settembre musica

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settembre musica
Città di Torino
Assessorato per la Cultura
SETTEMBRE
MUSICA
lunedì 31 agosto 1992, ore 21
Teatro Regio
O r ch estra S in fo n ica
C oro d ella R a d io di C o lo n ia
H e lm u th
pi®
I
F r o s c h a u e r ,
m a estro del coro
L u b ica R y b a r sk a , s o p r a n o
J a d w ig a R a p p e, c o n t r a l t o
U w e H e ilm a n n , t e n o r e
A lfred M u ff, b a s s o
H ans V onk, d ir e tto r e
In collaborazione con
il Goethe Institut Turin
15a
a d iz io n e
La Radio di Colonia (WDR) ringrazia la Westdeutsche Lan­
desbank e la Westdeutsche Landeshank (Europa) AG per la
gentile assistenza nel corso della tournée della sua Orchestra
Sinfonica della Radio di Colonia.
Fondata nel 1947, l'O rchestra Sinfonica della Radio di C o­
lonia svolge una regolare stagione concertistica presso la sala
della Kölner Philharmonie, dove le esecuzioni vengono regi­
strate e trasmesse dall’Ente Radiofonico della Germania, del
quale è espressione diretta. Terminato il ciclo di esecuzioni
nella propria sede, usualmente la formazione è impegnata in
tournée all’estero, nel cui corso è già stata ospite di molte
istituzioni musicali di Europa, Stati Uniti, Giappone ed ex
Unione Sovietica. Numerosi sono i direttori succedutisi alla sua
guida in qualità di ospiti, e tra di essi Otto Klemperer, Fritz
Bausch, Erich Kleiber, Dimitri Mitropoulos, Herbert von Ka­
rajan, Georg Solti, Karl Böhm, Claudio Abbado, Lorin Maazel,
Zubin Mehta, Kurt Sanderling e Günter Ward. A fianco della
produzione classico-romantica, l’orchestra annovera un re­
pertorio moderno e contemporaneo: compositori quali Igor
Strawinsky, Hans Werner Henze, Mauricio Kagel, Luciano
Berio e Karlheinz Stockhausen l’hanno diretta nell'esecuzione
di loro opere, alcune volte anche in prima assoluta, mentre altri
quali Luigi Nono, Krzystof Penderecki e Bernd Alois Zimmer­
mann hanno composto lavori alla stessa espressamente destina­
ti. L'attuale Direttore principale è Hans Vonk, che nel 1991 ha
rilevato l’incarico da Gary Bertini, il quale lo rivestiva dal 1983.
Il Coro della Radio di Colonia è stato costituito nel 1948, sotto
la guida di Bernhard Zimmermann. Dal 1962 al 1989 diretto da
Herbert Schernus, ha svolto un’intensa attività sia al fianco di
complessi strumentali sia in modo autonomo, ospite di istituzio­
ni musicali quali, tra le altre, i festival di Berlino, Vienna,
Stoccolma e Venezia e i teatri di Amsterdam, Parigi, Londra,
New York, Tokyo, Cleveland e Gerusalemme. In possesso di un
repertorio che comprende stili ed epoche diverse, la formazione
è nota in particolare per le esecuzioni in campo contemporaneo:
oltre ottanta sono le opere per la stessa composte o dalla stessa
in prima assoluta eseguite, e tra di esse figurano, tra le altre,
quelle di autori quali Schoenberg, Henze, Boulez, Nono,
Penderecki, Orff, Xenakis, Berio, Scelsi e Reich. Suo attuale
direttore è Helmuth Froschauer, il quale ha al proprio attivo
esperienze sia come direttore di formazioni orchestrali, tra le
quali i Wiener Symphoniker, sia di formazioni corali, e tra di
esse quelle dell’Opera di Stato di Vienna e del Festival di
Salisburgo in qualità di collaboratore di Herbert von Karajan.
