La responsabilità di sistema e le `mele` di Abu Ghraib

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La responsabilità di sistema e le `mele` di Abu Ghraib
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CLELIA BARTOLI
La responsabilità di sistema e le ‘mele’ di Abu Ghraib
ABSTRACT:
Philip Zimbardo, ideatore del celebre esperimento carcerario di Stanford e perito della difesa
nel processo sugli abusi di Abu Grahib, approfondisce il concetto di responsabilità di sistema.
Egli accusa il diritto penale di anacronismo rispetto alle scoperte delle scienze sociali,
trascurando la conclamata e poderosa influenza dell’ambiente sull’individuo.
La responsabilità di sistema sembrerebbe sollevare gli individui dalla responsabilità
personale, configurandosi come alibi per la coscienza, scusante per atti atroci, negazione della
stessa libertà umana, decretando un determinismo assolutorio e rassegnato ai mali del mondo.
Tale concetto, smascherando il paradigma delle “mele marce”, serve invece a responsabilizzare maggiormente i vertici delle organizzazioni, i cosiddetti architetti di sistema.
Philip Zimbardo, author of the well-known Stanford prison experiment and defense expert in
the Abu Grahib abuse trial, elaborates on the concept of Systemic Responsibility. In his work,
he points his finger at the anachronism of the criminal law system especially when compared
with the insights of Social Sciences, and remarks the unquestionable influence of environment
on individuals.
Systemic Responsibility seems to remove man from individual responsibility, while casting
itself as an alibi for consciences, an excuse for atrocious acts, a negation of human freedom
itself and deriving all that is ill in the world to an irreconcilable determinism.
Instead, the notion of Systemic Responsibility, unmasking the ‘rotten apples’ paradigm, helps
the assumption of responsibility of those who at the top of the power hierarchy in
organizations: the system’s architects.
KEYWORDS:
Responsabilità, responsabilità di sistema, responsabilità individuale, tortura, Abu
Ghraib, diritto penale, esperimento carcerario di Stanford, psicologia sociale,
deumanizzazione, istituzione totale, mele marce, determinismo
Responsibility, Systemic Responsibility, Individual Responsibility, torture, Abu Ghraib,
crown law, Stanford prison experiment, Social Psychology, dehumanization, total
institution, rotten apples, determinism
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© 2011, Diritto e questioni pubbliche, Palermo.
Tutti i diritti sono riservati.
CLELIA BARTOLI
La responsabilità di sistema e le ‘mele’ di Abu Ghraib
1. Dilemmi morali e responsabilità di sistema – 2. Le mele marce di Abu Ghraib – 3.
L’esperimento carcerario di Stanford – 4. Il processo al cesto delle mele – 5. La responsabilità di sistema presuppone una visione determinista dell’agire umano?
L’individuo è la pietra angolare della sfera operativa praticamente in tutte
le principali istituzioni occidentali della medicina, dell’istruzione, del
diritto, della religione e della psichiatria. Queste istituzioni contribuiscono
collettivamente a creare il mito secondo cui gli individui avrebbero sempre il controllo del loro comportamento, agirebbero in base al loro libero
arbitrio e per scelta razionale e sarebbero quindi personalmente responsabili di tutte le loro azioni. […] I fattori istituzionali sono considerati poco
più di un complesso di circostanze estrinseche di rilevanza minima1.
1. Dilemmi morali e responsabilità di sistema
Uno dei dilemmi morali più classici riferibili ad un caso tragico riguarda
la giustificabilità o meno di torturare un terrorista allo scopo di ricavare
informazioni utili alla salvaguardia di vite umane.
Ci si chiede se sia moralmente accettabile e giuridicamente ammissibile accantonare i diritti fondamentali di un uomo affiliato ad un gruppo
terrorista, somministrando dolore fisico o umiliazione, se facendo ciò si
possa prevenire un sanguinoso attentato.
Nella sua cruda astrattezza il dilemma pone problemi anche al convinto sostenitore dell’inalienabilità dei diritti umani che si troverà su un
piatto della bilancia parecchie vite umane ignare e innocenti e sull’altro
l’incolumità fisica di un criminale.
Pur riconoscendo la legittimità e l’utilità di discutere tali situazioni
ipotetiche, vorrei trasportare questo dilemma dal laboratorio della mente
1
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2008 [The Lucifer Effect. Understanding how Good People Turn Evil, Random
House, New York 2007], pp. 459-460.
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alla realtà concreta, ovverosia vorrei discutere quanto accadde nel carcere
iracheno di Abu Ghraib gestito da forze statunitensi, dove si presentò
questo dilemma e si optò per utilizzata la tortura nel condurre gli interrogatori dei presunti terroristi. L’analisi di un caso concreto penso sia utile a
perfezionare il modello teorico, aggiungendo elementi di complessità
circa il tema della libertà e della responsabilità.
Tuttavia intendo anche denunciare il fatto che l’utilizzo di questo dilemma morale da parte degli uomini impegnati nella guerra al terrorismo
è servito a giustificare torture atroci e assolutamente inutili. Roger Brokaw, un sergente specializzato negli interrogatori che ha prestato servizio
ad Abu Ghraib per sei mesi, afferma che probabilmente solo un 2% dei
detenuti irakeni potesse avere a che fare con il terrorismo, eppure ad un
certo punto si impose un ragionamento: “per salvare la vita dei nostri
occorre torturare i prigionieri”.
«Il nocciolo della questione era: “Stiamo salvando la vita ai nostri soldati”
quindi occorre fare tutto quanto è possibile. Ad un certo punto sentii la frase:
“Ci stiamo per togliere i guanti”. Il colonnello Jordan la disse una notte durante uno dei nostri meeting. “Ci stiamo togliendo i guanti. Sapete, dobbiamo mostrare a questi – riferendosi ai detenuti – chi è che comanda»2.
Il dilemma morale riferito a questo genere di casi tragici nella sua
formulazione canonica prevede che l’individuo a cui si impone la scelta:
– abbia piena discrezionalità.
– non subisca condizionamenti esterni, non sia vittima di pregiudizi e
credenze erronee in merito.
– abbia certezza che la persona da torturare sia davvero un terrorista e
che sia in possesso delle informazioni fondamentali alla salvezza di vite in
pericolo.
– che l’infliggere sofferenza ad un altro essere umano non abbia conseguenze psicologiche su se stessi.
Nella realtà probabilmente nessuna di queste condizioni è soddisfatta, ma
nella retorica spregiudicata della guerra al terrore l’esperimento mentale
ha potuto fungere da potente giustificazione alla violazione della Convenzione di Ginevra e quindi alla diffusione di pratiche di abuso, tortura e
vessazione dei prigionieri politici. È ovvio che tale uso improprio del
2
Intervista a Roger Brokaw contenuta nell’inchiesta di “Frontline” The Torture Question,
consultabile sull’archivio online della testata: www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/torture/interviews/brokaw.htlm.
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dilemma morale non è imputabile ai filosofi che l’hanno concepito. Questi
avevano in mente un ben più nobile scopo: si premuravano di stabilire se
vi fosse una gerarchia ordinata di valori morali o se si dovesse
accondiscendere ad un politeismo dei valori, per cui valori ultimi, quando
contrapposti, tragicamente si escludono a vicenda.
In ogni modo le vicende di Abu Ghraib possono servire da monito ad
una facile applicazione del modello teorico dei dilemmi morali alla realtà.
Ritengo, infatti, che la pericolosità della traduzione in concreto dipenda
dal fatto che il modello espunge troppe variabili che nella realtà si danno e
inoltre tende a caricare l’individuo di tutta la responsabilità, distraendo
l’attenzione dal sistema che ha contribuito al verificarsi del tragico caso.
