4172 = 0
q²+1,3666q-0,0856 = 0
p = 0,2570
q = 0,06
Anche in questo caso la somma delle tre frequenze risulta diversa da 1 (p+q+r = 1,0003), e ciò
non solo per l'arrotondamento utilizzato, ma anche per il non perfetto equilibrio secondo
Hardy-Weinberg. Inoltre, se la popolazione fosse perfettamente in equilibrio, si dovrebbero
ottenere, utilizzando la frequenza dell'eterozigote AB oppure la somma totale delle frequenze,
gli stessi risultati:
dato r = 0,6833 e p = 0,2570:
q = 1-0,6833-0,2570 = 0,0597 oppure 2pq = 0,0304 e q = 0,0304/0,514 = 0,0591
dato r = 0,6833 e q = 0,06:
p = 1-0,6833-0,06 = 0,2567 oppure 2pq = 0,0304 e p = 0,0304/0,12 = 0,2533
Solo il metodo della conta diretta permette effettivamente di valutare se l'equilibrio genetico è
presente o meno in una popolazione: quando si fa uso, anche parzialmente (come nel caso del
locus AB0), della radice quadrata di un fenotipo recessivo non si può verificare se l'equilibrio
è presente o meno, in quanto l'equilibrio è indispensabile premessa al calcolo di una frequenza
genica mediante la radice quadrata di un fenotipo recessivo.
Come si fa a stabilire se le frequenze geniche sono in equilibrio secondo Hardy-Weinberg?
Bisogna confrontare le frequenze osservate con le frequenze attese. Dalla popolazione
mendeliana si estrae un campione, e già questa operazione può essere una fonte di errore se
non effettuata correttamente; parleremo inoltre di significatività delle differenze, in quanto le
differenze stesse potrebbero essere dovute al caso: la popolazione potrebbe cioè essere in
equilibrio, ma presentare, per il semplice fatto della casualità delle segregazioni, delle
distribuzioni di frequenze leggermente diverse da quelle teoricamente attese secondo la legge
di Hardy-Weinberg (è solo questa l'origine delle differenze in una popolazione mendeliana in
equilibrio che sia stata interamente campionata). Un locus è in equilibrio quando le differenze
fra frequenze osservate ed attese non sono significative. Bisogna evitare gli errori di
campionamento, quali ad esempio:
- che la popolazione mendeliana sia suddivisa in sottopopolazioni;
- che le eventuali differenze di generazione non siano considerate;
- che il campione non sia casuale (random).
Si utilizza il test Χ² (leggi "chi quadrato"):
Χ² = Σ[(O-E)²/E]
cioè la sommatoria dei quadrati degli scarti fra frequenze osservate (Observed) e frequenze
attese (Expected) divisi per le corrispondenti frequenze attese non deve superare dei valori
tabulari, determinati in base ad un livello di significatività prescelto, generalmente il 5%
(P ≤ 0,05), ed ai gradi di libertà su cui si basa il confronto.
Generalmente parlando, affinché da una popolazione (cioè da un insieme costituito da tutte le
possibili osservazioni) si possa ricavare un campione (le osservazioni effettivamente utilizzate
per la descrizione della popolazione o per un confronto fra popolazioni) adatto a fini statistici
bisogna soddisfare i criteri di randomizzazione e rappresentatività del campione: ovvero, il
48
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
campione deve essere random, cioè casuale nella composizione, e rappresentativo della
popolazione da cui è stato estratto, cioè racchiudere in sé le caratteristiche della popolazione
di cui fa parte. Solo se i criteri di rappresentatività e casualità del campione sono soddisfatti,
le conclusioni si possono statisticamente ritenere valide non solo per il campione, ma anche
per la popolazione.
Una volta stabilita la frazione di campionamento, cioè la quantità o percentuale di dati da
campionare, il campionamento vero e proprio può essere effettuato con varie modalità, da
scegliere a seconda delle circostanze. Il campionamento può essere:
- casuale semplice (con o senza ripetizione);
- sistematico;
- a grappolo;
- stratificato;
- a stadi.
Se, ad esempio, si dovesse campionare la popolazione frisona italiana, un campionamento
casuale semplice significherebbe estrarre a sorte dall'elenco degli animali da campionare (per
semplificare questa operazione sono disponibili delle tabelle di numeri casuali oppure delle
funzioni che generano una serie di numeri pseudo-casuali): nel caso di campionamento senza
ripetizione, un animale già estratto non verrebbe incluso nella popolazione per successive
estrazioni, mentre nel caso di un campionamento con ripetizione un animale parteciperebbe
alle successive estrazioni, per cui potrebbe entrare nel campione due o più volte (è un caso
abbastanza raro in zootecnia: ad esempio, si pescano in una vasca dei pesci e si rileva su di
loro ciò che interessa, quindi li si rigetta nella stessa vasca e si procede ad una nuova pesca; lo
stesso potrebbe verificarsi separando momentaneamente delle pecore da un gregge: in questo
caso però la ripetizione può essere evitata identificando gli animali con una matricola o
semplicemente marcandoli). Un campionamento sistematico potrebbe essere effettuato, ad
esempio, entrando nelle varie stalle e scegliendo in ogni stalla il primo animale che si ha
modo di osservare (il campionamento sistematico può essere soggetto ad un errore
sistematico, quando il criterio seguito introduce una fonte di errore: ad esempio, gli animali
potrebbero essere disposti nella stalla per sesso o per età, per cui si sceglierebbe, senza
saperlo, sempre un maschio oppure sempre l'animale più giovane); con un campionamento a
grappolo, si metterebbero nel campione tutti gli animali di alcune stalle; con un
campionamento stratificato si sceglierebbero gli animali nelle diverse stalle in proporzione,
ad esempio, al sesso ed alla consistenza nelle varie stalle: per poter effettuare un
campionamento stratificato è dunque necessario conoscere alcune caratteristiche della
popolazione; con un campionamento a stadi, verrebbero scelti ad esempio solo gli animali di
alcune regioni e, con più stadi, gli animali di alcune province nelle regioni già scelte e, con un
ulteriore stadio, gli animali di alcuni comuni di alcune province delle regioni scelte.
Il Χ² è un indice di dispersione ideato da Pearson, utilizzato per calcolare la probabilità di
osservare una determinata ripartizione di frequenze rispetto a quelle attese in base ad una
ipotesi.
(O - E)²
Χ² = Σ -------------------E
dove:
O è la frequenza osservata;
E è la frequenza attesa.
Notare che il valore di Χ² dipende dal numero dei termini della sommatoria (o meglio dal
numero dei termini della sommatoria stessa che sono realmente "liberi", cioè dal numero dei
gradi di libertà). Si utilizzano le frequenze assolute, e non le frequenze relative, perché alle
frequenze viene attribuito un valore differente a secondo del numero di osservazioni da cui le
frequenze stesse sono state ricavate. Il valore di Χ² è tanto più elevato quanto più è elevata la
49
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
differenza fra la frequenza osservata e la frequenza attesa, ed aumenta in ragione del quadrato
di questa differenza: un differenza di 3, rispetto ad una di 1, provocherà un aumento del
numeratore di 9 volte (man mano che ci si allontana dalla frequenza attesa, è sempre assai
meno probabile che un ulteriore scostamento unitario della frequenza osservata dalla attesa si
possa verificare casualmente); il valore è tanto più basso quanto più elevata è la frequenza
attesa: su un numero più elevato di osservazioni è più probabile uno scostamento casuale.
Questo test non può essere utilizzato nel caso una qualsiasi delle frequenze presenti nel
calcolo sia inferiore a 5: in tale circostanza si ricorre ad un test analogo, il "test esatto di
Fisher", oppure, se possibile, si riuniscono le classi di frequenza meno rappresentate in classi
più ampie.
Nel caso di piccoli campioni, con classi superiori a 5 ma inferiori a 100, può essere utilizzata
nel calcolo la correzione di Yates (o correzione di continuità), che consiste nel sottrarre e
sommare 0,5, prima dell'elevazione al quadrato, rispettivamente al più elevato scostamento
positivo ed al più elevato scostamento negativo.
La funzione di distribuzione del Χ² è data da:
½n-1
f(Χ²) =
½(Χ²)
(Χ²) e
-----------------½n
2 Γ(n/2)
dove:
Χ² è il valore trovato di Χ²;
n sono i gradi di libertà.
La funzione Γ (leggi "gamma") è, per un numero positivo, pari al fattoriale del numero stesso
al quale sia stato sottratto 1 (ovvero Γn=(n-1)!).
Dato un numero di gradi di libertà, ogni valore di Χ² ha quindi una propria possibilità di
essere osservato, calcolabile in base alla funzione di frequenza riportata. Generalmente, se
non si fa uso di programmi statistici su elaboratori elettronici, i quali forniscono il valore
esatto delle probabilità del Χ² calcolato per gli opportuni gradi di libertà, si utilizza
un'apposita tabella: nelle diverse colonne sono riportati i valori di Χ² per dei livelli standard di
probabilità, mentre le righe rappresentano i diversi gradi di libertà.
G.d.L.
1
2
....
10
20
....
100
....
¦
¦
¦
¦
¦
¦
¦
¦
¦
¦
¦
Probabilità di valori superiori
0,500
0,45
1,39
....
9,34
19,34
....
99,33
....
....
....
....
....
....
....
....
....
....
0,050
3,84
5,99
....
18,31
31,41
....
124,34
....
0,010
6,63
9,21
....
23,21
37,57
....
135,81
....
0,001
10,83
13,82
....
29,59
45,32
....
149,45
....
La probabilità con cui accettare o rifiutare un'ipotesi corrisponde al livello di sicurezza con
cui si vuole ritenere valide le proprie conclusioni: viene pertanto fissata dallo sperimentatore a
seconda del caso; in genere, in zootecnia vengono considerate significative le differenze per
cui P ≤ 0,05.
Il concetto di gradi di libertà è un concetto assimilabile solo con un po' di esperienza: si tratta
del numero di osservazioni realmente indipendenti: ad esempio, per un locus poliallelico,
nella verifica dell'equilibrio genetico i gradi di libertà sono pari al numero degli alleli meno 1
50
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
(ma è possibile trovare testi in cui i gradi di libertà sono pari al numero dei fenotipi meno uno,
oppure al numero dei fenotipi meno il numero degli alleli), mentre nel caso del controllo di
una segregazione i gradi di libertà sono pari al numero dei fenotipi osservati meno 1.
IPOTESI: dominanza completa.
Aa x Aa
Frequenze osservate (totale 4889):
AA + 2Aa = 3655
aa = 1234
Frequenze attese:
AA + 2Aa = 3/4 (4889) = 3666,75
aa = 1/4 (4889) = 1222,25
Χ²1gdl = (3655-3.66675)²/3666,75 + (1234-1222,25)²/1222,25 = 0,1507
Il valore di Χ² è inferiore a quello tabulare per P≤0,05 ed 1 g.d.l., per cui la segregazione
osservata è in accordo con l'ipotesi.
IPOTESI: codominanza.
Aa x Aa
Frequenze osservate (totale 3536):
AA = 868
Aa = 1782
aa = 886
Frequenze attese:
AA = 1/4 (3536) = 884
2Aa = 1/2 (3536) = 1768
aa = 1/4 (3536) = 884
Χ²2gdl = (868-884)²/884 + (1782-1768)²/1768 + (886-884)²/884 = 0,405
Il valore di Χ² è inferiore a quello tabulare per P≤0,05 e 2 g.d.l., per cui la segregazione
osservata è in accordo con l'ipotesi.
IPOTESI: letalità omozigote recessivo.
Aa x Aa
Frequenze osservate (totale 1282):
AA = 414
2Aa = 868
51
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Frequenze attese:
AA = 1/3 (1282) = 427,3
2Aa = 2/3 (1282) = 854,7
X²1gdl = (414-427,3)²/427,3 + (868-854,7)²/854,7 = 0,621
Il valore di Χ² è inferiore a quello tabulare per P≤0,05 ed 1 g.d.l., per cui la segregazione
osservata è in accordo con l'ipotesi.
IPOTESI: segregazione diibrido AaBb.
In F2 sono stati osservati su un totale di 4082 fenotipi:
[AB] = 2458
[Ab] = 603
[aB] = 598
[ab] = 423
Frequenze attese (9:3:3:1):
[AB] = 9/16 (4082) = 2296,125
[Ab] = 3/16 (4082) = 765,375
[aB] = 3/16 (4082) = 765,375
[ab] = 1/16 (4082) = 255,125
Χ²3gdl = (2458 - 2296,125)²/2296,125 + (603 - 765,375)²/765,375 + (598 - 765,375)²/765,375 + (423 - 255,125)²/255,125 = 192,926
Poiché il valore di Χ² osservato è superiore a quello tabulato per 3 g.d.l. e P≤0,001, dobbiamo
escludere l'ipotesi di segregazione indipendente del diibrido AaBb. Controlliamo allora se,
separatamente, le coppie alleliche Aa e Bb segregano nel rapporto 3 ad 1:
[A] = 3061
[a] = 1021
attese = 3/4 (4082) = 3061,5
attese = 1/4 (4082) = 1020,5
Χ²1gdl = (3061-3061,5)²/3061,5 + (1021-1020,5)²/1020,5 = 0,0003
[B] = 3056
[b] = 1026
attese = 3/4 (4082) = 3061,5
attese = 1/4 (4082) = 1020,5
Χ²1gdl = (3056-3061,5)²/3061,5 + (1026-1020,5)²/1020,5 = 0,0395
In entrambi i casi il valore di Χ² è inferiore a quello per 1 g.d.l e P≤0,05, per cui le due coppie
alleliche segregano, ciascuna per suo conto, nel rapporto atteso di 3 ad 1, ma
complessivamente non nelle classiche frequenze 9:3:3:1. Per dimostrare che si tratta di una
segregazione non indipendente, come nel caso di due loci posti sullo stesso cromosoma,
verifichiamo per differenza l'interazione dei due loci nella segregazione:
52
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Segregazione
g.d.l.
X²
significatività
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------AaBb
3
192,93
P≤0,001
Aa
1
0,0003
non significativo
Bb
1
0,040
non significativo
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------"interazione"
1
192,89
P≤0,001
Si può dunque concludere che si tratta effettivamente di un diibrido, in cui la segregazione
delle due coppie alleliche non è però indipendente.
CONTROLLO EQUILIBRIO GENETICO: A=a (2595 osservazioni).
[AA] = 1760
[Aa] = 620
[aa] = 215
p = (1760 + ½ 620)/2595 = 0,798
q = (215 + ½ 620)/2595 = 0,202
Frequenze attese in base alla legge di Hardy-Weinberg:
[AA] = p² (2595) = 1652,5
[Aa] = 2pq (2595) = 836,6
[aa] = q² (2595) = 105,9
Χ²1gdl = (1760-1652,5)²/1652,5 + (620-836,6)²/836,6 + (215-105,9)²/105,9 = 175,47
Il valore di Χ² osservato è superiore a quello tabulare per 1 g.d.l. e P≤0,001, per cui la
popolazione non è da considerare in equilibrio secondo Hardy-Weinberg.
CONTROLLO EQUILIBRIO GENETICO: Z=z (in un gruppo sanguigno di 2047 bovini
Jersey).
[ZZ] = 542
[Zz] = 1043
[zz] = 462
p = (542 + ½ 1043)/2047 = 0,5195
q = (462 + ½ 1043)/2047 = 0,4805
Frequenze attese in base alla legge di Hardy-Weinberg:
[ZZ] = p² (2047) = 552.44
[Zz] = 2pq (2047) = 1021,94
[zz] = q² (2047) = 472,61
Χ²1gdl = (542-552,44)²/552,44 + (1.043-1.021,94)²/1.021,94 + (462-472,61)²/472,61 = 0,8695
53
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Il valore di Χ² osservato è inferiore a quello tabulare per 1 g.d.l. e P≤0,05, per cui la
popolazione è da considerare in equilibrio secondo Hardy-Weinberg, e le differenze fra le
frequenze osservate ed attese sono da attribuire al caso.
IPOTESI: appartenenza di un campione ad una popolazione (locus AB0, 1000 osservazioni).
Frequenze ipotizzate nella popolazione: p = 0,35, q = 0,25, r = 0,4.
Campione osservato:
[A] = 400
[B] = 260
[AB] =175
[0] = 165
Frequenze attese:
(p²+2pr) 1000 = 402,5
(q²+2qr) 1000 = 262,5
(2pq) 1000 = 175
(r²) 1000 = 160
Χ²2gdl = (400-402,5)²/402,5 + (260-262,5)²/262,5 + (175-175)²/175 + (165-160)²/160 = 0,1956
Poiché il Χ² è inferiore a quello tabulato per P≤0,05 e 2 g.d.l., la distribuzione osservata è
compatibile con quella attesa: il campione può effettivamente appartenere ad una popolazione
con le frequenze alleliche indicate.
TABELLE DI CONTINGENZA: servono a verificare se due o più caratteri sono indipendenti
(ancor prima di aver chiarito il determinismo genetico dei caratteri stessi).
Mantello: fenotipo chiaro o scuro.
Occhi: fenotipo chiaro o scuro.
Mantello
Occhi
OSSERVAZIONI
----------------------------------------------------------------------Scuro
scuri
1605
Scuro
chiari
95
Chiaro
scuri
395
Chiaro
chiari
405
In totale, su 2500 animali, 1700 hanno mantello scuro ed 800 lo hanno chiaro, mentre, per
quanto riguarda il colore degli occhi, 2000 li hanno chiari e 500 scuri; la probabilità di avere
mantello scuro è dunque 0,68 (cioè 1700/2500) e quella di averlo chiaro 0,32 (cioè 800/2500,
o anche 1-0,68); la probabilità di avere occhi scuri è 0,8 (cioè 2000/2500), quella di avere
occhi chiari 0,2 (cioè 500/2500, o anche 1-0,8). Se i due caratteri fossero indipendenti, in base
al principio della probabilità composta, gli animali con mantello ed occhi scuri dovrebbero
essere 1360 (cioè 0,68 x 0,8 x 2500), quelli con mantello scuro ed occhi chiari 340 (cioè 0,68
x 0,2 x 2500), quelli con mantello chiaro ed occhi scuri 640 (cioè 0,32 x 0,8 x 2500), ed infine
quelli con mantello ed occhi chiari 160 (cioè 0,32 x 0,2 x 2500). In altre parole, dei 1700
animali con mantello scuro, 1360 (80%) dovrebbe avere occhi scuri e 340 (20%) occhi chiari,
mentre gli 800 animali con mantello chiaro dovrebbero avere, in base alle stesse percentuali,
640 occhi scuri e 160 occhi chiari.
54
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Il tutto può essere riassunto nella seguente tabella di contingenza:
OCCHI
Scuri
Chiari
TOTALE
MANTELLO
Scuro
Chiaro
Osservati
Attesi Osservati
Attesi
1605
1360
395
640
95
340
405
160
1700
800
TOTALE
2000
500
2500
In una tabella di contingenza, il numero dei gradi di libertà si calcola con la formula
gdl = (r-1) x (c-1)
dove r è il numero delle righe e c il numero delle colonne della tabella; nel nostro caso, (2-1)
x (2-1) = 1 g.d.l. (tabella 2 x 2).
Χ²1gdl = (1605-1360)²/1360 + (395-640)²/640 + (95-340)²/340 + (405-160)²/160 = 689,625
Poiché il valore di Χ² trovato supera il valore tabulare per P≤0,001 ed 1 g.d.l., dobbiamo
concludere che i due caratteri non sono indipendenti, e cioè gli animali con mantello scuro
hanno più frequentemente occhi scuri, mentre quelli con mantello chiaro hanno più
frequentemente occhi chiari (potrebbe ad esempio trattarsi di loci associati).
STIMA DELLA FREQUENZA DEI PORTATORI. Supponiamo che in un locus biallelico
l'allele recessivo a sia responsabile di una grave malattia: in altre parole, che gli omozigoti
recessivi aa siano soggetti ad una selezione naturale o artificiale che li porta a non riprodursi. I
genotipi possibili alla nascita sono tre (AA, Aa ed aa), ma gli accoppiamenti possibili, dato
che aa non è in grado di riprodursi, si riducono da 6 a 3:
ACCOPPIAMENTO
RISULTATO
---------------------------------------------------------------------AA
x
AA
tutti AA
AA
x
Aa
½ AA + ½ Aa
AA
x
aa
accoppiamento impossibile
Aa
x
Aa
¼ AA + ½Aa + ¼ aa
Aa
x
aa
accoppiamento impossibile
aa
x
aa
accoppiamento impossibile
Vediamo dunque che la nascita degli omozigoti recessivi aa è determinata dalla frequenza
degli eterozigoti (portatori, fenotipicamente sani, del gene per la malattia): esprimiamo allora
le frequenze in termini di q. La frequenza degli eterozigoti, nell'intera popolazione (compresi
gli omozigoti recessivi) è data da 2pq = 2q(1-q); la frequenza degli eterozigoti nella
popolazione di individui normali è data da 2pq / (p²+2pq) = 2q(1-q) / [(1-q)²+2q(1-q)] =
2q / (1-q+2q) = 2q/(1+q).
55
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
ESEMPIO: su 55715 bambini nati in 3 anni a Birmingham (G.B.), 5 erano affetti da
fenilchetonuria. Stimare la frequenza dei portatori nella popolazione totale e fra gli individui
sani.
½
f(a) = q = (5/55715) = 0,0095
frequenza dei portatori sui bambini nati = 2q(1-q) = 0,019 x 0,9905 = 0,0188
frequenza dei portatori nella popolazione sana = 2q/(1+q) = 0,019/1,0095 = 0,0188
Poco meno del 2% della popolazione è costituita da portatori sani: a causa della bassa
frequenza di soggetti affetti dalla malattia le due frequenze sono praticamente uguali.
GENOTIPI IN UN LOCUS BIALLELICO
1,0
F
r
e
q
u
e
n
z
e
,8
,6
,4
,2
0,0
0
0,25
0,5
0,75
1
Frequenza di a
AA
Aa
aa
ALLELE RECESSIVO LETALE a
,070000
P
O
R
T
A
T
O
R
I
,060000
,050000
,040000
,030000
/
S
A
N
I
,020000
,010000
0,000000
0,00001
0,0001
0,001
AFFETTI / NATI
Se le frequenze geniche non variassero da una generazione alla successiva le popolazioni
avrebbero scarsa possibilità di modificarsi; in realtà le popolazioni sono in un continuo
divenire, e le nuove generazioni sono sempre diverse dalle precedenti. Occorre, come già
ripetuto più volte, superare il concetto statico di razza; all'inizio vennero definiti degli
standard, ed alcuni standard di razza sono rimasti invariati per almeno 150 anni; ancora oggi
56
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
è difficile far capire agli stessi tecnici la necessità di aggiornare frequentemente gli standard
di razza.
Quali sono le forze che fanno variare le popolazioni? Sono quelle forze che fanno variare le
frequenze geniche da una generazione all'altra, e che fanno in tal modo variare in misura
maggiore o minore l'equilibrio genetico (lo possono far perdere e far attestare su equilibri
diversi). La perdita dell'equilibrio genetico può essere molto pericolosa per una popolazione,
soprattutto se riguarda più loci.
Le forze in grado di far variare l'equilibrio genetico sono 4:
- mutazione;
- migrazione (o flusso genico);
- selezione (riproduzione differenziale dei genotipi);
- deriva genetica.
Mutazione, migrazione e selezione provocano delle pressioni sistematiche: conoscendole, si
può prevedere quali saranno le frequenze geniche nelle generazioni successive; in altre parole,
i cambiamenti prodotti da mutazioni, migrazioni e selezione sono prevedibili sia in intensità
che in direzione. ∆q (leggi "delta q") è la misura dello spostamento della frequenza genica q
da una generazione a quella successiva all'azione della forza stessa.
La deriva genetica agisce attraverso una pressione dispersiva: pur conoscendo le frequenze
geniche, non si è in grado di prevedere le frequenze della generazione successiva; è una
situazione che bisogna cercare di evitare. Nelle popolazioni che vanno scomparendo lo stato
"preagonico" della popolazione stessa è rappresentato dalla deriva genetica. Si può solo
ipotizzare il grado delle modificazioni dovute alla deriva genetica, ma non la direzione.
Mutazioni, migrazioni e deriva genetica provocano delle variazioni fortuite, solo la selezione
sembra avere un aspetto "finalistico" di adattamento del fenotipo degli animali; inoltre
mutazioni, migrazioni e deriva genetica agiscono su tutti i loci, mentre la selezione interessa
esclusivamente i loci non neutri; con la selezione i loci neutri possono variare per il
cosiddetto "effetto autostop", cioè "trascinati" dai loci non neutri soggetti a selezione con i
quali i loci neutri in oggetto sono associati.
Le mutazioni, anche quelle ricorrenti, hanno praticamente nessuna forza nel far variare le
frequenze geniche: richiederebbero un numero elevatissimo di generazioni. Ugualmente
pochissima forza hanno le migrazioni, per le quali occorre però fare una distinzione fra
popolazioni omogenee e popolazioni non omogenee (erosione genetica). Nel far variare le
frequenze la forza più importante è la selezione. La deriva genetica esiste sempre, ma è
importante solo se la popolazione è piccola.
LA SELEZIONE.
La selezione fu definita come termine da Charles Darwin (1809-1882); è il metodo con cui
l'uomo "migliora" le popolazioni per i suoi fini. Bisogna distinguere una selezione gametica
da una selezione zigotica; la selezione gametica è anche detta genica, quella zigotica è anche
definita genotipica. La selezione gametica o genica è la riproduzione differenziale dei geni:
dato un locus biallelico, un allele ha una capacità riproduttiva superiore all'altro allele perché
il gamete con il primo allele si riproduce meglio del gamete con il secondo allele; è un
modello teorico, difficile da comprendere (il gamete è espressione del genotipo dell'animale
che si riproduce, non dei geni che il gamete stesso porta), ricavato da animali inferiori: non ha
significato zootecnico, ed è stato ipotizzato ad esempio come una possibile ipotesi circa le
frequenze geniche dei gatti senza coda dell'isola di Man. Nella selezione zigotica la selezione
non si verifica sul gene ma sulla combinazione degli alleli di un locus polimorfo (è molto più
semplice da capire, giacché il genotipo selezionato si è espresso nel fenotipo). La selezione
naturale è in realtà una selezione del fenotipo. Nella selezione zigotica o genotipica la
selezione agisce nella riproduzione differenziale dei genotipi all'interno di un locus polimorfo.
57
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Non esiste un solo tipo di selezione: tratteremo la selezione con coefficienti selettivi costanti,
ma ne esistono altri tipi.
TIPI DI SELEZIONE
1234567-
selezione a coefficienti costanti
selezione dipendente dalla frequenza
selezione dipendente dalla densità
valore selettivo ineguale nei due sessi
selezione ciclica
selezione disruptiva
interazione fra tipi di selezione diversa
Nella selezione a coefficienti costanti, i valori selettivi sono costanti e non variano al variare
delle frequenze alleliche. Nella selezione dipendente dalla frequenza i valori selettivi variano
al variare delle frequenze alleliche; la correlazione fra il valore selettivo di un genotipo e la
sua frequenza è negativa: un genotipo sarà cioè avvantaggiato dal diminuire della sua
frequenza. Nella selezione dipendente dalla densità c'è un variare della fitness dipendente
dalla densità della popolazione in un habitat ben definito. Nella selezione con valore selettivo
ineguale nei due sessi lo stesso allele è soggetto a pressioni selettive differenti a seconda del
sesso. Nella selezione ciclica la fitness cambia ciclicamente, con il variare ciclico
dell'ambiente (ad esempio, con le stagioni). Nella selezione disruptiva, due sottopopolazioni
separate da una diversa nicchia ecologica, possono riprodursi ed entrare in un nuovo
equilibrio. I tipi di selezione citati possono inoltre avvenire anche contemporaneamente.