Olandese, Hans Vonk ha compiuto gli studi di pianoforte e
direzione orchestrale al Conservatorio di Amsterdam per poi
frequentare corsi di perfezionamento sotto la guida di Hermann
Scherchen e Franco Ferrara. Nel 1966 nominato direttore presso
il Balletto Nazionale Olandese, nel 1969 passa all’Orchestra
Reale del Concertgebouw in qualità di assistente di Bernard
Haitink e vi rimane sino al 1973, quando gli viene affidata la
direzione dell’Orchestra Sinfonica della Radio Olandese. Tre
anni più tardi assume anche l ’incarico di Direttore principale al
Teatro Nazionale dell’Opera di Amsterdam e quello di associato
alla Royal Philharmonic Orchestra, mentre dal 1980 inizia a
collaborare con la Staatskapelle di Dresda, della quale assume
la direzione, così come dell ' Opera di Stato della stessa città, nel
1985. Dal 1991 Direttore principale dell’Orchestra Sinfonica
della Radio di Colonia, è inoltre sovente ospite di teatri d’opera
e formazioni in Europa e Stati Uniti, dove dirige regolarmente
le sinfoniche di Boston, Cleveland, Philadelphia, Pittsburgh,
Washington e St. Louis.
Compiuto il debutto in campo operistico al teatro Nazionale di
Praga, Lubica Rybarska è in seguito entrata a far parte del
Teatro Nazionale di Vratislava. Vincitrice nel 1988 del Concor­
so Pavarotti, l'anno seguente ha preso parte con il tenore stesso
ad una rappresentazione della “Luisa Miller” di Giuseppe Verdi
all'Opera di Philadelphia. Ospite abituale negli allestimenti dei
teatri d'opera di Zurigo, Francoforte e Stoccarda, in campo
concertistico ha collaborato, tra gli altri, con complessi quali la
London Symphony Orchestra, l'Orchestra Sinfonica di Torino
della RAI, l'Orchestra Filarmonica Cecoslovacca e, tra i diret­
tori, con Jiri Belohavec e Rafael Frùhbeck de Burgos.
Nata in Polonia, Jadwiga Rappé ha compiuto gli studi letterari
all’Università di Varsavia e ha terminato quelli musicali all’Ac­
cademia di Wroclaw, dove si è specializzata in canto. Nel 1980
vincitrice al concorso internazionale “Johann Sebastian Bach"
di Lipsia e l’anno seguente vincitrice della Medaglia d’oro al
Festival per giovani solisti di Bordeaux, nel 1983 ha ricevuto
uno speciale riconoscimento dall’ente radiotelevisivo della
Polonia. Attiva sia in campo concertistico che operistico, ha
collaborato con varie formazioni, dai Wiener Philharmoniker
alla National Symphony Orchestra di Washington, sotto la
guida di direttori quali Gustav Kuhn, Bernard Haitink e Rafael
Friihbeck de Burgos.
Nato nel 1961 a Darmstadt, in Germania, Uwe Heilmann ha
iniziato la carriera all’Opera di Stoccarda dove, dopo un breve
periodo di inserimento gli vengono affidati ruoli importanti del
repertorio mozartiano. Apprezzato come Tamino ne “Il Flauto
magico”, in tale veste prende parte anche agli allestimenti dei
teatri di Vienna e Ginevra, e grazie all'interpretazione ne “Il
ratto dal serraglio” al Metropolitan di New York con la direzio­
ne di James Levine, viene da quest’ultimo in seguito invitato a
prendere parte a varie altre produzioni. Sovente impegnato in
repertori concertistici sotto la guida di direttori quali, tra gli
altri, Colin Davis, Georg Solti e Daniel Barenboim, da anni si
esibisce regolarmente in recital liederistici.
Nato a Lucerna, Alfred M uff ha compiuto gli studi musicali
dapprima presso il locale Conservatorio e quindi all’Istituto
Superiore di Musica di Berlino. Intrapresa l’attività operistica
presso il Teatro della città natale, è stato in seguito chiamato
dall’Opera di Linz, dove gli sono stati affidati importanti ruoli,
per poi iniziare la collaborazione con il Teatro Nazionale di
Mannheim e l’Opera di Zurigo. Avendo in attivo parti principali
in opere quali “Falstaff’, “Boris Goudunoff’, “Il vascello fan­
tasma” e un variegato repertorio concertistico, nel corso della
sua carriera ha collaborato con direttori quali Wolfgang Sawallisch, Georg Solti, Giuseppe Sinopoli e Claudio Abbado.
