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Traccia per la conversazione a Como – 27 ottobre 2010
1.
Nel 1946 Il generale De Gaulle, allora Presidente del Consiglio francese, si dimise dalla
carica per contrasti in seno al governo. Mentre lasciava il palazzo presidenziale, un suo
sostenitore gridò alludendo a coloro che avevano spinto il generale alle dimissioni: “À
mort les imbéciles!” Il generale lo guardò e commentò: “Vaste programme…”
Programma vasto e disperato, aggiungo io, perché, come dice il proverbio, “la madre
degli imbecilli è sempre incinta” e, come scrive Carlo Cipolla nel suo saggio “Le leggi
fondamentali della stupidità umana”, la prima legge afferma che “Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione”. Tra
l’altro, il saggio si raccomanda all’attenzione degli studenti liceali per l’ampio uso che
vi si fa delle coordinate cartesiane.
Anche cercare di definire il tempo è un programma vasto e disperato: il tempo è una
componente fondamentale dell’universo materiale, all’apparenza ovvia ma in realtà di
difficile definizione.
Già nel V secolo Sant’Agostino scriveva nelle Confessioni: “Che cos’è il tempo? Se
nessuno me lo chiede, lo so; ma se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, allora non lo so
più”.
Più o meno, 1600 anni dopo siamo allo stesso punto: la natura ultima del tempo rimane
avvolta nell’oscurità, e la teoria della relatività di Einstein non ha certo contribuito a
dissipare le tenebre che la avvolgono, quando uno dei suoi corollari è che due gemelli
potrebbero avere un’età diversa se uno dei due viaggiasse per il cosmo alla velocità della luce.
Siccome io sono uno scrittore di romanzi, vi invito a leggere in proposito La montagna
incantata di Thomas Mann. Il sesto capitolo si apre proprio con la domanda “che cos’è
il tempo?” alla quale seguono le considerazioni che il protagonista del romanzo, ospite
di un sanatorio a Davos, rivolge a se stesso senza ovviamente trovare una risposta soddisfacente.
In alternativa, potete leggere il dialogo De brevitate vitæ di Lucio Anneo Seneca, che
contiene molte considerazioni sul tempo e sul modo migliore per utilizzare quel che è
concesso a ciascuno di noi.
(Vale la pena di ricordare che fino al tredicesimo secolo non esistevano gli orologi; sicché, incontrarsi in un’ora che non fosse l’alba, il tramonto o il mezzogiorno era
un’impresa difficile. I romani, poi, avevano un sistema insolito per misurare il tempo
quotidiano: suddividevano il giorno in dodici ore diurne, dall’alba al tramonto, e in dodici ore notturne, sicché d’estate le ore diurne duravano circa 75 dei nostri minuti e
d’inverno circa 45. Non parliamo poi dei legionari di stanza lungo il Vallo di Adriano,
che separava la Britannia romana dalla Caledonia barbara: lì le ore diurne duravano 90
minuti d’estate e 30 d’inverno!)
2.
Non c’è però soltanto il tempo assoluto, il tempo oggettivo, quello che scorre con la bella regolarità indicata dagli orologi quando funzionano bene; c’è anche il “tempo percepito” dai singoli esseri umani, un tempo che apparentemente si allunga o si accorcia a
seconda delle circostanze.
Ad esempio, quando si sta con l’amato bene o si ascolta una lezione interessante il tempo sembra correre troppo in fretta, il momento della separazione o la fine della lezione
arrivano sempre troppo presto.
Esempio a contrario: quando si sta senza far nulla o si ascolta una lezione noiosa (come
potrebbe essere il caso di questa conversazione) il tempo sembra non passare mai.
Questa apparente elasticità del “tempo percepito” produce un effetto curioso quando si
torna con la memoria al passato: a distanza di tempo i momenti che sembravano correre
troppo in fretta sembrano lunghissimi, densi di avvenimenti importanti, carichi di significato; mentre i lunghi periodi di ozio o di noia sembrano essere durati un istante, vuoti
come sono e privi di eventi memorabili.
