Cacciatori di tesori

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Cacciatori di tesori
Presentazione
Andare a caccia di tesori è pericoloso… Ma con questi ragazzi è un vero spasso! I fratelli Kidd
l’avventura ce l’hanno nel sangue, ma ora che mamma e papà sono misteriosamente scomparsi devono
cavarsela da soli. Dalle profondità dell’oceano, alle brulicanti strade di New York, non sarà semplice
seminare i pirati-surfisti che sono sulle loro tracce, e nemmeno vedersela con i trafficanti d’arte senza
scrupoli che vogliono la loro pelle… Salta a bordo e unisciti alla caccia al tesoro più divertente di
sempre!
James Patterson è uno dei più grandi fenomeni editoriali dei giorni nostri. Famoso tra gli
adulti come autore di thriller (pubblicati in Italia da Longanesi), è conosciutissimo tra i ragazzi per la
fortunata serie Scuola Media (Salani), oltre a Witch & Wizard e Maximum Ride (Editrice Nord). Nel
2010 è stato incoronato dai giovani lettori americani come miglior autore dell’anno. I suoi libri hanno
venduto 270 milioni di copie nel mondo. Da qualche anno Patterson è molto impegnato nelle scuole per
la promozione della lettura.
Chris Grabenstein scrive libri per ragazzi e per adulti. Ha collaborato con James Patterson per
la serie best seller I Funny. Vive a New York.
Juliana Neufeld ha vinto numerosi premi come illustratrice. Potete trovare i suoi disegni su
libri, copertine di dischi e nei siti Internet. Vive a Toronto.
James Patterson
Chris Grabenstein
Juliana Neufeld
Cacciatori di tesori
Per Owen Ellington Pietsch
J.P.
Titolo dell’originale inglese
TREASURE HUNTERS
Traduzione di Pietro Formenton
Lettering italiano di Studio Plancton
Copyright © 2013 by James Patterson
Illustrations by Juliana Neufeld
Copyright © 2014 Adriano Salani Editore s.u.r.l.
ISBN 978-88-6715-896-6
Prima edizione digitale 2014
Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
NOTA A MARGINE DI BICK KIDD
Giusto perché lo sappiate, sarò io a raccontarvi questa storia, ma sarà mia sorella gemella Beck
(che ha un talento incredibile e dovrebbe frequentare una scuola d’arte o mettere in mostra le sue opere
in un museo o roba simile) a fare i disegni.
Come quello lì a sinistra.
Ve lo dico in anticipo perché, anche se siamo gemelli, Beck e io non sempre vediamo ogni cosa
esattamente allo stesso modo. Per esempio, io non somiglio affatto a come lei mi disegna. Ho dodici
anni. Non ho i baffi né una benda sull’occhio. Perciò non dovete credere a tutto ciò che vedete.
Bene. Beck vuole che vi dica di non credere nemmeno a tutto ciò che dico io. Vabbe’. Adesso
possiamo andare avanti con la storia? Bene.
Tenetevi forte.
Le cose stanno per farsi pericolose.
E bagnate. Molto, molto bagnate.
Ora vi racconterò dell’ultima volta che ho visto mio padre.
Eravamo in coperta, impegnati ad armare la nostra barca per affrontare quella che aveva tutta
l’aria di una tempesta perfetta.
Insomma, era perfetta se eravate la tempesta. Non altrettanto se eravate quelli sbatacchiati sul
ponte come calzini bagnati dentro a una lavatrice.
Avevamo appena finito di piegare e legare le vele in modo da procedere a secco di tela.
«Lega il timone!» sbraitò mio padre a mio fratello maggiore, Tommy lo Svampito. «Metti la
barca sottovento e legalo!»
«Subito!»
Tommy tirò forte il timone mettendo la prua sottovento. Avvolse una corda elastica attorno ai
raggi di legno del timone per tenerci puntati in quella direzione.
«Adesso andate sottocoperta, ragazzi. Chiudete i boccaporti. Aiutate le vostre sorelle ad
azionare le pompe».
Tommy si attaccò a tutto quel che poteva per restare in equilibrio e scese sotto la tuga.
Proprio in quel momento un’onda gigantesca si rovesciò sul lato di dritta della barca e mi
mandò a gambe levate. Scivolai sul ponte viscido come un disco da hockey sul ghiaccio. Sarei finito
fuori bordo se mio padre non avesse allungato un braccio e mi avesse afferrato mezzo secondo prima
che diventassi un’esca per gli squali.
«È ora di scendere da basso, Bick!» gridò mio padre sotto l’infuriare della tempesta, con la
pioggia che gli sferzava il viso.
«No!» gridai di rimando. «Voglio stare quassù e aiutarti».
«Mi aiuterai di più restando vivo e impedendo alla Sperduta di affondare. Adesso sbrigati! Vai
giù».
«M-m-ma…»
«Vai!»
Mi diede una spintarella per farmi avanzare sul ponte inclinato. Quando raggiunsi la tuga, mi
afferrai a un appiglio per girare su me stesso e attraversare la porta. Tommy era già sceso nel vano
motore per aiutare ad azionare le pompe di sentina.
All’improvviso una gigantesca mazzata di acqua salata si abbatté contro la fiancata di dritta,
inclinando paurosamente la barca verso sinistra. Sentii il legno scricchiolare. Ci piegammo così
bruscamente che caddi contro la parete mentre la nostra fiancata sinistra schiaffeggiò il mare in
tempesta.
Stavamo per capovolgerci. Ci avrei giurato.
Invece La Sperduta si raddrizzò, agitandosi e sgroppando come una furiosa balena spiaggiata.
Ritrovai il pavimento e chiusi il portellone della tuga. Dovetti spingerlo con tutto il peso del
corpo. Le onde continuavano a batterci contro. L’acqua voleva a tutti i costi che la facessi entrare.
Non l’avrei mai permesso. Non durante il mio turno.
Tirai il chiavistello per bloccare la porta.
Naturalmente avrei riaperto non appena mio padre avesse finito di fare quello che andava fatto
sul ponte e fosse tornato a poppa fino alla tuga. Ma per il momento dovevo evitare che La Sperduta
imbarcasse altra acqua.
Sempre che fosse possibile.
Il mare continuava a ribollire. La Sperduta continuava a beccheggiare. La tempesta continuava
a spruzzare acqua di mare attraverso ogni crepa e fessura che riusciva a trovare.
E io? Andai in panico. Perché avevo l’orribile sensazione (del tipo ‘Stiamo affondando!’) che
stesse arrivando la fine.
Sarei annegato in mare.
A dodici anni si è troppo giovani per morire.
A quanto pareva il Mar dei Caraibi non la pensava così.
Aspettai e aspettai, ma mio padre non tornò mai verso poppa fino al portellone della tuga.
Attraverso gli oblò anteriori riuscivo a vedere le onde abbattersi sulla nostra prua che andava su
e giù. A vedere il cielo farsi ancora più nero. Notai un salvagente che si staccava dalla sua fune e
volava fuori bordo come un frisbee a forma di ciambella.
Ma non riuscii a vedere papà.
All’improvviso mi resi conto che avevo le calze fradice per l’acqua salata che sciabordava sul
pavimento. E io ero in alto, a livello del ponte.
«Sul ponte???» esclamai stupefatto. «Tommy? Storm?»
Mio fratello e le mie sorelle erano tutti giù nelle cabine e nei locali tecnici, dove l’acqua era
senz’altro salita di più.
Dovevano essere intrappolati!
Mi precipitai più in fretta che potevo giù per i quattro gradini che portavano sottocoperta.
L’acqua mi arrivava alle caviglie, poi alle ginocchia, poi alle cosce e infine alla vita. Avete mai provato
a correre dentro la parte più bassa di una piscina? Era quello che ero costretto a fare. Ma dovevo
trovare la mia famiglia.
Insomma, quello che ne era rimasto.
Arrancai da una porta all’altra, cercando affannosamente i miei fratelli.
Non erano nel vano motore, in cambusa e nemmeno nella cabina dei miei genitori. Sapevo che
non potevano essere nella Stanza, perché la sua massiccia porta d’acciaio era chiusa ermeticamente e
l’accesso era assolutamente proibito a tutti noi.
Mi trascinai avanti mentre la barca continuava a oscillare da una parte all’altra. Qualsiasi
oggetto che non fosse inchiodato sbatteva dappertutto negli armadietti. Sentivo le lattine di cibo in
scatola cozzare contro i piatti di plastica che si rovesciavano tintinnando sulle tazze da caffè.
Iniziai a picchiare entrambi i pugni sulle pareti dello stretto corridoio. L’acqua mi arrivava al
petto.
«Ehi, ragazzi! Tommy, Beck, Storm! Dove siete?»
Nessuna risposta.
Ovviamente è probabile che mio fratello e le mie sorelle non potessero sentirmi, perché la
tempesta tropicale che infuriava fuori urlava anche più forte di me.
All’improvviso, da sopra, una porta si spalancò.
A Tommy, che aveva diciassette anni e il tipo di muscolatura che ti viene soltanto dall’avere
fatto per tutta la vita il marinaio su una barca a vela, era bastato spingere sul legno con la spalla per
sfondarla.
«Dov’è papà?» gridò.
«Non lo so!» gli urlai di rimando.
Fu allora che Beck e mia sorella più grande, Storm, uscirono a fatica dalla loro cabina
completamente allagata. Un paio di occhiali 3D galleggiava sull’acqua. Beck li raccolse e se li infilò.
Li indossava quasi sempre da quando nostra madre era scomparsa.
«Papà era legato a una cima di sicurezza?» chiese Storm, che appariva spaventata e preoccupata quanto
me.
Non potei fare altro che scuotere la testa.
Beck mi guardò, e anche se i suoi occhiali 3D le nascondevano gli occhi, ero sicuro che stesse
pensando la stessa cosa che pensavo io. Siamo gemelli. Capita.
Dentro di noi, sapevamo entrambi che papà era spacciato.
Perché sul ponte qualsiasi cosa non fosse stata legata era stata ormai spazzata fuori bordo.
Dalle loro espressioni tristi capii che anche Storm e Tommy lo avevano immaginato. Forse
stavano guardando fuori da un oblò quando quel salvagente era volato via.
Un po’ tremanti ci avvicinammo gli uni agli altri a formare un piccolo cerchio e abbracciarci
stretti.
Noi quattro eravamo la sola famiglia che ci era rimasta.
Tommy, che aveva vissuto sulle navi più a lungo di tutti noi, iniziò a borbottare una vecchia
preghiera dei marinai:
«Anche se la Morte ci aspetta oltre la prua, noi non le risponderemo».
Sperai che avesse ragione.
Ma avevo la strana sensazione che la Morte non avrebbe accettato un no come risposta.
Ehi! Non così in fretta.
Non avrete pensato davvero che quella fosse la Fine, vero? Se adesso fossi morto, come potrei
raccontarvi questa storia?
Okay. Bene. Beck dice che avrebbe potuto continuare lei. Che scrivere è più facile che
disegnare. Vabbe’. A scarabocchiare un disegno son capaci tutti.
Promemoria: se mai doveste possedere una barca, non chiamatela Sperduta. Perché era
esattamente questo che eravamo: sperduti in mezzo al mare. Probabilmente dovremmo essere grati a
papà di non avere chiamato la sua barca Affondata, Sommersa o Titanic II.
Quando finalmente la tempesta si placò, noi quattro riuscimmo, non si sa come, a sopravvivere
(per il momento, almeno). Sì, La Sperduta stava ancora imbarcando acqua, avevamo tutti le scarpe
piene di alghe e la radio era andata. Ma noi eravamo ancora tutti vivi.
Sfortunatamente, non potevamo dire lo stesso di papà.
Era scomparso. Andato. E nessuno di noi sapeva bene che cosa gli fosse successo.
«È finito in mare» dichiarò Storm in tono piatto. Lei ha due anni più di me e Beck, ed è un tale
genio (il suo quoziente intellettivo è fuori dalla media) da risultare socialmente inopportuna. Sputa
sempre sentenze che la gente in realtà non vuole sentire. «È morto. Probabilmente annegato».
«Aspetta un attimo» feci io. «Non lo sappiamo per certo».
Storm esitò. «Hai ragione. Forse lo hanno divorato prima gli squali».
Probabilmente avrei dato un pugno a chiunque altro avesse detto una cosa simile. Ma Storm è
fatta così, e sapevo che era triste quanto noi.
A rendere la scomparsa di papà ancora più deprimente era il fatto che solo tre mesi prima era
scomparsa anche nostra madre. Era sparita a Cipro.
«Probabilmente quei loschi commercianti le hanno sparato» aveva sentenziato Storm all’epoca.
«Uno di loro aveva un mitra Uzi nascosto sotto il risvolto sinistro del suo impermeabile marrone a
doppio petto. C’erano macchie di tzatziki secco sul bavero».
Vi ho già detto che Storm ha una memoria fotografica?
Per farla breve: in quel momento, senza una madre né un padre, Storm, Tommy, Beck e io
eravamo ufficialmente degli orfani alla deriva nel Mar dei Caraibi, nel nostro personalissimo
orfanotrofio che stava lentamente affondando.
Ovviamente, non ci era andata sempre così male.
Non per vantarci, ma quattro mesi prima eravamo probabilmente la famiglia più incredibile che
poteste immaginare. Non per quello che facevamo noi, ma per mio padre: il professor Tom Kidd.
Proprio così. Quel Tom Kidd.
L’oceanografo e cacciatore di tesori famoso in tutto il mondo.
L’uomo che aveva ritrovato al largo delle Barbados i resti del galeone spagnolo Nuestra Señora
del Mar del Oro naufragato nel 1621 (pieno zeppo di monete d’oro, lingotti d’argento e sacchi di
smeraldi colombiani). In Asia aveva scoperto migliaia di reperti di ceramica risalenti alla dinastia Ming
nella stiva di una nave da carico affondata. Al largo di Cipro, nel Mediterraneo, aveva ripescato un
forziere pieno di gioielli e oggetti religiosi tempestati di diamanti.
E noi eravamo il suo equipaggio. Eravamo cacciatori di tesori anche noi!
Della nostra istruzione si sono sempre occupati i nostri genitori, che ci hanno insegnato a
sopravvivere nel mondo reale… senza gli iPod, gli iPhone, gli iPad o i panini di McDonald’s. Siamo
almeno due classi più avanti rispetto a dove saremmo stati in una scuola normale.
(Be’, forse non Tommy lo Svampito. Ha diciassette anni e passa il tempo a curare il suo aspetto
fisico, perciò lui è probabilmente molto vicino alla sua classe giusta.)
Non sono mai stato in un centro commerciale.
Beck non si è mai fatta la manicure o la pedicure.
Tommy non ha mai avuto bisogno di iscriversi a una palestra alla moda per gonfiare i suoi
pettorali.
E Storm può battere anche Google con il nostro computer di bordo, perché ricorda ogni singola
pagina web che abbia mai visitato.
Proprio così, da quando Beck e io avevamo tre anni la nostra casa e la nostra scuola è stata questa
incredibile barca a vela di diciannove metri. È qui che abbiamo imparato a cucinare, preso lezioni di
karate (papà è cintura nera) e imparato a navigare orientandoci con le stelle.