La selezione può anche essere distinta in stabilizzatrice, direzionale, ciclica e diversificante.
Nella selezione stabilizzatrice viene selezionato il fenotipo medio (se pensiamo ad una curva
normale, si riproducono gli individui prossimi alla media); nella selezione direzionale viene
selezionato uno dei due fenotipi estremi (cioè gli individui vicini ad una estremità della curva
normale): è il caso tipico degli animali in produzione zootecnica, in cui l'uomo seleziona i
migliori; nella selezione ciclica dei fattori ciclici, come ad esempio l'alternarsi delle stagioni,
favoriscono in un certo periodo gli individui vicini ad un estremo della curva normale ed in un
periodo successivo quelli prossimi all'altro estremo (ad esempio, un mantello bianco quando
c'è la neve invernale ed un mantello selvaggio in estate); nella selezione diversificante i due
estremi fenotipici vengono selezionati contemporaneamente (si riproducono cioè solo i
fenotipi alle due estremità della curva normale, mentre gli intermedi vengono eliminati).
Una distinzione molto semplice è quella fra selezione naturale e selezione artificiale: nella
selezione naturale è l'ambiente che condiziona la riproduzione dei genotipi, nella selezione
artificiale è l'uomo. La selezione artificiale è principalmente effettuata su popolazioni
domestiche estremamente migliorate, sulle quali la selezione naturale non è praticamente più
attiva; la selezione naturale è attiva soprattutto sulle razze primarie. Lo stesso Darwin ipotizzò
la presenza di un altro tipo di selezione, la selezione sessuale, sulla cui esistenza ed
eventualmente importanza si hanno ancora oggi pareri controversi; la selezione sessuale è
basata sulla preferenza di un sesso ad accoppiarsi con particolari fenotipi dell'altro sesso: è
probabilmente alla base dei dimorfismi sessuali più esasperati, che probabilmente non
sopravviverebbero alla selezione naturale (ad esempio, la coda di alcuni uccelli maschi, come
il pavone, è indispensabile per il corteggiamento ma è sicuramente svantaggiosa perché rende
l'animale stesso più vulnerabile ai predatori).
Studieremo la selezione a coefficienti selettivi costanti, con particolare riferimento a quella
direzionale, cioè alle selezione dei genotipi "estremi". La selezione è la riproduzione
differenziale dei genotipi polimorfi. Ogni genotipo ha una sua misura del valore riproduttivo,
la fitness, termine già introdotto da Darwin; la definizione di fitness è molto complessa, e noi
58
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
cercheremo di semplificarla utilizzandola in termini relativi, cioè di rapporti fra le efficienze
riproduttive dei diversi genotipi. La fitness è dapprima un fenomeno relativo ad un locus, poi
relativo all'insieme di loci di un individuo, infine della popolazione di individui con quei loci.
La fitness è definibile solo per i loci non neutri, che complessivamente non sono molti.
Per la fitness si valutano due elementi: la fertilità e la "viabilità" (un francesismo che
potremmo tradurre in compatibilità con la vita).
1)- selezione dovuta ad una differente viabilità (=compatibilità con la vita) nelle varie fasi di
sviluppo
- selezione gametica
- selezione zigotica (prenatale e postnatale)
2)- selezione dovuta ad una differente fertilità
- alcuni genotipi sono meno fertili di altri
- alcuni tipi di accoppiamento sono incompatibili e la fertilizzazione non avviene
3)- selezione familiare (Haldane, 1924) [di scarsa importanza in zootecnia]: i discendenti di
un certo accoppiamento possono avere nel complesso una diversa viabilità in relazione
al genotipo di ciascun componente della famiglia.
Che cosa è la fitness? Abbiamo visto che si compone di fertilità e viabilità. Possiamo tentare
di definirla in maniera assoluta o in maniera relativa.
In termini assoluti, la fitness di un genotipo potrebbe essere definita come il numero medio di
figli nati vivi e vitali nella carriera riproduttiva di un individuo caratterizzato da quel
genotipo: ad esempio, se in una popolazione da 100 omozigoti recessivi ad un locus biallelico
nascono 200 individui, la fitness è 200/100=2. Esistono però alcuni problemi nel definire la
fitness in questi termini: ad esempio, l'allele recessivo potrebbe essere "dannoso" rispetto al
dominante, ma dall'esempio illustrato ciò non si capisce; inoltre se il carattere è raro è difficile
avere un campione sufficientemente ampio; la fitness dipenderebbe non solo dal genotipo
+
esaminato ma anche dai possibili accoppiamenti (ad esempio, per il fattore Rh ed Rh
nell'uomo): in tal caso la fitness varierebbe anche al variare delle frequenze geniche; alcuni
caratteri potrebbero essere evidenti solo nella vita adulta.
Una migliore definizione, sempre in termini assoluti, di fitness di un genotipo è dato dal
numero medio di figli per gli individui con quel determinato genotipo, prendendo in
considerazione la generazione parentale e quella filiale nella stessa fase di sviluppo. Con
questa definizione si tiene conto sia della fertilità che della viabilità del genotipo.
La fitness relativa di un genotipo in una popolazione è una grandezza proporzionale al
numero medio di figli che tale genotipo produce e che contribuiscono alla generazione
successiva: per rendere proporzionale la fitness si confrontano le differenti fitness dei
genotipi presenti nella popolazione.
Ad esempio:
GENOTIPO
AA
Aa
aa
-----------------------------------------------------------fitness assoluta
5
3
2
fitness relativa
2,5
1,5
1
fitness relativa
0,5
0,3
0,2
fitness relativa
1
0,6
0,4
(dando valore unitario alla fitness più bassa)
(la somma totale delle fitness è 1)
(dando valore unitario alla fitness più elevata)
Per esprimere la fitness relativa si utilizza in genere l'ultimo metodo, si dà cioè valore 1 alla
fitness più elevata: ciò non deve però essere inteso come assenza di selezione per tale
59
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
genotipo (nel nostro caso AA), ma indica solamente che quello è il genotipo con la massima
capacità riproduttiva. I genotipi con fitness inferiore ad 1 hanno un coefficiente di selezione
(anch'esso relativo), pari ad 1-fitness. La fitness viene generalmente indicata con w, il
coefficiente di selezione con s.
Nell'esempio, i coefficienti di selezione per l'eterozigote e l'omozigote recessivo sono:
sAa
=
1-0,6 =
0,4
=
1-0,4 =
0,6
saa
E' ovvio che potremmo anche esprimere la fitness come 1-s, cioè nel nostro caso:
wAA
=
1-sAA =
1-0
=
1
=
1-sAa =
1-0,4 =
0,6
wAa
waa
=
1-saa =
1-0,6 =
0,4
Nel caso in cui l'eterozigote ha una fitness minore di entrambi gli omozigoti, la popolazione
tende a diventare omozigote per il gene con la maggior frequenza iniziale: teoricamente, nel
caso le frequenze di partenza siano uguali, la situazione è in equilibrio (con gli eterozigoti si
elimina uno stesso numero di alleli A ed a, per cui se gli alleli hanno uguale frequenza si
elimina anche un'identica frazione di geni A ed a, lasciando così invariate le frequenze), ma
ovviamente anche un minimo effetto delle deriva genetica porta ad uno squilibrio che, per
quanto piccolo, è l'inizio della tendenza alla fissazione del gene più frequente. Se un allele è
incondizionatamente vantaggioso (cioè l'animale omozigote per questo gene ha una maggiore
fitness dell'animale omozigote per l'altro allele, indipendentemente dal fatto che la fitness
dell'eterozigote sia come quella dell'uno o dell'altro omozigote) tende a fissarsi nella
popolazione; viceversa, se un allele è incondizionatamente svantaggioso (cioè l'animale
omozigote per questo gene ha una minore fitness dell'animale omozigote per l'altro allele,
indipendentemente dal fatto che la fitness dell'eterozigote sia come quella dell'uno o dell'altro
omozigote) tende a scomparire dalla popolazione (ovvero è l'altro allele che tende a fissarsi).
Un caso più complesso è il polimorfismo bilanciato o vantaggio dell'eterozigote; un famoso
esempio è quello dell'anemia falciforme: un modello di equilibrio simile a questo è chiamato
in causa anche in numerose situazioni zootecniche (ad esempio, nascita di ovini a vello
colorato). L'anemia falciforme è dovuta ad un gene mutato S, codominante con il gene non
mutato A, il quale codifica per una particolare emoglobina in cui un aminoacido è sostituito
da un altro: tale sostituzione provoca, a basse tensioni di ossigeno, una particolare
disposizione spaziale delle molecole di emoglobina all'interno dell'eritrocita, il quale assume
conseguentemente la caratteristica forma a falce che dà il nome alla malattia. L'omozigote SS
è affetto da una gravissima forma di anemia; l'eterozigote AS (o SA) ha una forma subclinica
di anemia, ed è riconoscibile per la presenza nello striscio di sangue di un certo numero di
forme eritrocitarie a falce; l'omozigote AA è l'individuo normale.
Date queste premesse, ci si dovrebbe aspettare che la selezione naturale abbia nel tempo
abbassato la frequenza q dell'allele S: gli individui SS infatti di regola non si riproducono; in
alcune popolazioni umane la frequenza dell'allele S risulta invece elevata. Una prima ipotesi
potrebbe essere che la frequenza dell'allele S, nonostante la selezione naturale, non diminuisce
perché c'è una mutazione ricorrente dell'allele A in S: tale ipotesi è però da scartare, sia
perché la frequenza q è troppo elevata per essere mantenuta da una mutazione, sia perché la
mutazione stessa non è stata mai riscontrata in analisi di gruppi familiari. L'osservazione che
la frequenza dell'allele S nelle popolazioni umani è proporzionale all'incidenza della malaria,
nonché la maggior resistenza degli eterozigoti alla malaria sia in infezioni sperimentali che
naturali hanno portato all'ipotesi di una maggior fitness dell'eterozigote rispetto al normale
genotipo AA negli habitat dove la malaria è endemica: a favore di tale ipotesi potrebbero
esserci diverse basi fisiologiche, ad esempio l'eritrocita con emoglobina SA potrebbe non
60
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
essere un ambiente di vita adatto per il parassita, oppure l'organismo potrebbe meglio
individuare e neutralizzare il parassita con le proprie difese macrofagiche quando, alle basse
tensioni di ossigeno (come nei capillari), il globulo rosso tende a modificare la propria forma.
Nel modello esposto entrambi i genotipi omozigoti hanno una fitness inferiore a quella
dell'eterozigote; indichiamo con s1 il coefficiente selettivo dell'omozigote AA e con s2 il
coefficiente selettivo contro l'omozigote SS. Se q è la frequenza dell'allele S in una
generazione, quale sarà la frequenza q1 dello stesso allele nella generazione successiva?
GENOTIPO ¦
AA
AS
SS
---------------------------------------------------------------------fitness
¦
1-s1
1
1-s2
q1=
q²(1-s2)+pq
--------------1-s1p²-s2q²
e poiché p=1-q si ha
q1=
q²(1-s2)+q(1-q)
------------------1-s1p²-s2q²
=
q²-q²s2+q-q²
----------------1-s1p²-s2q²
=
q-q²s2
------------1-s1p²-s2q²
Avendo calcolato la frequenza dell'allele S nella nuova generazione, è anche possibile
calcolare la differenza di frequenza dell'allele stesso fra le due generazioni:
q-s2q²
-------------- - q
1-s1p²-s2q²
∆q
=
=
q-s2q²-q+s1p²q+s2q
-----------------------1-s1p²-s2q²
q1-q
=
3
=
=
q(-s2q+s1p²+s2q²)
----------------------1-s1p²-s2q²
q-s2q²-q(1-s1p²-s2q²)
-------------------------- =
1-s1p²-s2q²
=
q[s1p²+s2q(-1+q)]
--------------------1-s1p²-s2q²
poiché è q=1-p si ha
∆q
=
q[s1p²+s2q(-1+1-p)]
------------------------1-s1p²-s2q²
=
q(s1p²-s2qp)
-----------------1-s1p²-s2q²
=
pq(s1p-s2q)
-------------1-s1p²-s2q²
E' possibile anche calcolare delle frequenze di equilibrio, ovvero delle frequenze in cui ∆q=0:
pq(s1p-s2q)
--------------1-s1p²-s2q²
= 0
Una prima soluzione si ha quando pq=0, il che è possibile, essendo p+q=1, solo quando p=1 e
q=0 oppure p=0 e q=1: in altri termini, quando il locus è fisso.
61
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Una seconda soluzione si ha quando s1p-s2q=0, ovvero quando s1p=s2q, da cui si può ricavare
s1p=s2(1-p)
¦
¦
¦
¦
¦
s1p+s2p=s2
p=s2/(s1+s2)
s2q=s1(1-q)
s2q+s1q=s1
q=s1/(s1+s2)
Esistono dunque delle frequenze di equilibrio, ma vengono sempre raggiunte in un simile
modello? Sì, perché se la frequenza q è minore di quella di equilibrio, e conseguentemente p è
maggiore, s1p-s2q è positivo, e quindi ∆q è positivo, per cui la frequenza q aumenta e p
diminuisce; se, al contrario, la frequenza q è superiore a quella teorica all'equilibrio, e di
conseguenza p è inferiore, s1p-s2q è negativo, e quindi ∆q è negativo, per cui q diminuisce e p
aumenta.
ESEMPIO
fitness
AA
=
AS
=
SS
=
1-1/9 =
1-0
=
1-1
=
8/9
1
0
frequenze all'equilibrio
p
=
1/(1+1/9)
=
q
=
(1/9)/(1+1/9) =
0,9
0,1
genotipi alla nascita con frequenze all'equilibrio (totale 100)
AA
=
100 p²
=
100(0,9)²
=
81
AS
=
100 2pq
=
200(0,9)(0,1) =
18
SS
=
100 q²
=
100(0,1)²
=
1
genotipi dopo la selezione
AA
=
81(8/9)
=
72
AS
=
18(1)
=
18
SS
=
1(0)
=
0
-------------------------------------------------totale
90
Si può controllare che le frequenze geniche dopo la selezione sono rimaste uguali:
p
=
(72+18/2)/90
=
0,9
q
=
(18/2)/90
=
0,1
Invece, partendo da una frequenza dell'allele S inferiore a quella di equilibrio, la frequenza
stessa aumenta:
p
q
=
=
0,99
0,01
62
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
genotipi alla nascita (totale 10000)
AA
=
10000 p²
=
AS
=
10000 2pq
=
SS
=
10000 q²
=
10000(0,99)²
20000(0,99)(0,01)
10000(0,01)²
=
=
=
9801
198
1
genotipi dopo la selezione
AA
=
9801(8/9)
=
8712
AS
=
198(1)
=
198
SS
=
1(0)
=
0
----------------------------------------------------totale
8910
frequenze geniche dopo la selezione
p
=
(8712+198/2)/8910 =
q
=
(198/2)/8910
=
0,989
0,011
Al contrario, partendo da una frequenza dell'allele S superiore a quella di equilibrio, la
frequenza si riduce:
p
q
=
=
0,8
0,2
genotipi alla nascita (totale 100)
AA
=
100 p²
=
AS
=
100 2pq
=
SS
=
100 q²
=
100(0,8)²
200(0,8)(0,2)
100(0,2)²
=
=
=
64
32
4
genotipi dopo la selezione
AA
=
64(8/9)
=
56,889
AS
=
32(1)
=
32
SS
=
4(0)
=
0
------------------------------------------------------totale
88,889
frequenze geniche dopo la selezione
p
=
(56,889+32/2)/88,889 =
q
=
(32/2)/88,889
=
0,82
0,18
L'andamento delle frequenze geniche è dunque prevedibile; si può anche, al contrario, risalire
al numero di generazioni trascorse dalla comparsa della mutazione.
63
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
POLIMORFISMO BILANCIATO
FREQUENZA DI EQUILIBRIO DELL'ALLELE A
1,0
F
R
E
Q
U
E
N
Z
A
,8
,6
,4
,2
0,0
0,1
0,2
0,3
0,4
0,5
0,6
0,7
0,8
0,9
FITNESS AA
fitness BB = 0,2
fitness BB = 0,6
fitness BB = 0,4
fitness BB = 0,8
Supponiamo ora di avere un campione di individui adulti, ricavato da una popolazione che si
presuppone aver ormai raggiunto l'equilibrio: come si calcolano i valori di fitness?
Essendo la popolazione in equilibrio, le frequenze alla nascita dovrebbero essere come quelle
negli adulti: possiamo allora calcolare le frequenze geniche e da queste le frequenze
genotipiche attese secondo la legge di Hardy-Weinberg; la fitness relativa viene calcolata in
base ai rapporti fra frequenze osservate ed attese, espressi in proporzione al valore più
elevato.
ESEMPIO
Frequenze genotipiche negli adulti (totale 12387)
AA
=
9365
AS
=
2993
SS
=
29
Frequenze geniche di equilibrio
p
=
(9365+2993/2)/12387
q
=
(29+2993/2)/12387
=
=
0,877
0,123
Frequenze attese secondo Hardy-Weinberg
AA
=
12387 p²
=
9527,2
AS
=
12387 2pq
=
2672,4
SS
=
12387 q²
=
187,4
Rapporti fra frequenze osservate ed attese
AA
=
9365/9527,2
=
AS
=
2993/2672,4
=
SS
=
29/187,4
=
Fitness
AA
=
AS
=
SS
=
0,983/1,12
1,12/1,12
0,155/1,12
=
=
=
0,983
1,12
0,155
0,878
1
0,138
64
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Se le frequenze non sono in equilibrio per il calcolo della fitness occorrono due campioni, uno
relativo alla popolazione prima della selezione ed uno relativo alla popolazione dopo l'azione
della forza selettiva: la fitness relativa può essere espressa dal rapporto fra la frequenza
genotipica nella popolazione dopo la selezione e la frequenza genotipica nella popolazione
non ancora selezionata, sempre in proporzione al genotipo che ha la fitness più elevata.
ESEMPIO
Campione prima della selezione, ovvero nati (totale 287)
AA
=
189
AS
=
89
SS
=
9
Campione dopo la selezione, ovvero adulti (totale 654)
AA
=
400
AS
=
249
SS
=
5
Frequenze genotipiche dei neonati
AA
=
189/287
=
AS
=
89/287
=
SS
=
9/287
=
0,6585
0,3101
0,0314
Frequenze genotipiche degli adulti
AA
=
400/654
=
AS
=
249/654
=
SS
=
5/654
=
0,6116
0,3807
0,0076
Rapporti fra le frequenze genotipiche
AA
=
0,6116/0,6585 =
0,9288
AS
=
0,3807/0,3101 =
1,2277
SS
=
0,0076/0,0314 =
0,2420
Fitness
AA
=
AS
=
SS
=
0,9288/1,2277 =
1,2277/1,2277 =
0,2420/1,2277 =
0,7565
1
0,1971
E' possibile notare che la frequenza dell'allele S nei due campioni è diversa, a conferma del
probabile non equilibrio:
q(neonati)
q(adulti)
=
=
(9+89/2)/287 =
(5+249/2)/654 =
0,1864
0,1980
La frequenza di equilibrio è (1-0,7565)/[(1-0,7565)+(1-0,1971)]=0,2327
65
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Più semplice nel calcolo è:
Rapporti fra le osservazioni
AA
=
400/189
=
AS
=
249/89
=
SS
=
5/9
=
2,1164
2,7978
0,5556
Fitness
AA
=
AS
=
SS
=
0,7565
1
0,1986
2,1164/2,7978 =
2,7978/2,7978 =
0,5556/2,7978 =
Le differenze rispetto ai valori calcolati in precedenza sono dovute agli arrotondamenti, in
quanto i due metodi sono matematicamente equivalenti:
Fitness
AA
=
AS
=
SS
=
[(400/654)/(189/287)] / [(249/654)/(89/287)] = (400/189) / (249/89)
[(249/654)/(89/287)] / [(249/654)/(89/287)] = 1
[(5/654)/(9/287)] / [(249/654)/(89/287)] = (5/9) / (249/89)
Se non si fossero campionati i neonati e si fosse utilizzato il metodo precedentemente
applicato per una popolazione in equilibrio si sarebbe giunti a conclusioni errate, come
dimostrano i calcoli seguenti:
Frequenze osservate negli adulti (totale 654)
AA
=
400
AS
=
249
SS
=
5
Frequenze attese
AA
=
654 p²
AS
=
654 2pq
SS
=
654 q²
=
=
=
654 (0,80199)²
1308 (0,80199)(0,19801)
654 (0,19801)²
=
=
=
420,64
207,71
25,64
Rapporto fra frequenze osservate ed attese
AA
=
400/420,64 =
0,95093
AS
=
249/207,71 =
1,19879
SS
=
5/25,64
=
0,19501
Fitness
AA
=
AS
=
SS
=
0,95093/1,19879
1,19879/1,19879
0,19501/1,19879
=
=
=
0,79324
1
0,16267
Il modello con vantaggio selettivo dell'eterozigote viene anche indicato come
superdominanza: si intende in tal modo dire che l'eterozigote domina, relativamente alla
fitness, su entrambi gli omozigoti; attenzione a non confondere fitness e carattere: è ovvio
che, riguardando la fitness il fenotipo, essa è influenzata dal tipo di eredità, cioè da come il
genotipo si esprime nel fenotipo (cioè dal fatto che i due alleli abbiano rapporti di dominanza
66
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
e recessività completa, A>a, oppure di codominanza, A=B, e dalla penetranza
nell'eterozigote). Non confondere, ad esempio, un eterozigote con superdominanza intesa in
senso mendeliano, come una maggior quantità del carattere (che, se svantaggioso, potrebbe
dare minor fitness), con la superdominanza intesa come maggior fitness dell'eterozigote: fare
quindi attenzione, nelle successive figure, alla differente simbologia Aa e AB. Il vantaggio
selettivo dell'eterozigote è un modello frequentemente utilizzato in zootecnia per spiegare
alcune situazioni particolari (nascita di agnelli a vello colorato, insorgenza della resistenza a
rodenticidi o insetticidi).
Relativamente alla fitness dell'eterozigote possiamo ipotizzare, oltre alla superdominanza in
cui l'eterozigote ha fitness relativa 1 ed i due omozigoti sono soggetti a due coefficienti
selettivi s1 e s2, altre quattro possibilità: la dominanza completa, l'assenza di dominanza, la
dominanza parziale e la sottodominanza. Nella dominanza completa l'eterozigote ha la stessa
fitness di un omozigote: la selezione si ha solo contro un omozigote oppure nella stessa
misura contro un omozigote e l'eterozigote; nell'assenza di dominanza la fitness
dell'eterozigote è la media delle fitness dei due omozigoti (ovvero il coefficiente selettivo
dell'eterozigote è la metà di quello dell'omozigote sfavorito); nella dominanza parziale la
fitness dell'eterozigote è intermedia fra quella dei due omozigoti (ma non è la media delle due
fitness): è in genere più vicina alla fitness dell'omozigote "dominante", ovvero di quello che
ha fitness 1, (la cui fitness penetra appunto parzialmente nell'eterozigote); nella
sottodominanza la fitness dell'eterozigote è inferiore alla fitness di entrambi gli omozigoti
(che hanno in genere entrambi fitness 1).
SUPERDOMINANZA
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
BB
AA
AB
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
AA
AB
BB
DOMINANZA COMPLETA
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
aa
AA
Aa
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
AA
aa
Aa
67
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
ASSENZA DI DOMINANZA
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
BB
AB
AA
AB ha carattere intermedio oppure A>B con penetranza 50%
DOMINANZA PARZIALE
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
BB
AB
AA
I caso: AB ha carattere più simile ad AA che a BB
II caso: A>B ma con penetranza parziale
Solo nel secondo caso è possibile avere:
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
BB
AB
AA
SOTTODOMINANZA
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
AB
BB
AA
0
fitness
1
|-------------------------------------------------------------------------------------------------------|
AB
AA
BB
Come già illustrato per la superdominanza (vantaggio selettivo per l'eterozigote), anche per la
dominanza completa, la assenza di dominanza, la dominanza parziale e la sottodominanza si
potrebbero calcolare le frequenze geniche nelle successive generazioni: si tratta comunque di
tutte situazioni che portano, a differenza del vantaggio selettivo per l'eterozigote, alla
fissazione di un allele (l'allele favorito nei casi di dominanza completa, dominanza parziale ed
assenza di dominanza, oppure l'allele più frequente nel caso di sottodominanza con omozigoti
di fitness 1).
Poiché con la sola eccezione della superdominanza l'esito finale della selezione è la fissazione
del locus, l'interesse non è tanto nel calcolo delle frequenze di equilibrio e del tempo
necessario per raggiungere l'equilibrio, come appunto nel caso della superdominanza, bensì
nel calcolo del tempo necessario per raggiungere la fissazione.
68
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Ad esempio, supponiamo di selezionare contro un omozigote recessivo:
genotipo
frequenza iniziale
coefficiente selettivo
fitness
contributo gametico
AA
p²
0
1
p²
Aa
2pq
0
1
2pq
aa
q²
s
1-s
q²(1-s)
(totale = 1)
(totale = 1-sq²)
Le frequenze genica dell'allele recessivo nella successiva è pertanto:
q1 =
q²(1-s) + pq
---------------1-sq²
da cui, poiché p=1-q, si ricava:
q1 =
q - q²s
----------1-sq²
La differenza nelle frequenze geniche fra due generazioni successive è:
∆q =
q1 - q = -sq²(1-q)/(1-sq²)
Supponiamo che degli omozigoti recessivi aa siano stati favoriti dalla selezione naturale
perché meglio mimetizzati, e che l'allele a abbia raggiunto una frequenza di 0,8; con il cambio
di stagione, le modifiche del paesaggio rendono però gli animali aa sfavoriti, perché più
visibili ai predatori, e lo svantaggio è pari ad una fitness 0,5: come si modificheranno le
frequenze nelle due generazioni successive?
q1 =
q - q²s
0,8 - 0,8² (0,5)
0,48
------------ = ------------------------- = ------1-sq²
1 - 0,8² (0,5)
0,68
q2 =
q1 - q1²s
------------1-sq1²
= 0,70588
0,70588 - 0,70588² (0,5)
= ------------------------------- = 0,60829
1 - 0,70588² (0,5)
Infatti:
AA
Aa
aa
= p² = (1-0,8)²
= 2pq = 2 (1-0,8) (0,8)
= q² = 0,8²
= 0,04
= 0,32
= 0,64
¦
AA
Aa
aa
¦
0,04
0,32
0,64
------------------------------------------------------------------------AA
0,04 ¦
0,0016
0,0128
0,0256
Aa
0,32 ¦
0,0128
0,1024
0,2048
aa
0,64 ¦
0,0256
0,2048
0,4096
69
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
AA
Aa
aa
= 0,0016 + 0,0064 + 0,0064 + 0,0256
= 0,0064 + 0,0256 + 0,0064 + 0,0512 + 0,1024 + 0,0256 + 0,1024
= 0,0256 + 0,1024 + 0,1024 + 0,4096
= 0,04
= 0,32
= 0,64
Azione della selezione:
AA
=
0,04
Aa
=
0,32
aa
= 0,64 (0,5) = 0,32
--------------------------------TOTALE
0,68
f(A) = [0,04 + ½ (0,32)] / 0,68 = 0,29412
f(a) = [0,32 + ½ (0,32)] / 0,68 = 0,70588
Trasformiamo le frequenze e calcoliamo la generazione successiva:
AA = 0,04 / 0,68 = 0,05882
Aa = 0,32 / 0,68 = 0,47059
aa = 0,32 / 0,68 = 0,47059
¦
AA
Aa
aa
¦
0,05882
0,47059
0,47059
-----------------------------------------------------------------------------------------------------AA
0,05882
¦
0,00346
0,02768
0,02768
Aa
0,47059
¦
0,02768
0,22145
0,22145
aa
0,47059
¦
0,02768
0,22145
0,22145
AA = 0,00346 + 0,01384 + 0,01384 + 0,05536
Aa = 0,01384 + 0,02768 + 0,01384 + 0,11073 + 0,11073 + 0,02768 + 0,11073
aa = 0,05536 + 0,11073 + 0,11073 + 0,22145
= 0,0865
= 0,41523
= 0,49827
Le frequenze sono ancora:
f(A) = 0,0865 + ½ 0,41523 = 0,29412
f(a) = 0,49827 + ½ 0,41523 = 0,70589
Ma dopo l'azione della selezione:
AA =
0,0865
Aa =
0,41523
aa = 0,49827 (0,5) = 0,24914
-------------------------------------TOTALE
0,75087
f(A) = [0,0865 + ½ (0,41523)] / 0,75087 = 0,39170
f(a) = [0,24914 + ½ (0,41523)] / 0,75087 = 0,60830 (le leggere differenze sono dovute agli arrotondamenti)
70
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Controlliamo le differenze delle frequenze fra una generazione e la successiva:
∆q =
q1 - q = -sq²(1-q)/(1-sq²) = -0,8² (0,5) (1 - 0,8) / (1 - 0,8² x 0,5) = 0,09412
∆q = q2-q1 = -sq1²(1-q1)/(1-sq1²) = -0,70588²(0,5)(1-0,70588)/(1-0,70588² x 0,5) = 0,09759
ed infatti 0,70588-0,8 = -0,09412 ed ancora 0,60829-0,70588= -0,09759.