Ludwig van Beethoven
(1770-1827)
Missa Solemnis in re maggiore
per soli, coro e orchestra op. 123
Kyrie. A s s a i s o s t e n u t o . M i t a n d a c h t
Gloria. A l l e g r o v i v a c e
Credo. A l l e g r o m a n o n t r o p p o
Sanctus. A d a g i o . M i t a n d a c h t P r a e lu d iu m . S o s te n u to , m a n o n tr o p p o
Benedictus.
A n d a n te m o lto c a n ta b ile
e n o n tr o p p o m o s s o
Agnus Dei. A d a g i o
Motivato dall’intento di celebrare la consacrazione ad arcive­
scovo di Olmiitz dell’arciduca Rodolfo, fratello dell’imperatore
nonché mecenate e allievo del compositore, il grande disegno
della Missa Solemnis si avvia verso la metà del 1818. Ma, come
spesso avviene nel suo ultimo periodo, Beethoven fa male i suoi
calcoli e, a cerimonia compiuta, nel marzo 1820, più di due anni
mancano ancora al completamento del lavoro, mentre,in un
affollarsi di nuovi progetti creativi, un nutrito gruppo di altre
composizioni - la Nona Sinfonia, le ultime Sonate per piano­
forte, le Variazioni Diabelli - ne ritarda la stesura. Dalla solen­
nità dell’occasione religiosa e politica che ne è all’origine, la
Missa trae il suo carattere di opera grandiosa e monumentale;
pure, in alcun modo essa si sottrae al confronto con una perso­
nale riflessione sul problema della fede. Ed è proprio la diffi­
coltà nel colmare lo scarto fra i due livelli, lungo un arco
strutturale dalla vastissima campitura, a collocarla nel novero
dei capolavori bifronte, enigmatici e d’irrisolvibile problemati­
cità. Non certo, la sua sostanziale estraneità alla misura e alle
convenzioni di un presunto stile liturgico. Se mai, attraverso
una lettura del testo che intende ostinatamente aderire a ogni
minima sfumatura di senso, la Missa riapre una frattura che
giusto lo spirito della liturgia vuole fermamente ricomposta.
Cosi, in essa, il sentimento dell’appartenenza a una Chiesa
comune e il perentorio rifugio nel territorio collettivo del
dogma, non basta a placare le personali ragioni del dubbio,
l’ansia di una storia individuale che si interroga sulle proprie
azioni e sui propri pensieri.
Da assegnare alle sezioni di più agevole interpretazione costrut­
tiva, il Kyrie svolge la sua parabola in corrispondenza alla forma
del Lied tripartito, adeguando con altrettanta naturalezza il
proprio schema armonico - prevalente tonalità fondamentale
nelle parti estreme, relativo minore nel “Christe”- sulle invoca­
zioni di misericordia alle persone della Trinità. Al di là della
maestosa risolutezza con cui fanno il loro ingresso coro e solisti
dopo la breve introduzione orchestrale, il senso di solennità si
fonde nel brano a una raccolta e tranquilla dolcezza, resa più
intensa dai fervidi accenti di speranza del “Christe”: pagina di
fiduciosa attesa, che si dipana contrappuntisticamente sugli
intrecci di una figura melismatica dal sapore bachiano, introdot­
ta corni e fagotti e poi lungamente mantenuta alle voci sulla
supplica dell’ “eleison”.
Assai meno trasparente, come esito di una straordinaria fram­
mentazione in episodi contrastanti, è l ’organizzazione formale
del Gloria, il luogo forse più sconcertante dell’interaMissa, per
l’imprevedibilità degli scarti drammatici, la sfrenata violenza
fonica delle perorazioni o il loro improvviso spegnersi in
inattesi pianissimo. Così, l’irruente motivo iniziale su “Gloria
in excelsis Deo” (più volte ripreso fino al “Domine Deus”)
sospende il suo slancio ascensionale sulle repentine cadute
dinamiche e le omofonie di “Et in terra pax” e “Adoramus Te”.