Mio obiettivo è presentare le tesi di Philip Zimbardo e di altri psicologi sociali che lamentano una discrasia dell’armamentario di concetti
morali e giuridici correntemente utilizzati rispetto ai risultati delle loro
ricerche. In particolare essi criticano l’uso ingenuo e fuorviante fatto dai
giuristi dell’idea di responsabilità individuale, tralasciando l’importanza
dell’influenza del contesto sulla persona e mancando del concetto di responsabilità di sistema:
L’attività del sistema giudiziario penale non dovrebbe continuare a farsi
guidare da illusioni sulla coerenza del comportamento indipendentemente
dalle situazioni, da concetti erronei sull’influenza delle disposizioni nell’indirizzare il comportamento o dal disinteresse per la logica delle interazioni
“persona/situazione” o addirittura da confortanti ma fantasiose nozioni di
libero arbitrio, proprio come non si fa guidare da nozioni un tempo comuni
riguardanti la stregoneria o la possessione diabolica3.
La difficoltà tanto del diritto quanto del discorso morale ad accogliere il
concetto della responsabilità di sistema dipende dal fatto che esso sembra
costituire un pericoloso attentato alla libertà individuale, perno della gran
parte delle teorie etiche e giuridiche dell’Occidente, oltre che una delle
idee più rassicuranti per la tenuta psicologica personale.
Per quanto sia difficile da provare la sussistenza del libero arbitrio, viene
di sovente segnalato che sia meglio assumerlo, poiché se non ci si auto-
3
L. ROSS, D. SHESTOWSKY, Contemporary psychology’s challenges to legal theory and
practice, in “Northwestern University Law Review”, 97, 2003, p. 1114, (come citato in P.
ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., p. 461). Si esprime una simile preoccupazione anche nei
seguenti articoli: J. HANSON, D. YOSIFON, The situation: an introduction to the situational
character, critical realism, power economics, and deep capture, in “University of Pennsylvania
Law Review”, 129, 2003, pp. 152-346; C. HANEY, Making law modern: toward a contextual
model of justice, in Psychology, Public Policy and Law, 8, 2002, pp. 3-63.
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rappresentasse come individui liberi e responsabili si rischierebbe di scivolare
nel nichilismo, nella totale rassegnazione, se non in un bieco cinismo.
Tuttavia il concetto di responsabilità di sistema elaborato da Zimbardo non annulla la responsabilità individuale ma costruisce un discorso
più complesso sulla libertà dell’uomo e sulla sua vulnerabilità.
2. Le mele marce di Abu Ghraib
Il 28 aprile 2004, il programma televisivo 60 Minutes II del canale americano
CBS rende pubbliche le immagini delle torture di Abu Ghraib. A seguito di
ciò i media di tutto il mondo diffondono le foto raccapriccianti, scattate e
diffuse dagli stessi torturatori come goliardico trofeo della loro missione. Le
foto mostrano: detenuti iracheni incappucciati con fili elettrici collegati alle
parti più sensibili del loro corpo; cataste di corpi nudi in cima ai quali stanno
dei soldati dall’espressione orgogliosa e soddisfatta; uomini terrorizzati, privi
di vestiti e di qualunque altro riparo, minacciati da cani aizzati dalle guardie;
detenuti costretti a inscenare rapporti omosessuali per il compiacimento dei
loro carnefici; un uomo trascinato al guinzaglio come un cane; una salma
straziata dalle torture vicino alla quale posa una soldatessa sorridente che
mostra il pollice alzato in segno di ammiccante approvazione; e così molte
altre macabre rappresentazioni di quanto avveniva tra le mura della prigione
irachena ad opera del contingente statunitense.
Le immagini colpirono per la loro crudezza, per quella curiosa vocazione dei torturatori non solo alla crudeltà, ma alla sua spavalda ostentazione, a molti parvero la prova più evidente del fallimento della proclamata intenzione anglo-americana di portare libertà e democrazia in Iraq.
Fecero sorgere inquietanti interrogativi tanto politici quanto esistenziali,
ma in primo luogo l’opinione pubblica e le autorità chiesero di scoprire di
chi fosse la colpa, chi avesse la responsabilità di quegli abusi.
Le prime dichiarazioni, rilasciate dalle alte cariche dell’esercito e della
difesa americana prima ancora di un qualsiasi accertamento, sostennero
unanimemente che fosse opera di un manipolo di canaglie, pochi individui
deviati in un’organizzazione al 99,9% sana e irreprensibile. Il generale di
brigata Mark Kimmit, intervistato durante la trasmissione che rese pubbliche le foto, dichiarò:
«Francamente, credo che siamo tutti delusi per le azioni commesse da pochi […] Devo dire qualcosa al popolo americano: non giudicate il vostro
esercito sulla base delle azioni di pochi» 4.
4
Cfr. ARCHIVIO CBS: Abuse Of Iraqi POWs By GIs Probed. 60 Minutes II Has
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A ratifica del paradigma ufficiale, nella sua prima dichiarazione
sull’accaduto, George W. Bush in un’intervista del 5 maggio ad Al-Hurra,
una tv satellitare in lingua araba, afferma:
«Io ho piena fiducia nel Segretario della Difesa, e ho ugualmente fiducia nei
comandanti impegnati in Iraq, poiché loro, loro insieme alle nostre truppe,
stanno facendo un grande lavoro per il bene della popolazione irakena.
Troveremo quei pochi che hanno voluto provare a fermare il progresso verso
la libertà e la democrazia»5.
Lo stesso paradigma delle poche ‘mele marce’ fu ribadito nel processo e
nel verdetto: a essere imputati per quanto accaduto saranno solo sette
individui, accusati di essere gli attori materiali degli abusi, mentre il sistema e l’apparato dirigenziale ne usciranno probi e immuni.6
Se questa però fu la conclusione dell’iter giudiziario, non lo fu altrettanto per alcune agenzie indipendenti che hanno ricostruito il contesto ove
sono avvenuti i fatti incriminati. Molto esplicito a riguardo è il rapporto di
Human Rights Watch, dal significativo titolo: La tortura la fa franca.
«Mentre ci sono ovviamente notevoli ostacoli politici che impediscono di
indagare su un segretario della difesa in carica e altri funzionari di rango elevato,
la natura dei crimini è talmente grave e le prove di illecito sono ormai così
numerose che gli Stati Uniti commetterebbero un’abdicazione alla propria
responsabilità se non proseguissero nelle indagini a livelli superiori. Se non verrà
fatta assumere la responsabilità a coloro che hanno delineato o autorizzato le
politiche illegali, tutte le proteste di ‘disgusto’ di fronte alle foto di Abu Ghraib
avanzate dal presidente George W. Bush e altri non hanno alcun significato»7.
Ma il paradigma delle ‘mele marce’ non è apparso adeguato nemmeno a diverse
inchieste commissionate dal Pentagono riguardanti sia Abu Ghraib che altri carceri
militari americani in Iraq, in Afghanistan e a Cuba. Dal rapporto Taguba, dal rapporto Fay/Jones e da quello Schlesinger emergono gravi problemi organizzativi,
nonché atti omissivi e commissivi dei vertici che non hanno evitato che si verificassero tali abusi e che, addirittura, talvolta li hanno incoraggiati.
Exclusive Report On Alleged Mistreatment, by Rebecca Leung (April 28, 2004)
http://www.cbsnews.com/stories/2004/04/27/60II/main614063.shtml.
5
Cfr. ARCHIVIO PBS: Mr. Bush Interview on Al-Hurra (May 5, 2004)
http://www.pbs.org/newshour/bb/white_house/jan-june04/bush-alhurra_5-5.html.
6
Gli imputati riceveranno le seguenti condanne: Charles Graner ha avuto 10 anni di
detenzione; Chip Frederick 8 anni; Lynndie England è stata condannata a 3 anni; Jeremy
Sivits ha avuto 1 anno; Javal Davis e Sabrina Harman 6 mesi; Megan Ambhul è stata assolta.
7
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., p. 560.
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Ma soprattutto le conclusioni del processo non convincono Philip
Zimbardo che nel suo testo L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? prova a
rimbastire un processo ipotetico con categorie diverse da quelle comunemente usate dal diritto penale, portando sottoaccusa non già solo degli
individui, ma il Sistema stesso entro il quale gli abusi sono stati perpetrati.