Nel caso la selezione artificiale contro l'omozigote recessivo sia totale (o sia totale la
selezione naturale contro questo genotipo, come nel caso di un gene recessivo letale), si ha
s=1, per cui nella prima generazione:
q1 =
q - q²
---------- =
1-q²
q
------1+q
nella seconda generazione:
q1
q2 = -----1+q1
e sostituendo nella formula di q2 il valore già trovato per q1 si ha:
q
q2 = -----1+2q
La frequenza alla generazione t è analogamente:
qt =
q
-----1+tq
da cui si ricava:
q-qt
t = ------- = (1/qt) - (1/q)
q qt
Ad esempio, quante generazioni di selezione totale contro l'omozigote recessivo occorrono
per dimezzare la frequenza 1/20000 di un genotipo omozigote recessivo?
½
½
q = (1/20000) = (0,00005) = 0,00707
½
½
qt = (1/40000) = (0,000025) = 0,005
t = 1/0,005 - 1/0,00707 = 200 - 141 = 59
In generale, poiché i cambiamenti delle frequenze geniche dipendono non solo dall'intensità
di selezione, ma anche dalle frequenze geniche iniziali, la selezione è efficace soprattutto
quando q ha frequenze "medie", mentre frequenze di q molto elevate o molto basse riducono
l'effetto della selezione. Nel caso della selezione contro un omozigote recessivo, quando
questo è poco frequente la selezione è particolarmente inefficace, perché il gene è presente
principalmente negli eterozigoti.
71
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
EFFETTO DELLA SELEZIONE
SELEZIONE CONTRO L'OM OZIGOTE RECESSIVO
1,0
F
R
E
Q
U
E
N
Z
A
D
I
a
,9
,8
,7
,6
,5
,4
,3
,2
,1
0,0
100 GENERAZIONI DI SELEZIONE
f it ness aa = 0
f it ness aa = 0,6
f it ness aa = 0,2
f it ness aa = 0,8
f it ness aa = 0,4
Come si può spiegare biologicamente il vantaggio selettivo dell'eterozigote? Potrebbe trattarsi
di pleiotropia (cioè il gene influisce su due aspetti, come dimostrato nell'uomo per un allele S
che in doppia dose causa l'anemia falciforme ma in eterozigosi conferisce resistenza alla
malaria), oppure di una stretta associazione fra due geni (che noi confondiamo in uno solo),
oppure avere una spiegazione molecolare, cioè da due codici genetici diversi derivano due
proteine che, nel caso di isoenzimi, potrebbero avere complessivamente una adattabilità
superiore.
L'assenza di dominanza è una situazione rara. La dominanza completa è una situazione molto
frequente, caratteristica ad esempio di molte malattie metaboliche: il problema è proprio nella
difficoltà ad individuare gli eterozigoti (portatori di malattie neonatali monofattoriali); nella
dominanza completa è difficile selezionare per il dominante se l'eterozigote ha la stessa
fitness del dominante (ci si trascina dietro l'eterozigote, proprio perché non c'è selezione
contro di esso), mentre selezionare per il dominante è facile se l'eterozigote ha la stessa fitness
dell'omozigote recessivo (la selezione è infatti di pari intensità contro l'omozigote recessivo e
l'eterozigote): nella selezione artificiale il problema si potrebbe risolvere se il gene fosse
codominante (si potrebbero identificare gli eterozigoti e decidere se sottoporli o meno a
selezione). Ad esempio, nei caprini l'assenza di corna è un carattere dominante, pleiotropico
con aspetti dell'apparato genitale sia maschile che femminile in grado di causare ipofertilità o
addirittura sterilità, dovuti ad alterazioni dell'epididimo nei maschi e pseudoermafroditismo
nelle femmine.
Il carico genetico è una misura che fa riferimento non al singolo genotipo ma a tutti i possibili
genotipi ad un determinato locus e definisce il valore ottimale di riproduzione del locus
stesso. Il carico genetico è la diminuzione relativa della fitness media di una popolazione
rispetto alla fitness che si avrebbe qualora tutti gli individui della popolazione stessa
avessero il genotipo con la massima fitness; per diminuzione relativa si intende che la
diminuzione è rapportata alla fitness massima.
wmassima - wmedia
carico genetico = ------------------------wmassima
72
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Se per convenzione diamo valore 1 alla fitness massima, il carico genetico è pari a 1-wmedia:
tale formula rappresenta chiaramente la misura in cui una popolazione si discosta da una
costituzione genetica "perfetta".
Il carico genetico misura quanti individui in una popolazione sono destinati ad una "morte
genetica". Il carico genetico può essere, anche in una popolazione in equilibrio, mantenuto da
diverse situazioni, fra le quali le più semplici sono il carico genetico da mutazione ed il carico
genetico da segregazione (o bilanciato). Nel carico genetico da mutazione l'equilibrio è
mantenuto da una mutazione ricorrente sfavorevole, la quale comporta la "morte genetica" di
un certo numero di individui; anche una mutazione favorevole è però in grado di generare una
carico genetico "di transizione", perché la mutazione favorevole va a sostituire degli alleli, un
tempo vantaggiosi, divenuti svantaggiosi proprio per la comparsa della mutazione più favorita
(il carico è detto "di transizione" perché esiste solo fino a quando l'allele favorevole non si
fissa). Il carico genetico da segregazione è anche detto carico bilanciato, e riguarda quei loci
in cui l'equilibrio è mantenuto dal vantaggio selettivo dell'eterozigote; in questo caso è pari a
(s1 s2)/(s1+s2), in quanto:
frequenza iniziale
fitness
frequenza dopo la selezione
AA
p²
1-s1
p² (1-s1)
Aa
2pq
1
2pq
aa
q²
1-s2
q² (1-s2)
Il carico genetico è:
p²s1 + q²s2
e sostituendo a p e q le rispettive frequenze all'equilibrio si ha:
[s2/(s1+s2)]²s1 + [s1/(s1+s2)]² s2 = (s2²s1+s1²s2)/(s1+s2)² =
= s2s1(s2+s1)/(s1+s2)² = s2s1/(s1+s2)
Nella popolazione utilizzata come esempio per mostrare l'equilibrio genetico nel caso
dell'anemia falciforme era:
genotipo
AA
AS
SS
fitness
0,878
1
0,138
coefficiente selettivo
0,122
0
0,862
In base a questi dati è possibile calcolare il carico genetico:
carico genetico = (0,122)(0,862)/(0,122+0,862) = 0,107
Se ne deduce che il 10,7% degli individui è destinato ad una "morte genetica"; infatti a partire
dalle frequenze di equilibrio:
p = 0,877
q = 0,123
frequenze genotipiche alla nascita (su 100 nati):
AA
= 100 p²
= 76,9
AS
= 200 pq
= 21,6
SS
= 100 q²
= 1,5
73
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
frequenze genotipiche alla riproduzione (ovvero nati x fitness):
AA
= 76,9 (0,878)
= 67,5
AS
= 21,6 (1)
= 21,6
SS
= 1,5 (0,138)
= 0,2
--------Totale 89,3
Carico genetico = 100-89,3 = 10,7%
Le altre tre forze che, oltre alla selezione, concorrono a far variare le frequenze geniche, e
cioè mutazioni, migrazioni e deriva genetica, non possiedono la stessa potenza della
selezione.
LE MUTAZIONI.
Le mutazioni, pur essendo fortuite, possono sotto certi aspetti agire sistematicamente, e quindi
essere prevedibili in forza e direzione. Tutti i loci possono teoricamente mutare: piccole
variazioni delle frequenze geniche richiedono però moltissime generazioni. La mutazione è
una variazione, spesso puntiforme, della sequenza del DNA: è una variazione strutturale a cui
può, a volte, conseguire la variazione funzionale del gene.
Le mutazioni possono essere distinte in ricorrenti e non ricorrenti. Le mutazioni ricorrenti
(ad esempio l'albinismo) sono quelle che interessano un determinato locus ad ogni
-5
generazione e con un tasso di mutazione fisso (in genere nell'ordine di 10 ). Le mutazioni non
ricorrenti sono quelle che compaiono fortuitamente senza essere associate ad un tasso di
mutazione determinato, per cui la possibilità di ritrovare l'allele mutato nella generazione
successiva dipende praticamente solo dall'eventuale riproduzione di individui mutati (ad
esempio, una razza statunitense di pecore senza coda, l'acondroplasia Ancon delle pecore,
molte malattie monofattoriali); una mutazione non ricorrente ha elevatissima probabilità di
essere persa nel corso delle generazioni, e quindi di non riuscire a modificare le frequenze
geniche.
Calcolare un tasso di mutazione, proprio a causa della bassa frequenza dell'evento, è molto
difficile. Nell'uomo si stima che ad ogni generazione si verifichino circa 8 mutazioni.
Le mutazioni ricorrenti possono essere ulteriormente distinte in mutazioni dirette e mutazioni
inverse:
u = tasso di mutazione diretto (A1 diventa A2)
v = tasso di mutazione inverso (A2 diventa A1)
In presenza della sola mutazione diretta, partendo da una frequenza p la frequenza nella
n
generazione successiva è p(1-u) e, dopo n generazioni, p(1-u) .
Se esiste anche la mutazione inversa, partendo dalla frequenza p nella generazione successiva
si avrà:
p1 = p - up + vq
da cui si ricava:
∆p = p1 - p = p - up + vq -p = vq -up
All'equilibrio non si ha variazione di frequenze geniche, per cui da vq - up = 0 si possono
ricavare le frequenze all'equilibrio:
p= v/(u+v)
q= u/(u+v)
Ad esempio, con i seguenti tassi di mutazione:
-5
u = 10
-6
v = 10
74
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
le frequenze di equilibrio sono:
-5
10
1
qe = ---------------------------- = ------------- = 10/11 = 0,9091
-5
-6
10 + 10
1 + 1/10
-6
10
1/10
pe = ---------------------------- = ------------- = 1/11 = 0,0909
-5
-6
10 + 10
1 + 1/10
Infatti:
-5
-6
-5
-5
p0 = 1/11
p1 = 1/11 - 10 1/11 + 10 10/11 = 1/11 - 10 /11 + 10 /11 = 1/11
q0 = 10/11
q1 = 10/11 + 10 1/11 - 10 10/11 = 10/11 + 10 /11 - 10 /11 = 10/11
-5
-6
-5
-5
In maniera analoga a quanto fatto per l'equilibrio da vantaggio selettivo per l'eterozigote,
anche nel caso di mutazione diretta ed inversa si può dimostrare che l'equilibrio non solo
esiste, ma viene effettivamente raggiunto indipendentemente dalle frequenze iniziali: inoltre,
a differenza di quanto accade per la superdominanza, se anche il locus fosse inizialmente
monomorfo, la possibilità di mutazioni in entrambi i versi porterebbe comunque alla presenza
di due alleli, che raggiungerebbero poi nel tempo l'equilibrio.
Se q0 < qe, e quindi p0 > pe, allora:
q1 = q0 + up0 - vq0
e
p1 = p0 - up0 + vq0
e
p1 < p0
da cui, poiché up0 > vq0, si ricava:
q1 > q0
Utilizzando per un nuovo esempio gli stessi tassi di mutazione dell'esempio precedente e le
frequenze iniziali:
q0 = 0,8
p0 = 0,2
si ha:
q1 = q0 + up0 - vq0 = 0,8 + 0,00001 x 0,2 - 0,000001 x 0,8 = 0,8000012
p1 = p0 - up0 + vq0 = 0,2 - 0,00001 x 0,2 + 0,000001 x 0,8 = 0,1999988
Invece, se q0 > qe, e quindi p0 < pe, si ha:
q1 = q0 + up0 - vq0
e
p1 = p0 - up0 + vq0
e
p1 > p0
da cui, poiché up0 < vq0, si ricava:
q1 < q0
75
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Ad esempio, utilizzando ancora una volta i tassi di mutazione
-5
u = 10
-6
v = 10
e le seguenti frequenze iniziali:
q0 = 0,05
p0 = 0,95
si ha:
q1 = q0 + up0 - vq0 = 0,05 + 0,00001 x 0,95 - 0,000001 x 0,05 = 0,05000945
p1 = p0 - up0 + vq0 = 0,95 - 0,00001 x 0,95 + 0,000001 x 0,05 = 0,94999055
Ricordiamo ancora che gli spostamenti nelle frequenze geniche dovuti alle mutazioni sono
generalmente molto più lenti di quelli dovuti alla selezione.
LE MIGRAZIONI.
La migrazione è una forza sistematica; per migrazione si intende, in senso pratico, lo
spostamento di riproduttori da una popolazione ad un'altra (dalla popolazione che immigra
alla popolazione ricevente); in senso teorico per migrazione si intende un flusso genico da una
popolazione ad un'altra: per avere il flusso genico occorre che gli individui si riproducano, e
pertanto la definizione teorica e quella pratica vengono a coincidere. Le frequenze geniche
che mutano sono essenzialmente quelle della popolazione ricevente.
Per la migrazione bisogna considerare due aspetti:
1 - numerosità e struttura genetica della sottopopolazione immigrante;
2 - la differenza di frequenze geniche fra sottopopolazione immigrante e popolazione
ricevente.
Se non ci sono differenze nelle frequenze geniche fra la sottopopolazione che immigra e la
popolazione ricevente le frequenze geniche non cambiano. Se in una popolazione non
arrivano nuovi riproduttori per migrazione è più probabile che l'effetto della deriva genetica
sia importante.
Per spiegare la migrazione si farà uso del modello più semplice possibile, in cui:
1 - all'immigrazione consegue la possibilità riproduttiva fra immigrati e popolazione
ricevente;
2 - emigrano in uguale misura maschi e femmine;
3 - emigra un campione casuale, rappresentativo della popolazione.
E' comunque difficile che queste tre condizioni siano contemporaneamente rispettate: ad
esempio, alle migrazioni umane seguono spesso barriere culturali che ostacolano la
riproduzione fra immigrati e popolazione ricevente.
POPOLAZIONE I
f(A)=pI
POPOLAZIONE R
f(A)=p0
sia m il tasso di migrazione nei due sessi; nella popolazione R, dopo la migrazione, a
determinare p1. cioè la frequenza dell'allele A saranno due componenti: la frazione m di
animali immigrati e la frazione 1-m della popolazione ricevente, con le rispettive frequenze
dell'allele, e cioè pI e p0.
p1 = m pI + (1-m) p0 = p0 + m (pI-p0)
76
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
La frequenza di A dopo la migrazione è dunque la media delle frequenze di A nella
popolazione immigrata ed in quella ricevente, ponderate per la relativa numerosità
[mpI+(1-m)p0]: dipende dalla frequenza della popolazione ricevente, dal tasso di migrazione e
dalla differenza nelle frequenze geniche fra sottopopolazione immigrata e popolazione
ricevente [p0 + m (pI-p0)].
La differenza tra le frequenze geniche prima e dopo la migrazione dipende solo dal tasso di
migrazione e dalla differenza di frequenze geniche fra sottopopolazione immigrata e
popolazione ricevente (non dipende cioè dalla frequenza né della sottopopolazione immigrata
né della popolazione ricevente); infatti:
∆p = p1 - p0 = m (pI-p0)
Perché ci sia una variazione delle frequenze geniche la sottopopolazione immigrata e la
popolazione ricevente debbono avere frequenze diverse.
Se la migrazione interessa solo animali di un sesso (ad esempio solo i maschi), il tasso di
migrazione globale per i due sessi è m/2, per cui:
p1 = p0 + m/2 (pI-p0)
Invece che rispetto alla popolazione ricevente, la differenza di frequenze geniche può essere
indicata rispetto alla popolazione immigrante:
∆pi
= p1 - pi = pr + m (pi - pr) - pi = pr(1-m) - pi(1-m) = (1-m)(pr-pi)
Si può dimostrare che, dopo n generazioni, la differenza di frequenze geniche fra la
popolazione immigrata e la popolazione immigrante è:
n
∆pi = pn - pi = (1-m) (pr-pi)
da cui si ricava la frequenza genica della popolazione immigrata dopo n generazioni:
n
pn = (1-m) (pr-pi) + pi
Ad esempio, in una popolazione la frequenza di un allele è 0,1: se, con un tasso di migrazione
del 10%, immigra un'altra popolazione, nella quale lo stesso allele ha frequenza 1, quale sarà
la frequenza della popolazione immigrata dopo 4 generazioni di immigrazione?
m = 0,1
n=4
pr = 0,1
pi = 1
n
pn = (1-m) (pr-pi) + pi
4
p4 = (1-0,1) (0,1-1) + 1 = 0,6561 (-0,9) + 1 = 0,40951
In genere, se il tasso di migrazione è basso, la migrazione non ha un evidente impatto
genetico nella popolazione ricevente (a meno che non sia accompagnata da un'appropriata
selezione): il ripetersi di successive migrazioni può comunque portare a cambiamenti rapidi,
come dimostra la tabella seguente.
77
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
f(A) NELLA POPOLAZIONE R
TASSO DI MIGRAZIONE (m)
0,5
0,1
0,01
frequenza iniziale
gen. 1
gen. 2
gen. 3
...
gen. 5
...
gen. 10
gen. 20
gen. 50
gen. 100
0
0
0
0,50
0,75
0,87
...
0,97
...
1,00
1,00
1,00
1,00
0,10
0,19
0,27
...
0,41
...
0,65
0,88
1,00
1,00
0,01
0,02
0,03
...
0,05
...
0,10
0,18
0,40
0,63
La migrazione di animali di un solo sesso è molto frequente: quasi sempre si fanno immigrare
dei maschi; è un modello di incrocio, in cui alla immigrazione dei nuovi maschi consegue
però la mancata riproduzione di maschi della popolazione ricevente. Incrociando tori di razze
da carne con bovine frisone si pratica una migrazione di soli maschi su sole femmine, senza
un successivo atto riproduttivo della generazione dei prodotti. Il caso più semplice è quello
dell'incrocio di sostituzione, come nel caso della sostituzione della razza bovina sarda con la
bruna alpina: in 5-7 generazioni la sostituzione è da ritenersi completata. E' addirittura
possibile che una specie migri su un'altra specie (ibridazione interspecifica): ad esempio,
bovino con zebù, maiale con cinghiale; asino e cavalla producono il mulo, ma il prodotto non
è fertile, per cui non si può considerare questo incrocio un modello migratorio.
Nel modello migratorio la conoscenza delle frequenze di partenza è molto importante, ma in
alcuni casi non è possibile: ad esempio, ci si può trovare di fronte ad una popolazione in cui il
mescolamento è già avvenuto, senza che siano disponibili dati precedenti alla immigrazione; è
possibile, conoscendo le caratteristiche della popolazione immigrata, ricostruire la struttura
genetica della popolazione ricevente: si tratta di un modello zootecnico di erosione genetica;
uno studio classico è quello delle frequenze geniche nelle razze caprine giapponesi, erose
dalla Saanen. L'erosione genetica sta attualmente interessando le nostre popolazioni ovine
(Gentile di Puglia e Sopravissana soprattutto).
Ad esempio, si è interessati a conoscere le frequenze geniche originarie di una popolazione
che ha subito un'immigrazione. Supponiamo che la popolazione immigrata presenti per un
determinato allele frequenza 0,4 e che la popolazione immigrante presenti invece per lo stesso
allele frequenza 1; le ricerche permettono di stimare il tasso di migrazione in 1% e, in base al
rapporto fra il tempo trascorso da quando è incominciata l'introduzione di animali della razza
immigrante e l'intervallo di generazione caratteristico della specie, in 20 il numero di
generazioni per cui è avvenuta l'immigrazione. In base alla formula
n
pn = (1-m) (pr-pi) + pi
ed essendo
n = 20
m = 0,01
pn = 0,4
pi = 1
78
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
si ha:
20
0,4 = (1 - 0,01) (pr - 1) + 1
0,4 = 0,81791 (pr - 1) + 1
da cui si ricava
pr = (0,4 - 1 +0,81791) / 0,81791 = 0,267
In altri casi è possibile stabilire le frequenze alleliche, oltre che della popolazione immigrante
e della popolazione immigrata, anche della originaria popolazione ricevente (o perché tali
frequenze sono state calcolate in precedenti studi o perché la popolazione si è conservata in
purezza in alcune zone): si può in questi casi, stimando come nell'esempio precedente il
numero di generazioni in base al rapporto fra tempo trascorso ed intervallo di generazione,
calcolare il tasso di migrazione.
Ad esempio:
n = 10
pr = 0,65
pi = 1
pn = 0,88
Sostituendo i valori nella formula
n
pn - pi = (1-m) (pr-pi)
si ricava:
10
0,88 - 1 = (1-m) (0,65-1)
10
(1-m) = (0,88-1)/(0,65-1) = 0,34286
1/10
1-m = (0,34286)
1/10
m = 1 - (0,34286)
= 1 - 0,898 = 0,102
LA DERIVA GENETICA.
La deriva genetica (o drift o effetto Sewall Wright, dal nome dello scienziato che ne delineò
l'importanza) non è una forza sistematica, bensì è dispersiva; la deriva genetica casuale è un
processo per cui le frequenze geniche sono soggette a fluttuazioni dovute al caso: è
strettamente legata alla numerosità della popolazione. La deriva genetica si accompagna
spesso ad altri tre processi dispersivi: la suddivisione delle popolazioni naturali in
sottopopolazioni molto differenziate, la diminuzione della variabilità genetica delle piccole
popolazioni, l'aumento della frequenza degli omozigoti a discapito degli eterozigoti (in
maniera particolare quando si tratta di consanguineità).
La conoscenza della deriva genetica è essenziale per lo studio delle piccole popolazioni, il cui
comportamento è diverso da quello delle popolazioni mendeliane, che sono teoricamente
infinite.
L'evento più frequente alla nascita è che la generazione filiale abbia le stesse frequenze
geniche dei genitori, ovvero la frequenza attesa della generazione filiale è la frequenza della
79
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
generazione parentale: possono però verificarsi scostamenti dalle frequenze geniche attese, in
entrambe le direzioni, con probabilità ben precise; tali scostamenti sono in genere maggiori
nelle popolazioni di minori dimensioni; se infatti la popolazione è piccola, anche il numero
dei gameti è piccolo e, ad ogni generazione, il campione casuale che passa alla generazione
successiva è affetto da fluttuazioni aleatorie, il cui risultato è la impossibilità di prevedere la
struttura genica della popolazione nel passaggio da una generazione alla successiva.
La deriva genetica è un cambiamento di frequenze geniche casuale che tutte le popolazioni
possono seguire, indipendentemente dalla numerosità. Kidd e Cavalli Sforza studiarono i
bovini norvegesi, rimasti totalmente isolati da altre razze, ed i bovini islandesi, portati
sull'isola dai Vichinghi norvegesi, ed in seguito mai erosi da altre razze; utilizzando alcuni
geni neutri (gruppi sanguigni ed altri polimorfismi ematici), per i quali le variazioni di
frequenza non possono essere imputate a fenomeni selettivi, i due autori stabilirono la
distanza genetica fra le due popolazioni, determinata dalla deriva genetica: riuscirono anche a
dimostrare che l'effetto dei fondatori era limitato. E' però difficile distinguere con certezza,
anche per geni neutri, che cosa è dovuto alla deriva genetica e che cosa è dovuto alla
selezione: secondo una teoria, nessun gene è neutro; i geni potrebbero essere distinti in geni
selettivamente attivi e geni selettivamente non attivi, i quali verrebbero selezionati
passivamente per associazione (linkage) con geni attivi: il fenomeno è detto "effetto
autostop".
Nelle piccole popolazioni l'imparentamento fra gli animali porta alla consanguineità ed
all'aumento dell'omozigosi: alla fissazione porta anche la deriva genetica.
ESEMPIO DI EFFETTO DELLA DERIVA GENETICA
2 individui, un maschio ed una femmina, entrambi eterozigoti Aa
n=2
p = 0,5
differenti gameti prodotti: 2n = 4
q = 0,5
2n
promemoria: (p+q)
differenti combinazioni possibili: 2n+1 = 5
possibili combinazioni di r alleli A: (2n)! / [r! (2n-r)!]
r 2n-r
probabilità di ogni combinazione con r alleli A: p q
r 2n-r
probabilità di una frequenza allelica: {(2n)! / [r! (2n-r)!]} p q
A
4
3
2
1
0
--- GENERAZIONE SUCCESSIVA --a
probabilità
4
0
p
=
0,0625
3
1
4p q =
0,25
2 2
2
6p q =
0,375
3
3
4pq
=
0,25
4
4
q
=
0,0625
p
1
0,75
0,5
0,25
0
(distribuzione binomiale)
q
0
0,25
0,5
0,75
1
In un questo esempio la probabilità che, in una sola generazione, uno o l'altro dei due alleli si
fissi è complessivamente il 12,5%. L'ipotesi più probabile è il mantenimento delle stesse
frequenze (37,5%).
In due casi le frequenze geniche sono diventate 0,75 e 0,25 (oppure 0,25 e 0,75, cosa che non
farà differenze ai fini dell'esempio). Che cosa succederà nella successiva generazione,
ammettendo che la numerosità sia invariata e che sia ancora possibile accoppiare gli animali?
Si tratterebbe di una popolazione composta sempre da un maschio ed una femmina, o identica
a quella iniziale, o con il locus ormai fissato, o infine formata da un animale omozigote per
uno qualsiasi dei due alleli e un altro animale eterozigote.