La Sperduta ci ha portato in più porti e in più Paesi di quanti chiunque di noi possa ricordare.
(Salvo Storm che, come ho detto, ricorda tutto… persino quali macchie di cibo avete
sull’impermeabile.)
Nove anni dopo, è del tutto normale per Beck e me sapere leggere una mappa del tesoro, fare
immersioni subacquee con papà e aiutarlo a ripescare inestimabili scudi vichinghi da un relitto
dell’undicesimo secolo nello Stretto di Skuldelev in Danimarca, perché un museo di Oslo è disposto a
pagarli un mare di dollari per aggiungerli alla sua collezione.
Quello che per noi non è normale è lanciarsi palle da baseball nel giardino sul retro. L’erba
sotto i piedi mi fa una strana sensazione. E poi, se lanci una palla da baseball su una barca, sei sicuro di
perderla.
Allo stesso modo avevamo perso papà.
Già, prima di Cipro e di quest’ultima Tempesta Perfetta, la vita sulla Sperduta era sempre stata
grandiosa.
Peccato che la nostra vita felice stesse per finire, visto che saremmo affondati e annegati tutti.
Sempre che, come aveva detto Storm, non ci avessero mangiato prima gli squali.
Credo che i nostri genitori avessero soprannominato mio fratello maggiore Tommy ‘lo
Svampito’ perché di solito ha l’aria piuttosto confusa.
A meno che non stia governando una nave.
Allora diventa una specie di cecchino. Totalmente concentrato.
Mentre il giorno avanzava e il sole bruciava via ogni singola nuvola dal cielo, Tommy se ne
stava in piedi al timone, sbirciando gli strumenti e ignorando il caldo soffocante. Era un compito duro.
Il ponte era così bollente che i miei piedi friggevano come salsicce su una griglia.
«Ci siamo persi?» chiesi.
«Decisamente, sì». Tommy spostò il timone leggermente a sinistra.
«Stai seguendo un percorso?»
«Naaa. Sto solo seguendo la corrente, fratellino».
«Che cosa?»
«La corrente equatoriale. Le Isole Cayman sono dritte nella sua direzione».
«Quindi in pratica stiamo andando alla deriva?»
«In pratica. Il GPS è morto. Non gli ha giovato restare immerso nell’acqua salata».
Beck, che portava ancora gli occhiali 3D, ci raggiunse.
«Stiamo ancora imbarcando acqua» riferì. «Alla grande».
Tommy annuì. Era straordinariamente tranquillo, nonostante gli rovesciassimo addosso solo
pessime notizie.
«Non preoccupatevi. È mia intenzione bruciare carburante solo per far funzionare i generatori e
mantenere cariche le pompe di sentina, capite?»
In quel momento ci raggiunse anche Storm. Stava mangiando un Twinkie che doveva aver
trovato a galleggiare da qualche parte in cambusa. L’involucro aveva evitato che il pan di Spagna si
inzuppasse troppo.
«Dovremmo fare un funerale» disse.
Tommy sfoggiò la sua espressione confusa da svampito. «Per il GPS morto?»
«No. Per papà. E mamma».
«Non sono morti» intervenni.
«Potrebbero esserlo» insinuò Beck.
«Be’, non si fanno funerali per le persone che potrebbero essere morte. Si aspetta».
«Cosa?»
«Non lo so. Finché non si ha un corpo da seppellire?»
Storm scosse la testa. «Questo non succederà. Gli squali». E per sottolineare il concetto, diede
un morso al suo Twinkie.
Perciò decidemmo di procedere con un funerale in mare.
Beck trovò il cappello preferito di papà, un vecchio e malconcio berretto da marinaio macchiato di
sudore, con due ancore d’oro incrociate su un salvagente dorato. Papà aveva indossato questo berretto
da capitano così a lungo che il sole e l’acqua salata avevano trasformato il colore oro in un giallo
pop-corn.
Mamma aveva regalato il cappello a papà quando lui aveva iniziato a cercare tesori con la sua
barca.
Tenemmo a turno in mano il cappello mentre ricordavamo papà e mamma.
Iniziò Beck, che tecnicamente è la più giovane (di due minuti).
«Grazie per averci regalato le più belle feste di compleanno che siano mai esistite» disse. «E
grazie in particolare per quell’incredibile, favolosa testa di pirata fatta con la noce di cocco alle
Hawaii».
Queste parole mi fecero sorridere. Quando era il nostro compleanno, mamma e papà portavano
sempre Beck e me nel porto più vicino e ci lasciavano scegliere i regali più incredibili. Il mio preferito
era stato la spada da samurai che avevamo trovato a Hong Kong. Invece di torte e gelati, ci venivano
sempre offerti gli esotici dessert preferiti dai locali. A volte questi dessert erano flambé, così
soffiavamo su di loro anziché sulle candeline.
Poi toccò a me.
«Ricordo la prima volta che mamma e papà portarono Beck e me a un’immersione. Non la prima volta
che indossammo l’attrezzatura, ma la prima che scendemmo davvero in un relitto. Trovammo entrambi
quelle fighissime monete romane antiche. Più tardi chiesi a papà se era stato lui a piazzare le monete
perché Beck e io le trovassimo».
«Lo aveva fatto?» chiese Beck, che probabilmente si era fatta la stessa domanda.
Scossi la testa. «No. Disse che il mare non ci avrebbe mai reso la vita facile, perciò non lo
avrebbe fatto lui e neppure la mamma. Trovammo quelle monete onestamente. Eravamo ufficialmente
cacciatori di tesori. Grazie, papà. Grazie per averci insegnato che potevamo affrontare qualsiasi cosa
l’oceano o la vita ci avesse buttato addosso».
«Salvo questo» disse Storm, spalancando le braccia per comprendere la barca, il mare e
l’enormità della nostra situazione oggettivamente pessima.
La fissammo tutti.
«Scusate» mormorò.
«Non ti preoccupare» dissi, perché mi piaceva il modo in cui l’aveva detto prima Tommy.
«Tocca a te, Storm».
«Okay. Be’, ricordate quella volta che ormeggiammo in rada, proprio di fianco a quello yacht
da trenta metri? L’HMS Puzzasottoalnaso?»
Annuii. «Quei ragazzini ricchi i cui genitori non riuscivano a far funzionare i loro costosissimi
motori diesel».
«Esatto. Comunque, papà era sul ponte a pulire un pugnale che aveva trovato in quella nave
pirata affondata. Era una giornata caldissima, così mi tuffai a fare una nuotata. Fu allora che quei
marmocchi sullo yacht iniziarono a prendermi in giro chiamandomi grasso tricheco».
Tommy rise. «Me lo ricordo! Papà si mise il pugnale tra i denti, afferrò una cima e si lanciò
sull’altra barca come fosse un pirata».
Beck continuò da quel punto. «Poi disse: ‘A quanto pare avete dei problemi ai motori. Peccato
vi troviate a decine di miglia dal meccanico più vicino. Praticamente l’unica persona che potrebbe
aiutarvi è la mia splendida figlia, la ragazza carina che sta nuotando laggiù’».
Storm tratteneva a stento le lacrime.
Perciò andai avanti io e finii la storia al suo posto. « ‘Perché’ disse papà, ‘per puro divertimento
Storm Kidd ha memorizzato i manuali d’uso e manutenzione di praticamente qualsiasi natante si trovi
sul mare. Compreso il vostro palazzo galleggiante’».
«E poi tu gli hai riparato i motori» aggiunse Tommy.
«Solo perché me lo chiese papà» replicò Storm, cercando di asciugarsi gli occhi con le nocche.
«È quello che facciamo noi figlie ‘splendide’. Okay, Tommy. Tocca a te».
Tommy si rigirò il cappello tra le mani. «Okay. Mmm, grazie, papà, e, ehm, grazie, mamma,
per, insomma… tutto».
Annuimmo tutti. Perché le sue parole riassumevano di fatto ogni cosa.
Tommy buttò in mare il cappello di papà.
E tutti restammo lì in piedi sul ponte, a guardarlo allontanarsi lentamente.
C’è un’altra cosa che dovreste sapere su Beck e me: a volte esplodiamo in quelle che i nostri
genitori chiamavano ‘Filippiche Gemellari’.
Naturalmente, la prima volta che mamma e papà usarono quel termine io nemmeno sapevo che
cosa fosse una filippica.
Allora mamma (la nostra insegnante di lettere privata) mi fece guardare sul dizionario:
‘Filippica: scarica prolungata di parole aspramente polemiche’.
In sostanza si tratta di un gran gridare e lanciarsi insulti sprezzanti (gli insulti che escogito io
sono molto meglio di quelli di Beck: lo scrittore sono io, lei è l’artista). E in realtà le nostre Filippiche
Gemellari non sono ‘prolungate’. Anzi, di solito durano sessanta secondi e poi la finiamo lì. Sono una
specie di burrasca estiva alle Bahamas. Tuoni e fulmini a volontà e poi, un minuto dopo, il cielo è
assolutamente limpido.
Comunque, Rebecca (la chiamo così solo quando sono arrabbiato) e io esplodemmo in una
Filippica Gemellare mentre portavamo in coperta secchi d’acqua da sgottare dal vano motore.
«Ci serve un piano, Bick» disse lei, fermandosi sul ponte così di colpo che l’acqua fuoriuscì da
entrambi i suoi secchi.
«Tommy ce l’ha un piano» ribattei io. «Risaliamo la corrente fino alle Cayman. Il tesoro è lì».
«Parlo del quadro generale, Bickford!» (Già, anche lei mi chiama Bickford solo quando è
arrabbiata.)
«Pensavo avessi detto che ci serve un piano, non un quadro, Rebecca!»
«È esattamente quello che ho detto. E dev’essere il piano migliore in assoluto. Non il secondo
in classifica. Il migliore!»
«Be’, e chi deciderà qual è il piano migliore in assoluto per noi?»
«Noi!»
«E per noi» dissi, «intendi per caso te, signorina Portoioipantaloni?»
«No, razza di zuccone!» La faccia di Beck era più rossa di un’aragosta bollita. «Se avessi inteso
io, avrei detto io, non noi».
«E Tommy e Storm?»
«Fanno parte del noi».
«Non è vero. Fai due conti, Einstein. Noi siamo gemelli. Non quadrigemini».
«Intendo noi noi. Tutta la famiglia».
«Allora perché non l’hai detto?»
«L’ho detto».
«Quando?»
«Adesso».
«Davvero?»
«Sì».
«Oh. Scusa».
«Fa niente».
«Pace?»
«Certo».
E con questo, la nostra Filippica Gemellare era finita.
Uscimmo insieme dalla tuga e andammo alla timoneria.
«Tommy?» chiamò Beck.
«Storm?» feci io.
«Ci serve un piano!» gridammo all’unisono.
Tommy annuì. «Giusto. Sono d’accordo».
Storm svuotò il suo secchio oltre la fiancata e ci raggiunse sul ponte di poppa.
«Qual è il piano?» chiese.
«Primo, sopravviviamo!» esclamai.
«Okay» disse Tommy. «E come facciamo?»
«Facile» rispose Beck. «Mamma e papà ci hanno insegnato tutto ciò che ci serve sapere».
Storm annuì, e qualche attimo dopo annuì anche Tommy.
«Dobbiamo iniziare a razionare il cibo e l’acqua potabile» disse Storm. «Farò un foglio di
calcolo sul computer».
«E io stanotte controllerò le stelle» aggiunse Tommy. «Farò qualche triangolazione. Per
assicurarmi che questa corrente ci stia portando dove dobbiamo arrivare».
Si rivolsero entrambi a Beck e me. «E poi?» dissero insieme.
A quanto pareva i nostri fratelli maggiori intendevano affidare a Beck e me il comando di
questo disastro semiaffondato.
«Be’» dissi, «continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto».
Tommy inarcò un sopracciglio. «Andare a caccia di tesori?»
«Senza mamma e papà?» si stupì Storm.
«Perché no?» rispose Beck.
«È la nostra impresa di famiglia» dissi, completando il suo pensiero. (Esatto, ecco un’altra cosa
che fanno i gemelli.) «Dobbiamo solo trovare la mappa del tesoro di papà per l’immersione alle
Cayman».
«E non dimentichiamo» continuò Beck, «che sappiamo già come fare tutto il necessario.
Sappiamo governare la barca. Sappiamo pescare e andare in cerca di cibo».
«E Tommy ci può portare dovunque sui sette mari» dissi.
Lui annuì con tutta l’umiltà che gli riuscì. «Vero, vero».
«E, Storm» fece Beck, «tu puoi pensare al computer».
«E valutare potenziali nuovi siti dove cercare tesori» aggiunse Storm.
«Io posso fare accordi coi fornitori su Internet» disse Beck, «appena Tommy sarà riuscito a
riparare la nostra antenna parabolica».
«È in cima alla mia lista» disse Tommy, «non appena avremo raggiunto un porto. Antenna
parabolica e cheeseburger. Con patatine».
«In realtà non ci servono adulti per tenere in piedi questa attività» aggiunsi. «E poi, c’è davvero
qualcuno tra noi che vuole rinunciare ad andare a caccia di tesori? Qualcuno che intende sul serio
vivere una noiosa vita da terraiolo, scuole, centri commerciali e bastoncini di pesce surgelati
compresi?»
Scuotemmo tutti la testa.
Beck fece un gesto del tipo ‘che schifo!’
La verità era che nessuno di noi avrebbe mai potuto essere felice sulla terraferma, non dopo
avere passato la maggior parte della vita all’avventura sugli oceani. Che diamine, avevamo persino
incontrato dei pirati! Pirati veri. Non quelli di cera a Disney World.
In un certo senso, noi ragazzi Kidd eravamo come quelle creature selvagge del libro illustrato
che papà leggeva sempre a Beck e me quando eravamo piccoli. Quello dove un ragazzo di nome Max
solca un oceano su una barchetta e vive avventure notte e giorno.
«Possiamo farlo» dichiarò Beck.
«Assolutamente» concordò Tommy.
«Senz’altro» gli fece eco Storm.
Mi feci avanti. «Tutti quelli a favore di mantenere in attività la Famiglia Kidd Cacciatori di
Tesori SpA, alzino la mano».
La cosa più bella di un tramonto sul mare?
Non sono i bei colori. È il fatto che la palla di fuoco scandalosamente calda nel cielo la smette
di friggerti come una striscia di pancetta croccante, quando si immerge nell’oceano. Se socchiudi gli
occhi, riesci a vedere il vapore che sale.
Si stava facendo buio e la calura stava finalmente diminuendo. Salvo sottocoperta. Le cabine là
sotto erano come forni dotati di letti a castello. Così, mentre Tommy stava al timone e Storm scendeva
in cambusa per controllare le scorte di cibo che ci erano rimaste in dispensa, Beck e io iniziammo a
escogitare il nostro piano di sopravvivenza nel posto più fresco che riuscimmo a trovare. Ci facemmo
strada nel quadrato, l’ingombra stanza con gli oblò sotto la timoneria, quella che, nella brochure,
l’armatore di Hong Kong aveva definito il ‘sontuoso Gran Salone’.