«Accuserò alcuni membri della catena di comando militare di aver abusato della
propria autorità rendendo operativa la tortura a Guantánamo Bay e poi esportato
quelle tattiche a Abu Ghraib. Essi hanno autorizzato la Polizia Militare e i servizi
segreti militari a usare quelle tattiche di tortura – con denominazioni sterilizzate –
e non hanno assicurato una leadership, un controllo, una responsabilità e un addestramento specifico necessari ai riservisti del turno di notte al Tier 1A. Sosterrò
che, pertanto, sono colpevoli di reati di commissione e di omissione.
Intentando un ipotetico processo al Sistema metto sul banco degli imputati il
presidente Bush e i suoi consiglieri, per il ruolo che hanno avuto nel ridefinire
la tortura come una tattica accettabile, necessaria alla loro onnipresente e nebulosa guerra al terrore. Saranno inoltre accusati di aver privato i ribelli catturati
e tutti gli ‘stranieri’ sotto arresto militare delle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra.
Il segretario della difesa Rumsfeld è imputato di aver creato i centri di interrogatorio dove i ‘detenuti’ sono stati sottoposti a una serie di ‘abusi’ estremamente coercitivi con il dubbio scopo di ottenere confessioni e informazioni.
Intendo dimostrare che il Sistema, da Bush a Cheney a Rumsfeld giù giù lungo
la gerarchia di comando, ha gettato le basi per quegli abusi. Se così è, noi,
come società democratica, dobbiamo impegnarci per impedire futuri abusi
insistendo perché il Sistema modifichi le caratteristiche strutturali e le
procedure operative dei suoi centri di interrogatorio»8.
3. L’esperimento carcerario di Stanford
L’ipotesi da cui parte il dottor Zimbardo per istruire il suo processo al
Sistema è la seguente:
«i ‘cattivi sistemi’ creano ‘cattive situazioni’, che creano ‘mele marce’,
che creano ‘cattivi comportamenti’, anche in brave persone»9.
Lo psicologo intende sostituire la metafora della ‘mele marce’ con quella
dei ‘cattivi cestini’ all’interno dei quali facilmente la frutta si guasta. Le
8
9
Ivi, pp. 528-529.
Ivi, p. 611.
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persone sarebbero generalmente molto influenzabili, esposte alla forza
trasformativa che gli ambienti esercitano su di loro, pertanto la responsabilità dell’accaduto non dovrebbe ricadere esclusivamente su coloro che
hanno materialmente commesso gli illeciti, ma occorrerebbe imporre ai
sistemi una revisione o, per restare nella metafora, sarebbe necessario
intrecciare nuovamente i cestini in modo tale che non facciano marcire
ancora altre volte ciò che contengono.
Occorre precisare che l’ipotesi da cui parte lo studioso italoamericano
non è una sua mera congettura, ma è la conclusione tratta dal celebre
esperimento di cui è stato autore nell’estate del 1971: l’esperimento carcerario di Stanford.
Zimbardo, figlio di emigranti siciliani, cresciuto nel Bronx, aveva
sviluppato una forte curiosità verso quei contesti in cui si genera violenza.
Ebbe quindi la singolare idea di trasformare i sotterranei del dipartimento
in cui lavorava in una simil-prigione che sarebbe valsa come ambientazione per il suo esperimento.
Tramite un annuncio sul giornale vennero reclutate le persone che
avrebbero dovuto interpretare per due settimane i ruoli di guardie e detenuti all’interno di quel carcere fittizio: i partecipanti avrebbero ricevuto 15
dollari al giorno (cifra congrua per uno studente agli inizi degli anni ’70) a
patto di non abbandonare l’esperimento prima della sua conclusione.
Dopo approfonditi test e colloqui venne selezionato un gruppo di 24 ragazzi accomunati dall’essere: studenti universitari di sesso maschile, provenienti da famiglie borghesi, con parametri psicologici che indicavano
salute e stabilità, nessun precedente di violenza e un quoziente intellettivo
leggermente superiore alla media.
L’attribuzione dei ruoli avvenne per sorteggio. Le guardie non ricevettero
nessun particolare addestramento, venne detto loro semplicemente che
dovevano assumersi un ruolo di responsabilità e potenzialmente rischioso, che
loro compito era far rispettare le regole e l’ordine (ma non gli venne detto
quali erano le regole), inoltre fu proibito loro di utilizzare la violenza fisica.
I detenuti erano stati informati prima di intraprendere quell’esperienza
che per il tempo dell’esperimento avrebbero dovuto rinunciare alla privacy, che sarebbero stati sospesi alcuni loro diritti civili e che avrebbero
potuto subire qualche torto. Essi avevano dato il loro consenso a condizione che la loro situazione fosse monitorata e la loro incolumità preservata. Un’equipe di ricercatori avrebbe infatti assistito giorno e notte
all’esperimento attraverso le telecamere e i microfoni posizionati in ogni
ambiente della prigione simulata di Stanford.
Il primo giorno, una domenica d’agosto, gli studenti iniziarono a
prendere confidenza con i ruoli che gli erano stati assegnati senza
eccessiva convinzione, consci che si trattava di un gioco di simulazione.
Le guardie sembrarono entrare più rapidamente nella parte, mentre ai
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detenuti servì una sorta di disciplinamento, che peraltro fu piuttosto breve.
Alle due e mezza della prima notte le guardie fecero un atto di arrogante autoritarismo: svegliarono tutti i prigionieri per fare una conta, la
prima di tante, che doveva servire a memorizzare i numeri con cui i prigionieri venivano identificati e nominati.
La mattina di lunedì, il secondo giorno, scoppiò una rivolta dei carcerati che fu severamente sedata: le guardie spogliarono i detenuti, li spruzzarono con un estintore, tolsero le brande dalle celle e isolarono i capi. Un
detenuto, punito con l’isolamento nel ‘buco’ – una cella buia e claustrofobica –, dette segnali di cedimento psicologico.
Martedì era la giornata dedicata alle visite. Il carcere venne pulito e i
detenuti furono lavati, rasati e ben nutriti. I parenti e gli amici dovettero
attendere una mezz’ora, poi venne detto loro che potevano entrare solo
due persone e per un massimo dieci minuti: molti si lamentarono, ma tutti
si attennero alle regole.
Questo stesso giorno si diffuse la voce che si stava preparando un attacco al carcere per liberare i detenuti. Sia l’equipe di ricercatori che le
guardie entrarono in fibrillazione, cercando affannosamente una soluzione
per sventare l’imminente pericolo. Alla fine della giornata si comprese
che la voce riguardante l’irruzione era infondata, ma l’ansia accumulata
non era stata smaltita e la conseguenza fu un più rude accanimento delle
guardie verso i detenuti. Zimbardo, che nella finzione aveva assunto il
ruolo di direttore del carcere, arrivò a chiamare il vero penitenziario della
città per pattuire un temporaneo trasferimento dei suoi detenuti. Cosa che
gli fu giustamente negata. Così si esprime lo psicologo sociale:
«Avrebbe dovuto sembrarmi chiaro che stavamo perdendo il distacco
scientifico essenziale per condurre con obiettività qualunque ricerca.
Stavo proprio diventando un sovrintendente penitenziario più che il responsabile di una ricerca. […] tuttavia anche gli psicologi sono esseri
umani, soggetti a livello personale agli stessi processi dinamici che studiano a livello professionale. […] cercavamo inconsciamente dei capri
espiatori per stornare da noi la colpa. E non dovevamo guardare molto
lontano. Tutto intorno avevamo dei detenuti che avrebbero pagato caro il
nostro insuccesso»10.
La quarta giornata prevedeva l’incontro con un sacerdote e l’audizione presso
la commissione per la concessione della libertà condizionale per quei detenuti
che ne avrebbero fatto richiesta. Il sacerdote, che era il cappellano di un vero
centro di detenzione, sebbene non gli fosse stata data alcuna specifica
10
Ivi, p. 147.