Milan Kundera propone nel suo romanzo “La lentezza” un fenomeno analogo a quello
appena citato, ossia la singolare equazione inversa tra la memoria e la velocità: quanto
più si va in fretta, scrive Kundera, tanto minori sono i ricordi e viceversa. Da escursionista, ho sperimentato personalmente la verità di questa equazione: per andare a piedi da
Roncisvalle a Santiago di Compostella ho impiegato ventidue giorni quando, in automobile, avrei potuto compiere il tragitto in un solo giorno; ma i ricordi che ho portato
con me da quella lunga escursione sono ancora vivi nella memoria dopo cinque anni,
mentre se fossi andato in automobile probabilmente ricorderei ben poco.
Il “tempo percepito” o psicologico che dir si voglia, insomma, è come una fisarmonica
che si allunga e si accorcia a seconda delle circostanze. Una bella descrizione di questo
tempo personale si trova nella poesia “Le lac” di Alphonse de Lamartine, poeta francese
vissuto nell’Ottocento:
Temps jaloux, se peut-il que ces moments d’ivresse
Où l’amour à long flots nous verse le bonheur
S’envolent loin de nous de la même vitesse
Que les jours de malheur?
O tempo invidioso, perché i momenti di ebbrezza
Quando l’amore ci riempie di felicità
Volano via con la stessa velocità
Dei giorni di sventura?
3.
Il tempo è presente anche nella letteratura, in particolare nei romanzi (ma anche nei poemi) che in genere hanno un inizio, uno svolgimento e una fine spesso databili con precisione.
Ad esempio, “I promessi sposi” inizia il 7 novembre 1628 e si conclude due anni dopo,
alla fine del 1630, l’anno della peste, con il matrimonio tra Renzo e Lucia.
Qualcuno si è preso la briga di stendere addirittura una cronologia della “Divina Commedia” e, dopo attento esame del testo, ha concluso che il viaggio di Dante inizia giovedì 7 aprile 1300 e si conclude nell’empireo una settimana dopo, il 13 aprile.
In genere, il tempo dei romanzi scorre in senso cronologico; vale a dire che il racconto
inizia in una data x e termina in una data y posteriore alla prima. Tuttavia, gli scrittori
moderni si sono divertiti a imbrogliare le carte (e a complicare la vita del lettore) prima
usando in abbondanza la tecnica del ricordo o flash-back che dir si voglia, poi addirittura spezzettando il racconto in episodi poco rispettosi della cronologia complicando ulteriormente (e inutilmente, a mio parere) la lettura.
Tuttavia, anche nei romanzi è presente il “tempo percepito” o psicologico, che in questo
caso sarebbe più giusto definire il “tempo della narrazione”, perché in genere i romanzi
presentano anch’essi un andamento a fisarmonica: lunghe descrizioni dei momenti cruciali e brevi accenni ai periodi nei quali non succede nulla di importante ai fini della
narrazione.
Sempre ne “I promessi sposi”, circa il 20% del romanzo se ne va nella descrizione dei
pochi giorni che intercorrono tra l’incontro di don Abbondio con i bravi e la fuga di
Renzo e Lucia da Lecco; e circa il 16% se ne va per descrivere le disavventure di Renzo
a Milano e la sua fuga oltre l’Adda, anch’esse durate due o tre giorni al più; e gli esempi
potrebbero continuare. Per converso, il Manzoni descrive con due paginette scarse i
lunghi mesi dell’esilio di Renzo in terra bergamasca.
4.
Anche nel mio romanzo “Bella ciao” c’è un tempo cronologico: un tempo nel quale sono vissuti i vostri nonni, quello dell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, tra il
giugno 1944 e la fine di aprile del 1945, con una breve appendice posteriore. Per i protagonisti, questo tempo cronologico corrisponde all’ultimo anno di liceo.