Nella nostra barca sembrava più una disordinata stanza dei giochi. Certo, come diceva la
pubblicità il quadrato era dotato di ‘un divano curvo, rivestimento a pannelli di teak lucido e
armadiature di legno con lavabo incorporato’. Ma il lavabo era pieno di piatti sporchi e bottiglie di
bibite vuote, e le pareti a pannelli erano ingombre dei tesori preferiti dei miei genitori (tra i quali un
elmetto da conquistador, una rara maschera tribale africana, un bricco per il grog a forma di rana, una
palla da cannone arrugginita proveniente da una cannoniera confederata, un orologio di bronzo coperto
di cherubini che probabilmente era appartenuto a Luigi XIV e, dietro una vetrinetta, un coltello da
bistecca arrugginito proveniente dal Titanic).
Dal soffitto pendevano svariati gingilli, collane e noci di cocco. Aggiungete un mucchio di
attrezzature per immersione e snorkeling e l’assortimento di calzini, scarpe e T-shirt sul pavimento (il
pavimento è la nostra cesta della roba sporca) e il nostro gran salone somigliava di più a un cassonetto
dell’immondizia.
«Ma almeno abbiamo mai visto una mappa del tesoro che stiamo cercando?» chiese Beck.
«No. Papà ha detto soltanto che dovevamo andare alle Cayman».
«Quindi dobbiamo trovare la sua mappa».
Dopo un’ora di ricerche in quel groviglio di cianfrusaglie, reso ancora più aggrovigliato dalla
tempesta tropicale che aveva fatto cadere di tutto da tavolo, pareti e banconi, mi venne un’idea. Mi
rivolsi a Beck con uno sguardo deciso.
(Ho detto ‘deciso’, Beck, non ‘demente’. Sai di che sguardo sto parlando.)
(Così va meglio.)
«Dobbiamo guardare nella Stanza» sussurrai.
«Non possiamo entrare nella Stanza» sussurrò Beck di rimando. «La Stanza è chiusa a chiave».
«Allora dobbiamo trovare la Chiave della Stanza».
Sì, ogni volta che qualcuno di noi parla della Stanza o della Chiave della Stanza, sembra sempre
che parliamo con le iniziali maiuscole, perché l’accesso alla Stanza è proibito a Tutti Noi. È anche
dotata di una porta d’acciaio massiccio con una grossa serratura, lo stesso tipo di serratura utilizzata nei
caveau delle banche. A Fort Knox.
La Stanza è dove mamma e papà tenevano gli oggetti più segreti sulla nave. Mappe del tesoro.
Piani di recupero. Appunti su commercianti e mediatori dei musei.
Ma mettere le mani su tutto questo non era l’unica ragione che avevo per infrangere una delle
regole più importanti imposte dai nostri genitori e fare irruzione nella Stanza.
«Beck? Se ti dico una cosa mi prometti di non prendermi per matto?»
«Spiacente. Lo faccio già».
Per cui glielo dissi ugualmente: «Papà potrebbe essere là dentro. Vivo».
Stai scherzando, vero?»
Non era la reazione che cercavo.
«Non è uno scherzo, Beck» dissi, mentre scendevamo sottocoperta diretti verso prua.
La Stanza si trovava nella parte anteriore dello scafo. Ora eravamo davanti alla Porta fissando la
Serratura.
«Forse papà è andato là sotto durante la tempesta, magari per mettere al sicuro qualche
documento importante o chiudere una mappa del tesoro in un contenitore stagno, quando
all’improvviso un’onda ha sbattuto sul fianco della barca, ha fatto cadere qualcosa da uno scaffale e
BAM!, lui l’ha preso in testa ed è rimasto lì svenuto fino a ora».
Beck si limitò a lanciarmi un’occhiata. «Parli sul serio?»
«È possibile».
«E allora perché non lo abbiamo visto, Bick? Pronto, ci sei? Eravamo proprio qui nel corridoio,
ricordi? Ti rinfresco la memoria». Fece una serie di versi tipo splash-splash-gurgle-gurgle. «Eravamo
nell’acqua fino al collo, e non ricordo di avere visto papà passarci davanti a nuoto e infilarsi nella
Stanza».
«Non sei stata lì tutto il tempo. Magari ha usato uno dei boccaporti segreti sul ponte».
Ah, nel caso mi sia dimenticato di menzionarlo, La Sperduta è stata personalizzata con uno
svariato numero di boccaporti segreti, botole e nascondigli. Quando si trasportano tesori in acque
infestate da pirati, è utile avere qualche posto sicuro in cui nascondere il vostro carico prezioso. Beck
non può mostrarvi esattamente dove si trovano tutti questi scomparti, alberi incavati e passaggi segreti,
altrimenti… be’… non sarebbero più un segreto, ma questo disegno può darvi un’idea.
Comunque sia, una volta accennato alla mia idea su papà-che-entra-da-un-passaggio-segreto-sul-ponte,
l’espressione di Beck non lasciò spazi a dubbi: era il momento della Filippica Gemellare n. 426.
«Arrenditi, Bickford. Papà è morto!»
«No, non lo è, Rebecca. È nella Stanza».
«Assolutamente no».
«È possibile».
«Già. Come l’idea che tu un giorno o l’altro affronti la realtà. È possibile».
«Scommetto che in questo preciso momento è là dentro, sdraiato sul pavimento».
«È morto, Bick».
«No, lo sembrerà soltanto».
«Perché lo è!»
«Probabilmente è anche affamato e assetato».
«No, non lo è».
«Certo che lo è! Dovremmo preparargli un panino. Magari portargli una bibita energetica».
«Non è affamato né assetato, Bickford, perché è morto. È uno dei pochi vantaggi di essere
morti: non devi mangiare né bere o lavare i piatti».
«Rebecca, come fai a essere tanto fredda e senza cuore?»
«Come fai tu a essere tanto sentimentale?»
«Semplice. Io un cuore ce l’ho».
«Peccato non ti pompi sangue al cervello, idiota».
«Scusami, signorina Spock. Non siamo tutti superlogici come te».
«Mi accontento di semilogica».
«Davvero?»
«Sì».
«Oh. D’accordo».
«Bene».
Sì. Venti secondi, e avevamo finito.
«Scusami» mormorai.
«Idem» rispose Beck.
«E con me non si scusa nessuno?» Storm si trascinò nel corridoio uscendo dalla cabina che
condivideva con Beck. «Stavo cercando di dormire».
«Pensavo stessi facendo una lista delle nostre scorte di cibo» disse Beck.
«Ci sono voluti due secondi, perché in pratica non abbiamo nada. Allora ho deciso di farmi un
pisolino. E adesso grazie a voi due sono sveglia. Che state facendo?»
«Dobbiamo entrare nella Stanza» risposi.
«Perché?»
«Per trovare la mappa del tesoro di papà per l’immersione alle Cayman».
Storm ci pensò su un paio di secondi.
«Buona idea» disse.
Poi, sbadigliando e grattandosi il sedere, si girò e si trascinò di nuovo nella sua cabina.
«Okay, se tu fossi papà, dove nasconderesti la Chiave?» chiesi a Beck.
Prima che lei potesse rispondere, Storm tornò con in mano una grossa sveglia a molla. La
scaraventò contro i pannelli di legno duro di cui vi ho già parlato.
Il vetro si frantumò. Pezzettini microscopici volarono dappertutto.
E una chiave d’ottone ruzzolò sul pavimento.
Prima di tutto, mi sbagliavo di grosso.
Papà non giaceva svenuto e affamato sul pavimento della Stanza. (Perciò, servizio in camera,
cancellate l’ordinazione del panino con bibita.)
La cabina era buia e priva di finestre. Talmente buia che Beck si tolse (temporaneamente) i suoi
occhiali 3D. Ma anche se non vedevamo nulla al di fuori del buio pesto, sapevamo entrambi che la
Stanza era dove mamma e papà conservavano i tesori della nostra impresa di famiglia.
Trovai una lampada a parete e la accesi.
«Wow» esclamammo Beck e io in contemporanea.
«È incredibile» dissi. Nella luce fioca vidi che le pareti erano rivestite di pannelli di sughero. E
sui pannelli di sughero erano appuntati ogni genere di documenti, fotografie e mappe.
«Guarda, l’icona vecchia di trecento anni che abbiamo restituito a quella chiesa ortodossa a
Cipro poco prima che mamma sparisse» notò Beck, indicando una fotografia. «E il messaggio di
ringraziamento del vescovo di Neapoli».
«Quelle sono le impugnature e i foderi delle spade medievali che abbiamo recuperato al largo
dell’Inghilterra» dissi, esaminando le fotografie attaccate alle pareti sull’altro lato della Stanza.
Gli scaffali sotto quell’intrico di tabelloni avevano reti metalliche al posto dei vetri e
custodivano ogni sorta di inestimabili oggetti d’arte, manufatti e antichità. Ceramica precolombiana.
Armi antiche. Buddha grassottelli intagliati nella giada. Un vaso d’argilla tutto scheggiato pieno di
monete d’argento veneziane. Un bruciatore d’incenso di ottone a forma di divinità Indù.
Fissato in un angolo della Stanza, proprio dietro la Porta, c’era persino un sarcofago dorato a
testa di toro. Beck fissava una mappa sulla parete dietro gli scaffali.
«Qui non c’è un centimetro libero» osservò Beck. «Allora perché questa occupa mezza parete?»
Era una semplice mappa srotolabile, del tipo che si vedono a scuola, del Nord e Centro
America. Sulla mappa non c’erano annotazioni. Le Isole Cayman erano appena visibili a sud di Cuba.
«E guarda qui» dissi, indicando una lista scritta a mano infilata sotto la lastra di vetro sulla
scrivania di mamma e papà:
«Caspita!» disse Beck. «È una lista dei dieci più importanti tesori perduti del mondo. Non eri
attento quando mamma ce ne ha parlato a lezione di geografia?»
«Uh… certo! Ma questa non è una semplice lista, Beck. È una lista di cose da fare. È quello che
mamma e papà stavano progettando per il futuro».
Beck alzò le spalle. «Immagino stessero cercando di racimolare i soldi per mandare quattro figli
all’università».
«Non che a qualcuno di noi sia mai interessato andare all’università» le ricordai.
«Parla per te» obiettò lei. Per nulla impressionata dall’eccitante lista che avevo appena scoperto,
Beck proseguì a esaminare la parete dietro la scrivania. La metà non occupata dalla mappa era piena di
fotografie e stampate di oggetti d’arte: quadri, statue e ceramiche. Beck si stava concentrando sui
quadri.
«Quello è un Renoir» disse, indicando uno dei quadri. Conosce l’argomento perché ogni volta
che ormeggiamo al porto di una grande città lei trascorre tutto il tempo nei musei… dopotutto è
‘l’artista’ di famiglia. «Un Manet. Un Monet».
«Come fai a distinguerli?»
«Brevi colpi di pennello, è un Monet. Parigini grassocci, è un Manet».
«Giusto».
«Quello là è un Degas. Accanto c’è un Cézanne. E un Gauguin. E un Picasso. E un Van Gogh…
quello che si è creduto perduto per anni».
«Pensi che mamma e papà stessero progettando di cercare tutti questi quadri?»
«Se fosse così, avrebbero dovuto rubarli. Mmhh. Forse è per questo che l’hanno messa qui».
Beck toccò una fotografia in bianco e nero che ritraeva un gangster sorridente che indossava un
borsalino e masticava un sigaro. «Per ricordarci di non inseguire questo genere di tesori».
Vicino alla foto segnaletica del criminale c’era una copia del Chicago Sunday Tribune del 18
ottobre 1931. Il titolo a nove colonne diceva: CAPONE CONDANNATO.
Mentre Beck studiava quei capolavori d’arte, io esaminavo un altro tipo di arte: una vignetta che papà
aveva infilato sotto il vetro insieme alla lista delle cose da fare. Sapevo che era stato papà a ritagliare la
vignetta da qualche rivista perché si basava su una stupida barzelletta che mi aveva raccontato un
milione di volte: un professore, in tocco e toga, sta mostrando a uno studente un antico vaso greco
coperto su tutti i lati da varie figure e scene dipinte. «È un’urna di Creta?» chiede lo studente,
grattandosi la testa. E il professore: «Be’, non è certo di plastica!»
La battuta. Più scema. Del mondo.
Ma nell’ultimo paio di mesi mio padre adorava ripetermela. In continuazione. Era come la
versione greca della tortura cinese dell’acqua.
Aveva persino scribacchiato uno strano commento ai margini della vignetta. ‘Questo solo
sapete, ed è quanto basta, ciurma’. Doveva averlo scritto durante la Settimana Nazionale
Scrivi-Come-Un-Pirata.
Beck e io rovistammo nella Stanza per altri quindici o venti minuti, ma nessuno dei due riuscì a
trovare qualcosa che somigliasse a una mappa del tesoro localizzato alle Isole Cayman. E attaccato ai
tabelloni non c’era nulla che riguardasse un relitto al largo delle Cayman o qualche perduta città d’oro
nelle Cayman e se è per questo neppure il menu di un take-away di pollo fritto delle Cayman.
«Dunque, Bick?»
«Sì, Beck?»
«Tutta questa roba è fichissima».
«Assolutamente sì».
«Ho solo una domanda».
Annuii. «Io pure».
«Come faceva Storm a sapere dove papà aveva nascosto la Chiave?»
Anche questo lo dicemmo all’unisono.
Beck e io ci precipitammo nella cabina di Storm.
Era seduta nella cuccetta inferiore e sfogliava le pagine di un libro rilegato spesso una
quindicina di centimetri come se fosse una fotocopiatrice ad alta velocità.
«Legislazione marittima internazionale» borbottò, dopo avere finito il libro in circa quindici
secondi. «Materia affascinante».
«Storm?» disse Beck.
Storm alzò uno sguardo assonnato su Beck e non disse nulla. «Com’è che sapevi dov’era
nascosta la Chiave?» la incalzai.
«Perché ho una memoria fotografica».
«E questo cosa c’entra con questa?» le feci dondolare la Chiave davanti agli occhi.
Storm fece spallucce. «Papà non si fidava di se stesso se si trattava di ricordare dove l’aveva
messa. Perciò mi ha chiesto di essere la custode designata della chiave».
«C-c-cosa?» Beck balbettò un pochino nel sentire questa frase. «Tu e papà? Insieme? La
nascondevate?»
(Ora capite perché è un bene che Beck sia un’artista così dotata? Le sue facoltà verbali sono…
un po’ debolucce. Cosa? No, non ho intenzione di scrivere che la mia igiene personale è altrettanto
deboluccia. Oh. L’ho appena fatto. Accidenti.)
«Cos’altro ci nascondevate tu e papà?» chiese Beck.
«Mmm, vediamo». Sollevò il suo massiccio volume di legge. «Mi chiese di ‘familiarizzare’ con
i contenuti di questo libro. Ha detto che poteva tornarci utile una volta arrivati alle Cayman».
«Sei mai stata nella Stanza?»
«No. Il mio incarico era solo quello di nascondere la Chiave e non dimenticarmi dove l’avevo
nascosta. Perciò ridammela, Bick. Devo nasconderla di nuovo».