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istruzione sul comportamento da adottare, agì come faceva normalmente
durante la sua mansione: chiese ai ragazzi il nome (molti gli risposero con il
numero), quale fosse il reato di cui erano accusati (i ragazzi rispondevano con
il capo di imputazione che nella finzione era stato loro assegnato e alcuni
precisavano che però erano innocenti), chiese poi se avevano delle lagnanze e
se desideravano consultare un avvocato.
Altro momento interessante fu l’audizione per la concessione della libertà condizionale durante la quale tutto si svolse con estrema serietà e
‘autenticità’:
«A questo punto i detenuti si sono ormai per la maggior parte calati con
riluttanza, ma alla fine con condiscendenza, nel proprio ruolo altamente
strutturato. Designano se stessi con il numero di matricola e rispondono
immediatamente alle domande rivolte alla loro identità anonima. Con poche eccezioni sono, sono diventati totalmente remissivi nei confronti
dell’autorità della Commissione per la libertà condizionale come verso il
dominio degli agenti penitenziari e del sistema in generale»11.
I detenuti che avevano fatto richiesta di uscire erano stati umiliati e
maltrattati, alcuni avevano avuto attacchi di panico, molti avevano manifestato sintomi di grave depressione fino alla deindividuazione, insomma
erano esausti ed avviliti dall’esperimento e per questo desideravano ardentemente uscirne il prima possibile. L’audizione si svolgeva in uno
degli uffici del dipartimento universitario, un luogo che certamente non
era stato progettato per l’esercizio di misure coercitive e dal quale era
possibile entrare e uscire liberamente. Eppure quando i commissari comunicarono agli studenti nella parte di detenuti richiedenti la scarcerazione
che sarebbero dovuti tornare in cella per attendere la delibera della Commissione, questi senza costrizione alcuna tornarono nei sotterranei adattati
a prigione per proseguire nel loro ruolo.
Al quinto giorno, molti detenuti erano psicologicamente crollati,
mentre le guardie mostravano comportamenti sempre più sadici. Le punizioni e le mortificazioni erano divenute sempre più frequenti: ogni azione
– che fosse nutrirsi, dormire, vestirsi, andare in bagno, ecc. – era divenuta
una concessione discrezionalmente concessa dalle guardie, i carcerati
erano costretti a fare estenuanti flessioni con varianti grottescamente fantasiose, o a pulire il bordo dei gabinetti a mani nude o con l’abito che poi
avrebbero dovuto indossare; la notte, quando le guardie pensavano erroneamente che il monitoraggio si allentasse, si erano spinti a infliggere
vessazioni a carattere pornografico e machista.
11
Ivi, p. 214.
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I numerosi osservatori e ricercatori coinvolti – circa 50 persone si avvicendarono nell’assistere a quanto accadeva – rimasero sbalorditi dagli
esiti che stava cagionando la finta prigione di Stanford, ma nessuno si
pose il problema di porre un freno alla deriva dell’esperimento. L’unica
voce che si pronunciò sulla gravità di quanto stavano subendo quegli
studenti, ben’inteso sia guardie che carcerati, e sulla necessità di terminare
l’esperimento fu quella di una delle più giovani ricercatrici: Christina
Maslach. Dopo un’accesa discussione, Philip Zimbardo si convinse che
doveva porre fine alla Stanford Prison e la mattina del giorno seguente –
che sarebbe dovuta essere la sesta giornata – convocò tutti per sciogliere
le fila e dare avvio al processo di debrefing.
L’esperimento carcerario di Stanford desta sconcerto poiché mostra il
rapido abbandonarsi all’acquiescenza, alla rassegnazione al ruolo di vittime di
ragazzi giovani, sani e intelligenti, e ancor di più turba l’assistere alla trasformazione, in un tempo così breve, di tranquilli studenti in crudeli aguzzini. La
scoperta sconvolgente di Zimbardo, peraltro confermata sia da esperimenti
analoghi che da situazioni reali12, è ciò che egli chiama l’effetto Lucifero:
«Qualunque atto che un essere umano abbia commesso, per quanto orrendo
sia, può commetterlo chiunque di noi, nelle circostanze situazionali giuste o
sbagliate. Saperlo non giustifica il male; piuttosto, lo democraticizza,
dividendone la colpa fra agenti normali invece di dichiararlo ambito
esclusivo di deviati e despoti: loro ma non noi»13.
Zimbardo ribadisce il teorema della Arendt: il male è banale, non è
appannaggio di individui eccezionali e mostruosi, ma chiunque –
12
Il paragrafo Repliche e applicazioni nel testo di ZIMBARDO (L’effetto Lucifero, cit., pp.
371-379) informa sui risultati di repliche o leggere variazioni dell’esperimento della Stanford
Prison in contesti differenti. Tutte queste, ad eccezione di un reality show della BBC ispiratosi –
il cui setting era chiaramente poco scientifico – davano risultati analoghi. Inoltre nel capitolo
13: L’indagine sulle dinamiche sociali. La deindividuazione, la deumanizzazione e il male di
inerzia (pp. 431-463) riferisce di esperimenti diversi e fatti accaduti fuori da un laboratorio ma
poi studiati dalla psicologia sociale che dimostrano similmente la forza delle situazioni nel fomentare la violenza e l’acquiescenza a pratiche contrarie all’usuale senso morale delle persone.
Tra questi è di straordinaria rilevanza l’esperimento Milgram, cfr. S. MILGRAM, Obedience to
Authority, Pinter and Martin, London 1997. È anche molto interessante l’esperienza prodottasi
nella Cubberley High School di Palo Alto nel 1967, in seguito ad una sorta di gioco di ruolo
scolastico, proposto dal prof. Ron Jones, per rispondere all’interrogativo di uno studente: “il
nazismo potrebbe riaccadere?”. Il gioco rapidamente degenerò e i ragazzi finirono per sentirsi
davvero parte di una setta di eletti: the Third Wave. Il prof. Jones interloquì con Zimbardo per
l’ideazione dell’esperimento carcerario, inoltre la storia della terza onda ha ispirato le opere di
numerosi scrittori e registi, cfr. http://www.ronjoneswriter.com/.
13
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., p. 318.
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soprattutto chi pensa di essere immune – può in determinate circostanze o
all’interno di determinati sistemi favorenti manifestare crudeltà.
Vi sarebbero dunque situazioni, dette ‘totali’, che sono capaci di scatenare l’effetto Lucifero. Esse presentano una serie di caratteristiche che,
come dimostrato da numerosi esperimenti e studi svolti, hanno il potere di
allentare i freni morali, l’auto-controllo e sconvolgere il senso di sé. Gli
ideatori dell’esperimento avevano quindi progettato la prigione in modo
che avesse tali caratteristiche. Ad esempio la decisione di far indossare
alle guardie non solo le divise, ma occhiali a specchio, aveva l’intento di
renderle più uguali e di schermare la visibilità delle loro emozioni. Ciò era
quindi funzionale a produrre deindividuazione e anonimato, due dei principali fattori che generano violenza14. Effetti analoghi erano indotti sui
detenuti sostituendo i loro nomi con dei numeri, inoltre, per umiliare
l’immagine che avevano di se stessi e far sì che interiorizzassero la nuova
identità assegnata, era stato loro imposto di indossare casacchine informi
senza biancheria sotto, una calza di nailon sui capelli e una catena leggera
ad una sola caviglia. Poi, per fare in modo che vi fosse una netta separazione tra il dentro e il fuori e uno scarso controllo dei detenuti sullo scorrere del tempo e quindi sull’autoregolamentazione, nella prigione non vi
erano n’è luce naturale, né orologi. Insomma si trattava di tanti accorgimenti, di per sé apparentemente poco rilevanti, ma dal potenziale dirompente sui comportamenti degli individui coinvolti.