Già insidiata da una tale irrequietezza emotiva, l’integrazione
sinfonica (che pure questo tematismo di stampo sonatistico
dovrebbe favorire) sembra compromessa dallo squarcio polifo­
nico del “Glorificamus Te” e subito dopo dall’intimismo soli­
stico del “Gratias agimus”. L’ansia di libertà costruttiva, tipica
del tardo stile beethoveniano, tende a disperdere le forme del
sonatismo più rigoroso innestandovi all’interno i principi an­
tagonisti del contrappunto. Se ne ha conferma nella parte
conclusiva, quando, dopo la poderosa fuga a quattro parti sulle
parole “in gloria Dei Patris”, il tema di esordio porta all’in­
candescenza lo strepitoso Presto finale. Restano estranee, invece,
all’impulso generatore di questa idea, le due parti centrali: le
invocazioni di misericordia del “Qui tollis”, culminanti nel­
l’urgenza opprimente del “Miserere”, e il "Quoniam", arcaico
e modaleggiante.
Tale problematicità strutturale riproduce, sul piano della forma,
la ricordata difficoltà nell’adeguare una gioiosa accettazione
della fede, concepita al riparo della comunità religiosa, con le
lacerazioni e le ansie soggettive. Se nei momenti in cui più
interiore è la preghiera, nel “Gratias agimus” e soprattutto nel
“Qui tollis”, sono le voci soliste a indicare la via al coro, nel
finale ogni incertezza individuale sembra soffocare in un cre­
scendo di grandiosità, niente affatto appagata dall’ineffabilità
della liturgia e profanamente attratta da un’ebbrezza di suoni
che diremmo del Beethoven pagano, non appartenesse al musi­
cista della Nona Sinfonia, apostolo di una laica e illuministica
fratellanza universale. E tuttavia qualcosa di smodato, di ecces­
sivo, uno slancio persino forsennato, che sdegna ogni limite, ha
invaso questa pagina finale. Né ci si sottrae all’impressione che
tale violenza, tanta esaltazione di toni affermativi, sia chiamata
ad imporsi come certezza di fede, come imperativo sulla cui
autorità cancellare ogni dubbio, ogni umana debolezza.
Di non minore complessità, il Credo vuole scolpita fin dal­
l’inizio, nelle categoriche affermazioni del coro, una suprema
legge della volontà. Ma, a differenza della prima parte del
Gloria, qui la scomposizione in tasselli recupera una sua unità
nell’aderire al nucleo narrativo del testo, ove tocca anche il
vertice di una distillata, rarefatta spiritualità. Ad essa apparten­
gono la trasfigurata melodia dell’ “Et incarnatus est”, che trae
dal modo lidio il senso di un’arcana lontananza, e lo sfondo
strumentale offerto ai solisti dalle note ribattute dei legni e da un
palpitante oscillare del flauto nell’acuto. Il passaggio da queste
aure celesti, ai pungenti sforzando degli archi nel “crucifixus”,
è un affondare alle radici dell’umana sofferenza: tale, il nucleo
di dolore che si addensa in una figurazione ai violini e al fagotto
sulla parola “passus”. Dopo l’arcaico “Et resurrexit” a cappella,
la lunga esposizione degli articoli di fede scorre sull’ostinata,
quasi ossessiva ripetizione dell’iniziale tema del Credo: soc­
corre di nuovo, l’appello a una volontà suprema e oggettiva che
imponga, al di là di ogni residuo terreno, le trascendenti verità
della teologia. A chiusura del brano, la mirabile fuga a due
soggetti su “Et vitam venturi saeculi”: percorso di straordinaria
levità nello splendore della ricchezza sonora, nella vastità e
complessità degli sviluppi, nella spaziosa apertura dei suoi
intrecci.