80
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
In quest'ultimo caso:
n=2
p = 0,75
differenti gameti prodotti: 2n = 4
q = 0,25
2n
promemoria: (p+q)
differenti combinazioni possibili: 2n+1 = 5
possibili combinazioni di r alleli A: (2n)! / [r! (2n-r)!]
r 2n-r
probabilità di ogni combinazione con r alleli A: p q
r 2n-r
probabilità di una frequenza allelica: {(2n)! / [r! (2n-r)!]} p q
A
4
3
2
1
0
--- GENERAZIONE SUCCESSIVA --a
probabilità
4
0
p
=
0,31641
3
1
4p q =
0,42188
2 2
2
6p q =
0,21094
3
3
4pq
=
0,04687
4
4
q
=
0,00391
p
1
0,75
0,5
0,25
0
(distribuzione binomiale)
q
0
0,25
0,5
0,75
1
Anche in questo caso la probabilità maggiore è il mantenimento delle stesse frequenze
geniche (42,188%), ma le probabilità di fissazione del locus sono complessivamente
aumentate (32,032%), con aumento della probabilità di fissare l'allele più frequente. Si noti
che la probabilità di un aumento della frequenza dell'allele più frequente è superiore alla
probabilità di una diminuzione della frequenza dell'allele stesso.
Con la probabilità composta si possono calcolare, a partire dalla generazione iniziale, la
probabilità delle frequenze geniche dopo due generazioni:
81
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Generazione iniziale
p
q
0,5
0,5
Prima generazione
P1
0,0625
0,25
0,375
0,25
0,0625
p
q
1
0,75
0,5
0,25
0
0
0,25
0,5
0,75
1
Seconda generazione
p
q
1
0
0,75
0,5
0,25
0
0,25
0,5
0,75
1
P2
P totale
p
q
P1 x P2
1
0
0,0625
0,31641 1
0
0,07910
0,42188 0,75
0,25
0,10547
0,21094 0,5
0,5
0,05274
0,04687 0,25
0,75
0,01172
0,00391 0
1
0,00098
0,0625
1
0
0,02344
0,25
0,75
0,25
0,09375
0,375
0,5
0,5
0,14063
0,25
0,25
0,75
0,09375
0,0625
0
1
0,02344
0,00391 1
0
0,00098
0,04687 0,75
0,25
0,01172
0,21094 0,5
0,5
0,05274
0,42188 0,25
0,75
0,10547
0,31641 0
1
0,07910
1
1
0,0625
1
0
--- probabilità totali dopo due generazioni --0,0625 + 0,07910 + 0,02344 + 0,00098
0,10547 + 0,09375 + 0,01172
0,05274 + 0,14063 + 0,05274
0,01172 + 0,09375 + 0,10547
0,00098 + 0,02344 + 0,07910 + 0,0625
TOTALE
= 0,16602
= 0,21094
= 0,24611
= 0,21094
= 0,16602
1,00003
82
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Se la taglia della popolazione iniziale fosse stata più ampia, le probabilità di fissazione alla
prima generazione sarebbero state inferiori:
4 individui, 2 maschi e 2 femmine, tutti eterozigoti Aa
n=4
p = 0,5
differenti gameti prodotti: 2n = 8
q = 0,5
2n
promemoria: (p+q)
differenti combinazioni possibili: 2n+1 = 9
possibili combinazioni di r alleli A: (2n)! / [r! (2n-r)!]
r 2n-r
probabilità di ogni combinazione con r alleli A: p q
r 2n-r
probabilità di una frequenza allelica: {(2n)! / [r! (2n-r)!]} p q
A
8
7
6
5
4
3
2
1
0
a
0
1
2
3
4
5
6
7
8
GENERAZIONE SUCCESSIVA
----------- probabilità ----------8
=
0,00391
p
7
8pq
=
0,03125
6 2
=
0,10937
28 p q
5 3
56 p q
=
0,21875
4 4
70 p q
=
0,27343
3 5
56 p q
=
0,21875
2 6
28 p q
=
0,10937
7
8 pq
=
0,03125
8
q
=
0,00391
p
1
0,875
0,75
0,625
0,5
0,375
0,25
0,125
0
(distribuzione binomiale)
q
0
0,125
0,25
0,375
0,5
0,635
0,75
0,875
1
Nella deriva genetica una generazione non ha "memoria storica" di cosa è successo nelle
generazioni precedenti. Con il tempo, l'accumulo di eventi casuali porta sempre alla fissazione
di un allele ed alla perdita (estinzione) di tutti gli altri; la probabilità che un allele si fissi
dipende dalla sua frequenza iniziale; il tempo (misurabile come numero di generazioni)
necessario per la fissazione di un allele varia da caso a caso, ma è in rapporto con la
dimensione della popolazione: più la popolazione è estesa, maggiore è il numero di
generazioni necessario per raggiungere la fissazione.
La variazione casuale delle frequenze geniche è dispersiva, comporta cioè l'impossibilità di
prevedere il verso della variazione: l'intensità della variazione può invece essere predetta; la
varianza della variazione di frequenza (σ²∆p) dipende dalle frequenze geniche iniziali e dalla
numerosità della popolazione:
σ²∆p
p0 q0
= -------2N
dove:
N
= numero di individui che compongono la popolazione
p0 e q0 = frequenze dei due alleli di un locus biallelico.
La formula soprariportata è quella che, in una distribuzione binomiale, rappresenta la varianza
di un campione di dimensione 2N ricavato da una popolazione con frequenze p0 e q0.
83
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Ad ogni generazione c'è un nuovo campionamento, che si effettua a partire dalle frequenze
geniche realizzatesi nella generazione precedente: la dispersione delle frequenze geniche
aumenta ad ogni generazione, e dopo t generazioni sarà:
σ²q
t
= p0 q0 [1-(1-1/2N) ]
Si può facilmente controllare che, se t=1, la formula relativa a più generazioni si semplifica e
diviene uguale alla precedente, valida per 1 generazione.
Il valore calcolato in base alle due precedenti formule rappresenta sia il valore di σ²p (che è
per definizione uguale a quello di σ²q) che il valore di σ²∆p (uguale al valore di σ²∆q): infatti il
∆ si riferisce ad uno scostamento dalla media.
Utilizzando i dati degli esempi precedenti e ponderando le frequenze geniche alle varie
generazioni per le relative probabilità, si può controllare l'esattezza delle formule riportate:
Primo esempio:
N=2
p0 = 0,5
q0 = 0,5
dopo una generazione si ha:
σ²p = σ²q = σ²∆p = σ²∆q = 0,5 x0,0625 + 0,25 x0,25 + 0x0,375 + (-0,25) x0,25 + (-0,5) x0,0625 = 0,0625
2
2
2
2
ed infatti
p0 q0 / 2N = 0,5 x 0,5 / 4 = 0,0625
dopo una seconda generazione si ha:
σ²p = σ²q = σ²∆p = σ²∆q =
2
2
2
2
= x0,16602 + 0,25 x0,21094 + 0x0,24611 + (-0,25) x0,21094 + (-0,5) x0,16602
= 0,109375
ed infatti
t
2
p0 q0 [1-(1-1/2N) ] = 0,5 x 0,5 [1-(1-0,25) ] = 0,109375
Secondo esempio:
N=4
p0 = 0,5
q0 = 0,5
dopo una generazione si ha:
σ²p = σ²q = σ²∆p = σ²∆q =
2
2
2
2
2
= 0,5 x0,00391 + 0,375 x0,03125 + 0,25 x0,10937 + 0,125 x0,21875 + 0x0,27343 + (-0,125) x0,21875 +
2
2
2
+ (-0,25) x0,10937 + (-0,375) x0,03125 + (-0,5) x0,00391
= 0,03125
ed infatti
p0 q0 / 2N = 0,5 x 0,5 / 8 = 0,03125
Osservando la formula
t
σ²p = p0 q0 [1-(1-1/2N) ]
si può comprendere che la variabilità è massima quando i due alleli hanno uguale frequenza,
diminuisce al crescere del numero di animali ed aumenta di generazione in generazione.
84
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Se l'azione della deriva genetica viene osservata sperimentalmente su più popolazioni che
hanno le stesse frequenze geniche iniziali, ad esempio utilizzando delle linee di animali da
esperimento, si possono schematicamente osservare tre fasi successive: inizialmente, a partire
dai valori iniziali, le frequenze geniche delle varie linee si distribuiscono con diversa
probabilità fra 0 ed 1; successivamente le frequenze tendono ad avere le stesse probabilità ma
con il tempo, di generazione in generazione, le probabilità di fissarsi aumentano.
La probabilità che un allele ha di fissarsi è pari alla sua frequenza iniziale; questa
affermazione può essere facilmente compresa se si considerano contemporaneamente due
affermazioni già fatte: primo, che l'evento più probabile è che una generazione abbia le
frequenze geniche della generazione precedente e, secondo, che dopo un numero infinito di
generazioni la deriva genetica provoca la fissazione di un allele; ad esempio, si considerino
una serie di linee sperimentali di animali da laboratorio, aventi le stesse frequenze geniche
iniziali, e si lasci agire la deriva genetica fino a quando in tutte le linee non si è verificata la
fissazione di uno degli alleli considerati: a quel punto, considerando le linee nel loro insieme,
l'evento più probabile è che la media delle frequenze sia la frequenza iniziale, il che è
possibile (dato che le frequenze geniche dei vari alleli possono essere solo 0 oppure 1) solo se
i diversi alleli si sono fissati nelle varie linee con probabilità pari alla frequenza genica
iniziale.
In una piccola popolazione non si è tanto interessati all'evoluzione delle frequenze geniche,
ma alla distribuzione delle possibili frequenze geniche. In una popolazione di N individui, se
il locus è polimorfo, le frequenze geniche variano fra 1/2N e (2N-1)/2N: sono quindi maggiori
di 0 e minori di 1.
La deriva genetica può essere causa di differenziazione geografica: i suoi effetti sono più
rilevanti in aree a bassa densità di popolazione e con bassi tassi di immigrazione.
Alla deriva genetica consegue un effetto "a collo di bottiglia" sulla taglia della popolazione: si
verifica cioè una improvvisa, marcata e progressiva diminuzione del numero di individui
(caratteristica anche della consanguineità), legata all'omozigosi. La deriva genetica è uno
stato preagonico di una popolazione.
L'effetto dei fondatori è stato studiato addirittura come un meccanismo di speciazione. Lo si
potrebbe definire come una brusca accelerazione dei processi dinamici di cambiamento delle
frequenze geniche in popolazioni fondate da pochi individui (Mayr, 1954). Esistono quattro
differenti teorie:
1-
teoria di Mayr (1954);
2-
teoria di Carson (1967): flush-crash theory (teoria dei cicli di espansione-catastrofe);
3-
teoria di Carson e Templeton (1984) founder-flush theory (teoria dei cicli di
fondazione-espansione);
4-
teoria di Templeton (1980): genetic transilience theory (teoria del "radicale
cambiamento di stato" genetico).
Tutte le teorie comprendono tre momenti:
1-
isolamento spaziale e/o temporale di alcuni individui;
2-
rivoluzione genetica che rimette in causa l'insieme funzionale formato dai genotipi della
popolazione fondatrice;
3-
creazione di un isolamento riproduttivo fra la popolazione fondata e quella di partenza.
A titolo di esempio si riassume la teoria di Mayr. Dalla popolazione parentale, la cui coesione
è garantita dall'effetto stabilizzatore del flusso genico, si distacca, in seguito a rottura del
85
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
flusso genico causata dall'isolamento geografico, la popolazione fondatrice: a seconda della
numerosità, la popolazione fondatrice potrà o meno sopravvivere. Nel caso riesca a
sopravvivere, le frequenze geniche della popolazione fondatrice si discostano da quelle della
popolazione parentale: si ha infatti una perdita elevata della variabilità della popolazione
parentale dovuta alla taglia ridotta, un aumento della consanguineità nelle prime generazioni,
una "rivoluzione genetica" intesa come radicale cambiamento dei valori selettivi dovuto
all'habitat differente ed al cambio delle frequenze geniche. Successivamente, rimanendo la
nuova popolazione isolata, la variabilità riaumenta fino al livello della popolazione parentale,
ma le frequenze geniche si attestano su valori differenti.
IL POLIMORFISMO.
I modelli finora trattati sono tutti teorici, avendo ipotizzato l'esatta conoscenza degli alleli di
un locus: nella realtà bisogna chiedersi quali geni siano realmente identificabili, in quanto il
punto di partenza sono le osservazioni reali. Non solo la maggior parte dei geni non sono
praticamente identificabili, ma nelle popolazioni zootecniche non si possono utilizzare
modelli programmati di genetica di popolazione: si deve nella pratica cercare di ottenere
informazioni da quello che già esiste per motivi completamente differenti e da sistemi
riproduttivi già scelti; proprio per queste difficoltà, basandosi sul principio dell'omologia, la
maggior parte degli esperimenti sono stati effettuati su animali differenti (drosofila, topo, etc.)
e le conoscenze acquisite sono state quasi interamente trasferite agli animali di interesse
zootecnico.
Poiché le unità di misura sono le frequenze geniche, è sempre necessario ricorre a dei loci
polimorfi. In teoria, con il termine polimorfismo, si intende l'esistenza di alleli differenti in un
determinato locus, ma nella pratica la definizione è più complessa: secondo Ford (1965) il
polimorfismo genetico è la comparsa in uno stesso habitat di due o più forme discontinue (o
"fasi") di una specie in una proporzione tale che la forma più rara non può mantenersi con la
sola mutazione ricorrente.
Attualmente, ai fini pratici, si considera polimorfo un sistema genetico in cui il più raro dei
due alleli esistenti ha una frequenza superiore a 0,01 (cioè 1%): se la frequenza dell'allele più
raro è inferiore a questo limite si parla semplicemente di sistema genetico variabile
(escludendo sempre la semplice mutazione ricorrente). E' evidente che il numero dei sistemi
genetici variabili è superiore a quello dei loci polimorfi; tutti i loci di un organismo hanno
infatti possibilità di mutare, ma non tutti esisteranno in forma polimorfa.
Come si origina il polimorfismo? Come si crea la variabilità genetica? Sono due le teorie che
cercano di rispondere: la teoria neutralista (Kimura, 1968), detta anche "teoria della
mutazione neutra" o "ipotesi della deriva casuale", e la teoria selezionista; come intuibile dai
loro nomi, le due teorie citate danno principale importanza rispettivamente alla deriva
genetica oppure alla selezione naturale.
Secondo la teoria neutralista, esiste una elevata quantità di variazioni a livello proteico che
non comportano alcun vantaggio o svantaggio selettivo: un esempio di polimorfismo
selettivamente neutro sono i gruppi sanguigni, che potrebbero rappresentare semplicemente
un residuo evolutivo. Nelle proteine, considerando le sostituzioni aminoacidiche, è stata
riscontrata una notevole uniformità dei tassi di mutazione fra linee evolutive differenti: a
livello molecolare la deriva casuale prevale rispetto alle forza selettive naturali. La maggior
parte delle sostituzioni che si osservano a livello molecolare sono il risultato di fissazione
casuale di mutazioni selettivamente neutre (o quasi neutre) piuttosto che di mutazioni
vantaggiose.
86
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Secondo la teoria selezionista, è il vantaggio selettivo che spiega la creazione ed il
mantenimento della variabilità genetica. I meccanismi del vantaggio selettivo potrebbero
essere spiegati con tre differenti modelli:
1 - eterosi (positiva o negativa);
2 - selezione dipendente dalla frequenza (esperienza di Clarke, 1975);
3 - modelli di scelta dell'habitat (Powell e Taylor, 1975).
L'eterosi positiva consiste in una superiore fitness riproduttiva degli eterozigoti; secondo
Berger (1975), in condizione di eterozigosi gli enzimi avrebbero una migliore efficienza
catalizzatrice: ne conseguirebbe una riduzione della quantità di energia metabolica necessaria
per sostenere i livelli di attività enzimatica, pertanto una maggior percentuale di energia
potrebbe essere indirizzata verso la riproduzione. Nell'eterosi negativa, più rara di quella
positiva, gli eterozigoti hanno una fitness inferiore: il fenomeno è difficilmente spiegabile.
Nella selezione dipendente dalla frequenza, la rarità di una variante genetica conferisce
all'individuo che la esprime una migliore sopravvivenza rispetto alle forme più comuni: tale
modello venne verificato da Clarke (1975) sul polimorfismo dell'alcol-deidrogenasi della
drosofila; una ipotesi è che i nutrienti consumati dai genotipi più comuni subiscano una più
rapida deplezione rispetto a quelli consumati dai genotipi più rari.
Nei modelli di scelta dell'habitat (teoria di Powell e Taylor, 1975) fra più genotipi che
competono per uno stesso ambiente i genotipi rari sono avvantaggiati dal basso numero di
competitori con lo stesso genotipo; la diversità ambientale incoraggia la variazione genetica.
Abbiamo visto come può originarsi e mantenersi il polimorfismo: nella realtà, anche se il gene
più frequente è sfavorito, esso tende a rimanere il più rappresentato; ciò dipende quasi sempre
dal fatto che l'allele più frequente è quello wild, cioè l'unico presente quando il locus era
monomorfo. Le mutazioni che compaiono rispetto all'allele wild quasi mai in una popolazione
sufficientemente numerosa riescono a diventare più frequenti dell'allele wild, anche se sono
vantaggiose rispetto a quest'ultimo.
Per parlare di polimorfismo occorre che in un locus ci siano almeno 2 alleli, il meno
rappresentato dei quali abbia una frequenza ≥ 1%. Si pensa che il polimorfismo riguardi il
30% dei loci. Bisogna distinguere fra un polimorfismo a livello di marcatore ed un
polimorfismo a livello di DNA: il polimorfismo a livello di marcatori è inferiore a quello a
livello di DNA. Il marcatore genetico è un fenotipo a partire dal quale si può risalire al
genotipo che lo determina; il polimorfismo deve quindi essere fenotipico: è una minima parte
rispetto a quello genetico. Ad esempio, alcuni fenotipi si evidenziano immediatamente: sono i
marcatori ad effetto visibile; altri fenotipi richiedono tecniche particolari, come nel caso dei
marcatori immunochimici.
Le alloproteine: si tratta di proteine con la stessa funzione ma con piccole differenze a livello
aminoacidico; vengono evidenziate mediante tecniche elettroforetiche: si mettono le proteine
in soluzione in un campo elettrico (gel di amido, di poliacrilammide, di agarosio, di acetato di
cellulosa) e le proteine stesse migrano secondo la loro solubilità e punto isoelettrico e secondo
il pH. L'elettroforesi non è in grado di evidenziare tutta la variabilità alloenzimatica; ad
esempio, nella capra abbiamo αs1, αs2, ß e k caseine, ognuna con il suo polimorfismo:
un'alloproteina dell'αs1 non si evidenzia all'elettroforesi perché in quantità piccolissima
("allele nullo" o "silenzioso"); variazioni di pochi aminoacidi possono non evidenziarsi
all'elettroforesi. Il polimorfismo studiato è solo quello che riguarda il DNA che si esprime nel
fenotipo: circa il 10%; ci sono notevoli quantità di DNA che non codificano ma che sono
quasi sicuramente variabili: questo campo di studio appare ricco di prospettive.
87
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
I caratteri a variazione continua sono sicuramente molto variabili, ma ancora oggi si prestano
male agli studi di genetica di popolazione perché non si riesce a risalire dal fenotipo al
genotipo. Le mutazioni che causano anomalie, anche se ricorrenti, sono mal campionabili e
non si possono utilizzare negli studi di genetica di popolazione.
Il campionamento per gli studi di genetica di popolazione si fa attraverso una selezione
completa; nel caso delle mutazioni che causano anomalia il campione viene allestito
attraverso una selezione incompleta: il campione è costituito solo da quelle famiglie in cui
esiste un probando o proposito, cioè l'individuo che evidenzia l'anomalia. Nell'uomo ci sono
oltre 5.000 loci affetti da anomalie ereditarie. La selezione incompleta può essere troncata,
singola o multipla in funzione dell'accertamento svolto sulle famiglie di probandi; viene
definita troncata quando la probabilità di trovare tutte le famiglie con almeno un probando è
1, come negli studi di genetica umana; viene definita singola quando il probando individua
solo la sua famiglia ed ogni famiglia ha un solo probando; un caso intermedio fra i due
precedenti è quello della selezione incompleta multipla.
I marcatori genetici ad effetto visibile, (quali quelli della pigmentazione o di caratteri quali
corna, coda, orecchie, tettole, etc.), hanno soprattutto importanza storica; si sono rivelati utili
per studiare la diffusione del gatto a partire dal suo centro di domesticazione (probabilmente
l'Egitto); nel gatto sono disponibili 5-6 loci ad effetto visibile (fra i quali il nero non-agouti,
l'orange, l'assenza di coda) che non sono stati oggetto di selezione per un lungo periodo
(frequenze influenzate solo dalle migrazioni e dalla deriva genetica).
MARCATORI GENETICI
1- MARCATORI AD EFFETTO VISIBILE
- pigmentazione
- caratteri morfologici ad eredità semplice
- malattie ereditarie monofattoriali
2- MARCATORI EMATICI
- marcatori a funzione fisiologica sconosciuta
- marcatori a funzione fisiologica conosciuta
3- MARCATORI DEL LATTE
- caseine
- proteine del siero
4- SISTEMI DI ISTOCOMPATIBILITA'
I marcatori proteici del sangue si distinguono in marcatori dei gruppi sanguigni, a funzione
biologica sconosciuta, ed in marcatori a funzione biologica conosciuta, quali ad esempio le
emoglobine, le transferrine (nel bovino presentano 6 loci codominanti), che si evidenziano
con tecniche elettroforetiche. I gruppi sanguigni vengono evidenziati mediante tecniche
immunologiche; si pensa che siano dei residui di sistemi di difesa dell'organismo, sostituiti nel
corso dell'evoluzione da meccanismi più efficaci.
I marcatori del latte sono delle proteine più o meno direttamente assemblate nella mammella;
le caseine precipitano con l'abbassamento del pH, con l'aumento di temperatura, con enzimi
("caglio"); si conoscono 4 loci, αs1, αs2, ß e k, in stretta associazione: lo stretto linkage ha reso
difficile l'individuazione delle αs2, perché non si trovavano ricombinanti αs1-αs2. Le proteine
del siero restano in soluzione.
88
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
I sistemi di istocompatibilità sono un importante insieme di sistemi della risposta
immunitaria; in quasi tutte le specie è stato evidenziato un sistema maggiore e dei sistemi
minori. Il sistema HLA, evidenziabile soprattutto su leucociti e piastrine, si è rivelato
importante in medicina umana nello studio del rigetto, dei tumori, della resistenza alle
malattie.
Che cosa si intende per "sistema"? Che rapporti ci sono fra fenotipo, genotipo ed allele? Si
parla di "fenogruppo": probabilmente consegue a più loci o a loci molto complessi,
suddivisibili in frazioni quasi indipendenti (ad esempio, i loci che regolano la sintesi degli
anticorpi e quelli dei gruppi sanguigni e dei sistemi di istocompatibilità). Si tratta di DNA in
cui l'attività ricombinante è molto frequente: ciò spiega ad esempio come una frazione
limitata di DNA possa produrre una grande varietà di anticorpi. I sistemi di istocompatibilità
sembrano mediare anche negli animali la resistenza genetica ad alcune malattie (ad esempio la
tripanosomiasi).
Quale rapporto c'è fra il polimorfismo ed i caratteri zootecnici, cioè la produzione, la
riproduzione, la resistenza alle malattie? I primi studi sui marcatori risalgono nell'uomo agli
anni '50-'60, negli animali sono cominciati circa 10 anni dopo: ci si interessava ad un loro
valore "predittivo" delle produzioni animali (ad esempio, un animale con un certo tipo di
emoglobina avrà una produzione maggiore?). Nella maggior parte dei casi l'esito è stato
negativo. Le premesse di un rapporto marcatore-carattere zootecnico si fondavano su due
possibilità: l'associazione (linkage) fra il locus responsabile del marcatore ed un secondo
locus responsabile del carattere economico oppure l'esistenza di un rapporto funzionale fra il
marcatore ed il carattere zootecnico (soprattutto per quanto riguarda i caratteri qualitativi in
cui il marcatore stesso fa parte della produzione: ad esempio, tipo di caseina e qualità del
coagulo). Nel caso di associazione, un problema è che questa potrebbe essere molto blanda,
cioè con frequenti ricombinazioni; in ogni caso, con il tempo una ricombinazione potrebbe
comunque avvenire, facendo perdere significato ad un allele un tempo associato ad un
carattere vantaggioso: si potrebbe addirittura verificare il caso in cui, selezionando gli animali
con un certo allele marcatore favorevole prima di poter misurare il carattere produttivo ci si
ritrovi, in seguito alla ricombinazione, ad aver selezionato gli animali meno produttivi. Un
esempio di rapporto funzionale è quello fra caseine e produzione del latte (l'allele ß delle kcaseine negli animali Bruno Alpino viene utilizzato nella selezione), oppure fra transferrine ed
accrescimento (soprattutto nel suino): esistono comunque dei problemi pratici, ad esempio il
fatto che nelle bovine il latte spesso non è costituito da campioni individuali; è inoltre sempre
da presumere che, anche se la relazione fra marcatore e carattere produttivo esiste, essa non
possa avere applicazioni pratiche, perché la selezione sul carattere produttivo ha influenzato le
frequenze geniche del marcatore ("linkage disequilibrium").
Quali sono i fini pratici dello studio del polimorfismo? Il polimorfismo è innanzitutto utile
nella identificazione degli animali; i marcatori genetici, soprattutto quelli
immunoelettroforetici, consentono di ottenere un sistema di classificazione degli animali; la
classificazione dell'animale alla nascita rimarrà valida fino alla morte: i "gruppi sanguigni"
utilizzati a questo scopo comprendono non solo i gruppi sanguigni propriamente detti, ma
anche tutta una serie di altri enzimi. La probabilità che due individui abbiano la stessa formula
è bassa. L'accertamento dei gruppi sanguigni è obbligatorio nella Frisona, nella Bruna Alpina,
sta per diventarlo nei bovini da carne, mentre lo è già nella pecora Sarda, nel cavallo Puro
Sangue Inglese e Trottatore. Le formule vengono utilizzate per il disconoscimento di paternità
(ed a volte di maternità): conoscendo la formula di padre e/o madre e figlio, è possibile
stabilire se uno o entrambi i genitori sono biologicamente inaccettabili. Non è un
riconoscimento, ma un disconoscimento: anche nel caso di sistemi più sofisticati, quali ad
esempio l'impronta del DNA, si ha sempre una piccola probabilità di trovare due individui
uguali (e sicuramente lo sono i gemelli identici). Le errate attribuzioni di paternità, accidentali
o fraudolente, sono un grande ostacolo alla selezione (nella Frisona da un 30% circa di false
89
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
attribuzioni si è ormai scesi in dieci anni a meno del 5%). Il costo di una prova dei gruppi
sanguigni è 80.000-100.000 lire; si sta attualmente studiando un sistema basato direttamente
sul DNA, più sicuro ma anche più caro, da utilizzare nei casi in cui il problema non possa
essere chiarito solamente con i gruppi sanguigni. Nei bovini i gruppi sanguigni sono utilizzati
per il freemartinismo: nei parti con gemelli di sesso diverso delle anastomosi vascolari
provocano in circa il 90% delle femmine una mascolinizzazione; il fenomeno si verifica
raramente anche negli ovini, ed è causato dal passaggio di cloni cellulari dell'altro sesso che
attecchiscono, in quanto si verificano prima che il sistema immunitario sia in grado di
riconoscere cellule eterologhe. Il freemartinismo può essere chiarito mediante i gruppi
sanguigni perché, se la femmina ha ricevuto cloni cellulari del fratello, ha due tipi di antigeni:
il proprio e quello ricevuto con i cloni eritroblastici del gemello (il clone eterologo è meno
rappresentato, ma comunque evidenziabile). Se l'animale ha ricevuto cloni eterologhi, è anche
possibile evidenziare chimerismo cromosomico: all'esame cariologico oltre alle cellule con
corredo eterocromosomico XX si evidenziano quelle del fratello recanti XY. I gruppi
sanguigni si utilizzano anche per la diagnosi di gemellarità monozigotica: per essere
monozigoti i gemelli devono avere la stessa formula, mentre se dizigoti è molto probabile che
abbiano gruppi diversi (ad eccezione del gruppo J del bovino, il quale è in realtà non un
antigene di superficie dell'eritrocita, ma un componente solubile del plasma che si deposita
sulla membrana del globulo rosso); in precedenza ci si basava quando possibile sulle
pezzature, le quali possono sì essere simili nei gemelli identici, ma a volte non sono
sovrapponibili. Occorre comunque ricordare che c'è sempre la possibilità di mutazioni
individuali (nell'uomo, da genitori a figli, circa 8-10 mutazioni).