Chi o che cosa fu, allora, responsabile di quanto avvenne nella falsaprigione di Stanford: gli studenti che impersonavano le guardie, che mai
prima di allora avevano manifestato atteggiamenti sadici o aggressivi e
che probabilmente non li avrebbero mai sviluppati se non fossero stati
catapultati in una situazione estrema come quella forgiata dall’esperimento? Oppure la colpa deve ricadere su Zimbardo e la sua équipe che
hanno ordito una mostruosa opera di ingegneria sociale capace di incattivire coloro che ne venissero catturati? O ancora si tratta di una responsabilità impersonale, dal momento che lo stesso regista dell’esperimento
14
Vi sono esperimenti eclatanti sulla potenza del travestimento, e dunque
dell’anonimato, nel generare comportamenti sadici, ad es. cfr. P. Zimbardo, The human
choice: individuation, reason, and order versus deindividuation, impulse, and chaos, in
W.J. ARNOLD, D. LEVINE (eds.), Nebraska Symposium on Motivation, University of
Nebraska Press, Lincoln (NE) 1970, pp. 237.307. In questo esperimento delle studentesse tendevano a dare scariche elettriche (ovviamente come nell’esperimento Milgram i
cavi erano scollegati e le vittime erano attori) su delle loro compagne con più frequenza
e più intensità se mascherate. In ogni caso si noti come la maschera da guerra o il truccarsi il volto prima di un assalto siano pratiche che gli etnologi hanno rilevato estremamente diffuse nello spazio e nel tempo. E perfino ad Abu Ghraib vi sono immagini di
soldati torturatori con il viso mascherato di colori.
266
D&Q, n. 10/2010
cedette alla forza del sistema da lui creato, venendo travolto dal tragico
gioco delle parti?
Questi interrogativi, mai davvero risolti a proposito dell’esperienza
del ’71, si sono imposti con un’inedita urgenza in seguito alla rivelazione
degli abusi di Abu Ghraib.
Zimbardo colse la straordinaria somiglianza del caso reale con il suo
esperimento, ma non fu il solo a notarla: i media diffusero il parallelo tra la
prigione fittizia di Stanford e il vero carcere iracheno e l’avvocato di una delle
‘mele marce’, Chip Frederick, lo interpellò come perito al processo. Ciò
permise allo studioso di avere accesso a fonti e testimonianze di prima mano,
alcune delle quali inaccessibili al pubblico, e quindi di disporre di un materiale
eccellente per testare il paradigma del ‘cattivo cestino’.
4. Il processo al cesto delle mele
Per ordire un processo al cesto delle mele bisogna spostare l’attenzione da
coloro che compirono gli atti incriminati al contesto ove si svolsero, cercherò quindi di ricostruire la situazione.
Partirò dal luogo fisico: il carcere situato nella città di Abu Ghraib era stato
utilizzato da Saddam Hussein per recludervi i nemici politici, era un luogo
odiato e temuto ove si erano consumate atroci torture e migliaia di esecuzioni.
Una volta deposto Saddam, il carcere era stato semidistrutto e perfino
le gabbie dello zoo erano state aperte come atto simbolico di liberazione
dal giogo della dittatura. Gli inglesi avevano consigliato agli americani di
abbattere definitivamente quel luogo che evocava nella popolazione i
ricordi più tenebrosi dell’immediato passato. Gli americani scelsero invece di restaurarlo grossolanamente e di adibirlo a proprio carcere dove
recludere i sospetti di terrorismo.
La decisione di riutilizzare la vecchia prigione di Saddham fu una
scelta infelice non solo per motivi simbolici, ma anche per ragioni logistiche. Essa si trovava all’interno della città di Abu Ghraib e le sue mura di
cinta non erano abbastanza alte per evitare i colpi dei cecchini appostati
sui tetti delle case. Alcuni soldati erano stati uccisi da granate e proiettili e
chi vi lavorava viveva nella costante apprensione di essere sotto tiro.
Inoltre le condizioni di vita al suo interno erano aberranti. Il cibo era
scadente, secco e monotono. Il caldo era asfissiante, le fognature erano
state distrutte dai bombardamenti e pertanto vi era in giro un fetore nauseabondo, ratti e cani si contendevano la sozzura e resti anche umani.
Andiamo ora a vedere chi ospitava il penitenziario. Le truppe angloamericane, non avendo previsto la reazione fortemente ostile della
popolazione e gli attacchi costati la vita a parecchi soldati, avevano reagito
con arresti poco oculati. Il carcere di Abu Ghraib si era rapidamente riempito
Clelia Bartoli
267
di gente catturata per ‘attività sospetta’ durante rastrellamenti casuali, da fermi
ai posti di blocco sulle strade o per opera di agenti della polizia irachena che
operavano spesso gli arresti in base a motivi personali. La struttura, dunque,
già nella situazione di cui abbiamo riferito sopra, pullulava di gente; tra cui
uomini, donne, minori e malati insieme pure nelle stesse celle.
In aggiunta al sovraffollamento e al degrado, vi era una totale mancanza persino delle forniture minime: ad esempio non vi erano gli abiti
per i detenuti, tant’è che molti venivano lasciati deambulare nudi e, per
accanimento della sorte o della negligenza, al posto della biancheria necessaria, era stata spedita una partita di mutandine femminili rosa.
La nudità e la promiscuità avevano certamente contribuito a creare un
sorta di clima pornografico. Anche i soldati americani erano giovani di
ambo i sessi: una coppia aveva rapporti durante i turni di notte davanti ai
carcerati e alcuni prigionieri erano stati violentati pubblicamente da altri
prigionieri, dalle guardie e dagli inquirenti.
Ma il dato più rilevante era che la gran parte dei detenuti era lì senza
un vero motivo, non aveva colpe e non aveva informazioni che gli inquirenti avrebbero potuto ricavare né nel rispetto della dignità, né con le più
nefande sevizie. Ciò è confermato da varie testimonianze tra cui quella di
Anthony Lagouranis responsabile degli interrogatori nell’esercito USA,
operante nelle carceri militari di tutto l’Iraq:
«Non ottenevamo quasi mai informazioni utili dai prigionieri, probabilmente perché mettevamo in prigione degli innocenti che non avevano nessuna informazione da darci»15.
Rivolgiamo ora l’attenzione alla leadership: a dirigere le oltre venti carceri
irakene fu nominata Janis Karpinski. La Karpinski, unico comandante donna
in Iraq, godeva di ben poca autorevolezza a causa dei diffusi pregiudizi
sessisti nei reparti militari ed era priva di esperienza nella direzione di
penitenziari e a maggior ragione in circostanze così difficoltose. Nei fatti fu
poco ascoltata e praticamente assente, le sue dichiarazioni rilasciate prima
della diffusione delle foto. Tristemente celebre è rimasta una sua dichiarazione
del dicembre del 2003 a proposito dei detenuti irakeni:
«Le loro attuali condizioni di vita sono migliori in carcere che a casa. A
un certo punto eravamo preoccupati che non volessero andarsene»16.
15
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., p. 581
Cfr. l’intervista di Susan Taylor Martin a Janis Karpinski, Her job: Lock up Iraq's bad
guys, in “St. Petersburg Times”, December 14, 2003, http://www.sptimes.com/2003/
12/14/Worldandnation/Her_job__Lock_up_Iraq.shtml
16
268
D&Q, n. 10/2010
Tale battuta acquista un sapore grottesco, rivelando la cattiva coscienza o
la grave inadempienza della Karpinski. La comandante infatti avrebbe
dovuto sapere che in quel periodo il maggiore Antonio Taguba stava
conducendo un’indagine ufficiale a seguito della denuncia di “abusi
sadici, impudenti e sfrenatamente criminali”, ampiamente supportati da
foto e confessioni scritte di sospetti, detenuti e testimoni. Gli abusi in
questione erano i seguenti:
«a. Prendere a pugni, schiaffi e calci i detenuti, saltare sui loro piedi nudi; b.