Come ha scritto Miriam Mafai su “La Repubblica” del 3 ottobre scorso, “La ruota della
storia ha un suo ritmo imprevedibile. Ci sono anni nei quali arranca (come un ciclista in
salita, aggiungo io), altri nei quali accelera la sua corsa.” Si pensi, per esempio, al 410
con il sacco di Roma da parte dei Visigoti, al 1492 con la scoperta dell’America o al
1789 con la presa della Bastiglia. Le parole di Miriam Mafai si adattano perfettamente
anche agli anni 1944 – 1945, nei quali nacque l’Italia in cui viviamo tuttora.
Anche in questo romanzo il tempo si addensa o si stempera a seconda delle esigenze
narrative: sulle 285 pagine complessive, ben cinquanta sono dedicate ai dieci giorni intercorsi tra il 20 aprile e il 1° maggio 1945, i giorni in cui il protagonista partecipa alle
vicende tumultuose che si svolgono lungo la Via Regina tra Como e Dongo a conclusione della guerra.
La trama del romanzo è composta da due vicende che si intrecciano in quell’anno fatale:
quella di Paolo Brioschi e della sua fidanzata Marisa Borletti, studenti all’ultimo anno
del liceo, e quella di due partigiani: Luigi Canali, nome di battaglia Neri, e Giuseppina
Tuissi, nome di battaglia Gianna, brutalmente uccisi poco dopo la fine delle ostilità.
Paolo Brioschi e Marisa Borletti (insieme ai loro compagni di classe e ai professori) sono personaggi di fantasia, anche se ho attribuito al primo parecchie caratteristiche personali reali o sognate (compresa quella di avere una fidanzata comasca…); ma pur essendo personaggi di fantasia essi si muovono in una realtà nazionale, cittadina e scolastica che corrisponde alla verità storica: in particolare, nell’anno scolastico 1944 – 1945
i licei comaschi come quelli delle altre città occupate furono al centro di fermenti politici vivaci. Anche la progressiva presa di coscienza antifascista dei due giovani corrisponde a quella di tanti ragazzi della loro generazione.
La vicenda di Paolo e Marisa ha per sfondo il Liceo Classico Volta, per il buon motivo
che io ho studiato lì; ma sicuramente lo stesso è accaduto al Liceo Giovio e negli altri istituti superiori di Como. Forse qualcuno potrebbe cercare di scoprire cosa accadde in
quell’anno al Liceo Giovio andando a scartabellare i registri di classe, ammesso che esistano ancora.
Invece, la vicenda di Neri e di Gianna è purtroppo vera fin nei particolari (con una sola
eccezione debitamente segnalata in calce al testo) e fa parte di quei tragici ma a quanto
pare inevitabili “regolamenti di conti” che avvengono alla fine delle guerre civili.
C’è però una differenza di non poco conto: Neri e Gianna non furono uccisi dai fascisti
ma dai loro compagni del Partito Comunista Italiano per motivi che ormai non saranno
più chiariti perché tutti i protagonisti di quegli eventi sono ormai morti senza parlare; né
i processi giudiziari né le ricerche compiute anche in anni recenti hanno portato a una
risposta definitiva anche se è probabile che l’eliminazione dei due partigiani abbia avuto
a che fare con i valori requisiti ai gerarchi fascisti arrestati e poi fucilati a Dongo. Chi
volesse saperne di più, può leggere in proposito i saggi di Giorgio Cavalleri e di Franco
Giannantoni.
(Secondo i dati necessariamente approssimativi raccolti dal Ministero dell’Interno alla
fine del 1946, nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra furono uccise
circa 10.000 persone “politicamente compromesse”; dopo la Liberazione, in Francia ne
furono uccise per motivi politici circa 9.000 mentre dopo la fine della guerra civile spagnola i fascisti del generale Franco uccisero un numero di repubblicani assai più elevato: circa 100.000, secondo stime che non è mai stato possibile verificare, neppure dopo
la caduta del regime.).