«No che non devi» dichiarò Beck. «La Stanza ci serve».
«Per cosa?»
«Documenti e cose simili».
«Avete trovato una mappa dell’immersione alle Cayman?»
«No» mormorò Beck.
«Non ancora, insomma» aggiunsi.
«Forse Tommy sa dove papà l’ha messa» suggerì Storm. «È stato nella Stanza un paio di volte».
Adesso toccò a me balbettare. «C-c-cosa?»
«Lui e papà. Una volta hanno voluto entrarci dopo che avevo nascosto la Chiave in fondo alla
scatola dei biscotti. L’avevo infilata sotto tutti quei frollini. Il miglior nascondiglio di sempre».
«Insomma tu sapevi della Chiave» dissi, «e Tommy è stato nella Stanza. C’è altro che non
sappiamo?»
«Be’» rispose Storm, «mamma mi disse che dovevate entrambi impegnarvi di più nei compiti di
trigonometria e…»
All’improvviso sul ponte risuonò una sirena da nebbia. WHOMP! WHOMP! WHOMP!
Regola numero uno della famiglia Kidd: se senti la sirena suonare tre volte, molla tutto,
qualsiasi cosa tu stia facendo, e corri sul ponte. Un triplo squillo significa che qualcuno è nei guai e ha
bisogno di aiuto. (Due squilli significa ‘È pronto in tavola’, e quattro ‘I Dolphins hanno vinto il Super
Bowl’.)
Risalimmo di corsa tutti e tre dalle cabine sottocoperta, sfrecciammo sul ponte e ci
arrampicammo sulla scala fino alla timoneria. Tommy fece un cenno verso poppa e alzò un binocolo.
«Abbiamo compagnia» sentenziò.
Ogni volta che le onde dietro di noi si abbassavano vedevo una barca sfrecciare sui cavalloni.
Quando le onde si alzavano, spariva. Quando si riabbassavano, si era avvicinata.
«Er… Tommy?»
«Sì?»
«Forse non è il momento migliore per chiedertelo…»
«Continua, fratellino» mi incoraggiò Tommy, senza distogliere lo sguardo dalla barca, che
sembrava guadagnare decisamente terreno su di noi. «Abbiamo tempo. Almeno un paio di minuti,
comunque».
La luce bianchissima di un riflettore attraversò la poppa, poi tornò indietro e si alzò. Beck,
Storm e io sembravamo cerbiatti illuminati dai fanali di un treno merci. Tommy no. Socchiuse gli occhi
fino a ridurli a fessure.
«Mmm, d’accordo. Allora, perché papà ti ha portato nella Stanza?»
«Niente di importante» disse Tommy, restando con gli occhi incollati al motoscafo (ormai
riuscivamo a sentire il sibilo dei motori) che saltava sui frangenti di schiuma alle nostre spalle.
«Doveva parlarmi di faccende da primogenito».
«Davvero? Tipo?»
«Tipo dove teneva il fucile subacqueo di riserva».
Senza togliere gli occhi dal ringhiante motoscafo, che ormai era solo una ventina di metri dietro
di noi, Tommy diede un calcetto con il piede destro allo zoccolino della parete della timoneria. Si aprì
un piccolo armadietto.
Dentro c’era una specie di lanciarazzi dotato di una micidiale asta acuminata.
Insomma, faccende da primogenito.
«Che succede, gente?» gridò l’uomo al volante del motoscafo mentre abbassava il gas e
accostava la sua barca a dritta. Alzò entrambe le mani. «E per piacere non puntarmi contro quel fucile,
bello. Non sono un pesce». Quindi esplose in una tonante risata caraibica. «Ah-ah-ah-ah-ah».
L’uomo del motoscafo indossava una stravagante miscellanea di abiti: un berretto da poliziotto
con una banda rossa sulla lucida visiera nera, una giacca da smoking senza maniche (e senza la camicia
da smoking), una collana di denti di squalo e un paio di pantaloni del pigiama a strisce colorate.
Per non parlare dell’iguana che rosicchiava foglie di lattuga in una gabbia sul sedile del
passeggero del suo motoscafo giallo banana.
«Per piacere, fratello» disse, indicando l’iguana, «abbassa quel fucile. Stai spaventando Tidi».
«Tu chi sei?» gli chiese bruscamente Tommy.
«Che diamine, sono quello che ha appena trovato voi sperduti in mezzo al mare sulla Sperduta.
Ah-ah-ah-ah».
Storm si nascose dietro a Tommy. Probabilmente non le piaceva la risata di quell’allegrone.
O forse a non piacerle erano i tatuaggi che gli correvano su entrambe le braccia nerborute. Forse
anche la cicatrice che gli attraversava la guancia. O il fatto che avesse strappato via le maniche di una
bellissima giacca da smoking.
«Aiutami tu, fratellino» disse il tizio rivolgendosi a me, immagino perché ero il più vicino a lui
sul parapetto. Aveva in mano una cima da ormeggio e fece per lanciarmela.
Guardai Tommy.
Lui scosse la testa.
Restai dov’ero.
«Amici miei» disse, lasciando cadere la cima arrotolata, «non ho intenzione di farvi del male.
Altrimenti, invece di una cima vi avrei mostrato questo».
Sollevò un fucile dall’aria sinistra con un caricatore ricurvo.
«Quello è un AK-47» sussurrò Storm. «Creato in origine da Michail Kalašnikov in Unione
Sovietica, spara cartucce calibro 7,62 a una velocità iniziale di settecentoquindici metri al secondo.
Rivista delle Armi Moderne, giugno 1987. Non c’è proprio confronto con un fucile subacqueo,
Tommy».
Tommy abbassò la sua arma. Il nostro visitatore abbassò la sua.
«La vostra barca» disse, «non sembra in ottima forma, mi sbaglio?»
«Abbiamo avuto qualche problemino durante la tempesta» rispose Tommy.
«Ah. Questo spiega il vostro ritardo. Dov’è Thomas Kidd?»
«Sono io Tommy Kidd».
«Il dottor Thomas Kidd? Il celeberrimo cacciatore di tesori? Sei tu?»
«Quello è nostro padre!» gridai. «In questo momento non c’è».
«Davvero? Oh, accidenti. Il Grand’Uomo non sarà felice».
«E chi sarebbe il Grand’Uomo?» chiese Beck, sporgendo un fianco e piazzandoci una mano
sopra, giusto per impressionare il nostro visitatore.
«Il Grand’Uomo è quello che mi ha mandato fin quaggiù a trovarvi, signorina».
«E come ci è riuscito, esattamente?» chiesi.
«Il vostro transponder, fratellino. Anche se la vostra parabolica e la radio non funzionano, il
vostro segnalatore radar AIS va ancora alla grande».
«Ce l’abbiamo?» chiesi, bisbigliando all’angolo della bocca.
«Sì» disse Tommy, bisbigliando dall’angolo della sua. Probabilmente un’altra faccenda da
primogenito.
«Vedete, ragazzi Kidd, vostro padre ha fornito al Grand’Uomo i vostri codici del segnalatore.
Quando vostro padre non si è presentato a consegnare la merce, be’, il Grand’Uomo ha mandato me a
cercare la merce. E invece ho trovato voi».
«Be’» disse Beck, «noi non sappiamo di che genere di merce sta parlando».
«D’accordo. Ma il Grand’Uomo lo sa. Tu vieni con me, Tommy Kidd. E spieghi al
Grand’Uomo perché non ha ricevuto quello che tuo padre aveva promesso di consegnare».
«No» mi opposi io. «Siamo una famiglia. Restiamo uniti».
«Se ci va Tommy» aggiunse Beck, «ci andiamo tutti».
«Eh-eh-eh. Molto bene. Andiamo tutti a trovare il Grand’Uomo».
Riprese in mano la sua cima arrotolata. Questa volta Tommy annuì per dire che andava bene.
Corsi giù dalla scaletta.
«Attaccatevi a prua, fratellino».
Emisi un grugnito nel raccogliere la pesante cima di canapa che mi lanciò sul petto.
Trascinando la cima fino al ponte di prua, la avvolsi attorno a una bitta e la legai con un nodo parlato.
Ritornai di corsa lungo il ponte e raggiunsi tutti gli altri alla timoneria. Appena arrivai là, sentii i motori
andare su di giri.
Il motoscafo sfrecciò in avanti e slittò davanti a noi.
«Che succede, Tommy?» chiesi mentre La Sperduta solcava la scia increspata di quel
rimorchiatore dal motore truccato.
«Il tipo in smoking ci dà uno strappo gratis fino a Grand Cayman, che è dove vogliamo andare.
In questo modo risparmiamo carburante».
«Oh. Okay. Alla grande».
Ma qualcosa mi diceva che essere ‘trovati’ rischiava di essere più pericoloso
di restare ‘sperduti’.
Il mattino dopo, quando ci svegliammo a Grand Cayman, pensavo che fossimo ormeggiati di
fianco a un mucchio di spregevoli canaglie, tutti armati di AK-47, machete o peggio.
Invece eravamo in un elegantissimo porticciolo turistico, e la nostra barca malconcia era
attorniata da yacht scintillanti ed eleganti barche a vela.
«Buongiorno, ragazzi Kidd» tuonò il nostro allegro capitano di rimorchiatore mentre saliva a
bordo della Sperduta con un pappagallo verde appollaiato sulla spalla. A quanto pareva l’iguana aveva
avuto il giorno libero. «Ho comprato stoccafisso e ackee per tutti!»
«Che cosa?» chiese Storm.
«È una colazione tradizionale molto popolare qui alle Cayman».
«Al negozio avevano finito i Choco Pops?»
«E dai, Storm» la incalzò Beck. «Provalo».
(Per la cronaca, la colazione non appariva molto appetitosa a nessuno eccetto Beck. Insomma,
chi è che mangia pesce a colazione a parte un pesce più grande?)
Dopo aver trangugiato il cibo (e rimpianto di non avere una Tic Tac) fummo condotti a George
Town per l’incontro con il Grand’Uomo, che a quanto pareva doveva aver luogo in una topaia dal tetto
di lamiera chiamata ‘La Capannina’).
«Aspettate un attimo» fece Tommy quando scendemmo tutti dalla polverosa Range Rover del
tizio che ci aveva condotti fin lì. «Siamo già stati qui. Quando i gemelli erano molto più piccoli».
«È stato sei anni fa» disse Storm. «Il secondo martedì di luglio. La temperatura era di ventotto
gradi, e c’è stato un improvviso acquazzone alle tre e quindici del pomeriggio. A Tommy comprarono
una tavola da surf. A Beck e Bick due tavolette per bambini. Io provai per la prima volta gli involtini
fritti di pollo e li trovai fantastici».
La Capannina era in parte negozio di surf, in parte rivendita di articoli nautici, in parte ristorante
nauseabondo e, ne sono quasi sicuro, in parte una copertura per il mercato nero. Mi ricordo vagamente
di mamma e papà che cercavano di barattare le nostre tavole con degli articoli che avevano recuperato
da un relitto al largo della Giamaica.
Il pappagallo strillò.
«Ah, eccolo qui! Il Grand’Uomo in persona» esclamò il nostro accompagnatore.
Un tizio tarchiato sui centotrenta chili, gli occhiali scuri e il cranio pelato circondato da capelli
ricci e umidi, uscì ciondolando dall’ombra. Era tutto un sorriso mentre scendeva vacillando dalla
veranda della Capannina come un gigantesco pinguino. Con quella camicia hawaiana spiegazzata (e
macchie di sudore a mezzaluna sotto entrambe le ascelle), i bermuda sformati e le infradito sciabattanti,
il tipo aveva un aspetto vagamente familiare.
«Louie Louie?» esclamò Tommy con aria sollevata, lasciando ricadere le spalle tese.
«Oh, sì. In carne, come si dice. In carne». Louie Louie si schiaffeggiò la pancia ballonzolante e
rise. Mi ricordava un po’ Babbo Natale. Se Babbo Natale vivesse in un motel di quart’ordine sulla
spiaggia, avesse problemi di traspirazione e stesse tutto il giorno ad ascoltare tamburi in una capanna di
paglia.
«Santo cielo. È un piacere rivedervi tutti. È passato troppo tempo dall’ultima volta che l’intero clan
Kidd è stato qui con noi a Grand Cayman».
«Sei anni» dichiarò Storm, asciutta. «E, nel caso non l’avesse notato, mamma e papà non sono
qui».
«Ah, sì. Lo avevo notato. È un peccato. Impegnati in un’altra delle loro conferenze,
immagino?»
«Qualcosa del genere» rispose Beck. «Signor Louie? Non sarebbe meglio parlare di tutto
questo… dentro?»
«Oh, certo. Dentro. Ottima idea. Togliamoci dal sole. Prendiamoci una bibita fresca. Perché non
ordinate un po’ di gamberi fritti? Venite, bambini. Abbiamo molto di cui parlare. Moltissimo, in effetti.
Grazie, Maurice».
Fece un cenno all’uomo che ci aveva trainato in porto la notte prima.
«Ha bisogno di qualcos’altro, signor L.?»
«No. Non ora. Magari più tardi, okay?»
«Ah, certo. Ah-ah-ah-ah». Maurice salutò Louie Louie toccandosi con due dita la punta del
cappello da poliziotto naufragato e tornò alla sua Range Rover. Noi seguimmo Louie Louie all’interno
del suo ambiguo locale.
«È un peccato che vostro padre si sia dovuto allontanare dalla barca così all’improvviso» si
dispiacque il signor Louie mentre lo seguivamo lungo gli spazi ingombri della Capannina. «Mi stava
portando qualcosa di speciale. Di molto speciale, in realtà. Avevamo stretto un patto solidissimo, a
quanto mi ricordo».
«Ehi!» esclamò Tommy, cercando di cambiare argomento. «Vedo che ha ancora quella tavola
da surf autografata da Duke Kahanamoku».
«Oh, sì. È lì da anni».
«Un tempo credevo si chiamasse la tavola Che-Non-Devi-Toccare» scherzò Tommy.
«Ah! I bambini… che spasso!» disse il signor Louie, soffocando una risata. Si tolse gli occhiali
da sole (che avevano una macchia di unto dove erano stati appoggiati alle sopracciglia) e fece guizzare
maliziosamente gli occhietti vivaci. «Ti piacerebbe toccarla oggi quella tavola, Tommy?»
«Davvero?»
«Certo. Credo ne beneficerebbe di molto il nostro imminente colloquio di affari».
Tommy fece spallucce. «D’accordo. Come vuole».
Carezzò le pinne di coda.
Sentii un clic.
All’improvviso, l’intera parete dietro la famosa tavola iniziò ad aprirsi scorrendo, svelando dei
gradini nascosti che scendevano in un sotterraneo buio.
«Venite nel mio ufficio, ragazzi Kidd» disse Louie Louie, indicando le scale e asciugandosi il
sudore dal cranio pelato. «Abbiamo faccende molto serie di cui parlare. Davvero molto serie».
Adesso sudavamo anche noi.