Quali sono le applicazioni del polimorfismo allo studio della caratterizzazione genetica delle
popolazioni? Occorre prima di tutto distinguere fra una diversità intrapopolazione ed una
diversità fra le popolazioni. La diversità intrapopolazione viene studiata attraverso il tasso di
polimorfismo, il tasso di eterozigosi o indice di diversità di Nei e l'indice di identità. La
diversità fra le popolazioni viene studiata attraverso le distanze genetiche.
Il tasso di polimorfismo è la probabilità di non mettere in evidenza in una popolazione un
allele raro, cioè con frequenza <0,01:
2n
TP = (1-p)
dove p è la frequenza dell'allele raro ed n il numero di individui della popolazione.
RISCHIO DI NON EVIDENZIARE L'ALLELE
individui
25
50
75
100
150
200
250
500
p = 0,01
0,605
0,366
0,221
0,134
0,049
0,018
0,007
0,00004
p = 0,005
0,778
0,606
0,471
0,367
0,222
0,135
0,082
0,007
90
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Il tasso di eterozigosi o indice di diversità di Nei misura la probabilità di estrarre a caso dalla
popolazione un individuo eterozigote al locus k:
l
TEk = 1 - Σ p²i
i=1
esimo
dove TEk è l'indice di diversità al locus k, pi la frequenza dell'i
allele al locus k ed l il
numero di alleli al locus k. Nel caso di n loci, l'indice può essere calcolato come media con la
relativa varianza:
n
TEmedio = 1/n Σ TEi
i=1
σ²TE = (TE - TEmedio )² / (n-1)
La varianza può ulteriormente essere suddivisa in due parti: una varianza intralocus ed una
varianza interloci. Il tasso di eterozigosi rappresenta una stima teorica della frequenza degli
eterozigoti fatta a partire dalle frequenze geniche. Se si usano più loci, occorre che abbiano
tutti lo stesso numero di alleli: il valore massimo dipende infatti dal numero di alleli, e si ha
quando gli alleli hanno tutti la stessa frequenza (è 0,5 con due alleli, 0,666 con tre alleli, 0,75
con quattro alleli, etc.). La varianza della stima diminuisce all'aumentare del numero di loci
utilizzati: idealmente bisognerebbe utilizzare circa 50 loci, mentre negli animali domestici ne
vengono in genere utilizzati 10-15; se sono disponibili pochi loci bisogna aumentare il
campionamento.
L'indice di identità è la probabilità di estrarre a caso dalla popolazione due individui con lo
stesso genotipo; aumenta all'aumentare della consanguineità.
Per un locus biallelico, l'indice di identità è pari a:
2
2
2
2
4
2 2
4
I Ik = p p + 2pq 2pq + q q = p + 4p q + q
Per un locus poliallelico, l'indice di identità è pari a:
4
2
I Ik = Σpi + 4Σ(pipj)
Nel caso di n loci:
n
I I = 1/n Σ I Ii
i=1
La diversità fra le popolazioni viene studiata attraverso le distanze genetiche; per distanza
genetica fra due popolazioni si può intendere il numero medio di sostituzioni aminoacidiche
fra proteine omologhe, in assenza di varietà intrapopolazione.
Esistono tre differenti presupposti teorici per il calcolo delle distanze genetiche, basati
rispettivamente sul sequenziamento delle proteine, sulle frequenze geniche e sulle frequenze
genotipiche. Le distanze genetiche basate sul sequenziamento delle proteine si fondano sul
tasso di mutazione molecolare: il principio è quello di una relazione lineare fra la distanza
genetica ed il tempo a partire dal quale le popolazioni si sono separate ("orologio
molecolare"); attualmente queste tecniche vengono applicate direttamente agli acidi nucleici.
Le distanze genetiche basate sulle frequenze geniche presuppongono delle relazioni fra la
distanze e le differenze di frequenza nelle proteine alloenzimatiche: le frequenze geniche
possono essere utilizzate tal quali (metodi non geometrici) oppure trasformate in coordinate
91
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
spaziali (metodi geometrici). I metodi per la valutazione delle distanze genetiche basati sulle
frequenze genotipiche hanno attualmente scarso significato.
In sintesi, i metodi di calcolo delle distanze genetiche possono essere distinti in due gruppi:
quelli che rappresentano le popolazioni come punti di uno spazio multidimensionale e
considerano le distanze fra le popolazioni come le distanze geometriche fra i punti stessi,
oppure quelli che affrontano il problema delle distanze genetiche in senso dinamicoevolutivo.
Una distanza genetica "ideale" dovrebbe avere diverse proprietà, ma nessuno dei metodi di
calcolo proposti risponde a tutti i requisiti (Gregorius, 1984); ad esempio, la distanza fra la
popolazione x e la popolazione y dovrebbe essere la stessa che separa y da x; la distanza di
una popolazione da se stessa dovrebbe essere 0; la distanza fra due popolazioni deve essere
inferiore o uguale alla somma delle distanze fra le due popolazioni stesse ed una terza
popolazione; la distanza massima deve essere 1; se due popolazioni non hanno alcun allele in
comune devono essere alla massima distanza; spostando una popolazione lungo una retta
passante per la popolazione stessa la distanza fra la popolazione considerata ed un'altra deve
variare linearmente; se due popolazioni vengono traslate parallelamente in uguale misura la
distanza deve rimanere invariata; la somma di tutte le distanze deve essere 0. Attualmente per
il calcolo delle distanze genetiche vengono utilizzate delle tecniche statistiche di analisi
multivariata, e l'andamento evolutivo delle popolazioni viene rappresentato in delle strutture
chiamate dendrogrammi.
Fra le più utilizzate ricordiamo:
la distanza genetica di Nei (1972):
D =- Log cos θ
½
dove θ = arc cos Σ (xiyi)
la distanza euclidea di Cavalli-Sforza e Edwards (1967):
½
d''corda = (1-cos θ)
la distanza genetica di Balakrishnan e Sanghvi (1968), o del Χ²:
dΧ² = Σ [(xi-yi)² / ½(xi+yi)]
Affinché il calcolo delle distanze sia attendibile, il numero di loci utilizzato dovrebbe essere il
più elevato possibile ed analogamente la stima delle frequenze geniche deve essere la più
accurata possibile. Bisogna inoltre rimanere a livello intraspecifico, utilizzare molti geni
piuttosto che molti individui, calcolare più di un tipo di distanza genetica, controllare la
struttura genetica delle popolazioni utilizzate (ad esempio la consanguineità), essere prudenti
nel trarre inferenze evolutive.
Esempio di applicazione pratica.
Astolfi P., Pagnacco G., Guglielmino-Matessi C. R. (1983): PHYLOGENETIC ANALYSIS
OF NATIVE ITALIAN CATTLE BREEDS. Z. Tierzüchtg. Züchtgsbiol. 100:87-100.
Sappiamo che la domesticazione del bovino è avvenuta in medio-oriente. L'indagine è stata
effettuata sulle razze che in Italia hanno i Libri Genealogici (razze in selezione) o i Registri
Anagrafici (razze in via di estinzione); sono entrambi affidati dal Ministero per il
Coordinamento delle Politiche Alimentari Agricole e Forestali (ex Ministero dell'Agricoltura
e Foreste) alle associazioni di razza ed all'Associazione Italiana Allevatori, con compiti
differenti. L'A.I.A. gestisce i libri genealogici attraverso le Associazioni Provinciali
Allevatori, mentre i registri anagrafici sono gestiti direttamente da un Ufficio Piccole Razze
dell'A.I.A.; esiste anche un Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche per la
conservazione del germoplasma animale, con sede a Milano, ed un centro per la salvaguardia
degli animali di razze in via di estinzione con sede al Circiello (NA). Si sono dovute escludere
92
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
alcune razze, tipo la Pontremolese e la Garfagnina, il cui numero era insufficiente: le razze
utilizzate sono state una ventina, su alcune delle quali erano disponibili notizie storiche. I
primi trattati di zootecnia sono della fine dell'800, ed il primo trattato di zootecnia speciale, il
Mascheroni, è dell'inizio del'900.
Per l'analisi sono stati utilizzati 13 loci indipendenti: 8 relativi a gruppi sanguigni e 5 a
proteine ematiche. Non si sono utilizzate le caseine sia perché determinate da loci
strettamente associati che perché probabilmente selezionate (più o meno direttamente); inoltre
i dati sulle caseine sono di più difficile reperimento. I polimorfismi visibili non sono stati
utilizzati perché, nel bovino, fortemente selezionati dall'uomo ("razze standardizzate"). Tutti i
loci utilizzati possono essere considerati neutri: anche per emoglobina e transferrina non ci
sono nel bovino studi che dimostrino la non neutralità; si tratta dunque di loci non soggetti a
selezione naturale. Tutte le variazioni sono frutto di migrazioni, deriva genetica e (forse) di
"effetto autostop". I loci non sono numerosi, ma i campioni erano considerevolmente
consistenti; si trattava inoltre di loci polimorfi in tutte le razze studiate, in alcuni casi anche
poliallelici.
Inizialmente sono state calcolate le frequenze geniche: per i loci codominanti biallelici
mediante la conta diretta, per quelli a dominanza completa mediante il metodo della radice
quadrata del genotipo recessivo e per i loci poliallelici mediante il metodo della massima
verosimiglianza (maximum likelihood).
Si è poi controllato il rispetto dell'equilibrio secondo la legge di Hardy-Weinberg: nel 20%
circa dei casi l'equilibrio non era rispettato, ma non si sono evidenziate particolari tendenze
(trend); una spiegazione potrebbe essere nella difficoltà di identificare alcuni alleli in loci
poliallelici, oppure nella presenza di consanguineità (la quale era comunque bassa).
Si è quindi passati allo studio della variabilità entro e fra popolazioni; per valutare
l'importanza della deriva genetica si è utilizzato il test di Wahlund (1928); la varianza
standardizzata di Wahlund è pari a:
σ² / p (1-p)
dove σ² è la varianza delle frequenze geniche fra le popolazioni e p la frequenze genetica
media di ogni allele in tutta la popolazione. La varianza fra le popolazioni cresce,
approssimativamente, con il tempo: la varianza standardizzata di Wahlund considera la
deficienza in eterozigoti che si ha nella popolazione totale rispetto ad una popolazione
panmittica.
Le metodiche utilizzate si concludono con il calcolo delle distanze genetiche con un metodo
geometrico e la valutazione con una tecnica di analisi multivariata, detta analisi delle
componenti principali, dell'importanza da attribuire ai singoli loci.
Il lavoro ha permesso di concludere:
- che la razza Frisona rappresenta una popolazione a sé stante, come è anche storicamente
noto;
- che la Romagnola non rientra fra le podoliche propriamente dette: forse si tratta di animali
arrivati in Italia successivamente alle altre razze podoliche, probabilmente in epoca
longobarda;
- che alcune razze sono mal collocabili, o perché ibride o perché di non precisa identità
genetica: Montana o Castana, Sarda;
- che tutte le altre razze finora non citate si possono suddividere in tre gruppi: di montagna
(Pinzgauer, Tarina, Grigia Alpina, Bruna Alpina, Pezzata Rossa d'Oropa, Valdostana
pezzata nera, Pezzata Rossa Friulana), di pianura (Reggiana, Valdostana pezzata rossa,
Modenese, Rendena, Piemontese), e podoliche (ulteriormente suddivisibili in due
gruppi, il primo comprendente Modicana e Maremmana ed il secondo comprendente
Marchigiana, Chianina, Cinisara e Pugliese).
93
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
L'origine dei bovini è da ricondurre, secondo la classificazione del Rutimeyer, al tipo
Brachyceros per i gruppi di montagna e di pianura ed al tipo Primigenius per le podoliche.
Per quanto riguarda le vie migratorie attraverso le quali gli animali sono giunti in Italia, le
razze dei gruppi di montagna e di pianura sono giunte dall'Europa centrale infiltrandosi nelle
Alpi oppure con le invasioni barbariche (da Oriente, diffondendosi nella pianura padana e
nell'Appennino settentrionale); per le podoliche si sono invece avute tre vie di immigrazione:
dal Medio-Oriente attraverso i Balcani ed il Friuli (3000 a.C.), dal Nord Africa (Modicana) e
dalla Spagna attraverso la Francia meridionale (Maremmana).
LA PARENTELA
La parentela è una caratteristica di una coppia formata da due individui, A e B.
La parentela si ha quando A e B hanno degli antenati comuni: qualunque sia la natura e la
complessità dei legami di parentela tra i due individui, l'effetto della parentela sulla loro
costituzione genetica è la possibilità che dei geni di A e di B siano identici, cioè siano la copia
di uno stesso gene presente in un antenato comune.
Il legame di parentela fra A e B può quindi essere descritto, da un punto di vista genetico,
mediante la probabilità di identità dei loro geni.
Per la misurazione della parentela si possono utilizzare diversi sistemi di calcolo: il
coefficiente dettagliato d'identità, il coefficiente contratto d'identità, il coefficiente di
relazione ed il coefficiente di parentela p.d..
Il coefficiente dettagliato d'identità: in un qualsiasi locus, due individui A e B possiedono, in
totale, 4 geni, i quali possono essere identici o non identici a due a due, a seconda della
configurazione del sistema di ascendenza. Le possibili situazioni d'identità sono 15. Lo studio
di questo coefficiente è utile nei casi in cui si è interessati al genotipo degli individui ed
all'origine paterna o materna dei geni che lo costituiscono.
COEFFICIENTE DETTAGLIATO D'IDENTITA'
individuo 1
individuo 2
AA
AA
AA
AAA
-A
AAA
-A
AA
AA
BB
AA
--AA
AB
AB
AB
BA
AAA-A
-A
A-A
-A
---
Il coefficiente contratto d'identità: analogo al precedente, è utilizzato quando non esiste la
necessità di distinguere le origini paterne e materne dei geni. Sono possibili 9 situazioni
d'identità.
94
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
COEFFICIENTE CONTRATTO D'IDENTITA'
individuo 1
individuo 2
AA
AA
AA
A-A
o
A-A
AA
o
AA
BB
AA
--AA
AB
AB
BA
o
A-A
A-A
o
o
---
Se si è interessati solo alla presenza di un gene, preso isolatamente, e non alla costituzione del
genotipo, si può utilizzare il coefficiente di relazione ed il coefficiente di parentela.
Il coefficiente di relazione (Wright, 1922) è la probabilità per un gene di A, di essere identico
ad un gene di B.
Si può distinguere fra la parentela dovuta ad un rapporto diretto di discendenza (ad esempio,
genitore-figlio) e quella dovuta alla discendenza da un antenato comune (parentela
collaterale, come nel caso di due fratelli pieni, che discendono dagli stessi genitori). La
parentela fra due individui è la sommatoria di tutte le parentele, dirette e collaterali.
n'+n"
RAB
=
½ (1+FC)
Σ -----------------------------½
[(1+FA) (1+FB)]
RAB è la parentela collaterale fra A e B; ½ rappresenta la probabilità che il gene passi da una
generazione parentale ad una generazione filiale; n' ed n" è il numero di generazioni che
separano A e B da un antenato comune C, di consanguineità FC; FA e FB rappresentano i
coefficienti di consanguineità di A e di B.
RAB
=
n
Σ ½ [(1+FA) / (1+FB)]
½
RAB è la parentela diretta fra l'ascendente A ed il suo discendente B; ½ è la probabilità di un
gene di passare da una generazione alla successiva; n è il numero di generazioni che separano
l'ascendente A dal discendente B; FA e FB sono i coefficienti di consanguineità dei due parenti.
Si può notare che la differenza fra parentela diretta e parentela collaterale è solo teorica, anche
dal punto di vista del calcolo: infatti la formula per la parentela collaterale si trasforma in
quella per la parentela diretta quando l'antenato comune C è lo stesso ascendente A.
Il coefficiente di parentela (Malecot, 1948) corrisponde alla probabilità di identità tra due geni
omologhi (cioè entrambi di origine paterna oppure entrambi di origine materna), l'uno
dall'individuo A e l'altro dall'individuo B; è anche la probabilità che due gameti, presi a caso
in ognuno dei due individui A e B, portino alleli identici.
Il coefficiente di consanguineità di un individuo X è uguale al coefficiente di parentela tra suo
padre e sua madre e, viceversa, il coefficiente di parentela tra due individui è identico al
coefficiente di consanguineità di un loro (teorico) figlio.
ΦAB
=
Σ½
n'+n"+1
(1+FC)
95
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
dove ½ è la probabilità di un gene di passare da una generazione alla successiva, n' ed n" è il
numero di generazioni che separano A e B dall'antenato comune C, il cui coefficiente di
consanguineità è FC.
Fra il coefficiente di parentela ed il coefficiente di relazione esiste il seguente rapporto:
n'+n"
n'+n"+1
Σ½
(1+FC)
½ (1+FC)
/ Σ --------------------------- =
½
[(1+FA) (1+FB)]
n'+n"+1
½
(1+FC)
½
½
= ------------------- [(1+FA) (1+FB)] = ½ [(1+FA) (1+FB)]
n'+n"
½ (1+FC)
In particolare, se A e B non sono consanguinei, il coefficiente di relazione è il doppio del
coefficiente di parentela.
L A C O N S A N G U I N E I T A'
La selezione genetica utilizza elevati livelli di consanguineità. Le popolazioni di dimensioni
ridotte hanno elevati livelli di consanguineità. La consanguineità è quindi una condizione a
volte da ricercare, a volte da evitare.
La registrazione anagrafica è il metodo per conoscere l'ascendenza degli individui. La
consanguineità risulta dall'analisi degli alberi genealogici. La consanguineità è una
caratteristica dell'individuo: un individuo può essere consanguineo o non-consanguineo. La
condizione genetica di consanguineità deriva dalla riproduzione fra individui parenti, legati
cioè l'uno con l'altro da origini comuni: sistema riproduttivo omeogamico consanguineo. Gli
anglosassoni usano il termine inbreeding (inincrocio). La consanguineità può essere
caratteristica di una popolazione solo se intesa come media della consanguineità degli
individui che la compongono. La consanguineità è una caratteristica dell'individuo, mentre la
parentela mette in relazione più individui.
Teoricamente si possono ipotizzare due tipi di accoppiamenti: gli accoppiamenti che
favoriscono l'unione di gameti dissimili (accoppiamenti eterogamici o eterogamia) e gli
accoppiamenti che favoriscono l'unione fra individui che si assomigliano (accoppiamenti
omeogamici o omeogamia); nell'ambito degli accoppiamenti omeogamici particolare
importanza rivestono quelli fra parenti, da cui origina la consanguineità. I due differenti tipi di
accoppiamenti non modificano le frequenze alleliche, ma modificano le frequenze di
eterozigoti ed omozigoti, percentualmente più rappresentati rispettivamente in eterogamia ed
in omeogamia.
Lo studio della consanguineità aiuta a capire la parentela intercorrente all'interno di un gruppo
di individui appartenenti alla stessa popolazione; infatti, all'interno di una popolazione, due
individui che si riproducono possono essere imparentati: si parla di riproduzione
consanguinea quando il legame di parentela fra gli individui che si accoppiano è più stretto di
quello esistente, in media, all'interno della popolazione alla quale gli individui stessi
appartengono. In zootecnia, lo studio della consanguineità permette di migliorare le
produzioni animali.
Wright (1922) definì la consanguineità come coefficiente di correlazione gametica: intendeva
misurare la correlazione fra il gamete paterno e quello materno. Oggi sia la definizione di
consanguineità che il modo per calcolarla sono cambiati, ma il valore che si ottiene è il
medesimo. La definizione attuale di consanguineità è una definizione probabilistica (Malecot,
1948), per comprendere la quale occorre chiarire il concetto di identità genica (o allelica). Nel
caso di un locus monomorfo si ha una sola forma allelica, mentre nel caso di un locus
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
polimorfo due o più forme alleliche; per definizione, geni alleli non possono mai essere
identici; nel locus monomorfo tutti i geni sono uguali; l'identità (per copia) è un ulteriore
gradino dopo l'uguaglianza (identità funzionale): sono identici due geni che hanno la stessa
ascendenza genealogica, ovvero derivano da copie di uno stesso gene, portato da un individuo
(antenato comune). Secondo Malecot la consanguineità di un individuo rappresenta la
possibilità che nell'individuo stesso in un qualsiasi locus siano presenti geni identici (per
copia). La definizione di Malecot sottolinea che si tratta di una probabilità e non di una
certezza: ciò è legato al fatto che da genitore a figlio passa sicuramente il 50% del patrimonio
genetico, mentre da nonno a nipote passa, in media, il 25%, ma potrebbe anche essere un altro
valore compreso fra 0 e 50%. La consanguineità di Malecot è una consanguineità genica.
Lo studio della consanguineità si effettua a livello di individuo e quindi a livello di
popolazione.
Per calcolare la consanguineità si utilizza la formula seguente:
FA = Σ (½)
n+n'+1
(1+FC)
dove:
FA è il coefficiente di consanguineità dell'individuo A;
Σ rappresenta la sommatoria dei valori riferiti ai diversi antenati comuni;
½ rappresenta la probabilità che il gene passi da genitore a figlio;
n ed n' rappresentano il numero di generazioni che separano i genitori di A dall'antenato
comune C;
FC è il coefficiente di consanguineità dell'antenato comune C.
Il valore può essere compreso fra 0 ed 1.
In pratica, l'individuo comune è un antenato sia del padre che della madre di A. La
sommatoria indica che si tratta della probabilità totale, ricavata sommando la probabilità
riferita a ciascun antenato comune. L'esponente a cui si eleva la base 0,5 dovrebbe essere
n+n'+2: rappresenterebbe la probabilità composta del passaggio di un gene dall'antenato
comune C fino ad A attraverso entrambi i genitori: poiché però è indifferente quale dei due
alleli di un locus C trasmetta per entrambe le vie, il valore va raddoppiato (probabilità totale),
da cui n+n'+1. La consanguineità FC dell'antenato comune può variare fra 0 ed 1, per cui il
termine in parentesi può quindi variare fra 1 e 2: se l'antenato comune è a sua volta
consanguineo, per una frazione dei suoi geni proporzionale alla sua consanguineità non potrà
fare a meno di trasmettere ai suoi figli un gene identico, il che aumenta proporzionalmente la
probabilità di consanguineità di A (probabilità composta).
Attenzione al fatto che in alcuni testi la formula è
n
FA = Σ (½) (1+FC)
perché in questo caso n rappresenta il numero di individui che compongono la catena di
parentela che unisce i due genitori, compresi i genitori stessi: è numericamente uguale a
n+n'+1 dell'altra formula.
Secondo Malecot, la parentela che lega due individui è pari alla consanguineità di un loro
(teorico) figlio: nel caso della parentela intesa come relazione additiva (coefficiente di
relazione di Wright), essa è pari al doppio della consanguineità di un (teorico) figlio.
Ciascun termine della sommatoria rappresenta una differente catena di parentela che lega i
genitori di A e che passa obbligatoriamente per un antenato comune C; tutti gli individui di
una catena di parentela debbono essere differenti, ma più di una catena di parentela può
passare per lo stesso individuo; ci sono tanti termini nella sommatoria per quante sono le
catene di parentela distinte che legano il padre di A alla madre di A: in altri termini, la somma
dell'espressione è da effettuarsi ogni volta che esistano antenati comuni e parenti indipendenti
a partire da tali antenati.
97
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Ad esempio:
A
C
B
D
E
F
G
X
Quale probabilità ha l'individuo X di ereditare 2 alleli identici derivati dallo stesso
ascendente?
1)- A potrebbe teoricamente essere consanguineo per un incrocio precedente: FA è il suo
coefficiente di consanguineità. La probabilità totale che A trasmetta a B e C 2 alleli identici è:
½+½FA = ½(1+FA);
2)- la probabilità che B trasmetta ulteriormente il gene, derivato da A, ad F è ½;
3)- la probabilità che F lo trasmetta a X è ½;
4)- la probabilità che C lo trasmetta a D è ½;
5)- la probabilità che D lo trasmetta a E è ½;
6)- la probabilità che E lo trasmetta a G è ½;
7)- la probabilità che G lo trasmetta a X è ½.
La probabilità composta è:
2+4
½ (1 + FA) ½
=½
2+4+1
(1 + FA)
A
B
C
D
E
X
98
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
antenato comune
A
A
0+2+1
FX = ½
padre
A
A
0+2+1
(1+0) + ½
madre
A-C-E
A-D-E
3
n
0
0
n'
2
2
Fantenato
0
0
n
1
3
3
2
n'
0
2
3
3
Fantenato
FK
0
0
0
n
1
1
n'
2
3
Fantenato
0
0
3
(1+0) = ½ + ½ = 0,25
A
C
B
D
G
F
E
H
I
K
J
X
antenato comune
K
A
A
D
padre
J-K
J-E-D-A
J-E-D-A
J-E-D
madre
K
K-H-A
K-I-F-A
K-I-F-D
Occorre calcolare anche la consanguineità di K:
antenato comune
A
A
1+2+1
FK = ½
1+0+1
FX = ½
padre
H-A
H-A
1+3+1
(1+0) + ½
madre
I-F-A
I-F-D-A
(1+0) = 0,09375
(1+0,09375) + ½
3+2+1
(1+0) + ½
3+3+1
2+3+1
(1+0) + ½
(1+0) = 0,3125
Ricordando la definizione di parentela intesa come coefficiente di relazione, e cioè la
probabilità che un gene dell'individuo A sia identico ad un gene dell'individuo B, si può
cercare di capire anche il concetto di "relazione di un animale con se stesso"; infatti la
relazione fra due animali è anche pari al doppio della probabilità che, estraendo a caso un
gene da ciascuno dei due animali, il gene estratto sia identico: la relazione additiva di un
animale con se stesso è la probabilità che, estraendo due volte a caso un gene dall'animale, si
estraggano due geni identici. La relazione additiva di un animale C con se stesso è pari ad
1+FC.