Fare video e foto di detenuti di sesso maschile e femminile; c. Costringere i
detenuti a varie posizioni sessuali esplicite per poterli fotografare; d. Costringere i detenuti a spogliarsi e a rimanere nudi per parecchi giorni; e. Costringere
i detenuti maschi a indossare abiti femminili; f. Costringere gruppi di detenuti
maschi a masturbarsi a vicenda mentre sono ripresi e fotografati; g. Far
mettere in una pila detenuti maschi denudati e saltare su di essi; h. Far mettere
un detenuto su una scatola MRE, con un sacchetto di sabbia in testa e attaccargli del filo alle dita delle mani, dei piedi e al pene per similare una tortura
con la corrente elettrica; i. Scrivere sulla gamba di un detenuto “sono uno
stupratore” e poi fotografarlo nudo, del detenuto si presumeva avesse violentato un ragazzo di 15 anni compagno di cella; j. Far posare per una foto una
soldatessa che teneva un guinzaglio fissato al collo di un detenuto nudo; k.
Una guardia della polizia militare aveva avuto rapporti sessuali con una donna
detenuta; l. Utilizzare cani militari (senza museruola) per intimidire e spaventare, e in un caso far mordere un detenuto provocandogli gravi ferite; m.
Fotografare detenuti irakeni morti»17.
Oltre la mancanza di supervisione nelle carceri militari americane si
verificava una pericolosa confusione nelle gerarchie: erano giunte cinque
squadre da Guantanamo che avevano introdotto nuove prassi per la conduzione degli interrogatori, tra di loro c’erano anche quelli che utilizzavano i cani per terrorizzare i prigionieri.
Uomini non identificati dell’intelligence davano, contrariamente a
qualsiasi protocollo, ordini a membri dell’esercito, inoltre a svolgere servizi tradizionalmente appannaggio dei servizi segreti, quali gli interrogatori ai presunti terroristi, vi era personale civile a contratto, coperto
dall’anonimato.
Dunque membri dei servizi di intelligence e addirittura civili, dipendenti da organizzazioni private a cui la difesa aveva appaltato la gestione
degli interrogatori, istruivano le guardie carcerarie su come “ammorbidire
i detenuti” per facilitare il loro lavoro di inquisitori.
17
Investigation of the 800th Military Police Brigade, pp. 16-17; annexes 25 and 26.
Clelia Bartoli
269
Ci si chiederà ora come si fosse svolta la selezione e quale fosse stato
il training dello staff chiamato a sovrintendere ad una situazione tanto
difficile. Le guardie carcerarie ad Abu Ghraib non avevano avuto nessuna
esperienza analoga pregressa e non avevano ricevuto nessun addestramento, eccetto 55 minuti di infarinatura sulla cultura del luogo.
Inoltre l’organizzazione del lavoro era estremamente logorante. Le
guardie erano tenute a svolgere turni per dodici ore consecutive, spesso di
notte, lavoravano sette giorni su sette e, in quaranta giorni di servizio, non
avevano ricevuto un giorno di pausa. Vivevano anch’essi in celle prive di
bagno e infestate di topi. La noia era corrosiva, soprattutto durante i turni
di notte, quelli in cui si sono consumate la gran parte delle torture.
Ken Davis, della polizia militare in servizio alla fine del 2003 ad Abu
Ghraib, racconta:
«Non siamo mai stati addestrati a fare la guardia carceraria. I superiori dicevano ‘Usa l’immaginazione falli crollare. Voglio che siano crollati per
quando torno’. Non appena i prigionieri erano entrati, subito sacchetti di
sabbia in testa. Gli legavamo le mani, li gettavamo a terra, alcuni venivano
spogliati. Ci dicevano, sono soltanto dei cani […]. Così cominci a mettere
in testa a quella gente quell’immagine, allora di colpo cominci a guardare
quella gente come se fosse meno che umana, e cominci a fare delle cose
che non ti saresti mai sognato. Ed è così che è diventato spaventoso»18.
Gli agenti di custodia di Abu Ghraib quindi erano stati inviati in una situazione gravissima senza esperienza e senza addestramento, mancavano di
una supervisione o di un regolamento chiaro, ricevevano istruzioni da personale anonimo e privo di autorità che li incoraggiava all’odio e alla violenza.
Vivevano nella paura, coltivando il sentimento di vendetta per i compagni
che avevano visto uccisi dal nemico. Si sentivano abbandonati e reietti nella
macchina militare statunitense, al di sopra soltanto dei loro detenuti.
Ma non solo il personale presente sembrava incoraggiare le guardie a
usare la crudeltà contro i prigionieri irakeni, pure le alte cariche si adoperavano per imbastire un’ideologia che giustificasse le pratiche estreme
nella “Guerra al Terrore”, edulcorando la realtà con espressioni che alterando la semantica degli atti sdoganavano l’uso della violenza. Ad
esempio fare arresti sommari si poteva tradurre in prevenire la minaccia
alla sicurezza nazionale e torturare un uomo divenire aiutare gli
inquirenti ad avere informazioni utili a salvare le vite di connazionali e
18
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., p. 498. Cfr. ADAM ZAGORIN, The Abu
Ghraib Scandal You Don't Know, in “Time”, Monday, Feb. 07, 2005,
http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1025139-1,00.html.
270
D&Q, n. 10/2010
compagni d’armi. Questa ideologia veniva ufficialmente sancita da un
memorandum del presidente Bush che affermava che nella lotta ad Al
Queda la Convenzione di Ginevra era derogata19.
Insomma dall’analisi del contesto si evince che: il luogo era inadeguato per ragioni tanto simboliche che logistiche, gli arresti e le condizioni in cui erano tenuti i prigionieri erano illegittime nonché ingiuste, le
forniture e le risorse gravemente carenti, lo staff non appropriatamente
selezionato e non addestrato, l’organizzazione del lavoro sembrava concepita apposta per produrre burn-out, il clima che sia era istaurato mescolava oscenità e sadismo, la leadership assente, le gerarchie sovvertite e
la procedure sconvolte, inoltre l’ideologia delle massime autorità sembrava approvare ogni mezzo, legittimo o meno, per annientare i terroristi
(veri o presunti tali).
Terminata l’analisi, Zimbardo decreta la responsabilità del sistema: è
stato il cestino a far guastare le mele. La gestione delle carceri da parte
dell’amministrazione USA per i presunti terroristi è quindi giudicabile
come un ‘cattivo sistema’, che ha prodotto ‘cattive situazioni’, tra le molte
quella dei turni di notte e degli interrogatori al carcere di Abu Ghraib, che
a sua volta ha prodotto ‘mele marce’: persone assuefatte all’uso della
violenza, incapaci di empatia verso l’uomo eletto a nemico, risucchiate
dal ruolo di carnefice.
5. La responsabilità di sistema presuppone una visione determinista
dell’agire umano?
Il concetto di responsabilità di sistema è spesso rigettato poiché sembra
sollevare gli individui dalla responsabilità personale, configurandosi come
alibi per la coscienza, scusante per atti spietati, pare mettere in discussione la stessa libertà umana, decretando un determinismo assolutorio e
rassegnato ai mali del mondo. Ripugna l’idea che la responsabilità di
sistema possa fornire anche solo un’attenuante alle colpe di coloro che,
come le guardie di Abu Ghraib, furono artefici di atroci misfatti.
19
«La guerra contro il terrorismo inaugura un nuovo paradigma, quello secondo cui
gruppi con ampia diffusione internazionale commettono atti atroci contro civili innocenti, spesso con l’avvallo di alcuni stati. La nostra Nazione riconosce che questo nuovo
paradigma – non inaugurato da noi ma dai terroristi – costringe a ripensare le leggi della
guerra, rimanendo comunque coerenti con i principi generali della Convenzione di
Ginevra», Memorandum on Humane Treatment of Al Queda and Taliban Detainees, 7
febbraio 2002. È ovvio che se il Presidente degli Stati Uniti dichiara ufficialmente che
la Convenzione di Ginevra è tramontata nella lotta al terrorismo, auspicare che i principi
generali siano rispettati si riduce ad un richiamo retorico privo di forza obbligante.