Il nascondiglio segreto sotterraneo di Louie Louie era strapieno di tesori e oggetti
d’antiquariato. Vidi calici dorati, una corona tempestata di diamanti, una coppia di vasi greci (papà mi
avrebbe ripetuto quella barzelletta idiota), un’armatura completa, spille bizantine, spade da pirati, una
cassa piena di perle, una collezione di bottiglie di vetro colorate, e casse da marinaio macchiate di
umidità traboccanti di gioielli e dobloni d’oro (tipo quelle che si vedono gorgogliare sul fondo di un
acquario).
«Dove ha preso tutta questa roba?» chiesi.
«Da persone che, per così dire, volevano scambiarla con qualcosa di più verde». Louie Louie
ridacchiò. «Del buon vecchio contante».
«Quindi in sostanza lei è un ricettatore?» disse Storm, che come ho già detto non è molto
incline a pensare prima di parlare. «Una persona che commercia in oggetti rubati?»
«Oh, no. Io non sono che un umile uomo d’affari. Uno che desidera fare affari con chiunque
voglia fare affari con me. Vostro padre, per esempio».
Malgrado in quello scantinato pieno di roba ci fossimo soltanto noi e lui, Louie Louie si guardò
ostentatamente in giro per assicurarsi che nessuno sentisse quello che stava per dire.
«Ho qui un certo… articolo… che vostro padre era molto ansioso di possedere. Un oggettino
insignificante, a dire il vero. Al massimo un gingillo minoico. Si tratta di un amuleto. La metà della
faccia di un dio-insetto o una dea-insetto. Di fatto privo di valore, in mancanza della metà
corrispondente. Comunque sia, vostro padre mi informò, nel più stretto riserbo, che questo articolo era
di vitale importanza. Forse ha a che fare con qualche terribile pasticcio in cui lui e vostra madre si
erano impelagati? Ditemi, bambini, è vero che vostra madre è scomparsa da qualche parte a Cipro?»
Tutti e quattro ci scambiammo delle occhiate.
Quanto sa Louie Louie degli affari di papà e della scomparsa di mamma? Stavo per eludere
quella domanda con qualche risposta ingegnosa quando Storm sbottò con la sua.
«Sono morti tutti e due. Mamma a Cipro. Papà nella tempesta».
Louie Louie si mostrò sorpreso e sbalordito.
Ma mi sembrò di vedere un accenno di sorriso.
«Davvero?» disse, stringendo entrambe le mani grassocce sul cuore. «Oh santo cielo. Voi
quattro siete… orfani?»
«Sì» confermò Beck, facendo la parte della dura. «Ma siamo ancora in affari».
«Sul serio? Ditemi una cosa: le autorità del porto sanno che siete qui senza la supervisione o la
protezione di un adulto?»
«No» dissi.
«Oh, cielo. Immagino che l’orfanotrofio locale potrebbe accogliervi».
Tommy si fece avanti: «Sta cercando di spaventarci, signore?»
«Io? Spaventare dei poveri orfani indifesi? Santo cielo, no. Tuttavia, in quanto amico di
famiglia, sento di dovervi avvertire… non siete al sicuro qui alle Cayman».
«Perché no?»
«Be’, prima di tutto c’è la vostra situazione di orfani di cui abbiamo appena parlato. E ho
sentito delle voci su certi pirati che sembrano molto interessati a vostro padre e a certi oggetti a bordo
della Sperduta».
«Questi pirati vogliono forse quello che papà le stava portando?» chiese Beck.
«Forse. È qualcosa di molto prezioso».
«Allora anche lei dovrebbe avere paura di loro».
«Giusta osservazione. Tuttavia, c’è dell’altro».
«Altri problemi?» chiesi.
«Oh, sì. Un uomo molto pericoloso è appena arrivato a George Town. Un uomo che
probabilmente vorrete evitare. Verrà a trovarmi tra, be’… circa un’ora».
«Chi è?» chiese Tommy in tono perentorio.
Il ghigno di Louie Louie si allargò in un sorriso furbesco: «Nathan Collier».
Rimanemmo tutti e quattro a bocca aperta.
Nathan Collier era il nemico numero uno di papà. Il suo principale rivale. Collier, un altro
cacciatore di tesori, cercava sempre di rubarci da sotto il naso le nostre scoperte o di prendersi il merito
di quelle che avevamo già fatto, perché per conto suo non era capace di ricavare da un’immersione più
di qualche vecchio copertone.
«Lei fa affari con Collier?» chiese Beck.
«Come ho già detto, sono un uomo d’affari interessato a fare affari con chi è interessato a fare
affari con me».
«Pensavo lei fosse un amico dei nostri genitori».
«Oh, lo ero. Sfortunatamente, come ha eloquentemente sottolineato Storm, i vostri genitori non
sono più, come dire, disponibili a essere miei amici. Forse Nathan Collier riuscirà a trovare l’oggetto
che desidero tanto ardentemente. Come ho detto, arriverà qui tra meno di un’ora per discutere la cosa».
«Non ha bisogno di Collier» proclamai. «Se papà ha detto che le stava portando il suo tesoro,
allora si trova senz’altro sulla Sperduta».
«Bick ha ragione» disse Beck. «Onoreremo i suoi accordi con papà. Ma non si porterà a casa il
suo tesoro se prima non assolderà una squadra che ripari la nostra barca».
Sebbene abbia solo dodici anni, a mio parere Beck è una delle negoziatrici più toste che
esistano. Mia sorella gemella riuscirebbe a convincere un cane a scendere da un camion di carne.
«Una bella pretesa. Ossignore». Louie ridacchiava così forte che le sue grosse guance
sfarfallavano. «Molto divertente. Davvero molto divertente. Ma spiegami, ragazzina: perché dovrei
pagare io qualcuno che ripari la vostra barca?»
«Per prima cosa, signor Louie, il mio nome è Rebecca. In secondo luogo, perché La Sperduta
ha bisogno di riparazioni e lei ha bisogno della cosa che papà le stava portando».
«Ma io vi sto offrendo l’amuleto che lui voleva».
«Sì, signore, ma lei ha mandato tutto all’aria. Innanzitutto ha chiamato quell’amuleto ‘oggettino
insignificante’ e ‘gingillo’. Ha persino aggiunto che è ‘privo di valore’. L’oggetto che papà le stava
portando, invece, è un ‘tesoro’. Adesso che ci ha mostrato le sue carte, l’unico modo che ha per
ottenere uno scambio equo, vede…»
Offrii a Beck le parole che cercava: «È quello di aumentare la posta».
«Esattamente» disse Beck. «Aumentare la posta con un paio di giornate gratuite di riparazioni
alla barca. Lei trovi una squadra che lavori due giorni sulla Sperduta. Una volta che l’avrà fatto, noi le
daremo il suo ‘tesoro’».
«Perbacco. Imponi delle condizioni dure».
Beck si strinse nelle spalle. «Sono figlia di mia madre. Affare fatto o no?»
Louie Louie si passò la lingua sul labbro superiore per ripulirlo dal sudore che lo imperlava.
«Affare fatto. Ma, Rebecca, se a bordo della vostra nave non trovassi quello che sto cercando, se
dovessi restare deluso per qualsiasi motivo, voi quattro mi dovrete l’intero costo delle riparazioni.
Avete denaro a sufficienza per coprire una spesa così ingente?»
«Certo che lo abbiamo» bluffò Beck. «Abbiamo avuto un’ottima annata».
«Bene. Perché se non riuscirete ad adempiere i termini del nostro accordo, con l’aiuto del mio
buon amico Maurice io prenderò possesso della Sperduta».
In altre parole, di lì a due giorni, se non avessimo dato a Louie Louie quello che voleva e non
avessimo potuto pagare le riparazioni, lui e il suo amico amante degli iguana armato di AK-47 ci
avrebbero portato via la barca.
Con tanti saluti alla Famiglia Kidd Cacciatori di Tesori SpA.
Beck si guardò attorno.
Annuimmo tutti in segno di approvazione. Non avevamo molta scelta.
«Affare fatto» disse.
Allungò una mano verso quella appiccicaticcia di Louie Louie.
Se le strinsero.
Povera Beck.
Al mondo non c’era abbastanza gel disinfettante per lavarsi di dosso i germi che un viscido
personaggio come Louie Louie si lasciava dietro.
Per i due giorni successivi la squadra di Louie Louie formicolò avanti e indietro per La
Sperduta, riparando i buchi nello scafo, ricucendo le vele, ripristinando gli impianti elettrici fulminati.
Fortunatamente, né Nathan Collier né qualche dirigente del locale orfanotrofio venne a ficcanasare al
nostro molo. Avevo la sensazione che Maurice e la sua iguana ci avessero trainato in quel particolare
porto turistico perché sapevano sarebbe stato un buon posto per nascondersi. Nessuno si mise a fare
domande su di noi o sul nostro malconcio motorsailer.
Ma ci fu una ragazza, sui diciannove anni, che invece fece molta attenzione a tutto ciò che
avveniva a bordo della Sperduta. Il suo piccolo cabinato sportivo era ormeggiato proprio di fianco alla
nostra barca.
In realtà concentrava la sua attenzione solo quando c’era sul ponte Tommy lo Svampito.
La ragazza, che rispondeva al nome di Daphne, passava gran parte del tempo a prendere il sole.
«Lavorano tuuutti sulla vostra barca?» biascicò in uno strascicato accento del Sud la prima
mattina in cui si presentarono quindici uomini armati di cassette degli attrezzi, martelli e seghe per
(MA VA’?!) lavorare sulla nostra barca.
«Sì» disse Tommy, afferrando una scotta del fiocco affinché i muscoli del petto e delle braccia
si flettessero in modo più spettacolare. «Siamo incappati in un bel tempaccio».
«La tempesta dell’altra notte?»
«Già» disse Tommy. «È stata dura. Ma lo è anche La Sperduta. Può affrontare praticamente di
tutto. Adoro questa ragazza».
Fu allora che Daphne si alzò a sedere e iniziò a farsi aria con la sua copia di Abbronzatura
Moderna. Beck e io stavamo lavorando sul cassero di poppa. Io avevo un pennello e un secchio di
vernice. Ero contento di avere il secchio. Avrei potuto lanciarlo.
«Adooorerei dare un’occhiata alla vostra barca un giorno o l’altro» disse Daphne.
«Perché non ora?»
«Oooh, sarebbe fantaaastico, Tommy!»
Daphne si infilò in spalla la sua borsa da spiaggia e si avviò ancheggiando verso la poppa della
sua barca mentre Tommy raggiungeva a passi virili quella della nostra.
Mi girai verso Beck, e fui certo che stavamo pensando la stessa cosa: Allarme Intruso.
Mollammo i nostri attrezzi, scendemmo le scale e seguimmo Tommy e Daphne nella tuga.
«Abbiamo raccolto quel cucciolo al largo del Perù».
«Oh, caspita» gorgogliò Daphne.
«Okay» esclamò Beck, battendo le mani. «Il giro è finito. Il nostro museo galleggiante è
ufficialmente chiuso».
«Piantala, Beck!» la ammonì Tommy.
Beck insistette.
«Se ne deve andare, signorina».
«Chiedo scusa?» Daphne batté le ciglia.
«Smamma» dissi io. «Aria!»
Tommy finse di ridacchiare.
«Bambini. Non sono adorabili? Ma non parlano sul serio».
«Siamo serissimi» ribattei.
«Che succede qui?» chiese Storm, risalendo da sottocoperta.
«Questi… due… bambini… si comportano in modo estremameeente sgarbato!» Mentre Daphne
proseguiva la sua tirata del maaai-in-vita-mia, Storm fece un rapido esame delle pareti. Si girò di scatto
e lanciò un’occhiata a Beck, che era la più vicina all’armadietto che mio padre chiamava la nostra
‘Protezione Antipirati’.
Beck lo aprì.
E tirò fuori la doppietta di papà.
Che puntò dritto al cuore di Daphne.
Quei pois sul suo bikini fornivano un eccellente bersaglio.
«Non oserai!» esclamò Tommy.
«Eccome se oserò».
«Tommy, aiuto» strillò Daphne. «Fai qualcosa!»
«Che cosa manca, Storm?» chiesi mentre Beck teneva la doppietta puntata su Daphne.
«La maschera africana mwana pwo».
«Guarda nella sua borsa da spiaggia» sbraitò Beck.
Stavo per farlo quando Tommy strappò la borsa di tela dalla spalla di Daphne.
La maschera africana era lì dentro.
«Daphne?!» Tommy sembrava afflitto mentre raccoglieva cautamente la maschera e la
consegnava a Storm. «Stavi cercando di rubarla?»
«Certo che no, sciocco. Ho solo pensato che sarebbe stato divertente metterla a Halloween».
«Davvero? E tu credi che ce la beviamo?» chiesi.
«Puoi ‘bere’ quello che ti pare, marmocchio impertinente».
Detto questo, Daphne afferrò la sua borsa, girò sui tacchi e uscì sculettando dalla porta.
Circa dieci minuti dopo la sentimmo accendere i motori e salpare dal porticciolo.
«Mi dispiace, ragazzi» si scusò Tommy mentre eravamo tutti sul ponte a guardare la barca di
Daphne che spariva all’orizzonte. «Che razza di idiota».
«Mmm, parli di Daphne o di te?» sbottò Beck.
«Di entrambi» si scusò Tommy, cingendoci con le braccia. «Io sono solo un meraviglioso
zuccone».
Questo ci fece sorridere tutti perché è così che mamma e papà chiamavano Tommy lo
Svampito: il loro meraviglioso zuccone.
Quella sera, a cena, quando tutte le riparazioni furono effettuate, Storm sganciò un’altra delle
sue bombe:
«Meno male che tutte le riparazioni le ha pagate Louie Louie, perché siamo in bancarotta».
«Cosa?» esclamò Beck.
«Ho dato un’occhiata ai conti. Il denaro che abbiamo sul libretto degli assegni è sufficiente per
quattro taniche di carburante e la spesa per due settimane».
«Be’» dissi, «qualcuno ci farà un prestito».
«Non direi» replicò Storm. «Non abbiamo alcun tipo di credito, da nessuna parte».
«Ma Louie Louie arriverà domattina. Se non abbiamo il tesoro che papà gli ha promesso,
dovremo pagare tutte quelle riparazioni».
«Il che sarà piuttosto difficile se non abbiamo un soldo» dichiarò Tommy.
«E allora cosa succede?» chiesi.
«Semplice» rispose Beck. «Louie Louie si impadronisce della Sperduta».
Ironia della sorte, pensai. Dopo tutto quello che aveva passato la nostra fedele barchetta, adesso
rischiava di affondare.
Proprio lì al porto.
Il mattino dopo Louie Louie si arrampicò a bordo di buon’ora.
«Buongiorno, ragazzi Kidd!» Aveva mezzo piatto di stoccafisso e ackee in bella mostra sul
davanti della camicia hawaiana. «Bene, bene» disse, ammirando La Sperduta. «La vecchia ragazzaccia
si è rimessa in riga, direi».
«La gente che ha assunto ha fatto un buon lavoro» replicò Tommy, pulendosi le mani su uno
straccio unto. Era stato nel vano motori, assicurandosi che fossimo pronti a salpare non appena il signor
Louie fosse rimasto soddisfatto del suo tesoro.