Scomposizione della consanguineità (Robertson e Asker, 1951). La consanguineità totale
può essere scomposta in consanguineità prossima (o current inbreeding), consanguineità a
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
lungo termine e consanguineità di linea: la consanguineità a lungo termine e quella di linea
costituiscono insieme il non current inbreeding.
La consanguineità prossima è quella dovuta ad accoppiamenti fra individui strettamente
parenti.
La consanguineità a lungo termine è dovuta all'influenza di antenati che hanno giocato un
grosso ruolo nella riproduzione della popolazione; è quella parte di consanguineità che si
otterrebbe in una situazione di panmissia, ed è pari a R/(2-R), dove R è il coefficiente di
relazione media di una popolazione (la misura della parentela definita da Wright).
La consanguineità di linea è dovuta alla suddivisione della popolazione in linee; viene
calcolata sottraendo alla consanguineità totale la consanguineità prossima e la consanguineità
a lungo termine.
Quando è disponibile un numero elevato di generazioni, per il calcolo della consanguineità
vengono utilizzati i metodi accorciati. Il metodo di Wright e Mc Phee consiste nello scegliere
casualmente, in ciascuna generazione, la linea da seguire e nel calcolare, nel caso di un
antenato comune, la consanguineità ad esso dovuta con la formula consueta: l'antenato
n+n'
comune è però uno solo dei 2 possibili antenati comuni, per cui il suo contributo alla
n+n'
consanguineità dell'individuo va moltiplicato per 2 . Il metodo di Robertson e Mason è
simile a quello di Wright e Mc Phee: ad ogni generazione si tiene però conto non solo
dell'individuo scelto ma anche dell'individuo con cui è stato accoppiato; si ottiene così una
"doppia linea di ascendenza"; vengono presi in considerazione solo gli antenati comuni che
hanno fornito discendenti diversi da parte di padre e di madre e la consanguineità si calcola
con una formula simile alla precedente. Nell'uso i metodi accorciati hanno fornito valori
praticamente coincidenti con quelli ottenuti con il metodo completo.
Nel caso occorra conoscere la consanguineità e la parentela esistenti fra tutti gli individui di
una popolazione si può utilizzare il metodo tabulare di Emik e Terrill, mentre se bisogna
calcolare solamente la consanguineità il metodo più opportuno è quello di Henderson &
Quaas (1976): entrambi i metodi presuppongono che gli animali siano ordinati
cronologicamente e si prestano particolarmente per l'uso degli elaboratori elettronici.
Effetti zootecnici della consanguineità. La consanguineità ha un effetto indiretto sulle
frequenze geniche ed un effetto diretto (depressione da consanguineità). L'effetto indiretto di
una elevata consanguineità su una popolazione è la tendenza all'omogeneità della
popolazione: si hanno cioè meno eterozigoti e più omozigoti; anche se diminuisce la
frequenza degli eterozigoti (i "portatori"), compaiono più frequentemente le anomalie da
omozigosi recessiva: ciò è dovuto all'aumentata probabilità di accoppiamento fra parenti (il
portatore viene accoppiato con un parente, e la probabilità che anche questo parente sia un
portatore è aumentata proprio dal fatto di essere parente di un portatore). L'effetto diretto è la
depressione da consanguineità: all'aumentare della consanguineità diminuisce la fitness dei
genotipi; il valore riproduttivo dei genotipi diminuisce linearmente all'aumentare della
consanguineità, perché all'aumentare della consanguineità aumentano linearmente i carichi
genetici da mutazione e da segregazione; la spiegazione biologica della depressione da
consanguineità è difficile: forse l'omozigosi è dannosa all'adattabilità, con un meccanismo
inverso a quello che provoca l'eterosi (positiva).
La consanguineità sopportabile senza danno da una popolazione dipende dalla specie:
sembrano più sensibili le specie multipare; nei bovini, gli animali da latte sembrano più
sensibili di quelli da carne. Particolarmente colpita dalla consanguineità è l'efficienza
riproduttiva.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
LA CONSANGUINEITA' NELLE SPECIE ZOOTECNICHE
1) LA CONSANGUINEITA' NEI BOVINI
a) GENERALITA'
Sebbene il bovino non sia molto sensibile ai fenomeni legati alla depressione da
consanguineità, sono stati messi in evidenza diversi problemi conseguenti ad un aumento del
livello d'inincrocio: il rischio risulta amplificato dall'uso massiccio della fecondazione
artificiale. Quando il numero di padri utilizzati per la fecondazione artificiale scende al di
sotto di un certo livello, la razza viene minacciata dall'aumento dell'insorgenza delle anomalie
ereditarie o dal presentarsi di una maggiore predisposizione ereditaria alle malattie; tanto
maggiore risulta l'evidenza di tali effetti quanto più piccola è la popolazione inincrociata.
Per evitare nell'uso della fecondazione artificiale simili inconvenienti bisogna seguire alcuni
accorgimenti:
1)- il liquido seminale di tori con un antenato portatore di un difetto ereditario, o comunque
sospetto, non deve essere usato per l'inseminazione di vacche tra i cui figli maschi verranno
scelti i tori per la raccolta del seme da utilizzare per la fecondazione artificiale;
2)- è necessario avere a disposizione studi preliminari e compilare schemi di riproduzione
controllata, in modo tale da evitare di accoppiare tori portatori di difetto o utilizzare il loro
seme per fecondare femmine eterozigoti riconosciute;
3)- gli accoppiamenti padre-figlia vengono utilizzati per rilevare anomalie rare o ereditate
recessivamente;
4)- utilizzare il progeny test per i tori per individuare l'eventuale trasmissione di difetti
ereditari;
5)- distribuire fra gli allevatori opuscoli informativi riguardanti le tecniche di individuazione
delle anomalie e dei difetti ereditari che potrebbero comparire nei soggetti in loro possesso.
b) CONSANGUINEITA', RIPRODUZIONE E MORTALITA' NEONATALE
L'elevata consanguineità provoca una riduzione della percentuale di concepimento e
diminuzione della vitalità fetale; le perdite embrionali sono maggiormente elevate se la
consanguineità interessa le madri, inferiori se è il padre ad essere consanguineo.
Vacche appartenenti alla stessa mandria hanno richiesto una media di 3 inseminazioni per
concepimento se veniva impiegato il liquido di un toro consanguineo e di solo 1,92
inseminazioni se il toro donatore non risultava consanguineo; un aumento graduale della
percentuale di aborti è un altro dei segni dell'aumento dell'indice di consanguineità.
Alcuni autori riferiscono che con l'aumento della consanguineità aumenta il numero di
alterazioni testicolari, quali la distrofia dei tubuli seminiferi oppure l'ipoplasia della gonade
maschile; la misura della diminuzione della fertilità del toro in relazione alla consanguineità
differisce tra le varie linee, ma quasi tutti i tori di ogni linea sono interessati allo stesso modo
da alterazioni della qualità delle cellule germinali e della fecondità. L'eccesso di
consanguineità diminuisce la fertilità anche nel bovino da carne, sebbene in misura minore di
quanto accade nel bovino da latte.
I soggetti che nascono da accoppiamenti fra genitori strettamente parenti risultano
maggiormente sensibili alle forme infettive neonatali sia enteriche che broncopolmonari.
In razze da latte, accoppiamenti genitore-figlia e genitore-sorellastra hanno causato perdite di
quasi il 40% per aborti e parti di feti morti. Nella Frisona americana sono state registrate
perdite di oltre il 25% dovute alla consanguineità della madre. Nella Jersey aborti e parti di
feti morti hanno causato, per valori di consanguineità superiori al 12,5%, perdite di oltre il
36%.
In bovine Hereford, una consanguineità del 15-20% ha provocato un aumento di oltre il 4%
delle perdite per parto di feti morti; nella stessa razza, una consanguineità del 13-25% ha
causato perdite fino al 50% per morte delle bovine.
101
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
c) CONSANGUINEITA' E COMPARSA DI ANOMALIE GENETICHE
La frequenza di comparsa di fenotipi recessivi indesiderabili è direttamente collegata al grado
di consanguineità.
Fra le forme più frequenti di anomalie genetiche sono riportate in letteratura sindattilia,
deformità della mandibola, alterazioni nervose quali la lipodistrofia neuronale; da ricordare il
cosiddetto "Morbo di Adema", (così definito perché comparso nella progenie di 10 tori, tutti
figli del toro Adema-H), descritto per la prima volta nella razza Pezzata Nera Danese e
caratterizzato da paracheratosi ed ipercheratosi cutanee.
d) CONSANGUINEITA' E PRODUZIONE DEL LATTE
E' stato osservato che l'aumento dell'1% del coefficiente di consanguineità medio comporta
una diminuzione della produzione di gruppo pari a 15,2 Kg di latte, mentre il grasso del latte
diminuisce di 4,05 Kg.
Nella razza Rossa delle Steppe una stretta consanguineità ha ridotto la durata della carriera del
38% e la produzione per lattazione del 17%, causando una riduzione complessiva della
produzione durante la vita di una bovina del 58%.
e) CONCLUSIONI
L'utilizzo di alti livelli di consanguineità ha permesso di ottenere razze e linee genetiche da
latte ad elevata produzione. Restando su livelli di consanguineità del 3-5%, generalmente non
si verificano fenomeni depressivi: già a questi livelli conviene però assicurarsi che solo
animali geneticamente sani vengano utilizzati nella riproduzione. Occorre un continuo
monitoraggio dei difetti ereditari provocati dai padri utilizzati in grossi gruppi di progenie: per
fare ciò è possibile utilizzare il "test automatico" o l'accoppiamento del padre con le figlie e/o
mezze-sorelle.
La consanguineità andrebbe comunque evitata nei grossi sistemi di produzione di carne.
2) LA CONSANGUINEITA' NEGLI OVINI
a) GENERALITA'
Anche in questa specie l'interesse per la consanguineità è venuto crescendo a partire dagli
anni '40; le razze maggiormente studiate sono state, in ordine decrescente, le Merinos, le
Rambouillet, le Blackface, la Columbia, la Karakul, la Targhee, la Cheriot, la Welsh
Mountain e la Hampshire; la più studiata in Italia è stata la Sarda.
In linea di massima i lavori si sono occupati di due aspetti principali:
1)- l'analisi della struttura genetica di una popolazione mediante il calcolo del coefficiente
medio di consanguineità;
2)- l'esame degli effetti dell'aumento del tasso di consanguineità, applicato in piccole
popolazioni all'interno delle quali si attuano particolari schemi d'accoppiamento allo scopo di
aumentare la consanguineità degli individui.
Relativamente ai rapporti tra consanguineità e produzione, sono studiati il vello,
l'accrescimento, la conformazione corporea ed i caratteri di allevamento.
b) LA PRODUZIONE DEL VELLO
L'effetto della consanguineità è stato correlato al peso del vello sucido, del vello pulito e del
vello grasso.
Per valori della consanguineità oscillanti fra 4,5 e 17,6, un aumento dell'1% del coefficiente di
consanguineità provoca, in media, una riduzione di 0,017 Kg del peso del vello sucido e di
0,018 Kg del peso del vello pulito.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
In tutti i casi, gli effetti della consanguineità materna sono prossimi allo zero.
Alcuni autori hanno esaminato 13000 pecore per stimare l'effetto della consanguineità sulla
lunghezza del filamento di lana ed hanno dimostrato che, per un coefficiente di
consanguineità che varia tra l'1,8% e il 29,8%, il suo aumento per valori dell'1% provoca in
taluni casi l'aumento della lunghezza della lana (per valori di 0,016 cm), mentre in altri casi ne
causa la diminuzione (per valori di 0,292 cm): comunque i valori non risultano statisticamente
significativi e l'effetto negativo tende ad essere maggiore nelle varietà statunitensi e minore
nelle Merinos Australiane.
L'aumento di consanguineità non mostra effetti di sorta sulla produttività del vello e sul
diametro delle fibre, influenza negativamente la densità del vello, il numero di arricciature per
centimetro ed aumenta la copertura lanosa della faccia.
c) ACCRESCIMENTO
La letteratura mostra che l'aumento del tasso di consanguineità individuale e materna hanno
un effetto negativo sul peso alla nascita, sul peso allo svezzamento degli agnelli ed anche sul
peso post-svezzamento: in media, un aumento dell'1% del coefficiente individuale fa
diminuire il peso alla nascita di 0,013 Kg, quello allo svezzamento di 0,011 Kg e quello nelle
fasi successive di 0,178 Kg.
Gli effetti appaiono più evidenti nelle razze da carne che in quelle da latte.
d) CONFORMAZIONE
Un aumento della consanguineità provoca una significativa diminuzione del numero di pliche
cutanee ed una peggiore conformazione.
e) CARATTERI DI ALLEVAMENTO
La consanguineità possiede un effetto negativo nei confronti della fertilità delle femmine: i
dati si riferiscono sia a razze Merinos sia a razze Blackface scozzesi. Nel primo caso, con un
coefficiente medio del 24,2%, partorivano il 24,6% delle pecore ad elevata consanguineità
mentre quelle non consanguinee partorivano con percentuali intorno al 58%; nel secondo caso
le femmine non consanguinee raggiungevano la percentuale del 86,1%, mentre le femmine
con un tasso medio di consanguineità del 25% partorivano al 45%. Per ogni 1% di aumento
del tasso medio si stima una diminuzione della fertilità che va dall'1,2% all'1,6%.
Scarsa sembra l'influenza sulla prolificità. Sull'effetto della consanguineità nei feti i risultati
sono contrastanti; alcuni autori registrano una diminuzione di 0,0012 agnelli nati per parto per
ogni aumento dell'1% nel coefficiente di consanguineità del feto o dei feti, mentre altri
riscontrano una prolificità maggiore per le femmine madri di agnelli consanguinei.
Altri dati riguardano l'effetto della consanguineità sulla sopravvivenza degli agnelli: in
genere, l'aumento dell'1% del tasso di consanguineità provoca una diminuzione della
sopravvivenza per valori oscillanti tra lo 0,7% ed il 7,2%. In media la consanguineità materna
presenta un effetto negativo minore rispetto a quella dell'agnello.
Alcune sperimentazioni hanno documentato gli effetti della consanguineità sui caratteri
riproduttivi complessi, quelli cioè che associano due o più fattori precedentemente discussi: i
risultati hanno confermato le conclusioni già elaborate negli studi compiuti per ognuno dei
singoli aspetti.
f) CONCLUSIONI
L'aumento del livello di consanguineità produce una diminuzione del rendimento
dell'allevamento ovino in termini economicamente rilevanti. Un aumento del 10% del tasso di
consanguineità di un individuo provoca la diminuzione del peso del vello pulito di 0,18 Kg,
del peso allo svezzamento dell'agnello di 1,1 Kg, del numero di parti per 100 femmine
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
accoppiate pari a 14, del numero di agnelli sopravvissuti allo svezzamento per 100 agnelli nati
pari a 28.
3) LA CONSANGUINEITA' NEI CAPRINI
Nei caprini l'aumento del tasso di consanguineità provoca una modificazione dei caratteri
produttivi del latte: in particolare, un aumento significativo del coefficiente medio del 20%
all'interno di un gregge sembra in grado di provocare una diminuzione della produzione di
latte per lattazione pari a 7,6 Kg; inoltre provoca un peggioramento delle caratteristiche
qualitative, diminuendo la percentuale di sostanza secca.
Secondo altri dati l'effetto è duplice: se il tasso oscilla tra il 5 ed il 25% si ha una regressione
della produzione, mentre se supera il 25 e raggiunge il 45% provoca un aumento della
quantità di latte prodotta.
4) LA CONSANGUINEITA' NEI SUINI
a) GENERALITA'
La specie suina è la specie domestica di interesse zootecnico maggiormente sensibile agli
effetti dell'aumento di consanguineità; la depressione di consanguineità comincia ad essere
evidente per valori appena superiori al 3%.
b) CARATTERI RIPRODUTTIVI E DI ALLEVAMENTO
Un aumento del numero di scrofe infeconde con l'aumento dell'intensità della consanguineità
fu notato per la prima volta in scrofe Poland-China; aumenta anche la lunghezza media della
gestazione, con una notevole diminuzione del numero dei nati, i quali presentano un peso alla
nascita ed allo svezzamento molto più basso rispetto a suinetti nati da madri meno
consanguinee.
In un grosso lotto di figliate (996) ottenute da 297 verri a partire da un livello di
consanguineità medio del 2,02%, alcuni autori hanno osservato i seguenti effetti:
1)- diminuzione della taglia per un valore pari allo 0,32%;
2)- diminuzione del peso medio della figliata di 0,318 Kg;
3)- aumento di 0,716 giorni per arrivare al peso corporeo di 20 Kg.
Per ogni 1% di consanguineità in più, il peso finale è ritardato di 0,20 giorni, l'aumento del
peso giornaliero diminuisce di 0,22 grammi mentre la quantità di nutrimento necessaria a
produrre 1 Kg aumenta dello 0,2%.
Anche il maschio subisce l'influenza negativa della consanguineità: la fertilità diminuisce ed
in alcuni casi si hanno delle aberrazioni del comportamento sessuale per disturbi al sistema
nervoso centrale che provocano una depressione della libido che raggiunge perfino
l'impotentia coeundi.
c) LE ANOMALIE EREDITARIE
L'aumento del tasso di consanguineità comporta l'aumento del livello di omozigosi e con
l'omozigosi si evidenziano molto precocemente una lunga serie di anomalie ereditarie.
Uno studio compiuto in Gran Bretagna ha mostrato che le perdite produttive causate da un
aumento delle anomalie da consanguineità sono economicamente ingenti.
La frequenza delle anomalie raggiunge valori del 13,07% nelle figliate e di 1,62% nei maiali
che sopravvivono e sono rappresentate con maggior frequenza da ernie scrotali, ernie
ombelicali, criptorchidismo, atresia dell'ano, intersessualità.
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
5) LA CONSANGUINEITA' NEGLI EQUINI
Fra tutte le specie domestiche, il cavallo è il meno sensibile alla consanguineità; per questo
motivo, l'inincrocio è stato molto utilizzato per uniformare i tipi morfologici e migliorare le
prestazioni sportive delle varie razze.
In alcune razze l'esistenza di libri genealogici e registri molto antichi (il libro del purosangue
inglese esiste da oltre 2 secoli), ha facilitato lo studio delle relazioni fra la consanguineità e le
prestazioni.
Purtroppo le anomalie ereditarie che compaiono per consanguineità troppo alta non sono state
mai studiate dato che tutto l'interesse era rivolto alle prestazioni sportive: gli animali non
conformi agli standard di razza sono stati sempre eliminati senza alcun esame, tanto meno di
natura genetica.
La depressione da consanguineità è stata esaminata in rapporto alle prestazioni sportive; lo
studio degli alberi genealogici nei purosangue ha mostrato che:
1)- le massime prestazioni sportive sono date da soggetti che hanno 3,4 o 5 linee di ascendenti
libere; alcuni autori parlano di stalloni che danno ottimi risultati se ottenuti in riproduzione
stretta e cioè con un massimo di una o due linee di ascendenza libere;
2)- la consanguineità sembra essere stata più elevata 100 anni fa rispetto agli stalloni
esaminati negli anni più recenti;
3)- la consanguineità ha un effetto negativo maggiore sugli stalloni rispetto alle giumente;
4)- poco si conosce dell'effetto della consanguineità nei confronti della mortalità embrionale e
neonatale, sulle perdite perinatali e su altri segni di deterioramento costituzionale come la
ridotta resistenza ad alcune malattie infettive.
Anche nei mezzosangue si hanno gli stessi risultati, sebbene siano stati selezionati più per le
caratteristiche morfologiche che per le prestazioni sportive. Fra questi animali è possibile
osservare esempi di depressione da consanguineità come la necessità di coprire 4 o 5 volte
una giumenta per ottenere una gravidanza, la scarsa vitalità, la ridotta resistenza alle malattie,
il manifestarsi di alterazioni alla testa ed alle estremità.
La depressione da consanguineità interessa anche il comportamento.
Attualmente si è notevolmente ridotto l'uso dell'inincrocio rispetto agli anni passati.
Indagini condotte negli U.S.A. hanno indicato valori del 3,2-8,4% sia nel Purosangue che nel
trottatore e dell'1,7% nell'Arabo. In Europa, i valori più elevati sono stati riscontrati nel
Clydesdale (6,2%) e nei Ponies della Polonia (5,41-25%). In razze da sella tedesche
(Hannover, Trakhenen) sono stati riscontrati valori dell'1-2,3% mentre nel Maremmano il
coefficiente medio di consanguineità è del 3,5% ca..
6) LA CONSANGUINEITA' NEGLI AVICOLI
La consanguineità è stata utilizzata come sistema di miglioramento prima dell'affermarsi degli
attuali ceppi poliibridi, specializzati nella produzione delle uova e della carne.
Anche tra gli avicoli è presente la depressione da consanguineità: ad esempio, studi compiuti
su 23 linee consanguinee di White Leghorn hanno mostrato che per ogni aumento dell'1% del
coefficiente di consanguineità si provoca una diminuzione media dello 0,43% della
produzione di uova.
La depressione interessa anche altri aspetti produttivi: l'aumento del tasso di consanguineità
provoca diminuzioni dell'incremento ponderale giornaliero, del tasso di covata, della
fecondità delle uova, della percentuale di schiusa, della vitalità dei pulcini. Nello stesso tempo
è possibile rilevare diverse anomalie congenite quali anoftalmia, brachignatismo, ernia
ombelicale ed anche una forma di trisomia eterosomica (ZZZ). Con l'aumento della
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
consanguineità si altera anche la composizione chimica centesimale dell'uovo: si rileva una
diminuzione della quantità totale di materia secca ed in particolare del tasso di proteine, e
diminuzione del contenuto di tiamina e riboflavina.
Incrociando linee consanguinee tra di loro i risultati sono buoni per cui conviene rinfrescare
geneticamente le linee quando si è raggiunto un tasso di consanguineità variabile fra lo 0,375
e lo 0,50.
ELEMENTI DI DEMOGRAFIA ZOOTECNICA
La demografia zootecnica è una scienza relativamente giovane, che ha per oggetto lo studio
della struttura e della dinamica delle popolazioni di animali allevati a scopo zootecnico.
Studiare a livello di struttura vuol dire analizzare un'immagine statica della popolazione
(come fosse una foto), mentre per studio della dinamica si intende lo studio del divenire della
popolazione zootecnica. Lo studio può essere sia a livello aziendale che a livelli più ampi
(provincia, regione, nazione, etc.).
Nell'uomo e nelle popolazioni selvatiche la struttura e la dinamica sono determinati da due
forze "naturali", la fertilità e la mortalità; nelle popolazioni zootecniche agisce anche la
eliminabilità, una forza "culturale": l'uomo individua una quota di animali che non è ritenuta
idonea, per motivi diversi, ad essere conservata; è chiaro che motivi economici tendono a far
coincidere questa quota con quella necessaria per la mattazione e con quella eccedente le
necessità di rimonta.
La eliminabilità dipende da diversi fattori (sesso, età, genotipo, etc.) ed incide sulla
popolazione zootecnica più delle forme naturali di mortalità (la mortalità senile, la mortalità
patologica, la mortalità accidentale): pertanto la demografia zootecnica, pur mutuando alcuni
parametri dalla demografia umana, ha una sua specificità.
La demografia zootecnica ha innanzitutto uno scopo descrittivo (studio della struttura e della
dinamica delle popolazioni zootecniche): a ciò segue un momento di interpretazione, che
consente di identificare i fattori che influiscono sulla efficienza produttiva e riproduttiva delle
popolazioni e quindi di fornire parametri utili ad impostare razionalmente i piani di
miglioramento (ottimizzazione produttiva). Tutto questo richiede una buona padronanza della
metodologia statistica applicata alle scienze biologiche ed una precisa definizione dei termini
utilizzati.
Molto importante è il problema della raccolta dei dati. Esistono delle difficoltà oggettive, che
nonostante le molteplici fonti di informazioni lasciano aperto il problema della completezza e
dell'attendibilità dei dati raccolti: il campione deve essere adeguato per dimensione e per
rappresentatività. Fra le possibili fonti di informazioni, ognuna delle quali deve essere
convenientemente interpretata, ricordiamo:
le Associazioni Provinciali Allevatori (A.P.A.), organi periferici dell'Associazione Italiana
Allevatori (A.I.A.), le quali curano i controlli funzionali: queste fonti forniscono
quindi dati affidabili soprattutto per quanto riguarda i soggetti sottoposti ai controlli
funzionali;
i Libri Genealogici (LL. GG.), i quali possono fornire dati relativi ai soli soggetti iscritti
(prevalentemente riproduttori);
i mattatoi ed i caseifici, per i quali esiste però il problema dell'area geografica di provenienza
degli animali o del latte;
le Unità Sanitarie Locali, i cui dati si riferiscono prevalentemente ad animali sottoposti a
misure sanitarie obbligatorie (profilassi, etc.);
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
i documenti relativi a mostre, premi, richieste di fondi e contributi (con il rischio di
sovrastime del numero di animali), dati fiscali e pagamenti di pascoli (con il rischio
di sottostime);
i censimenti generali dell'agricoltura, uno strumento costoso i cui risultati dipendono molto
dalla serietà del rilevatore e dalla collaborazione da parte dell'imprenditore agricolo;
i censimenti diretti a campione, ai quali però spesso sfuggono molti l'imprenditori agricoli
(soprattutto se senza terra, oppure se proprietari di un numero ridotto di animali).
Per età puberale si intende l'età in cui il maschio è sessualmente maturo e capace di
accoppiarsi con successo e la femmina presenta il primo calore fecondo (o depone il primo
uovo nel caso si tratti di un uccello). L'età puberale è influenzata da fattori genetici (gli stessi
che danno precocità di accrescimento e di sviluppo) e da fattori ambientali (soprattutto
alimentazione e fotoperiodo). Ritardata rispetto all'età puberale è l'età al primo servizio; essa
è influenzata da fattori ambientali, ma nel bovino soprattutto dalla mole della razza: il primo
servizio è più precoce nelle razze di piccola mole (le razze da latte sono più precoci di quelle
da carne). Al fine di anticipare razionalmente l'età al primo servizio, rendendola dipendente
dall'effettivo sviluppo dell'animale e non dalla sua età, gli allevatori tendono a fecondare le
manze quando queste hanno all'incirca raggiunto i 2/3 del peso adulto (ad esempio, nella
Frisona, quando l'animale pesa 400 Kg): questo anticipo non comporta generalmente
difficoltà di parto. Più o meno superiore rispetto all'età al primo servizio, a seconda della
percentuale dei ritorni in calore, è l'età media al primo concepimento. L'età media al primo
parto è l'età in cui le femmine della popolazione considerata partoriscono in media per la
prima volta; la distribuzione dei parti nei mesi dell'anno tende nelle varie specie zootecniche a
non essere uniforme, o per motivi fisiologici o per scelte economiche degli allevatori.
Per intervallo interparto si intende il tempo che intercorre fra due parti consecutivi della
stessa femmina: esso è composto dall'intervallo di servizio (dal parto al concepimento) e dalla
durata della gestazione (dal concepimento al parto); nell'intervallo di servizio si può
ulteriormente distinguere un intervallo parto-primo servizio ed un intervallo primo servizioconcepimento. L'interservizio è l'intervallo medio fra due servizi consecutivi nella stessa
femmina.