Clelia Bartoli
271
In effetti Zimbardo, chiamando in causa il sistema, attenua la responsabilità degli esecutori materiali, ritenendoli oltre che dei colpevoli, delle
vittime di forze situazionali in grado di scalfire la loro integrità e corroderne gli animi. A sostegno di questa idea il professore di Stanford esamina le biografie di coloro che furono definiti ‘mele marce’. Questi giovani soldati americani hanno avuto vite e carriere irreprensibili, almeno
fino ai fatti di Abu Graibh. Così come gli studenti che parteciparono
all’esperimento non avevano manifestato nessuna predisposizione alla
violenza o all’abbrutimento, prima dell’essere travolti dalla situazione
della Stanford Prison.
Pertanto la violenza del sistema non è subita solo dalle vittima di abusi e
discriminazioni, ma la subisce anche chi è investito del compito di abusare e
discriminare: la sua personalità e la sua identità sono violate, questi si ritrova a
recitare un copione luciferino che non ha scritto, mosso da paure e odi
generati da forze trasformative che non hanno origine in lui, il tutto per
difendere un sistema dal quale non ricava nemmeno grandi vantaggi.
Ma quali sono le forze in grado di incattivire talmente gli individui? Gli
studi di psicologia sociale ritengono che l’umana condotta sia determinata
tanto da fattori soggettivi (profilo di personalità, credenze, attitudini, valori,
emozioni) quanto da fattori sistemici. Tra questi ultimi, sono da tempo stati
individuati con precisione quei fattori che contribuiscono al verificarsi di
comportamenti discriminatori, vessatori e abusanti. Tra essi vi sono:
a. La deindividuazione. Condizione di anonimato o di invisibilità sociale,
può essere ottenuta con l’uso di maschere, travestimenti, divise; oppure
cancellando l’uso del nome; ma anche trattando le persone come numeri,
massa, gruppo, misconoscendo la singolarità e specificità di ciascuno. La
deindividuazione provoca una perdita dell’auto-consapevolezza, di
un’autonoma capacità di regolamentarsi, del senso di responsabilità individuale lasciando libero sfogo ad istinti crudeli o autolesivi.
b. La deumanizzazione consiste nell’esclusione di determinati soggetti
dall’ordine morale, relegati a non-persone. Essa inibisce la commozione e la
partecipazione verso le loro vicende, legittimando pertanto l’abuso e l’oblio. È
un passaggio fondamentale nel processo di trasformazione di normali individui
in testimoni indifferenti al male altrui o perfino in torturatori. È una sorta di
corruzione della percezione che conduce a considerare il nemico o la vittima
designata come meno che umano, le cui sofferenze sono irrilevanti, meritevole
talvolta di tormenti, torture e perfino annientamento. Spesso la deumanizzazione è incoraggiata dall’etichettamento di un gruppo sociale, da una
rappresentazione stereotipata diffusa da media, senso comune e autorità.
c. L’effetto ‘finestre rotte’. Un esperimento provò che se in un palazzo vi è
una finestra rotta, facilmente diventerà preda di vandalismo, molto più di
un palazzo ben curato. Con l’effetto ‘finestre rotte’ ci si può riferire al
272
D&Q, n. 10/2010
fatto che un ambiente degradato, poco stimolante in cui prevale il senso di
noia, in cui vige un clima generalizzato di violenza, dove si subisce un
forte stress emotivo, gravi restrizioni materiali e talvolta la paura costante
di essere uccisi è in grado di sprigionare il bisogno di farla pagare a qualcun altro, di individuare insomma un capro espiatore per liberare la propria frustrazione, rivendicando a spese d’altri il senso di sé offeso. Ma anche confermando con la propria degenerazione morale il degrado
ambientale a cui si è costretti.
d. Dislocamento e diffusione della responsabilità. Entrambi questi processi
determinano nel soggetto la percezione di essere espropriato dai propri atti
e quindi non responsabile per essi. Un sistema che favorisce
l’acquiescenza al gruppo, l’acritica obbedienza e che enfatizza lo stato di
emergenza entro il quale non si può scegliere ma solo adattarsi alla necessità, può fornire la giustificazione a non prendersi carico delle conseguenze dei propri atti. Similmente un contesto di illegalità o immoralità
diffusa, dove tutti sono colpevoli fa supporre che poi nessuno lo sia davvero, presso tale sistema vige un senso di impunità e le persone pretendono di essere titolari di un diritto all’amnistia20.
Gli psicologi sociali sembrano quindi stabilire l’impotenza degli uomini
comuni alle forze sistemiche e situazionali, asserendo la vacuità del libero
arbitrio e l’impossibilità di disporre di sé stessi quando esposti a
condizionamenti sufficientemente potenti21.
20
Raduno insieme una bibliografia minima su questi vari fattori poiché spesso sono
trattati congiuntamente: oltre l’opera di Zimbardo, cfr. S. MILGRAM, Obedience to
Authority, cit.; E. GOFFMAN, Stigma. L’identità negata, Laterza, Roma-Bari 1963 e E.
GOFFMAN, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,
Edizioni di comunità, Milano 2001; P. BOCCHIARO, Psicologia del male, Laterza,
Roma-Bari 2009; F. De Masi, Trauma, deumanizzazione e distruttività. Il caso del
terrorismo suicida, Franco Angeli, Milano 2008; R.J. KIERNAN, R.M. KAPLAN, Deindividuation, Anonymity, and Pilfering, comunicazione al convegno della Western Psychological Association, San Francisco aprile 1971; E. DIENER, Deindividuation: causes
and consequences, in “Social Behavior and Personality: an International Journal, vol. 5,
Number 1, 1977 , pp. 143-155; T. POSTMES, M. LEA, Social processes and group decision making: Anonymity in group decision support systems, in “Ergonomics”, 43
(2000), pp. 1252-1274; T. POSTMES, R. SPEARS, (1993). A meta-analysis of deindividuation research: how 'anti' is antinormative behaviour?, in “Social psychology in
Europe”, vol. 10, 1993, pp. 61-62; S. REICHER, R. SPEARS, T. POSTMES, A social identity model of deindividuation phenomena, in “European Review of Social Psychology”,
vol. 6, 1995, pp. 161-198.
21
100 anni di studi di psicologia sociale sembrano avere accertato abbondantemente
che: l’ambiente condiziona. Questa è la conclusione a cui giunge una meta indagine
sulle 322 meta-analisi sui 25.000 studi quantitativi, che hanno coinvolto 8 milioni di
Clelia Bartoli
273
Certamente Zimbardo denuncia la vulnerabilità degli esseri umani, la
facilità con cui possono abdicare alla padronanza di se stessi, venendo
trasformati dalle situazioni in cui si trovano gettati, eppure non è un determinista. Anzi ritiene che riconoscere tale vulnerabilità sia il primo
passo per rifocillare le proprie difese, per accrescere la forza di resistenza
alle pressioni esterne. Il sapersi debole induce a premunirsi, mentre il
credersi immune fa sì che ci si esponga maggiormente al rischio.
«Paradossalmente, creando questo mito della nostra invulnerabilità alle
forze situazionali, prepariamo la nostra rovina in quanto non stiamo abbastanza in guardia contro le forze situazionali. […] Siamo maggiormente in
grado di evitare, impedire, sfidare e modificare tali forze situazionali negative solo riconoscendo la loro potenziale capacità di ‘contagiarci’ come
hanno contagiato casi analoghi»22.
Lo studioso italoamericano stila addirittura un decalogo di un possibile
training per resistere alle influenze indesiderate e promuovere la resilienza
personale e la virtù civica. Ritengo questa parte pedagogica ancora
piuttosto rozza e non sufficientemente avvertita come il resto dell’opera;
tuttavia apprezzabile è il presupposto di tale proposta secondo cui la libertà non è un dato di partenza, ma un obiettivo a cui si può tendere tramite un lavoro di addestramento personale; inoltre il libero arbitrio si
esercirebbe non tanto attraverso scelte non condizionate, ma nella scelta
dei condizionamenti a cui ci si vuole sottoporre.