In un foglio di appunti, ritrovato una ventina d’anni fa e databile
al periodo della Missa, si è conservata in un verso un’analisi
della fuga dal Kyrie del Requiem di Mozart, nell’altro abbozzi
dell’ “Et vitam venturi saeculi”. E tuttavia, l’interesse della
scoperta sembra arrestarsi all’emozione con cui ci è dato osser­
vare Beethoven alla ricerca di un modello nell’ultima opera di
Mozart. Fra le due pagine non vi potrebbe essere, infatti,
distanza maggiore: anche se la forma prescelta è in ambedue i
casi quella di una doppia fuga, tanto fosco e opprimente appare
il contrappunto mozartiano del Kyrie, quanto aereo e traspa­
rente risuona nelle sue polifonie 1’“Et vitam venturi saeculi’ . La
differenza tra i due brani sembra in tal modo quasi corrisponde­
re alla diversità di atteggiamenti che corre tra le due opere. La
soggettività che si espande dalle pagine più alte e sofferte del
Requiem, è spesso tenuta al riparo nella Ai/.v.$a, quasi arginata da
un imperativo di fede, dal sentimento di una comunità partecipe
di una stessa certezza, se non da uno slancio verso l’umano che
travalica i confini del religioso. Gli itinerari più ardui e specu­
lativi della Missa sono lasciati alle spalle dalla stupefacente
immagine di eternità e d’infinito su cui si spengono le ultime
note del Credo, con un procedere per moto contrario e dunque
verso opposte regioni dei bassi e dei legni, che lascia aperto al
suo interno uno spazio d’immensità. Il quadro che ora si annun­
cia nel Sanctus, così lontano dalle consuete espressioni di giu­
bilo e di solennità, si offre come parentesi di concentrazione,
dimessa nella sobrietà del colore strumentale (privato di flauti,
oboi e violini) o nella dinamica in prevalenza mantenuta sul
piano, ma spesso percorsa dal brivido oscuro dell’armonia. La
predilezione ora accordata ai solisti, mostra una tale adesione
all’idea che la santità sia frutto di una ricerca individuale, da
escludere il coro anche nel tradizionale fugato del “Pieni sunt
coeli et terra”, ove ancora una volta rifulge l’ammirazione
handeliana del tardo Beethoven. E', in questo prevalere del
singolo sulla collettività, l’altro volto della Missa, l ’immagine
non confortata dalla saldezza del dogma.
L’intento meditativo del Sanctus si addensa, lungo un tracciato
attiguo a quello degli Adagio degli ultimi Quartetti, nel Praeludium strumentale, per poi sciogliersi in pura luce alla sorpren­
dente apparizione del violino, sopra uno scintillare di flauti, che
introduce il soave Benedictus. Pagina di autentica grazia lirica,
sollevata alle altezze di un cielo mistico dai lunghi respiri
melodici dello strumento solista. Con il conclusivo Agnus Dei
altre e profonde cesure si aprono fra una riflessione di fede
vissuta nel tormento della coscienza individuale e la sua tra­
sposizione in una dimensione che ancora travalica i confini
della liturgia e i luoghi stessi della Chiesa, per volere fermamente
coinvolta l ’umanità tutta. Un’ansia di liberazione universale
nasce dalle desolate suppliche àz\VAgnus, mantenuto intera­
mente nel tono di si minore, e solcato da un itinerario che palesa,
nell’attrazione irresistibile delle voci verso il grave, il senso di
una colpa opprimente. Di qui la stilizzazione, ma pure l’inatteso
realismo figurativo, la teatralizzazione del “Dona nobis pacem”:
rappresentazione di una “pace interiore ed esteriore” (come di
legge in un taccuino di schizzi) che trasferisce nelle severe
strutture della Messa ora un clima di serenità pastorale, memore
del finale inno di ringraziamento della Sesta Sinfonia, ora im­
magini e furori guerreschi, risonanti di squilli marziali e rullar
di timpani. Sino a placarsi nella ferma, quieta, intima certezza
delle conclusive omofonie corali.
L’ultima delle quali appare talmente rivolta a un’illimitata
aspirazione di pace da ritenere riduttivo il “nobis”, cancellando­
lo dalla preghiera quasi per impeto universalistico, e risolven­
dosi in un assoluto, perentorio “dona pacem”.
E r n e s to
N a p o lita n o
—
leggere di musica
“Beethoven, vita e opere”: forti i dubbi espressi da Dahlhaus (1) sulla
possibilità - se non sull' utilità stessa - di tentativi ulteriori in quella direzione.