L'età media di una popolazione è la media delle età degli individui che la compongono. L'età
media è essenzialmente determinata da due fattori: il rapporto nascite/morti e la distribuzione
delle morti per età. Riguardo al rapporto nascite/morti, una popolazione in cui le nascite sono
più delle morti appare in espansione, e quindi più giovane di una popolazione stazionaria: al
contrario, una popolazione in contrazione tende a sembrare più vecchia di una stazionaria. Se
la popolazione è stazionaria, l'età media è determinata dalla distribuzione delle morti per età:
tale distribuzione dipende da una mortalità senile o fisiologica e da una mortalità "anticipata",
cioè dovuta a patologia o accidenti; se le cause di morte anticipata si riducono, l'età media
della popolazione aumenta e l'età di morte tende a distribuirsi normalmente. Nelle popolazioni
di interesse zootecnico non ha significato parlare genericamente di età media; l'età media
dipende essenzialmente dall'azione dell'uomo: a seconda del sesso, della specializzazione
produttiva, della categoria funzionale, etc., l'uomo effettua uno scarto tecnologico, a seguito
del quale l'età media delle varie categorie di animali è una misura della durata della loro vita
produttiva. In zootecnia la conoscenza dell'età media può essere vantaggiosamente sostituita
dalla conoscenza del rapporto di composizione, cioè della incidenza che sulla popolazione
totale hanno le varie categorie produttive.
In una popolazione zootecnica gli animali possono essere funzionalmente classificati sotto
l'aspetto riproduttivo e sotto l'aspetto produttivo. Dal punto di vista riproduttivo, si possono
distinguere i riproduttori, la rimonta e gli animali che non si riproducono (questi ultimi dal
punto di vista genetico non fanno parte della popolazione). Dal punto di vista produttivo,
negli animali da latte femmine produttrici e riproduttrici coincidono, negli animali da carne i
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
riproduttori forniscono gli animali per la produzione, negli animali da lana tutti i soggetti
producono.
Per fecondità si intende la capacità del maschio di produrre spermatozoi e della femmina di
produrre ovocellule: è dunque una caratteristica individuale; per fertilità si intende la
percentuale di ovocellule che esitano in nati vivi: è pertanto dipendente non solo dalla
fecondità maschile e femminile, ma anche dall'interazione maschio-femmina. La prolificità è
il numero di nati nelle femmine multipare. Sterile è l'individuo incapace di avere figli. La
fertilità potenziale è il numero di figli che una femmina può avere durante la sua vita
riproduttiva; la fertilità generale il rapporto fra nati vivi e femmine in età feconda.
La fecondabilità femminile (o percentuale dei non-ritorni) è il rapporto fra femmine rimaste
gravide al primo servizio e femmine inseminate; la inseminabilità è il numero dei servizi
necessari per ottenere in media il concepimento (nel bovino un valore buono è intorno ad 1,61,7: ottimi i valori intorno a 1,25 e negativi i valori superiori a 2).
Per nascita si intende nei mammiferi l'espulsione del feto e negli uccelli la schiusa dell'uovo;
a seconda della durata della gravidanza rispetto al tempo medio di gestazione, si possono
distinguere le nascite in premature, a termine e tardive: fra i fattori che influenzano la durata
della gravidanza si ricordano la razza, l'età della madre, il numero ed il sesso dei feti.
Per cause accidentali o per frode ci può essere una errata attribuzione di paternità (più
raramente l'errata identificazione riguarda la madre): si può ricorrere alle prove di
disconoscimento di paternità basate sui gruppi sanguigni e gli altri polimorfismi ematici
(prove obbligatorie per alcuni libri genealogici) o all'impronta del DNA. Regola base del
disconoscimento di paternità è che, se un allele di un gruppo sanguigno è presente nel
prodotto, esso deve ritrovarsi o nel padre o nella madre: se un allele non si trova né nel padre
né nella madre, si possono disconoscere entrambi i genitori (ovviamente le informazioni che
si possono ricavare da un locus codominante sono superiori a quelle ricavabili da un locus a
dominanza completa); poiché in genere il problema è di accertare la paternità, si può
distinguere un disconoscimento incondizionato ed un disconoscimento condizionato: nel
primo caso il maschio non può essere il padre del prodotto, a prescindere da quale sia la
madre, mentre nel secondo caso il maschio non può essere il padre del prodotto ottenuto da
una femmina che si presume identificata con certezza. In alcuni casi gli alleli non vengono
trasmessi indipendentemente ma sono associati in dei fenogruppi, che vengono ereditati
contemporaneamente. Ricordiamo che si tratta comunque di un disconoscimento di paternità
(o di maternità), non di un accertamento: il risultato finale della prova dice che il riproduttore
in esame può essere il genitore, ma non è detto che lo sia realmente (anche se, considerando
più polimorfismi, le probabilità di individui identici si riducono notevolmente).
Un aiuto supplementare all'identificazione di errate attribuzioni può essere fornito dal
polimorfismo visibile (ad esempio, colore del mantello degli equini) e si può, attraverso
l'impronta del DNA, basata sul polimorfismo di alcune regioni ipervariabili, giungere ad un
vero e proprio accertamento.
La riproduzione animale è stata, nel corso degli anni, regolamentata da differenti leggi. Nel
1929, nell'ambito di una legge organica sulla produzione zootecnica, venivano istituite le
"cattedre ambulanti", con compiti di assistenza e di divulgazione agli agricoltori; venivano
stanziati dei contributi per creare stazioni di monta (per diffondere gli animali miglioratori) e
per istituire i Libri Genealogici; si fissavano le modalità di concorsi, rassegne, valutazioni;
particolare risalto e retribuzione veniva data alla produzione equina. In una legge del 1952 (e
relative norme attuative del 1958) veniva regolamentata la F.A.: le si riconosceva un ruolo nel
miglioramento genetico e la si consentiva solo ai veterinari che avessero seguito un apposito
corso; i veterinari abilitati alla F.A. non potevano essere gestori o titolari di impianti di F.A.;
si fissavano i requisiti degli animali da ammettere alla F.A., dei centri di produzione del seme,
dei centri di F.A. e dei recapiti (posizione intermedia fra produzione di seme e centri di F.A.);
venivano presi in considerazione soprattutto gli aspetti igienico-sanitari. Nella legge del 1963
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Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
che disciplinava la riproduzione bovina si consentiva l'uso di un toro solo se iscritto ad un
Libro Genealogico, con comprensibili effetti negativi sulle razze locali (salvatesi, fino
all'opera di recupero e valorizzazione del germoplasma animale, iniziata fra la fine degli anni
'70 e l'inizio degli anni '80, solo per inosservanza della norma di legge). Nel 1974 venne
modificata ed integrata la legge del 1952, consentendo la F.A. anche ai non-veterinari
("fecondatori laici"). La legge del 1991 (e relativo regolamento del 1994) si limita nella
sostanza a "razionalizzare" la situazione di fatto esistente: fra gli aspetti da ricordare,
l'inseminazione artificiale per le razze autoctone e la disciplina della produzione e raccolta
degli embrioni.
La differente numerosità fra i due sessi può essere indicata attraverso varie misure; si parla
di rapporto di coesistenza indicando il rapporto fra numero di maschi e numero di femmine
("rapporto di mascolinità", cioè m/f) o viceversa ("rapporto di femminilità", cioè f/m): tale
valore è 1 nel caso i due sessi siano ugualmente rappresentati; il rapporto di composizione
indica l'incidenza di un sesso sul totale degli animali, cioè m/(m+f) oppure f/(m+f), ed ha
valore 0,5 nel caso i due sessi siano ugualmente rappresentati; per differenza relativa fra i due
sessi si intende il rapporto fra la differente numerosità nei due sessi ed il totale degli animali,
cioè (m-f)/(m+f) oppure (f-m)/(m+f): se i due sessi sono ugualmente rappresentati la
differenza relativa è 0. Il rapporto fra i sessi può essere distinto in primario (cioè relativo al
concepimento) e secondario (cioè alla nascita): la differenza fra i due è legata alla mortalità
prenatale dei due sessi; il rapporto fra i sessi alla nascita vede un maggior numero di maschi
nella maggior parte delle specie, ad eccezione del cavallo. Esiste anche un rapporto fra i sessi
riproduttivo, influenzato da situazioni naturali (ad esempio il colombo è monogamo) ed
economiche; molta influenza su tale rapporto ha l'inseminazione strumentale.
Per ordine di parto si intende l'ordine numerico della gestazione; una femmina al primo parto
è detta primipara, una femmina con due o più parti multipara; generalmente la mortalità
neonatale è superiore nelle femmine primipare. A seconda del numero di ovuli che, nella
specie considerata, la femmina porta a maturazione in un ciclo estrale si distinguono femmine
monoovulatrici (dette anche unipare) e femmine poliovulatrici (o pluripare); possono anche
aversi, nello stesso parto, fratelli che non sono figli dello stesso padre (superfetazione). Nel
caso che una femmina unipara abbia un parto plurimo i prodotti vengono detti gemelli e
possono, in base alla loro origine, essere distinti in gemelli identici (o monozigotici o
monoovulari) e gemelli fraterni (o dizigotici o biovulari); i gemelli identici sono portatori
della medesima informazione genetica, mentre i gemelli fraterni possono essere considerati
come due fratelli "normali", anche se l'aver ricevuto il medesimo effetto materno li rende più
simili fenotipicamente, con il rischio di considerarli gemelli identici. I gemelli identici sono
spesso utilizzati per scopi sperimentali (a titolo di curiosità, l'armadillo partorisce 4 gemelli
identici).
Da ricordare che, nel bovino, a causa di anastomosi vascolari che consentono il passaggio di
ormoni e cloni cellulari fra i gemelli, il 90% ca. delle femmine gemelle di un maschio è
costituito da intersessi sterili (free-martin): il fenomeno è evidenziabile attraverso lo studio
dei gruppi sanguigni e la dimostrazione del chimerismo; problemi riproduttivi si hanno anche
nel gemello maschio.
La mortalità può essere distinta in prenatale, perinatale (da 24 ore prima a 24 ore dopo la
nascita, essenzialmente dovuta al parto e più pronunciata nelle primipare) e postnatale.
L'aborto è l'interruzione, spontanea o provocata (anche a scopo terapeutico, come nel caso
della gemellarità della cavalla o della tossiemia gravidica della pecora), della gravidanza
prima che il prodotto del concepimento sia in grado di sopravvivere fuori dell'alveo materno;
viene distinto in completo (se sono espulsi il prodotto del concepimento e gli annessi),
incompleto (se il prodotto del concepimento viene espulso e gli annessi no, o viceversa) e
ritenuto (né il prodotto del concepimento né gli annessi vengono espulsi dall'alveo materno,
ma vengono riassorbiti o mummificati). Il prodotto del concepimento può morire in differenti
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stadi: allo stadio blastocistico (cioè prima di completare l'annidamento), allo stadio
embrionale (cioè prima della differenziazione completa di organi e tessuti), allo stadio fetale.
Gli aborti vengono rivelati, se precoci, dal ritorno in calore, o, se tardivi, dai fenomeni
espulsivi.
La mortalità neonatale è quella che colpisce nei primi giorni di vita (in genere si considera la
prima settimana), mentre per mortalità infantile si intende quella che si verifica fino allo
svezzamento. La mortalità dopo lo svezzamento è, nelle specie zootecniche, molto bassa: la
principale causa di morte è la eliminazione per motivi legati alla produzione (l'animale viene
macellato per ottenere la produzione, oppure perché non produce o produce in maniera
antieconomica, oppure per essere sostituito da un soggetto più produttivo).
Le morti possono essere distinte in senili ed anticipate: queste ultime possono essere
ulteriormente divise in patologiche ed accidentali; la distribuzione delle morti senili
rappresenta la lunghezza fisiologica della vita e dovrebbe essere di tipo gaussiano, ma viene
modificata dalle cause di morte anticipata (o per meglio dire, di eliminazione), che negli
animali in produzione zootecnica rendono praticamente nulla la mortalità senile. Per
esprimere le cause di eliminazione si parla di eliminabilità specifica, intendendo la frazione
della popolazione che viene eliminata in un certo periodo per una determinata causa; se si
uniscono tutte le cause di eliminazione si parla di eliminabilità generale; al numeratore si
possono, a seconda dei casi, anche includere gli animali morti.
Collegato al concetto di eliminabilità è quello di conservabilità, che esprime la speranza di
vita in allevamento: è il rapporto fra il numero degli individui che sopravvivono in un
determinato periodo ed il numero degli individui che erano presenti all'inizio del periodo
stesso; anche in questo rapporto gli animali morti possono essere considerati o meno.
La longevità degli animali in produzione zootecnica non può essere confrontata con quella
dell'uomo: si tratta non di una longevità fisiologica, ma di una semplice lunghezza media
della vita in allevamento; pertanto la longevità è un parametro di produzione, non un
parametro biologico. La compenetrazione fra produzione e lunghezza della vita in
allevamento fa sì che ad un maggior livello produttivo corrisponda una minore "longevità"
(più la "macchina-animale" viene "spinta" e meno "resiste", ed inoltre per ottenere un maggior
livello produttivo si scartano più soggetti meno produttivi).
Sotto l'aspetto riproduttivo, ai fini del miglioramento genetico, distinguiamo all'interno di una
popolazione i riproduttori, sia maschi che femmine, dagli altri animali: all'interno di questi
ultimi bisogna ulteriormente individuare la quota destinata alla rimonta, cioè alla sostituzione
dei riproduttori. Dal punto di vista strettamente genetico gli animali che non si riproducono
non fanno parte della popolazione, ma questa distinzione non è applicabile in zootecnia.
Una prima considerazione riguarda la maggior presenza, in uccelli e mammiferi, delle
femmine nella categoria dei riproduttori, legata alla biologia stessa della riproduzione: ciò
implica una maggiore possibilità di scelta nel decidere quali maschi avviare alla riproduzione.
Il rapporto fra rimonta e totale dei nati determina l'intensità di selezione, e viene riferito alla
generazione: ai fini pratici, poiché nelle popolazioni animali le generazioni si sovrappongono,
si preferisce riferire il parametro all'anno (c.d. quoziente annuo di avvicendamento).
Per stimare l'efficienza riproduttiva si utilizzano diverse misure; il problema è
particolarmente sentito nelle specie unipare. Una misura relativa all'intera popolazione è la
natalità, cioè il rapporto fra nati vivi nel corso dell'anno e numero medio delle fattrici presenti
durante l'anno. Per il singolo animale è una misura interessante la frazione di nato (annuale),
proposta dal Pilla: è il rapporto fra giorni di gravidanza nel corso dell'anno e durata media
della gravidanza (permette di aggirare il problema dovuto al verificarsi o meno del parto nel
corso dell'anno considerato); la frazione di nato può essere anche calcolata in carriera,
dividendo la durata della carriera riproduttiva (dal primo concepimento all'ultimo parto) per il
numero dei giorni di gravidanza in carriera (ricavato dal numero dei parti moltiplicato per la
durata media della gravidanza); la frazione di nato in carriera può anche essere corretta per la
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precocità dell'individuo sostituendo all'età del primo concepimento l'età media della razza al
primo concepimento.
La produzione è determinata dal corretto rapporto fra genetica, alimentazione ed ambiente;
l'alimentazione è ovviamente una componente ambientale, ma a motivo della sua importanza
e soprattutto della sua elevata incidenza sui costi viene considerata a parte; nell'ambiente
rientra sia l'ambiente di allevamento propriamente detto che tutte le influenze esterne (clima,
agenti patogeni). Poiché il patrimonio genetico dell'individuo non varia, la produzione può
essere ottimizzata (ma non aumentata) oppure ridotta da ambiente ed alimentazione.
L'economia della produzione può essere valutata sia da un punto di vista fisiologico
(efficienza della trasformazione delle risorse, soprattutto alimentari, in prodotto animale) che
da un punto di vista economico p.d. (differenza fra ricavo e costo).
L'efficienza produttiva, così come quella riproduttiva, può essere studiata a differenti livelli:
a livello di individuo, di popolazione, di azienda, di nazione. Per poter correttamente stimare
l'efficienza produttiva occorrono adeguati controlli di produzione. L'efficienza (o rendimento)
è il rapporto fra l'energia contenuta nel prodotto e quella contenuta nell'alimento: questo
semplice rapporto diviene però complicato se si cerca di tenere conto della energia destinata
al mantenimento. Per gli animali da latte e le ovaiole, teoricamente bisognerebbe tenere conto
dell'energia della produzione e dell'energia destinata al mantenimento (la quale dipende dal
peso vivo); per la produzione della carne il problema è ancora più complicato, perché bisogna
tenere conto dell'efficienza della madre nel produrre i figli (ed eventualmente nello svezzarli)
e dell'efficienza dei figli nel convertire gli alimenti in carne: si possono quindi calcolare indici
relativi solo alla madre, solo ai figli o contemporaneamente alla madre ed ai figli.
LE CATEGORIE FUNZIONALI
Nell'ambito di ogni specie zootecnica si identificano delle categorie funzionali, le quali non
sono necessariamente presenti in ogni tipologia di allevamento; generalmente tutte le
categorie funzionali sono presenti negli allevamenti di tipo più tradizionale o nel "ciclo
chiuso".
BOVINO
Vitello-vitella: bovino sia maschio che femmina dalla nascita fino ad 8-10 mesi di età, con un
peso vivo variabile fra i 180 ed i 230 Kg. Le oscillazioni nel peso dipendono dalla razza
(superiore nelle razze da carne), dal sesso (superiore nei maschi), dal tipo di parto (singolo
o gemellare), dall'attitudine materna (non solo come nutrice), dall'alimentazione (qualità e
quantità), dall'ambiente (inteso come clima, come tecnologia, come condizioni igienicosanitarie). In alcune tipologie di allevamento i vitelli non sono presenti: ad esempio,
aziende che ingrassano dai 250 Kg alla macellazione; in molti casi c'è in azienda un
notevole squilibrio fra i sessi.
Vitellone: bovino sia maschio che femmina di oltre un anno, destinato alla macellazione; l'età
di macellazione dipende dalle richieste del mercato, dalla razza, dal sesso (le femmine
sono macellate prima perché tendono ad ingrassare) dall'alimentazione. In determinate
condizione, come ad esempio in Argentina, si può arrivare alla macellazione a 4 o 5 anni di
età, con pesi analoghi a quelli dei nostri vitelloni di 18 mesi.
Manzo: maschio castrato con un peso vivo superiore ai 350 Kg (questa categoria è in Italia
praticamente scomparsa dal sistema produttivo). Quello che viene indicato dal macellaio
come manzo è o un vitellone o una vacca (o un toro) di scarto.
Manzetta: femmina destinata alla riproduzione, sia ad attitudine carne che ad attitudine latte,
dallo svezzamento (4-6 mesi) alla pubertà (12-15 mesi). L'età di svezzamento (cioè di
passaggio da un'alimentazione a base di latte materno o sostitutivo ad un'alimentazione da
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adulto, a base di foraggi e di complementi concentrati) può ridursi a 2 mesi in allevamenti
intensivi, oppure allungarsi fino ad 8-9 mesi in allevamenti molto estensivi (nei quali al
ritardo dello svezzamento si accompagna in genere un allungamento del periodo di
interparto della madre). Per pubertà si intende la maturità sessuale accompagnata dalla
capacità riproduttiva (in termini potenziali): il primo accoppiamento coincide con la
pubertà solo nel caso di mancato controllo da parte dell'uomo; alla pubertà l'animale non
viene subito accoppiato perché non ha ancora il peso adatto per la gestazione (pericolo di
distocie) e perché con la gravidanza si ha un blocco dello sviluppo della bovina. Per parlare
di pubertà occorre che la produzione di ovuli sia regolare e continua, e che l'utero sia
teoricamente in grado di portare avanti la gravidanza.
Manza: femmina, sia ad attitudine carne che ad attitudine latte, destinata alla riproduzione,
dalla pubertà al primo accoppiamento (18-20 mesi); l'accoppiamento si può avere intorno
ai 16 mesi per le razze da latte, oppure intorno ai 24 mesi in allevamenti estensivi (nei
quali si può verificare, nonostante la bovina sia un animale a ciclo continuo, una certa
stagionalità dell'attività riproduttiva).
Giovenca: femmina dal primo accoppiamento al primo parto (termine poco utilizzato,
generalmente sostituito da manza gravida).
Vacca: femmina che ha già partorito almeno una volta; le vacche vengono poi distinte a
seconda dell'attitudine carne o latte, dell'età, del numero di parti.
Vacca in asciutta: a seconda dello stadio fisiologico, nella produzione di latte si distingue la
vacca in lattazione da quella che non è più in lattazione (in asciutta, a partire dal VII mese
di gravidanza).
Torello: maschio destinato alla riproduzione, da 8-10 mesi fino alla prima monta (14-15
mesi). Si tratta di una categoria poco presente negli allevamenti, perché in genere
concentrati nei centri di valutazione genetica o nei centri di produzione di materiale
seminale.
Toro: maschio intero di oltre 15 mesi adibito alla riproduzione. La carriera riproduttiva del
toro è più corta di quella della vacca, soprattutto dove c'è molto miglioramento genetico.
Negli allevamenti, anche in quelli dove si pratica di routine l'inseminazione strumentale,
c'è in genere un toro adibito alla monta naturale delle "vacche-problema".
Bue: maschio castrato adibito al lavoro o alla produzione di carne (in Italia questa categoria è
praticamente scomparsa, con l'eccezione di alcune zone del Piemonte, Cuneo in
particolare, dove è tradizionale il consumo del bollito di bue grasso di razza Piemontese,
macellato ad 8-9 quintali di peso).
OVINO
Agnello da latte: maschio e femmina alimentati con solo latte (materno o ricostituito) e
macellati a 25-40 giorni, ad un peso vivo di 8-15 Kg (molto richiesto, soprattutto in Italia
centrale, per Natale e per Pasqua). L'allattamento naturale sotto la madre può durare da 1224 ore (cioé il tempo necessario per l'assunzione del colostro) fino a 2 mesi (nel caso
dell'allevamento tradizionale da latte o dell'allevamento da carne): comunque, nel caso
dello svezzamento a due mesi, a partire dai 20 giorni di età l'agnello assume anche altri
alimenti (per gioco o imitando la madre, assume in piccole quantità sia foraggi che
concentrati). L'allontanamento precoce dalla madre è caratteristico degli allevamenti da
latte, nei quali si tende a destinare prima possibile il latte materno per la trasformazione
casearia: il latte prodotto ad inizio lattazione contiene anche del colostro (il formaggio che
ne risulta è più friabile, meno compatto).
Agnello: maschio e femmina dalla nascita alla pubertà (9 mesi).
Agnella: con agnella si intende la femmina destinata alla riproduzione. La componente
femminile destinata alla rimonta è in genere di origine aziendale, mentre i maschi
provengono più frequentemente dall'esterno del gregge.
112
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Agnellone: maschio e femmina da ingrasso, macellati a 3-5 mesi ad un peso vivo di 25-40
Kg. Il peso vivo varia in funzione della razza (le razze da latte crescono più lentamente e
tendono ad ingrassare) e delle richieste del mercato: gli agnelloni sono distinti in leggeri,
semi-pesanti e pesanti. Gli allevamenti che praticano solo l'ingrasso sono molto rari.
Castrato: maschio castrato macellato ad un peso vivo superiore ai 40 Kg (in Italia questa
categoria è praticamente scomparsa).
Pecora: femmina che ha già partorito almeno una volta; le pecore vengono distinte in base
all'età e/o all'ordine di parto. Le pecore che, al termine della lattazione, vengono eliminate
sono dette "pecore di scarto". Nel periodo in cui le femmine non sono "in quiete"
riproduttiva, le pecore sono distinte in "gravide" e "vuote" (dette comunemente "sode").
Ariete o montone: maschio adulto adibito alla riproduzione.
CAPRINO
Capretto da latte: maschio e femmina alimentati con solo latte (o prevalentemente con latte)
e macellati a 20-40 giorni di età.
Caprettone: maschio e femmina macellati a 3-4 mesi di età. Gli allevamenti che effettuano
solo l'ingrasso sono rarissimi.
Capretta: femmina destinata alla riproduzione, dallo svezzamento alla pubertà.
Capra: femmina che ha già partorito almeno una volta.
Becco o caprone: maschio adibito alla riproduzione.
SUINO
Lattone o lattonzolo: maschio e femmina dalla nascita allo svezzamento.
Magrone: maschi castrati e femmine (che oggi non vengono più castrate), destinati
all'ingrasso, dallo svezzamento alla macellazione.
Scrofetta: femmina destinata alla riproduzione che non ha ancora partorito.
Verretto: maschio destinato alla riproduzione che non ha ancora montato.
Scrofa: femmina che ha già partorito almeno una volta.
Verro: maschio adibito alla riproduzione.
EQUINO
Puledro-puledra: maschio e femmina dalla nascita fino a 2-4 anni di età (quando può
cominciare il lavoro).
Castrone: maschio castrato adibito allo sport o al lavoro.
Cavallo: maschio intero adibito allo sport o al lavoro.
Cavalla o giumenta: femmina che ha già partorito almeno una volta.
Stallone: maschio di 3 anni ed oltre adibito alla riproduzione.
STRUTTURA FUNZIONALE DELL'ALLEVAMENTO BOVINO
RIPRODUZIONE
PRODUZIONE
LATTE
FEMMINE
SOTTOPRODOTTO
CARNE
(carne)
in carriera
per rim onta
finita
finita
da trasform are
vacche
vitelli (vitelle)
latte (se da latte)
vitello-vitellone
vitello
fine carriera
manzette
accidenti
manze
eliminazione
giovenche
MASCHI
tori
vitelli
torelli
113
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
STRUTTURA FUNZIONALE DELL'ALLEVAMENTO SUINO
RIPRODUZIONE
in carriera
FEMMINE
scrofe
PRODUZIONE
per rim onta
finita
da trasform are
lattonzoli
maiale
lattone
SOTTOPRODOTTO
scrofette
fine carriera
accidenti
eliminazione
MASCHI
verri
lattonzoli
verretti
L' A T T I V I T A' R I P R O D U T T I V A
BOVINO
Pubertà: 9-11 mesi.
I servizio: 12-24 mesi nel maschio, 16-24 mesi nella femmina.
Lunghezza ciclo: 21 giorni (durata calore: 1 giorno).
Ovulazione: 10-14 ore dopo l'estro.
Lunghezza gestazione: 9 mesi (280-290 giorni).
Maschi/Femmine (in F.N.):1/30 - 1/100.
Parti/anno: 0,8-1,0 (interparto12-14 mesi).
Nati/parto: 1-1,1.
Peso alla nascita: 35-45 Kg.
Età allo svezzamento: 12 ore (allontanamento) - 60 - 90 - 180 giorni (brado).
Calore dopo il parto: 35-60 giorni.
OVINO
Pubertà: 6-8 mesi; il mese di nascita può influire sulla comparsa della pubertà: un leggero
ritardo alla nascita può comportare un marcato ritardo dell'inizio dell'attività riproduttiva.
I servizio: 10-14 mesi nel maschio, 10-12 mesi nella femmina.
Rapporto maschio/femmine: in proporzione variabile da 1/20 - 1/30 fino a 1/50 - 1/60,
secondo il tipo di azienda.
Lunghezza ciclo: 16-18 giorni (durata calore: 1 giorno).
Ovulazione: fine estro.
Lunghezza gestazione: 5 mesi (145-150 giorni).
Maschi/Femmine (in F.N.):1/40 - 1/50.
Parti/anno: 1-1,5 (tre parti in due anni)-2. La pecora Massese presenta una naturale tendenza
alla destagionalizzazione dei calori.