Enfatizzare la responsabilità di sistema sulla responsabilità individuale
consente inoltre di individuare le cause di problemi cronici. Se infatti io
espello ripetutamente le mele che marciscono ma non cambio il cattivo
cestino, accadrà che le mele continueranno a marcire nonostante le elimini
puntualmente. Fuor di metafora se mantengo un contesto che induce alla
deindividuazione, alla deumanizzazione, al degrado morale, al dislocamento o
alla diffusione di responsabilità, anche se punisco con rigore e severità coloro
che manifestano atteggiamenti discriminanti e vessatori, ciò non basterà a
evitare che nuovi soggetti riproducano gli stessi comportamenti. Solo
ristrutturando il sistema, progettandolo in modo tale da prevenire situazioni
corrosive potrà ridursi la probabilità di soprusi e trattamenti degradanti.
Quest’ultima notazione permette di constatare come il concetto di ‘responsabilità di sistema’ non implichi semplicemente una riduzione della
responsabilità individuale, ma anche un suo potenziamento. Focalizzare la
persone: F.D. RICHARD, D.F. BOND JR., J.J. STOKES-ZOOTA, One hundred years of
social psychology quantitatively described, in “Review of General Psycholoy”, 7, 2003,
pp. 331-363.
22
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., pp. 317-318.
274
D&Q, n. 10/2010
responsabilità di sistema significa mettere l’accento su una maggiore
responsabilizzazione dei vertici delle organizzazioni ossia gli ‘architetti di
sistema’. In proposito, il professore di Stanford ironizza sui proclami di
Donald Rumsfeld che aveva annunciato, come di dovere, che le indagini
sarebbero ‘andate in fondo’:
«Mi sono chiesto se il presidente avrebbe ordinato anche delle indagini
che andassero ‘in cima’ a quello scandalo, in modo da mostrare l’intero
quadro e non solo la cornice»23.
È interessante notare come la responsabilizzazione degli ‘architetti di
sistema’ sia invocata da una commissione presieduta da Schlesinger, incaricata dal Ministero della Difesa di far luce su 300 incidenti riguardanti
detenuti a Guantanamo, in Afghanistan e in Iraq (alcuni dei quali anche
più gravi di quelli immortalati nell’album fotografico di Abu Ghraib,
quali mutilazioni e crudeli uccisioni).
Il report che rende pubblici i lavori della commissione individua puntualmente i problemi di sistema (mancanza di formazione dello staff;
carenza di apparecchiature e risorse; pressioni a carico di chi doveva interrogare affinché ricavassero informazioni; leader deboli; CIA operante
secondo proprie regole e non assumendosi responsabilità), cita la notorietà
dell’Esperimento Carcerario di Stanford24, nonché delle altre ricerche di
psicologia sociale, e conclude:
«L’eventualità potenziale di trattamenti abusanti nei confronti dei detenuti
durante la Guerra Globale al Terrorismo era assolutamente prevedibile avendo
conoscenza dei principi basilari della psicologia sociale, insieme ad una
consapevolezza dei numerosi ben noti fattori di rischio ambientale. Molti
leader non erano a conoscenza di questi fattori di rischio e, pertanto, hanno
fallito nell’adottare le misure necessarie a ridurre la possibilità che abusi di
diverso tipo si verificassero durante le operazioni di detenzione»25.
La commissione Schlesinger quindi ipotizza una responsabilità dei leader per
una poco accorta pianificazione del sistema delle operazioni detentive
connesse alla guerra al terrorismo che avrebbe reso alquanto probabili
comportamenti abusanti e lesivi da parte del personale impiegato.
23
P. ZIMBARDO, L’effetto Lucifero, cit., p. 469.
Cfr. Final Report on the Independent Panel to review DoD Detention Operation,
Chairman James R. Schlesinger, Agost 2004, appendice G, pp. 1-8,
http://fl1.findlaw.com/news.findlaw.com/wp/docs/dod/abughraibrpt.pdf.
25
Ivi, appendice G, p. 1.
24
Clelia Bartoli
275
L’imputazione è simile per struttura a quella che si può ascrivere
all’industriale che, ignorando la risaputa tossicità di certi prodotti impiegati
nei suoi capannoni, ha reso maggiormente probabile l’ammalarsi dei suoi
dipendenti. Tuttavia è nuova nel contenuto poiché nel caso delle carceri
americane in Iraq, Afghanistan e Cuba la ‘tossicità’ dei fattori ambientali
avrebbe agito non sui corpi, bensì sulla psiche e sui comportamenti dei
dipendenti della Difesa. Si tratterebbe di una meta-colpevolezza: gli architetti
di sistemi deumanizzanti e deindividuanti sarebbero colpevoli di aver agevolato la colpevolezza degli individui incastonati nella loro costruzione.
Occorre ammettere che, anche senza innovare l’inventario delle fattispecie, e utilizzando quelle già esistenti ci sarebbero state numerose ragioni
per imputare varie forme di colpa, collusione o concorso a ben più di sette
mele marce, e risalendo anche più in alto nella catena di comando. Il motivo
per cui i vertici spesso sfuggono al giudizio o alla condanna dei tribunali non
dipende certamente solo da una carenza di opportune fattispecie.
Tuttavia un ripensamento in chiave sistemica della responsabilità penale in contesto internazionale, come nota Stefano Manacorda, è auspicabile per la natura stessa degli illeciti che coinvolgono ampie collettività o
che si profilano come prassi più che come eccezioni:
«Il tema della responsabilità nel diritto penale internazionale impone di prendere atto della specifica dimensione collettiva dell’illecito, della sua connotazione
sistemica e della sua intrinseca plurisoggettività della fattispecie, elementi che
rinviano l’interprete ad una serie di profili ricostruttivi complessi circa le
strutture di imputazione. […] Come giudicare le atrocità commesse nei campi
di concentramento nazionalsocialisti, dove lo sterminio di milioni di ebrei fu
realizzato e reso possibile da tutto un apparato politico, giudiziario e amministrativo piegato all’illegalità sistemica? A chi potrà essere ricondotto l’eccidio,
realizzato in pochi giorni di migliaia di musulmani nella enclave musulmana di
Srebrenica, in Bosnia-Herzegovina, quando questo risulta essere il risultato di
un numero indefinito di condotte attive e omissive, dolose e colpose, tra loro
fortemente differenziate ma anche interconnesse e, più ampiamente, l’espressione di un intero disegno politico cui era asservito il sistema di potere?»26.
Inoltre, illeciti che hanno una dimensione sistemica e plurisoggettiva non
mancano pure in ambito nazionale: le mafie ne sono l’esempio per
eccellenza, ma lo sono anche la corruzione endemica, l’illegalità pervadente in certi territori, il bullismo o il razzismo istituzionale.
26
S. MANACORDA, Imputazione collettiva e responsabilità personale. Uno studio
sui paradigmi ascrittivi nel diritto penale internazionale, Giappichelli Editore,
Torino 2008, pp. 25-27.
276
D&Q, n. 10/2010
Per concludere, sapendo che tale tema apre innumerevoli problemi, voglio
precisare che adottando una prospettiva sistemica non si sposa un’idea di
responsabilità collettiva, “secondo la quale gli individui sono o si sentono
colpevoli di cose fatte in loro nome ma non da loro, cose a cui non hanno
partecipato e da cui non hanno tratto nessun profitto”.27 Accettare l’esistenza
di una responsabilità di sistema implica ammettere che gli ambienti di vita e
lavoro agiscono sugli individui, che le istituzioni, come direbbe Bourdieu,
producono degli habitus rendendo più probabile il formarsi di certe attitudini,
che potranno produrre atti e comportamenti oggettivi.
E se i colpevoli vanno puniti, i sistemi che ingenerano un’attitudine all’illecito andrebbero modificati. Questione aperta è se e in che modo si possa
rendere obbligatoria la trasformazione di un sistema che cronicizza la devianza,
la discriminazione o l’illecito. Vi è un modo per rendere giuridicamente
vincolante sostituire o aggiustare il cestino che fa marcire le mele?
27
H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano
2003, p. 284.