«Oh, sì. Sono operai molto esperti. E anche molto costosi. Dunque, dov’è il mio tesoro?»
«Be’, signore, dal momento che non sappiamo con precisione cosa nostro padre le stesse
portando, non sappiamo nemmeno dove l’abbia riposto» confessai.
«Un bel rebus, eh? Be’, per fortuna abbiamo la soluzione. Fatemi dare un’occhiata in giro.
Potete fidarvi di Louie Louie».
Lanciai un’occhiata a Beck. Lei annuì con aria incerta, perciò guidai Louie all’interno della
tuga.
«Ah! Eureka! Eccola lì!»
Okay. Una volta tanto la fortuna stava dalla nostra parte.
Louie Louie si diresse ancheggiando nella zona del gran salone e si allungò a prendere…
indovinate un po’? La maschera africana mwana pwo.
«Una maschera meravigliosa, non credete? Un autentico tesoro!»
A quanto pareva, Daphne la bellezza al bagno non era una stupida biondona, dopotutto.
«Bene, allora» dichiarò Louie Louie, «visto che sono un uomo di parola, eccovi l’oggetto che
vostro padre desiderava così ardentemente». Infilò una mano nella tasca dei suoi bermuda sformati e
tirò fuori un ciondolo di bronzo attaccato a una catenina d’oro.
«Come avrete senz’altro capito, a questo poverino manca il compagno. Dovrebbe esserci una
seconda figura sulla sinistra. Perché vostro padre desiderasse con tale urgenza la metà di un gingillo di
bronzo, non lo sapremo mai».
«Credo che questo concluda la nostra transazione, signor Louie» disse Beck. «Come sempre, è
stato un piacere fare affari con lei».
«Sì. Certamente». I suoi occhietti suini saettarono intorno al salone. «Quanti tesori. Potrei esaminare
quell’elmo più da vicino?»
«Mi spiace, signore» disse Tommy. «Leviamo l’ancora alla prossima alta marea».
«Partite così presto?»
«Sì» rispose Beck. «Dobbiamo andare da qualche altra parte».
«Posso chiedervi la vostra destinazione?»
«Ovunque ma non qui» dissi.
«Capisco. Bene, nel caso decideste di cercare, diciamo così, una casa affettuosa per un altro po’
di questa mercanzia…»
«Le faremo una telefonata» concluse Beck.
«Eccellente. Addio, ragazzi Kidd. Vi faccio ancora una volta le mie condoglianze per la perdita
di entrambi i vostri genitori». Louie si voltò e saltò sul molo, la maschera già infilata in una delle sue
molte tasche.
Non appena Louie Louie si fu allontanato, Storm infilò il suo monocolo ed esaminò il
medaglione di bronzo a forma di ape.
«Somiglia molto a un ciondolo minoico a forma di ape ritrovato negli scavi del palazzo di Malia,
sull’isola di Creta. Si vedono guide di chiusura per un’altra serie di zampe sopra e sotto l’alveare
circolare al centro».
«Dunque Louie aveva ragione» dedusse Beck. «Qualcuno ha l’altra metà».
Storm non rispose.
«Ehi!» esclamò invece.
«Cos’hai visto?» chiese Tommy.
«Una minuscola serratura. Mi serve qualcosa per aprirla».
Le porsi il mio coltellino svizzero con la lima appuntita che spuntava.
Lei fece scattare il medaglione.
La pancia gonfia dell’ape si aprì.
«Interessante» mormorò Storm, passando alle pinzette del coltellino per estrarre qualcosa
grande come un francobollo.
«Cos’è?» chiesi.
Storm tenne il minuscolo pezzetto di carta sotto la lente d’ingrandimento e sorrise.
«Una mappa del tesoro».
Uscimmo dal porto durante l’alta marea della sera.
Mentre Tommy stava al timone, io mi radunai con Storm e Beck nella tuga. Trasferimmo le
coordinate della minuscola mappa del tesoro trovata nel medaglione in una vera carta nautica.
«Non c’è da stupirsi che papà desiderasse questo ‘gingillo di bronzo’» disse Beck, imitando
meglio che poteva Louie Louie. (La cosa implicava un sacco di vocali bavose.) «È questa la nostra
mappa del tesoro delle Isole Cayman!»
«Sapete cosa significa?» chiesi.
«Uh, certo» rispose Beck. «Se troviamo questo tesoro, dovremmo riuscire a permetterci
qualcosa di più di quattro taniche di carburante e un paio di sacchi della spesa».
«I nostri problemi sono finiti!» alzai entrambi i pugni, trionfante. «La Famiglia Kidd Cacciatori
di Tesori SpA torna in attività».
«Forse hai ragione» disse Storm, mentre lavorava con la parallela a rulli e il compasso (di quelli
che si usano in geometria) per tracciare la nostra rotta fino al punto in cui secondo la mappa in
miniatura ci aspettava il nostro tesoro. «C’è una scritta in cima alla mappa».
«Cosa dice?» chiesi impaziente.
«La flotta perduta di Córdoba».
Beck e io ci mettemmo comodi sulle nostre sedie, in modo da permettere a Storm di tenerci una
lezione di Storia navale tratta dalla sua memoria da cinque miliardi di gigabyte.
«Nel 1605, i nove vascelli della flotta di Córdoba salparono dalla Colombia diretti all’Avana.
Dopo soli cinque giorni incapparono in un uragano. Quattro galeoni si separarono dal resto della flotta.
Ciascuna di quelle quattro navi pesava più di cinquecento tonnellate, era dotata di cannoni di bronzo ed
era carica di lingotti d’oro e d’argento provenienti dal Nuovo Mondo. Nessuna di esse è mai stata
ritrovata».
«Finora» obiettò Beck.
Non appena Storm finì di tracciare la nostra rotta, arrotolai la carta nautica e corsi su da Tommy
alla timoneria.
«Ci porta dritto a uno dei galeoni della flotta perduta di Córdoba!»
«Ottimo» rispose Tommy, perché lui mantiene sempre la freddezza di un cetriolo che sorseggi
una granita.
«Puoi dirlo forte».
Tommy spinse energicamente il timone verso destra. «Dovremmo arrivare al punto di
immersione domani a mezzogiorno».
«Fantastico!»
Stava andando tutto a meraviglia. Finché non commisi l’errore di guardare verso poppa per
controllare la scia.
Un motoscafo ci stava inseguendo. Aveva sopra la timoneria una quantità di antenne
paraboliche e radar.
E anche una sirena con una luce rossa lampeggiante.
«Ehm… Tommy, credo che faremmo meglio a fermarci. È la polizia».
«Che succede, ragazzi?» chiese Beck, sporgendo la testa dalla porta della tuga. «Perché
rallentiamo?»
«La polizia» risposi. «Non preoccuparti. Possiamo cavarcela io e Tommy».
«Certo» disse Beck. «Come se fosse possibile». Sgattaiolò di nuovo sottocoperta. «Storm?» la
sentii chiamare. «Ho bisogno del tuo aiuto al computer».
«Spegnete i motori e gettate l’ancora» pronunciò, con accento britannico, una voce molto
formale dai megafoni della barca della polizia.
Tommy tolse gas e spense i motori. Io corsi a prua e gettai l’ancora. Quando tornai a poppa,
Tommy stava chiacchierando con un nerboruto agente della PRCI, la Polizia Reale delle Isole Cayman.
L’agente indossava una versione decisamente più pulita del berretto nero con banda rossa che
portava Maurice l’ultima volta che la nostra barca era stata braccata sul Mar dei Caraibi. La sua
camicia bianca inamidata era dotata di spalline e tasche con bottoni, una delle quali sembrava piena di
ricevute di contravvenzioni.
«Bene» esordì. «Sono l’agente di polizia Jackson Wilmot. E tu sei?»
«Tommy».
«Hai anche un cognome?»
«Certo».
Il poliziotto abbassò gli occhiali da sole e inarcò le sopracciglia, per far capire a Tommy che
avrebbe gradito sentire quale fosse quel cognome.
«Oh, giusto. Ehm… Kidd. Io sono Tommy Kidd. Siamo qui solo per, capisce, rilassarci un
po’».
«Davvero?» chiese l’agente Wilmot.
«Andavamo a fare pesca d’altura» intervenni io, con un sorrisone innocente.
L’agente Wilmot aprì un quaderno di pelle nera. «Tu saresti Bickford Kidd, giusto?»
«Sì, signore. Come sa il mio nome?»
«Una terza parte in causa lo ha fornito alla nostra Unità di sostegno familiare. Rebecca e
Stephanie Kidd sono anche loro a bordo di questo natante?»
Già. Il vero nome di Storm è Stephanie.
«Forse» replicò Tommy.
L’agente Wilmot abbassò di nuovo i suoi occhiali e alzò un altro sopracciglio. «Avete per caso
lasciato il porto senza le vostre due sorelle?»
«Agente Wilmot» dissi, «perché tutto d’un tratto la nostra gita familiare a caccia di pesci è
qualcosa di cui la PRCI si debba preoccupare?»
«Abbiamo ragione di credere che tu, tuo fratello e le vostre due sorelle vi troviate alle Cayman
senza la supervisione di un adulto».
«Un momento» replicò Tommy, «io ho diciotto anni. Insomma, tra circa sei mesi».
«E io spero che mi inviterai alla festa» ribatté l’agente.
Credo che stesse cercando di fare lo spiritoso. Non si può mai esserne certi se chi fa la battuta
ha un accento britannico. «Tuttavia, agli occhi della legge, per i prossimi sei mesi tu sei ancora un
minorenne. Di conseguenza, visto che entrambi i vostri genitori sono deceduti…»
«Che cosa?» s’intromise Beck, risalendo i gradini per raggiungerci sul ponte di poppa. «Chi ha
detto che mamma e papà sono morti?»
L’agente Wilmot si dondolò sui tacchi delle sue lucide scarpe nere. «Certe parti interessate».
«Intende dire certi bugiardi interessati» ribatté Beck, porgendo all’agente un foglio di carta.
«E questa cos’è, di grazia?»
«Una mail dal nostro non-tanto-morto papà. Ci aspetta di ritorno a George Town non appena
avremo finito le nostre lezioni d’immersione».
«Lezioni d’immersione?» ripeté l’agente Wilmot, togliendosi gli occhiali da sole in modo che
tutti noi vedessimo entrambe le sue sopracciglia inarcarsi come bruchi scettici.
«Esatto» confermò Beck, che non aveva notato il mio tentativo di zittirla.
«Secondo suo fratello, signorina, attualmente siete impegnati a fare pesca d’altura».
«Be’» esitò Beck, «tecnicamente noi, ehm…»
«Cacciamo i pesci con le nostre attrezzature da immersione» dissi io. «Utilizziamo fucili
subacquei».
«Interessante» borbottò l’agente Wilmot mentre leggeva velocemente la mail che Beck gli aveva
appena consegnato. «Questa è di vostro padre?»
«Esatto» disse Beck. «È al porto. Ci aspetta là».
«Posso chiedere come mai questa mail proviene dallo stesso indirizzo al quale è indirizzata?»
«Be’, ehm, vede, su Internet…»
«In realtà» intervenni, «papà trova molto più semplice utilizzare un solo indirizzo e-mail perché
ha tutto sincronizzato tramite cloud. Dice sempre cose del tipo ‘Concetti come mittente e destinatario
non hanno più senso di questi tempi, con l’avvento dell’informatica basata su cloud, non credete?’»
L’agente ripiegò la mail e la ridiede a Beck. «Questa mail è palesemente un falso». Sganciò la
sua radio dalla cintura. «Jenkins? Abbiamo quattro persone da scortare a George Town. Dovremo
anche trainare in porto la loro barca».
«Scusi, permette?» Storm era tornata a poppa della barca. Notai che il davanti dei suoi bermuda
e della sua maglietta erano bagnati fradici. «Lei lavora per gli Stati Uniti d’America?»
L’agente abbassò la radio. «Prego?»
Storm indicò la bandiera che sventolava dalla ringhiera a poppa della barca.
«Noi battiamo bandiera degli Stati Uniti d’America» disse Storm.
«Comunque sia, signorina, attualmente vi trovate sotto la giurisdizione della Polizia Reale delle
Isole Cayman…»
«Non credo, signore. A quanto pare, mentre interrogavate i miei fratelli e mia sorella, abbiamo
scarrocciato in acque internazionali».
Ecco perché gli abiti di Storm erano fradici! Aveva tirato su l’ancora in modo che potessimo
scivolare più al largo in mare aperto.
«Come di certo lei saprà, agente» continuò Storm, «oceani, mari e acque al di fuori delle
giurisdizioni nazionali sono considerate ‘mare aperto’ o, in latino, mare liberum, che significa ‘mare
libero’».
«Tu devi essere Stephanie» disse l’agente, che sembrava soffrire di un accenno di mal di mare.
«Preferisco farmi chiamare Storm, il soprannome che mi ha dato mio padre».
«Attualmente deceduto».
Vidi scure nuvole di tempesta attraversare gli occhi di Storm mentre squadrava Wilmot.
(Già. È per questo che papà le ha dato quel soprannome.)
«Agente» esordì, con l’aria di una femmina di grizzly che ha frequentato la facoltà di legge,
«secondo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto marittimo, quando una nave si trova
dodici miglia nautiche al largo delle coste di uno stato sovrano, detta nave cade sotto la giurisdizione
dello stato la cui bandiera è autorizzata a battere».
Sorrisi. Perché sapevo che Storm stava riportando, parola per parola, una pagina che aveva
memorizzato di quel libro di diritto marittimo.
«Pertanto, dal momento che lei non opera sotto l’autorità sovrana degli Stati Uniti d’America,
lei non ha alcuna giurisdizione su di noi in mare aperto. La prego cortesemente di scendere dalla nostra
barca».
Mi venne da cantare ‘Dio benedica l’America’. O almeno da ripetere ‘USA! USA!’
«Sono molto colpito dalla tua conoscenza del diritto marittimo» rispose l’agente Wilmot,
«tuttavia, mi permetto di dissentire dal tuo calcolo della nostra posizione in relazione a…»
Prima che potesse finire, Beck tirò fuori la sua macchina digitale e scattò una fotografia.
«Signorina» tirò su col naso l’agente, «non è certo il momento o il luogo adatto per…»
«Controlli…» lo incitò Beck, mostrando all’agente lo schermo della fotocamera. «È una
macchina dotata di GPS».
A quel punto intervenni io. «Secondo un intero gruppo di satelliti che non mentono mai, ci troviamo
senza ombra di dubbio in acque internazionali. E lei, agente Wilmot, deve scendere dalla nostra barca».
L’agente della PRCI fissò il piccolo schermo.
Annuendo cupamente, afferrò la sua radio.
«Jenkins? Rettifico gli ordini precedenti. Risalirò a bordo da solo». Gratificò Storm di un secco
saluto militare rivolto alla visiera del suo berretto da poliziotto. «Ben giocata, signorina».
Storm rispose al saluto. «È stato un piacere duellare con lei, agente».
L’agente risalì sulla sua barca, che fece dietrofront e ripartì verso le Cayman.