Nati/parto: 1,2-1,8.
Peso alla nascita: 2,5-4 Kg.
Età allo svezzamento: 12 ore (allontanamento) - 30-40 giorni.
Calore dopo il parto: primavera successiva.
CAPRINO
Pubertà: 6-8 mesi.
I servizio: 12-15 mesi nel maschio, 10-12 mesi nella femmina.
Lunghezza ciclo: 16-18 giorni (durata calore: 1 giorno).
Ovulazione: fine estro.
Lunghezza gestazione: 5 mesi (150-155 giorni).
Maschi/Femmine (in F.N.):1/20 - 1/40.
Nati/parto: 2-3.
Calore dopo il parto: primavera successiva.
114
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
SUINO
Pubertà: 7-8 mesi.
I servizio: 8-11 mesi nel maschio, 8-12 mesi nella femmina.
Lunghezza ciclo: 21 giorni (durata calore: 2 giorni).
Ovulazione: 24-48 ore dopo l'inizio dell'estro.
Lunghezza gestazione: 114 giorni.
Maschi/Femmine (in F.N.):1/20 - 1/50.
Parti/anno: 2,4 (interparto 150 giorni).
Nati/parto: 8-12.
Peso alla nascita: 800-1500 g.
Età allo svezzamento: 28 giorni (precoce) - 35 giorni (funzionale) - 60 giorni (naturale).
Suinetti svezzati/anno: 24.
Calore dopo il parto: allo svezzamento.
EQUINO
Pubertà: 10-12 mesi.
I servizio: 3-4 anni nel maschio, 2-3 anni nella femmina.
Lunghezza ciclo: 22 giorni (durata calore: 5-7 giorni).
Ovulazione: 24-48 ore dopo l'inizio dell'estro.
Lunghezza gestazione: 330-340 giorni.
Maschi/Femmine (in F.N.):1/30 - 1/100.
Nati/parto: gemellarità molto rara.
Calore dopo il parto: 8-14 giorni.
POSSIBILITA' DELLA INSEMINAZIONE STRUMENTALE NELLE SPECIE ZOOTECNICHE
volume eiaculato (ml)
concentrazione spermatozoi (milioni / ml)
BOVINO
OVINO
CAPRINO
SUINO
EQUINO
5 - 15
0,8 - 1,2
0,5 - 1,5
100 - 300
30 - 100
150 - 300
800 - 1200
2000 - 3000
3000 - 6000
200 - 300
spermatozoi / eiaculato (miliardi)
5 - 15
1,6 - 3,6
1,5 - 6
30 - 60
15
raccolte / settimana
2-6
7 - 25
7 - 20
2-5
2-6
1500
spermatozoi / dose (milioni)
5
120 - 200
100 - 200
5000
dosi / eiaculato
300
15
15
10
5
dosi / settimana
1000
150
150
30
15
>60
<50
60
65
30 - 50
successi (%)
MODALITA' DI RIPRODUZIONE NELLE SPECIE ZOOTECNICHE
BOVINO
OVINO
E.T.
*
sperimentale
I.S.
SUINO
EQUINO
sperimentale
****
* (difficoltà congelamento)
**
*
Monta controllata (aziendale)
**
***
****
*
Monta controllata (stazione di monta)
-
-
Monta libera (compresi i gruppi di monta)
*
*
***
in poche aree
*
115
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
LA DISTRIBUZIONE E LA CONSISTENZA.
L E P R O D U Z I O N I (1)
Ogni specie animale allevata a scopo zootecnico ha una sua distribuzione caratteristica.
I bovini e gli ovini sono le specie più rappresentate (oltre un miliardo di capi per ciascuna
specie) e, da un punto di vista del tutto generale, i bovini e gli ovini sono anche le specie più
uniformemente distribuite sulla terra (neutralità termica fra 4 e 13 gradi centigradi, ma allevati
da sotto zero ad oltre +30): i bovini prevalentemente in Europa, America ed Asia (per la
disponibilità di foraggi e di cereali), gli ovini in Africa ed Oceania (per la disponibilità di
pascoli); nonostante i bovini e gli ovini siano diffusi in maniera relativamente uniforme, le
loro produzioni nel pianeta sono molto diverse, a motivo dei diversi tipi di allevamento, dei
diversi tipi genetici, delle diverse condizioni ambientali. Le altre specie hanno habitat più
delimitati: i bufali soprattutto nelle aree calde ed umide di Africa ed Asia; i caprini nelle aree
marginali, dove gli altri ruminanti hanno difficoltà; i cavalli nei paesi freddi e temperati, gli
asini nei climi caldi ed aridi, mentre i muli hanno una distribuzione relativamente uniforme; i
camelidi nelle aree desertiche dell'Africa e dell'Asia o ad altitudini elevate (camelidi andini);
le renne nella tundra. Un discorso a parte meriterebbero i suini, la distribuzione dei quali è
fortemente condizionata dai precetti religiosi.
DISTRIBUZIONE DELLE SPECIE ZOOTECNICHE PER AREA GEOGRAFICA - 1992
Bovini
Bufali
Ovini
Caprini
Suini
Equini
Africa
14
2
18
29
2
8
America del Nord e centrale
13
2
3
11
23
America del Sud
22
1
9
4
6
25
Asia
30
96
30
60
52
26
Europa
9
0.5
12
3
20
7
Oceania
3
18
0 ca.
1
1
Russia
9
0.5
11
1
8
10
Totale
100
100
100
100
100
100
Il numero dei bovini nel mondo è stimato in circa 1.300.000.000: fra i paesi con il
maggior numero di capi, l'India (180.000.000), il Brasile (135.000.000), i paesi dell'ex
U.R.S.S. (120.000.000), gli U.S.A. (110.000.000), l'Argentina (55.000.000), la Cina
(50.000.000); in Europa il maggior numero di capi è in Francia (23.000.000), quindi
Germania (21.000.000) e Gran Bretagna (13.000.000). La produzione bovina annuale è di
50.000.000 di tonnellate di carne e di 455.000.000 di tonnellate di latte.
Gli ovini nel mondo sono circa 1.200.000.000: il 30% in Asia, 18% in Oceania ed in
Africa, il 12% in Europa, l'11% in Russia, il 9% in Sud-America e solo il 2% in Nord e
Centro America. Nel bacino del Mediterraneo sono presenti quasi il 14% degli ovini del
mondo e viene prodotto oltre il 54% del latte ovino. L'Australia (30%) e la Nuova Zelanda
(16%) sono i maggiori produttori mondiali di lana. La produzione ovina annuale è di
7.000.000 di tonnellate di carne, di 8.000.000 di tonnellate di latte e di 1.600.000 tonnellate di
lana.
I caprini nel mondo sono 520.000.000: la gran parte è presente in Asia ed Africa
(rispettivamente il 60% ed il 29%); il 4% è presente in Sud-America, il 3% in Centro-Nord
America ed in Europa, l'1% in Russia e meno dell'1% in Oceania. Nel bacino del
Mediterraneo sono presenti il 7,5% ca. dei caprini e viene prodotto quasi il 29% del latte di
capra.
(1)
I dati riportati provengono da diverse fonti (FAO, AIA, ISTAT, CNR), per cui si potrebbero riscontrare alcune incongruenze.
116
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
I suini sono stimati in circa 800.000.000, il 40% dei quali presenti in Cina; in Europa
sono presenti il 20% dei capi (la sola Germania rappresenta il 4,5% del totale mondiale),
quindi il Nord-America (11%) e i paesi dell'ex U.R.S.S. (10%). La produzione annuale di
carne suina è di 72.000.000 di tonnellate.
Per quanto riguarda le altre specie, le consistenze mondiali sono stimate in 150.000.000
per i bufali, 60.000.000 per i cavalli, 40.000.000 per gli asini, 15.000.000 per i muli e
17.500.000 per i cammelli. Non sono disponibili statistiche attendibili per polli, anatre,
tacchini (allevamenti familiari ed allevamenti senza terra delle aree industrializzate).
CONSISTENZA E PRODUZIONE PER AREA GEOGRAFICA - 1992
BOVINI
OVINI
SUINI
capi
carne
latte capi
carne
latte capi
carne
Africa
14
7
3
18
13
16
2
1
America del Nord e centrale
13
26
19
2
3
11
14
America del Sud
22
15
7
9
4
6
3
Asia
30
11
14
30
32
50
52
45
Europa
9
21
34
12
20
33
20
29
Oceania
3
5
3
18
17
1
1
Russia
9
15
20
11
11
1
8
7
Totale 100
100
100
100
100
100
100
100
PRODUTTIVITA' DEL BOVINO PER AREA GEOGRAFICA - 1992
Capi / tonnellata di carne
Capi / tonnellata di latte
Africa
54.5
2.25
America del Nord e centrale
11.9
0.24
America del Sud
35.8
0.93
Asia
70.7
0.92
Europa
10.8
0.24
Oceania
14
0.29
Russia
15
0.46
Media mondiale
25.3
0.49
DISTRIBUZIONE DEI CAPI NELL'UNIONE EUROPEA - 1992 (percentuali più interessantI)
BOVINI
OVINI
CAPRINI SUINI EQUINI BUFALI POLLI
Belgio + Lussemburgo
6%
Danimarca
10%
Francia
26%
10%
10%
12%
19%
24%
Germania
21%
24%
27%
14%
Gran Bretagna
29%
7%
10%
15%
Grecia
9%
47%
Irlanda
Italia
10%
10%
10%
8%
16%
99%
16%
Olanda
13%
Portogallo
Spagna
24%
24%
16%
13%
TOTALE (milioni di capi)
81
101
12
107
1.8
0.08
853
Interessante è un esame dell'andamento della consistenza delle specie zootecniche in
Italia a partire dai dati del primo censimento (1881).
Nel 1881 la consistenza era di 16.000.000 di capi, il 50% dei quali rappresentati da
ovicaprini: il 29% bovini e bufali, il 7% suini ed il 14% equidi (asini, cavalli e muli).
Nel 1908 la consistenza era salita a 25.000.000 di capi, con un incremento anche in
percentuale degli ovicaprini (56%) e dei suini (10%); i bovini ed i bufali, pur essendo passati
117
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
da poco più di 4,5 milioni di capi ad oltre 6 milioni, si erano ridotti percentualmente al 25%
mentre gli equidi, la cui consistenza era rimasta poco oltre i 2.200.000 capi, erano
percentualmente scesi al 9%.
Nel 1930 la consistenza era di 24.000.000: i bovini erano saliti a 7.000.000 (28%)
mentre gli ovicaprini erano scesi da 14.000.000 ad 11.500.000 (48%); stabili gli equidi ed
aumentati da 2.500.000 a 3.200.000 (13%) i suini.
Nel 1950 la consistenza del bestiame allevato in Italia era salita a 26.000.000; i bovini
superavano gli 8.000.000 di capi (31%) e gli ovicaprini, la cui incidenza percentuale non era
variata, i 12.000.000 (38% ovini e 9% caprini); i suini erano oltre 3.500.000 ed anche
percentualmente erano saliti al 15%; gli equini erano scesi di poco sotto i 2.000.000 (7%).
Nel 1960 il patrimonio zootecnico era di 25.000.000: quasi 10.000.000 i bovini (39%),
di cui 3.400.000 vacche da latte; i suini erano saliti a 4.300.000 (17%) e gli ovicaprini scesi a
poco più di 9.500.000 (38%), di cui 8.200.000 ovini e 1.380.000 caprini; gli equini si erano
ridotti a circa il 5% (1.250.000 capi).
Nel 1970 la consistenza del patrimonio zootecnico sfiorava i 27.500.000 capi; in questo
anno approssimativamente i bovini, i suini e gli ovicaprini rappresentavano ciascuno 1/3 del
bestiame: i bovini si erano ridotti di circa 1.000.000 di capi e le vacche da latte erano scese a
3.200.000; i suini erano più che raddoppiati rispetto a 10 anni prima, e sfioravano i 9.000.000
di capi: dei 9.000.000 di ovicaprini circa 1.000.000 erano i caprini (è un periodo di crisi e
trasformazione dell'allevamento ovino, con il superamento della transumanza e la
specializzazione verso la produzione del latte). Gli equini si erano ridotti a poco più di
700.000 mentre i bufali erano triplicati rispetto a 10 anni prima, raggiungendo i 55.000 capi.
Nel 1980 il patrimonio era aumentato ad oltre 28.500.000 capi. Il numero di bovini era
rimasto invariato a circa 8.700.000 capi (31%), ma le vacche la latte si erano ridotte a
3.000.000; invariato anche il numero dei caprini, sempre di poco superiore ad 1 milione di
capi. In aumento i suini e soprattutto gli ovini: i suini raggiungevano quasi i 9.000.000 di capi,
pari al 31,2%, mentre gli ovini erano 9.300.000. In ulteriore declino erano gli equini (480.000
capi) mentre i bufali erano praticamente raddoppiati nel corso del decennio e superavano i
100.000 capi.
Nel 1990 il patrimonio superava i 29.500.000 capi. Il numero di bovini era ridotto a
8.140.000 capi, ed anche il numero delle vacche da latte si era ridotto a 2.960.000.
Praticamente invariata la consistenza dei suini (8.840.000 capi), risultavano incrementati solo
ovi-caprini: quasi 10.850.000 gli ovini e quasi 1.300.000 i caprini (in flessione rispetto alla
metà degli anni '80, in seguito ad una crisi che mantiene sul mercato solo chi è in grado di
trasformare direttamente). Ancora in diminuzione risultavano gli equini (370.000) ed in
flessione anche i bufali (poco sotto i 100.000).
CONSISTENZA DEL PATRIMONIO ZOOTECNICO IN ITALIA (migliaia di capi)
BOVINI
vacche
vacche da latte
SUINI
scrofe
OVINI
pecore
CAPRINI
EQUINI
1975
8 446
3 578
2 883
8 888
746
8 152
6 099
940
540
BUFALI
82
1980
8 734
3 706
3 012
8 928
744
9 277
6 789
1 009
483
103
101
1985
8 908
3 458
3 075
9 169
682
11 293
7 238
1 189
398
1990
8 140
3 294
2 881
8 837
582
10 848
6 551
1 298
372
95
1992
7 602
2 963
2 317
8 307
516
10 403
6 286
1 321
328
103
118
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
DISTRIBUZIONE DELLE SPECIE ALLEVATE IN ITALIA - 1992 (migliaia di capi)
NORD-OVEST
BOVINI
vacche da latte
altre vacche
SUINI
OVINI
CAPRINI
EQUINI
2 970
929
145
3 661
239
116
70
2 299
770
43
2 634
219
60
56
807
212
143
1 136
2 989
134
98
851
249
135
457
1 799
557
75
776
157
180
357
5 188
446
73
7 703
2 317
646
8 245
10 434
1 313
372
(Val d'Aosta, Piemonte,
Lombardia, Liguria)
NORD EST
(Trentino Alto Adige,
Veneto, Friuli Venezia
Giulia, Emilia Romagna)
CENTRO
Marche, Lazio,
Abruzzo)
SUD
(Molise, Campania,
Puglia, Basilicata,
Calabria)
ISOLE
(Sicilia, Sardegna)
TOTALE
Per quanto riguarda la distribuzione approssimativa delle specie sul territorio nazionale,
i bovini risultano distribuiti per il 68% al Nord, l'11% al centro, l'11% al Sud ed il 10% nelle
isole; i suini sono distribuiti al Nord per il 76%, al centro per il 14%, al Sud per il 6% ed il
rimanente 4% nelle isole. Molto differenti sono le distribuzioni degli ovi-caprini: gli ovini
sono presenti al Nord per il 4%, al centro per il 29%, al Sud per il 17% e le isole per il 50%; i
caprini sono rappresentati per il 13% al Nord, il 10% al centro, il 43% al Sud ed il 34% nelle
isole. La distribuzione degli equini è: 34% al Nord, 26% al Centro, 20% al Sud e 20% nelle
isole.
La "zonazione" è una conseguenza di aspetti ambientali più o meno controllabili (clima,
temperatura, piovosità influiscono sulle colture agricole, e quindi sulla disponibilità
alimentare, ma anche direttamente sugli animali), di aspetti umani (cultura, tradizione,
tecnica), di interesse alla produzione (richieste del consumatore), dell'quilibrio con altre
specie animali (un allevamento sottrae spazio ad un altro). Per quanto riguarda i bovini,
Lombardia e Veneto sono le zone di maggior interesse per gli animali da latte, mentre nel
Piemonte è prevalente l'indirizzo carne; Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige hanno un elevato
rapporto animali/superficie agricola (in Valle d'Aosta è elevato anche il rapporto
bovini/abitanti); al centro, la produzione lattiera è concentrata nel Lazio; al Sud il maggior
numero di animali è in Campania e Sicilia. Per i suini, la produzione è concentrata in
Lombardia ed Emilia Romagna, seguite a distanza dal Veneto; in Italia centrale spicca il
contributo dell'Umbria. Per gli ovini, il 35% dei capi è presente in Sardegna; zone di
espansione della razza Sarda sono, in ordine decrescente, Lazio, Toscana, Umbria e Marche.
PRODUZIONE DI LATTE IN ITALIA
(Bovino+ovino+caprino+bufalino) in milioni di quintali
TOTALE
CONSUMO DIRETTO
TRASFORMAZIONE
91
1975
35
57
105
1980
38
67
108
1985
38
71
113
1990
35
78
1992
33
77
110
119
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
PRODUZIONE DI CARNE IN ITALIA in migliaia di quintali
BOVINA
SUINA
OVICAPRINA
EQUINA
POLLAME
CONIGLI E
SELVAGGINA
1975
8 114
5 492
438
107
8 329
1 342
1 433
1980
8 930
7 980
650
170
10 140
1 840
1 675
FRATTAGLIE
1985
9 333
9 017
470
119
9 963
2 004
1 803
1990
8 912
9 761
536
144
11 040
2 029
1 846
1992
9 451
10 004
560
200
10 947
2 250
1 917
L'interpretazione dei dati statistici relativi alla carne è resa difficile dal fatto che le
differenze non dipendono solo dal numero di capi, ma anche dal mutare dell'età e dei pesi di
macellazione; nel settore bovino, l'aumento della produzione carne è anche conseguenza della
macellazione forzata di vacche da latte. Fattori contingenti possono essere profilassi,
risanamenti, epizoozie, etc.. La produzione di vitelli da latte è praticamente scomparsa. Nei
suini, si nota un aumento della produzione di carne accompagnato da una riduzione sia del
numero di capi che del numero delle scrofe; il settore sta risentendo negativamente sia delle
aperture con i paesi dell'Est che dei vincoli di carattere ecologico. Negli ovini, l'aumento della
produzione di carne è conseguenza dell'aumentato peso alla macellazione degli agnelli delle
razze da latte: il settore carne è infatti in netta flessione. L'aumento della selvaggina è in
relazione all'interesse per le aziende collinari e le aree boscate.
Il latte bovino prodotto in Italia copre il 55-60% della richiesta interna. Il consumo di
carne bovina risente particolarmente, a causa del costo del prodotto, del periodo di recessione:
è un fenomeno verificatosi anche negli altri periodi di crisi economica; nonostante i tentativi
di orientare il consumatore attraverso campagne pubblicitarie, le carni più consumate sono
quelle di suino e bovino (l'inversione dei consumi a vantaggio di quest'ultima carne è molto
recente, e ci allinea alle preferenze nelle altre nazioni europee).
CONSUMO DI CARNE IN ITALIA in migliaia di quintali
BOVINA
SUINA
OVICAPRINA
EQUINA
POLLAME
CONIGLI E
SELVAGGINA
1975
12 425
8 594
745
597
8 801
1 673
1 684
1980
14 384
11 919
805
620
10 290
2 080
2 102
1985
14 339
13 547
861
641
10 243
2 203
2 157
1990
15 338
15 555
1 008
746
11 151
2 279
2 213
1992
14 675
16 419
1 014
762
11 143
2 461
2 263
FRATTAGLIE
IMPORTAZIONE DI CARNE IN ITALIA in migliaia di quintali
1975
1980
1985
1990
1992
BOVINA
3 205
8 503
5 073
4 576
4 785
SUINA
2 341
3 318
4 129
5 040
5 822
OVICAPRINA
126
115
191
226
246
POLLAME
133
106
196
381
395
IMPORTAZIONE DI BESTIAME IN ITALIA in m igliaia di capi
1975
1980
1985
1990
1992
BOVINI
2 304
2 350
2 406
1 973
1 848
SUINI
570
1 137
963
1 880
1 741
OVICAPRINI
1 324
1 263
1 809
2 386
2 535
EQUINI
221
180
201
182
171
120
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
In base alla consistenza, le razze bovine allevate in Italia possono essere distinte in:
allo stato di reliquia (<1.000 capi): Agerolese, Burlina, Cabannina, Calvana, Garfagnina,
Montana, Pisana, Pontremolese, Pustertaler;
allo stato di semi-reliquia (>1.000 e <5.000 capi): Cinisara, Modenese, Reggiana (all'interno
del consorzio del Parmigiano Reggiano, è stato riconosciuto un ulteriore marchio alle
forme prodotte con latte di vacca Reggiana), Valdostana pezzata nera;
a ridotta consistenza (>5.000 e <25.000 capi): Pezzata rossa d'Oropa, Pinzgau, Rendena,
Romagnola, Sardo-Modicana, Valdostana Castana, Valdostana pezzata rossa;
a discreta consistenza (>25.000 e <100.000 capi): Grigia alpina, Maremmana, Podolica;
a buona consistenza (>100.000 capi): Chianina, Marchigiana, Modicana, Piemontese
(quest'ultima razza è stata particolarmente colpita dell'alluvione del 1994);
a grande diffusione: Bruna Alpina, Pezzata Rossa Italiana, Frisona.
CONSISTENZA DELLE RAZZE BOVINE IN ITALIA (m igliaia di capi)
Bruna
Frisona
Pezzata Rossa
Piemontese
Romagnola
Chianina
Marchigiana
Maremmana
Podolica
1975 1980 1985 1990
860
1 280 1 110
930
3 290 3 490 3 190 3 250
390
370
440
510
310
510
580
630
20
130
18
15
130
370
180
150
580
220
10
60
40
80
140
La consistenza della Maremmana e quella della Podolica non impensieriscono, in
quanto si tratta di animali che non hanno concorrenza da parte di altre razze (allevamenti
estensivi, allevamenti promiscui, allevamenti in aree demaniali, in aree gravate da uso civico,
etc.); nella Podolica viene praticata una forma di alpeggio (estate in altura e "discesa a
marina" in inverno).
Per le razze ovine, le razze da latte con 5.859.000 capi (Altamurana con 8.000 capi,
Comisana con 700.000 capi, pecora delle Langhe con 27.000 capi, Leccese con 184.000 capi,
Massese con 185.000 capi e Sarda con 4.755.000) rappresentano in Italia il 50% circa dei capi
e l'84% circa dei 6.988.000 capi iscritti al libro genealogico. Le razze da carne con 424.000
capi (Appenninica con 190.000 capi, Barbaresca con 43.000 capi, Bergamasca on 60.000
capi, Biellese con 56.000 capi, Fabrianese con 25.000 capi e Laticauda con 50.000 capi)
rappresentano il 6% degli animali iscritti al Libro Genealogico. Le razze merinizzate (Gentile
di Puglia con 365.000 capi e Sopravissana con 340.000 capi), nelle quali l'attitudine carne è
per ragioni di mercato diventata la sola fonte di reddito, rappresentano il 10% degli animali
iscritti. A parte la Sarda e la Comisana, le altre razze si sono prevalentemente diffuse in
prossimità della loro area di origine. Lungo tutto l'arco alpino sono diffuse delle popolazioni
locali. La tendenza demografica è all'aumento nell'Italia centrale e, in minor misura, in quella
settentrionale: stazionario il numero di capi nelle isole ed in leggera diminuzione quello
nell'Italia meridionale. Solo una parte degli animali iscritti al libro genealogico è sottoposta ai
controlli funzionali, e solo una parte dei controlli funzionali sono effettivamente utilizzati per
il miglioramento genetico.
121
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
Per le capre, sono iscritti al Libro Genealogico 532.000 capi, la metà circa dei quali di
razza Sarda (267.000). Le altre razze sono, in ordine decrescente di diffusione, la Garganica
(107.000 capi), la Maltese (48.000 capi), la Saanen (42.000 capi), la Camosciata delle Alpi
(40.000 capi), la Jonica (19.000 capi) e la Girgentana (9.000 capi). Anche nei caprini, lungo
l'arco alpino, sono presenti popolazioni locali e, in Italia centrale, popolazioni eterogenee.
Recentemente è stata proposta la razza Derivata di Siria. La Saanen, introdotta
massicciamente in passato, ha dato risultati negativi per la cattiva qualità del latte. In linea
generale, l'allevamento è di tipo più tradizionale al Sud, mentre impiega maggiore tecnologia
nell'Italia centro-settentrionale. La tendenza demografica è all'aumento soprattutto nell'Italia
centrale ed in minor misura in quella insulare: stazionario il numero di capi nell'Italia
meridionale mentre è in marcata flessione il numero di capi nell'Italia settentrionale.
122
Etnografia e demografia zootecnica - A.A. 1994-'95
INDICE
IL DNA .................................................................................... pag.
3
La duplicazione del DNA - La divisione funzionale del DNA - Il codice genetico - Le
mutazioni - L'RNA - La trascrizione - La traduzione - La maturazione dell'RNA L'espressione dei geni - Gli introni, gli esoni e l'evoluzione - La biologia molecolare e
lo studio dell'evoluzione filogenetica - I geni homeobox
La domesticazione .................................................................... "
17
La domesticazione dell'ovino - La domesticazione della capra - La domesticazione
del bovino - La domesticazione del suino - La domesticazione del cavallo - La
domesticazione del cane - La domesticazione del gatto - La domesticazione del
coniglio - La domesticazione del lama e dell'alpaca - La domesticazione della renna La domesticazione dell'elefante - La domesticazione della cavia - La domesticazione
del cammello e del dromedario - La domesticazione del bufalo - La domesticazione
dello yack - La domesticazione del gallo - La domesticazione del colombo - La
domesticazione della gallina faraona - La domesticazione dell'oca - La
domesticazione del tacchino - La domesticazione della carpa - La domesticazione
del pesce rosso - Le conseguenze della domesticazione
La genetica di popolazione ........................................................ "
37
Il controllo dell'equilibrio genetico - La selezione - Le mutazioni - Le migrazioni - La
deriva genetica - Il polimorfismo
La parentela .............................................................................. "
94
La consanguineità ..................................................................... "
96
Elementi di demografia zootecnica ........................................... "
106
Le categorie funzionali .............................................................. "
111
L'attività riproduttiva .................................................................. "
114
La distribuzione e la consistenza. Le produzioni ....................... "
116
Questi appunti, preparati da Camillo Pieramati, sono stati ricavati da lezioni svolte da diversi Docenti
durante i corsi di "Etnografia e demografia zootecnica" degli AA. AA. 1991-'92, 1992-'93, 1993-'94 e
1994-'95.

Copyright
1991-1995 Camillo PIERAMATI, Carlo RENIERI, Bruno RONCHI & Maurizio
SILVESTRELLI.
E' CONSENTITA LA LIBERA RIPRODUZIONE DI QUESTI APPUNTI MEDIANTE COPIA
FOTOSTATICA PURCHE' IL MATERIALE CONSERVI L'INDICAZIONE DEL COPYRIGHT E LA
RIPRODUZIONE NON ABBIA FINE DI LUCRO.
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