Cogliere l’opera musicale nel suo aspetto estetico, senza trascurare la storia
ma aprendo alla ricerca prospettive nuove, ecco l’obiettivo generalissimo:
ipotesi di pensionamento per la compassata diade rusconiana (2, 3). Carli
Bailóla resta comunque utile per capirefino a che punto si possa divergere da
Adorno (4): in una decina di pagine lo smontamento del saggio celeberrimo
viene condotto a termine con fatale inesorabilità. Meno esplicito nell'opposi­
zione alfrancofortese lo statunitense Kirkendale (5) impegnato nella messa (!)
in luce del retroterra storico del «capolavoro» beethoveniano, consavevolmente intento a suo avviso nell'alveo della grande tradizione della Messa
cattolica. Sulla M is s a S o le m n is ha, qualche annofa, appuntato lo sguardo un
compositore (6), ma chissà cos'ha detto: il numero della rivista contenente il
suo intervento è in Biblioteca disgraziatamente mancante. Quarta, fascinosa
via d’accesso è quella di Magnani (7); la quinta è la più lunga, ma la meno
tortuosa (8): settanta pagine in pretto stile anglosassone, pragmáticamente
sfrondate da sofismi e pure tradotte. In coda all’ultimo decennio gli ultimi
giorni (9): la M is s a è finita, e Beethoven se ne sta andando (ahi lui tutt’altro
che in pace): un bambino lo guarda stupefatto, sogna e poi, fattosi grande,
consegna alla carta le proprie memorie, regalando anche al lettore odierno
istanti di commozione autentica. Solomon (10) per chi, spigolando, vuole
arrivare addirittura al segreto dell’«amata immortale» (ma nel libro c' è molto
di più). Ancora Pestelli (11) per una sintesi storica agile e pazienza - tanta per il Forbes-Thayer (12), da un quarto di secolo in attesa di un traduttore
italiano.
A lb e rto
R iz z u ti
(1 ) C . D A H L H A U S , B e e t h o v e n e i l s u o t e m p o , T o rin o , E D T , 1990.
(2 ) W . R I E Z L E R , B e e t h o v e n , M ila n o , R u s c o n i, 1978.
(3 ) G . C A R L I B A L L O L A , B e e t h o v e n . L a v i t a e l a m u s i c a , M ila n o , R u ­
s c o n i, 1 985.
(4 ) T H .W . A D O R N O , S t r a n i a m e n t o d i u n c a p o l a v o r o , in Dissonanze,
M ila n o , F e ltrin e lli, 198 1 .
(5 ) W . K I R K E N D A L E , L a m i s s a S o l e m n i s d i B e e t h o v e n e l a t r a d i z i o n e
r e t o r i c a i n “ A A .V V ., B e e t h o v e n ” a c u ra d i G . P e s te lli, B o lo g n a , Il
M u lin o , 1988
(6 ) H . P O U S S E U R . L a M i s s a S o l e m n i s : m i r o i r d ’ u n c o n f l i t b e e t h o v e n i e n ,
in «Schweizerische Musikzeitung», 1 979.
(7 ) L . M A G N A N I, B e e t h o v e n n e i s u o i q u a d e r n i d i c o n v e r s a z i o n e , T o r i­
n o , E in a u d i, 1975.
(8 ) M . C O O P E R , B e e t h o v e n . L ’ u l t i m o d e c e n n i o . 1 8 1 7 -2 7 , T o rin o , E R I,
1979.
(9 ) G . v o n B R E U N IN G , D a l l a c a s a d e g l i S p a g n o l i N e r i . L u d w i g v a n
B e e t h o v e n n e i m i e i r i c o r d i g i o v a n i l i , M ila n o , S E , 1 990.
(1 0 ) M . S O L O M O N , B e e t h o v e n . L a v i t a , l ’ o p e r a , i l r o m a n z o f a m i l i a r e ,
V e n e z ia , M a rs ilio , 198 6 .
(1 1 ) G . P E S T E L L I, L ’ e t à d i M o z a r t e d i B e e t h o v e n , v o i. V II d e lla Storia
della Musica S Id M , T o rin o , E D T , 1991 (n u o v a e d iz io n e a m p lia ta ).
(1 2 ) T h a v e r ’ s L i f e o f B e e t h o v e n , e d . b y E . F o r b e , P r in c e to n (N .J .), P rin c e to n
U n iv e r s ity P re s s , 1 9 6 7 (re v is e d ).
L a m a g g io rp a rte delle p u b b lic a zio n i in d ic a te p u ò esse re c o n su ltata p resso la C ivica
B ib lio teca M u sicale “ A n d re a D ella C o rte ” - V illa T e s o rie ra - C o rso F ran cia, 192.
Nell’intento di dare un contributo alla salvaguardia dell’ambiente, I program­
mi di sala di Settembre Musica vengono stampati su carta riciclata.