Nel frattempo, sul ponte della Sperduta, noi Kidd ci riunimmo in un abbraccio tipo football
americano.
Attorno a Storm.
La prima cosa che Tommy fece quando tornò al timone fu di attivare l’interruttore ‘modalità
silenziosa’ sul nostro transponder, in modo che nessuno potesse vedere dove eravamo diretti.
«È sempre una mossa saggia» disse strizzando l’occhio, «quando ci si trova in acque infestate
da pirati». O quando gli spostamenti della vostra barca sono attentamente sorvegliati dalla polizia del
vostro ultimo porto di scalo. O magari da Louie Louie. Era chiaro: qualcuno ci aveva messo la barca
della PRCI alle calcagna. Io avrei scommesso sul sedicente amico dei nostri genitori. Avevo visto
Louie Louie sbavare fin troppo sui tesori in mostra sottocoperta. Probabilmente aveva immaginato che
nascosto da qualche parte ci fosse un bottino ancora più ricco.
«Vado nella Stanza» annunciò Storm.
«Perché?» disse Beck.
«Se vedo qualcosa dall’aspetto prezioso, lo nascondo da qualche parte negli scomparti segreti.
Nel caso dovessimo ricevere altre visite inaspettate».
Storm andò a riprendersi la Chiave dovunque l’avesse nascosta.
«Quanto manca per raggiungere il punto di immersione?» chiese Beck.
«A occhio e croce dodici ore» rispose Tommy.
«Prima ancora di rendercene conto staremo recuperando lingotti d’oro dal relitto!» esultai.
«E se laggiù non ci fosse niente?» insinuò Beck. «Se ci ritrovassimo a mani vuote?»
«Ehi, su con la vita, Beck» la incoraggiò Tommy. «Discorsi di questo genere rischiano di
portare sfortuna all’immersione».
«Ma parlo sul serio. Abbiamo bisogno di trovare quel tesoro, altrimenti andremo a fondo».
«Ehi! Che pessima scelta di parole, sorellina. Stai serena. Qualunque cosa succeda, avremo un
futuro splendente».
«Promesso, Tommy?»
«Promesso».
Verso le otto del mattino dopo, gettammo l’ancora nel punto esatto in cui la microscopica
mappa del tesoro diceva che avremmo trovato uno dei galeoni della flotta perduta di Córdoba.
(Grazie per avere disegnato quella gigantesca X sull’acqua, Beck. Ho sempre pensato che
dovesse essercene una a galleggiare sulle onde quando arriviamo sul sito di un tesoro.)
«Prepararsi!» gridò Tommy.
Beck, Tommy e io avevamo già indossato le mute.
Storm, come sempre, sarebbe rimasta sulla barca. Lei non partecipava mai alle immersioni. Non
tollerava sentirsi addosso quelle tute di gomma attillate, e inoltre qualcuno doveva pure restare a bordo
in caso di emergenza.
Bagnammo le pinne in acqua per infilarle più facilmente e ci issammo sulle spalle le pesanti
bombole di ossigeno.
Strinsi bene le cinghie sul petto e le allacciai. Girai la valvola sulla mia bombola, infilai in
bocca il respiratore e sistemai la maschera.
Tommy, il capo immersione, si infilò in acqua come un coltello. Beck gli scivolò dietro.
Io saltai dal ponte e mi immersi nelle acque turchesi.
Era arrivato il momento di cercare un tesoro!
Scese il silenzio.
Sentivo il mio respiro e poco altro. Le pinne di Beck sforbiciavano l’acqua qualche metro
davanti a me, creando un turbine di minuscole bolle d’aria che facevano scappare in tutte le direzioni
pesciolini multicolori. Mi affrettai a raggiungerla.
Non ci volle molto per raggiungere il fondo. L’acqua che intrappolava la nostra nave del tesoro
sommersa era profonda una dozzina di metri. Vidi un pesce che somigliava a un serpente con le pinne
dimenarsi sopra la rosea barriera corallina. Alla mia sinistra, Tommy stava sollevando un torbido
mulinello di sabbia, facendo correre un metal detector avanti e indietro sul fondale.
Scosse la testa.
Niente.
Beck era alla mia destra, intenta a infilare sul fondo sabbioso la sua sonda per individuare i
metalli. Seguii il suo esempio, setacciando il terreno attorno a me. Se ci fossimo imbattuti in monete o
lingotti d’argento o in un altro elmo da conquistador, i nostri dispositivi avrebbero iniziato a suonare.
Niente.
Cercammo e cercammo.
Per quarantacinque minuti.
Le nostre bombole si stavano pericolosamente svuotando, e vidi che Beck era delusa quanto me.
All’improvviso Tommy segnalò di avere trovato qualcosa.
Beck e io ci avvicinammo a nuoto al punto in cui Tommy stava estraendo un oggetto più o
meno quadrato (un forziere?) da un intrico fangoso di sabbia e conchiglie. L’oggetto era talmente
incrostato di detriti marini che non saremmo riusciti a capire cosa fosse prima di averlo ripulito.
Aiutammo Tommy a ficcare quello che aveva trovato in una rete, poi tutti e tre ci mettemmo a spingere
con le pinne trascinando il fagotto, che era molto pesante, fino alla superficie.
Quando finalmente issammo la rete sul ponte, questa vi atterrò con un tonfo sordo.
Tommy si strappò il respiratore di bocca e tirò indietro la maschera. «Eccolo qui, ragazzi! Il
grande momento! Wow!»
«La rete era pesantissima!» gridò Beck.
«L’oro è sempre pesante!» aggiunsi entusiasticamente.
Risalimmo tutti e tre la scaletta e ci mettemmo all’opera scrostando e ripulendo il nostro tesoro
con la canna dell’acqua. Fu allora che ci accorgemmo di un paio di cose.
Primo, non era spagnolo. Secondo, non era un tesoro.
Era una piccola sedia imputridita di legno marcio, con un buco sul fondo. Sotto il buco c’era un
secchio arrugginito con attaccata una maniglia.
«È un antico vasino da notte» disse Storm, che si era avvicinata per ispezionare la nostra
scoperta. «Sapete, ragazzi, non credo che lo usassero molti conquistadores. Gli altri conquistadores
sarebbero scoppiati a ridere».
Tommy, Beck e io ce ne restammo lì a sgocciolare sul ponte, con lo sguardo fisso sul bottino
della nostra prima caccia al tesoro senza mamma e papà.
Sullo schienale c’era scritto: Il Vasino di Dahlia.
Era forse un segno di sfortuna incombente?
La nostra attività di cacciatori di tesori era destinata a finire nel cesso?
Al momento sembrava senz’altro così.
«Bickford?» mi chiamò Beck. «Possiamo vederci un attimo a prua?»
«Certo, Rebecca».
Come avrete immaginato, il fiasco totale della nostra immersione aveva messo mia sorella e me
dell’umore adatto alla Filippica Gemellare numero 427.
«Abbiamo fatto un errore gigantesco!» strillò Beck non appena fummo soli sul pulpito di prua.
«Non possiamo continuare a cercare tesori senza mamma e papà! Facciamo schifo!»
«Un’immersione andata male non significa che abbiamo chiuso» dissi. «Scenderemo di nuovo».
«Perché? Vuoi trovare anche l’orsetto di Dahlia? Magari i suoi pannolini sporchi?»
«No, Rebecca, voglio trovare l’oro di quel galeone spagnolo scomparso».
«Pronto? Terra chiama Bickford! Non ti eri immerso nella stessa acqua dov’ero io, per caso?
Laggiù non c’è nessun galeone spagnolo scomparso».
«Sì che c’è!»
«Davvero? Quanti conquistadores si chiamavano Dahlia?»
«Se il galeone spagnolo scomparso non è laggiù» gridai, «perché qualcuno ha disegnato una
mappa dicendo che c’è?»
«Perché sarà stato uno stupido… ehm… una testa di stupido».
(Sì, come ho detto in precedenza, Beck spesso fatica a esprimersi con le parole. Perciò cerca di
compensare con i disegni.)
Oh, andiamo. È proprio necessario? Cosa direbbe Dahlia se vedesse cos’hai fatto con il suo vasino?
«Dobbiamo trovare quel tesoro» insistetti.
«No, Bick, dobbiamo affrontare la realtà. I nostri giorni da cacciatori di tesori sono finiti. Lo
sono da quando papà è annegato».
«Papà non è annegato! Non è morto!»
«Be’, noi lo siamo».
«No che non lo siamo».
«Sì che lo siamo. Dobbiamo rinunciare a questa stupida attività di famiglia, una volta per tutte».
Questo mi fece male. «Davvero?»
«Forse».
«Wow».
«Sarebbe uno schifo, vero?»
«Assolutamente sì».
Fu probabilmente la pace più rapida che avessimo mai fatto.
Beck mise il broncio. «Non voglio andare a una vera scuola. Lì si disegna solo con le matite e i
pastelli a cera. Niente carboncini o penne a punta fine. Alcune scuole non hanno nemmeno corsi
d’arte!»
Iniziavo davvero a stufarmi del malumore di Beck, ma il suo brontolare mi diede un’idea.
«Beck… ci sono! Una penna a punta fine… Forse abbiamo sbagliato qualcosa nel trasferire la mappa!»
«Cosa?»
«Se avessimo sbagliato qualcosa quando abbiamo copiato la mappa del tesoro in miniatura sulla
carta nautica? Pensaci… quell’affare era grande come un francobollo. Una penna a punta grossa può
averci spostato di un millimetro da una parte o dall’altra, e abbiamo finito per ritrovarci nel posto
sbagliato!»
«Hai ragione! Dobbiamo solo esaminare quella mappa in miniatura con molta più attenzione».
«Forza» dissi. «Storm ce l’ha ancora. Le chiederemo di ritracciarla».
«Forse dovremmo scannerizzarla al computer!» suggerì Beck mentre sfrecciavamo lungo i
fianchi della barca, attaccandoci alle sartie. Il vento soffiava piuttosto forte, sbattendo e gonfiando le
nostre vele. «E poi possiamo confrontarla con le mappe digitali del nostro software di navigazione».
«Ottimo suggerimento, Rebecca!»
«Eh, grazie, Bickford».
Arrivammo a poppa e vedemmo Storm che si aggirava a quattro zampe cercando qualcosa.
Tommy era su alla timoneria.
«Storm?» dissi.
«Stavo studiando la mappa del tesoro in miniatura perché forse ho fatto un errore quando ho
tracciato la carta, poi c’è stata una folata di vento, e…» si interruppe.
«Mi dispiace da morire».
Le lacrime le scendevano da entrambe le guance.
Quel vento turbolento?
Aveva dato una rapida sepoltura in mare alla nostra minuscola mappa del tesoro.
Credo che se Storm non fosse stata nostra sorella, Beck e io avremmo gettato in mare anche lei.
Ma lei è nostra sorella, perciò la amiamo anche di più proprio perché è, insomma, Storm.
Perciò quella notte cercammo di dimenticare il fatto che Storm avesse completamente rovinato
le nostre vite, e facemmo del nostro meglio per amarla ancora.
«Gli incidenti capitano» dissi.
«Di solito quando mi trovo nei paraggi» mormorò Storm, depressa.
Le mie sorelle e io eravamo giù nella loro cabina. Storm sedeva sul bordo della cuccetta
inferiore, singhiozzando con lo sguardo fisso sulle sue ginocchia.
E ripetendo ‘Mi dispiace’ in continuazione.
«Mi dispiace tanto, tantissimo, ragazzi. Davvero. Non avete idea di quanto mi dispiaccia».
«Be’» disse Beck, «ormai le cose stanno così. Non possiamo fare niente per cambiare quello
che è successo».
«Esatto» confermai, cercando di archiviare il nostro ultimo disastro come qualcosa di scarsa
importanza. «Abbiamo perso una mappa del tesoro. Almeno abbiamo ancora gli uni gli altri».
Okay, lo ammetto. Suonava ancora più sdolcinato del più melenso biglietto d’auguri del reparto
smancerie. Ma qualcosa dovevo dire.
Storm sollevò lo sguardo. Invece delle nubi di tempesta attraversate da folgori, nei suoi occhi
vidi solo una spenta tristezza.
«È proprio questo il problema. Voi tre siete zavorrati da me. Non sono capace di fare niente.
Non mi immergo. Non sono d’aiuto con le vele o nelle manovre. Siamo onesti, non sono altro che una
grossa zavorra cicciona. Un peso morto che sta trascinando a fondo il resto di voi».
«In realtà» disse Tommy, facendo un’apparizione a sorpresa nel corridoio fuori dalla cabina di
Storm e Beck, «come tu sai meglio di chiunque altro, Storm, avendo completamente memorizzato
l’intera voce sulla terminologia nautica di Wikipedia, la zavorra è ciò che viene collocato su una nave
per, ehm… com’è che era?»
Storm non poté fare a meno di riempire il vuoto di memoria di Tommy: «Fornire la stabilità
desiderata».
«Già, proprio quello che stavo per dire. La zavorra messa, per esempio, su una mongolfiera,
può, ehm…»
Storm sorrise un po’. «Controllare il centro di gravità».
«Esattamente» disse Tommy. «Tu sei la nostra roccia, Storm. Nel senso buono. Non nel senso
di pietra tombale. O di un sassolino nella scarpa».
«Sei come la Rocca di Gibilterra» dissi. «Sei il solido e roccioso centro che aiuta il resto di noi a stare
in carreggiata».
«Grazie, ragazzi» mormorò Storm. «Ma…»
«Ma niente» la interruppe Beck, «chi è stato a ridicolizzare quel poliziotto delle Cayman, ieri?»
«E chi ha pizzicato Daphne, la ladra di maschere?» aggiunsi.
Adesso Storm non poté fare a meno di sorridere. Alzò la mano. «Credo di essere stata io».
«E non sei stata forse fantastica, in entrambe le occasioni?» aggiunse Tommy. «Inoltre, se devo
essere sincero, la mappa che stavamo seguendo non era certo un granché. Andiamo, che razza di pirata
avrebbe mai disegnato una mappa sul retro di una specie di scontrino del parcheggio?»
«Ma come la mettiamo con la nostra crisi finanziaria?» chiese Storm.
Tommy fece una pausa. «Quindi ritieni che siamo improrogabilmente in piena crisi?»
«Sì, Tommy».
«Dunque arriveresti a definirla una situazione d’emergenza?»
Storm annuì.
«Bene» disse Tommy.
«Come sarebbe, ‘bene’?» si stupì Beck.
«Be’, se Storm ha dichiarato lo stato d’emergenza, sono libero di agire. Bick, pronto a salpare
l’ancora».
«Eh?»
«Dobbiamo partire e fare rotta sulle Florida Keys. Andiamo a disseppellire certi dobloni
spagnoli di cui sono a conoscenza».
«Che cosa?!» gridammo all’unisono Beck, Storm e io.
Tommy si strinse nelle spalle. «Ehi, papà mi disse che se si fosse presentata una crisi finanziaria
a livello d’emergenza senza che lui o mamma fossero nei paraggi, avremmo dovuto attingere ai nostri
fondi per l’università. Mi ha persino mostrato come trovarli. Fico, no?»
Nessuno disse una parola. Per una volta restai ammutolito. Fortunatamente, in queste situazioni
interviene in mio aiuto una gemella dalla bocca larghissima.
«Intendi dire che per tutto questo tempo sapevi dove saremmo potuti andare a fare provviste di
tesori, e hai aspettato fino a ora per dirlo?» disse Beck incredula.
«Ho aspettato finché Storm non ha dichiarato che si trattava di un’emergenza finanziaria»
spiegò Tommy. «È quello che mi disse papà, perché confidava in lei per sapere quando fossimo arrivati
all’ultima spiaggia. Insomma, la nostra bussola è lei. È lei a dirci da che parte andare».
Storm si alzò in piedi. «Papà ha detto questo di me?»
Tommy annuì. «Non potremmo farlo senza di te, Storm. Tu sei importante come chiunque di
noi. Vedi di non dimenticarlo».
«Dobbiamo andare nella Stanza» annunciò Tommy. Storm corse in cucina. Quando tornò,
odorava di caffè e aveva la mano destra sporca di polvere marrone.
Ovviamente intuimmo dove aveva nascosto la Chiave.
Tommy aprì la porta di acciaio massiccio, e tutti e quattro insieme ci radunammo nella Stanza.
«Mmm, dov’è finita quella vecchia mappa scolastica?» chiese Beck.
«L’ho nascosta» disse Storm. «Insieme alle fotografie dei quadri e a quella di Al Capone».
«Dove?»
«Spiacente» replicò Storm. «Questa informazione è segretata».
Beck ammiccò. «Giusto».
Tommy sedette alla scrivania e accese il computer di papà. Ci raccogliemmo dietro di lui in
modo da vedere lo schermo.
«Okay, diamo un’occhiata» disse Tommy, cliccando su una cartella intitolata FONDO PER
L’UNIVERSITÀ DEI RAGAZZI.
Si aprì un elenco di diversi documenti e file di immagini.
«Conoscete la leggenda dei quattro galeoni scomparsi della flotta di Córdoba?»
«Certo» sbottai. «Uno di quelli trasportava vasini da notte d’oro massiccio».
«Be’, quella leggenda non è del tutto vera».
«Ma va?!» lo schernì Beck. «Non è il caso di ricordarcelo».
«No, intendo che le navi scomparse sono solo due. Le altre le aveva già trovate papà».
«Impossibile» dissi.
«Possibile, invece. In effetti le ha trovate dodici anni fa, poco dopo la vostra nascita».
Storm alzò la mano. «Tommy? Tu come fai a sapere tutto questo?»
«Me lo disse papà. Quella volta che siamo entrati insieme nella Stanza dopo che tu ci avevi
recuperato la Chiave dalla scatola di biscotti. Comunque sia, appena dopo che mamma e papà diedero
alla luce Beck e Bick, papà trovò questi due galeoni gemelli affondati. Mi disse che l’incredibile
coincidenza di avere avuto due gemelli e di scoprirne altri due in fondo al mare gli sembrava una specie
di presagio».
Tommy cliccò con il mouse e aprì una fotografia subacquea. Mostrava due galeoni spagnoli uno
di fianco all’altro sul fondale marino, con gli alberi incrostati attorcigliati l’uno all’altro, come scheletri
affusolati che si tengano per mano.
«Quello a sinistra lo ha ribattezzato La Hermosa Señorita Rebecca. Quello a destra lo ha
chiamato El Muy Brillante Señor Bickford. Secondo le note di carico delle navi» continuò, cliccando di
nuovo con il mouse per scorrere un elenco di incredibili tesori, «questi due galeoni trasportavano oltre
duemila casse di monete d’oro e d’argento, oltre a lingotti, centinaia di pani di rame, gioielli,
medaglioni religiosi e vario ciarpame tipo vaniglia, cioccolato e indaco».
«Ehi, Tommy?» lo interruppe Beck. «È per questo che ieri mi dicevi di ‘stare serena’? Che in
ogni caso avremmo avuto un futuro splendente?»
Tommy lo Svampito sfoderò un sorriso timido. «Già. Insomma, scherzavo un po’ sulla parola
splendente».
«E sai come arrivare al punto d’immersione?» domandò Storm.
Tommy infilò nel computer una chiavetta USB. «Meglio ancora. Devo solo copiare questo file
di navigazione, caricarlo sul computer della timoneria e attivare il pilota automatico della Sperduta.
Non è distante da Alligator Reef, a sud-est di Upper Matecumbe Key. Ma è abbastanza al largo perché
nessun altro ne sia a conoscenza».
«È tutto vero, Tommy?» chiesi, perché non riuscivo a credere che finalmente avessimo avuto un
colpo di fortuna.
«Certo. Domani a quest’ora immagino che saremo i ragazzi più ricchi del mondo. A parte quel
tizio dei fumetti, hai presente? Richie Rich».
Alzai tutt’e due le braccia sopra la testa e gridai: «Woo-hoo!»
Quando il file di navigazione fu copiato sulla chiavetta, tutti e quattro uscimmo dalla stanza a
passo di marcia e sfilammo in direzione della timoneria, intonando pezzi rock e canti da marinai come
facevamo quando partivamo all’avventura con mamma e papà.
A papà piaceva in particolare un brano di Jimmy Buffett. Perciò mentre Storm nascondeva la
Chiave in qualche nuovo posto, Beck, Tommy e io ci lanciammo in una versione estremamente
chiassosa e stonata di Cheeseburger in Paradise.
Sembrava di essere tornati ai bei vecchi tempi… insomma, a sei mesi fa.
Ma i giorni davanti a noi sembravano volgere al meglio. Quantomeno, avevo la fantastica
sensazione che una volta tornati in porto dopo avere attinto al nostro fondo universitario, avrei potuto
ordinare tutti i cheeseburger che volevo.
Navigammo in direzione nord-nordest verso la costa dei tesori della Florida, con l’animo carico
di speranza e dell’impaziente attesa della prossima immersione.
Poco dopo mezzogiorno, Tommy fece risuonare cinque squilli acuti di sirena.
Esatto, più di quelli per la vittoria dei Dolphins nel Super Bowl.
«Il software di navigazione ha mandato il segnale!» gridò Tommy dal ponte di poppa.
«Prepararsi!»
Beck e io avevamo indossato le nostre mute già a colazione (detto per inciso, non è una cattiva
idea mangiare in muta, soprattutto se si tende a sbrodolare parecchio).
Storm era là con noi, ad aiutarci a fissare le bombole, controllare le valvole, porgerci le sacche
da immersione, tenere pronte altre bombole per permetterci di continuare le immersioni tutto il giorno.
Ma questa volta, Beck e io non avevamo le nostre bacchette per sondare il fondale. Tommy si fidava a
tal punto delle coordinate di immersione di papà che sarebbe stato l’unico a portare un metal detector.
«Voi due avrete bisogno di avere le mani libere per tirare su tutto quel bottino» disse strizzando
l’occhio.
Quando tutti e tre fummo pronti, ci prendemmo letteralmente per mano e ci tuffammo in acqua
insieme. Una volta fatto questo ci si trova sostanzialmente immersi in un muro di bollicine.
Tommy ci fece una serie di segnali con le mani, che concluse rivolgendo i pollici all’ingiù.
Non preoccupatevi, nel linguaggio dei sommozzatori questo è un segnale positivo. Significa
‘scendere’.
Scendemmo lentamente verso il fondo, aspettando il momento in cui sarebbero apparsi i nostri
galeoni gemelli.
Una banda di cinque miliardi di pesciolini tigrati color argento si aprì davanti a noi come un
sipario.
Ed eccole là: le sagome degli alberi intrecciati. Avevamo trovato le navi nascoste di papà,
adagiate contro la barriera corallina. E so che può sembrare strano, ma solo per un secondo mi sembrò
che papà fosse lì di fianco a me, a darmi una pacca sulla spalla e a rivolgermi un grosso ‘okay’ con la
mano perché avevamo fatto un buon lavoro.
Avevamo tenuto unita la famiglia.
Ci eravamo aiutati l’un l’altro nella buona e nella cattiva sorte e avevamo pianto sulla mappa
del tesoro smarrita. Adesso era il momento di prenderci la nostra ricompensa.
Tommy ci fece passare oltre un cannone incrostato di conchigliette e attraverso uno stretto
boccaporto. Dozzine di pesci dorati nuotavano sotto di noi, probabilmente curiosi di vedere cosa
avremmo trovato giù nella stiva di quel galeone dimenticato di re Filippo III di Spagna.
Non restarono delusi.
Tommy accese una torcia e mi accorsi che ci trovavamo in una stanza lunga, larga e profonda
quanto la nostra barca. La stanza di legno massiccio era come un magazzino pieno zeppo di forzieri
ricoperti di conchiglie e molluschi (sembrava che qualcuno ci avesse versato sopra del cemento), stipati
uno sopra l’altro.
Tommy mi fece un segnale, e ci dirigemmo a un baule che era in cima a una delle pile. Poi,
utilizzando i nostri coltelli da subacqueo, aprimmo la fragile serratura del lucchetto e sollevammo
l’occhiello incrostato che chiudeva la cassa.
Tommy sollevò il pesante coperchio.
Avete presente quelle piscine piene di palline colorate che capita di vedere alle feste di
compleanno? Immaginatene una, solo al posto delle palline colorate metteteci le monete d’oro.
Tommy e io infilammo le mani guantate in quel mucchio luccicante. Ce n’erano talmente tante
che ci scivolavano tra le dita come conchiglie in un secchiello.
Non riuscii a trattenermi. Feci una lenta capriola, muovendo le braccia su e giù ed emettendo un
suono come… insomma… come se stessi gridando sott’acqua. Eravamo ricchi! Anzi più che ricchi!
Beck nuotava qua e là indossando un vecchio elmo incrostato che aveva appena trovato. Poi
tutti e tre ci mettemmo a lavorare di paletta e riempimmo sacche, secchielli e persino l’elmo di dobloni
d’oro massiccio.
Facemmo in totale sette immersioni nel relitto.
Mentre noi portavamo su i carichi, Storm era incaricata di contare le monete e dividerle in
sacche di tessuto (del tipo spesso utilizzato dai furgoni blindati che portano il contante alle banche).
Mise i gioielli (diamanti, smeraldi, rubini) in sacche separate e sistemò i manufatti in un altro mucchio
per esaminarli in seguito.
Prima del tramonto a bordo della Sperduta avevamo un bottino di svariati milioni di dollari.
Non ci sentivamo più tanto sperduti.
E i due galeoni là sotto?
Tommy disse che non era il caso di essere avidi. Che sarebbe stato saggio lasciare il nostro
conto aperto per i ‘giorni di pioggia’, nel caso fossimo dovuti tornare a fare un altro prelievo.
A giudicare dal tesoro che avevo visto nella stiva di quel galeone, non sarebbe avvenuto tanto
presto. Tutti e quattro saremmo potuti andare in qualsiasi università volessimo, se avessimo voluto
andare all’università. Probabilmente avremmo anche potuto comprare un nuovo stadio alla squadra di
football della nostra futura università.
Tommy aveva ragione. All’improvviso eravamo i ragazzi più ricchi ad avere mai solcato i sette
mari!
C’è un solo problema nel ritrovarsi con dieci dozzine di sacchi pieni di antichi dobloni d’oro:
non li si può portare a una macchinetta del supermercato e farseli cambiare in monete di uso corrente.
Perciò feci una proposta: «Dovremmo rivolgerci a Louie Louie».
Beck fece uno dei suoi celebri gesti di diniego passandosi un dito sulla gola.
«Parlo sul serio» dissi. «Insomma, so che quel tipo è losco. Ma conosce gente che tratta affari di
questo genere».
«Bick potrebbe avere ragione» sottolineò Storm. «Dopotutto, non abbiamo osservato alla lettera
le normative sui recuperi e le scoperte stabilite dal diritto marittimo delle Nazioni Unite».
In altre parole, recuperando quel bottino non ci eravamo comportati completamente da
delinquenti, ma di sicuro eravamo ai limiti della legalità.
«Dobbiamo chiamare quel verme» dichiarò Storm fuori dai denti. «Papà ha un telefono
satellitare nella Stanza».
«Davvero?» disse Tommy. «Fantastico. Voi fate la chiamata; io porto la barca lontano da qui.
Non voglio attirare l’attenzione sulla nostra riserva di pesca segreta».
Beck e io seguimmo Storm nel bagno fuori dalla cabina di mamma e papà.
La Chiave era attaccata con lo scotch sotto l’asse del gabinetto. Poi ci dirigemmo nella Stanza, e
Storm indicò con un gesto il telefono satellitare, che faceva da fermacarte sopra una pila di cartellette.
«Adesso non ci resta che trovare il numero di telefono di Louie Louie» dichiarai.
«Mmm, è qua» borbottò Beck, studiando il display del telefono.
«Cosa?»
«Louie Louie. Isole Cayman, prefisso tre-quattro-cinque. È stata l’ultima telefonata fatta da
papà prima di, insomma…»
«Scomparire» dissi, in modo che Beck e Storm non potessero dire ‘morire’.
Beck schiacciò il pulsante di richiamata e azionò il vivavoce.
«Pronto, sono Louie. Come posso aiutarla?»
Beck mi fece segno che dovevo essere io a parlare.
«Uh, signor Louie, sono Bick Kidd».
«Davvero? Bene, bene, bene. Che piacevole sorpresa. A cosa devo il piacere di questa
telefonata? State cercando un compratore per la vostra, chiamiamola così, merce?»
«No, signore. Abbiamo una domanda».
«Davvero? Allora falla».
«Diciamo che abbiamo fatto un’immersione e abbiamo trovato, lei mi capisce, della
‘mercanzia’. Quale sarebbe il posto migliore per procedere a un giusto… ehm… baratto?»
Ci fu un lungo silenzio.
«Avete trovato della mercanzia?»
«Sì, signore».
«Recentemente?»
«Sì, signore. Questo pomeriggio».
«Davvero? Bene, bene, bene. Le sorprese non finiscono mai, non è così? Congratulazioni. Papà
e mamma sarebbero molto orgogliosi di voi. Davvero molto orgogliosi. Bene, dunque, e qual è la
vostra attuale posizione?»
«Ehm, questa è un’informazione riservata».
«Capisco. Naturalmente. Del tutto comprensibile. Tuttavia, se devo indirizzarvi a un…
trafficante di mercanzia… mi serve una vostra posizione approssimativa».
Beck formulò con la bocca la parola Miami.
Giusto. Miami era circa novanta miglia a nord del nostro tesoro segreto.
«Miami» dissi.
«Ah! Bene. Ho una socia a Miami. Una donna d’affari interessata a fare affari con chi è
interessato a fare affari con lei».
«Bene. Dove troviamo questa sua amica?»
«Penserò a tutto io. Basta che mi chiamiate quando arrivate in porto, e io vi darò ulteriori
istruzioni».
«Grazie, signore».
«Naturalmente, la mia parcella per il recupero è del quindici per cento».
«Ma il tesoro lo abbiamo recuperato noi».
«E io ho recuperato il trafficante. Se ritenete le mie condizioni inaccettabili…»
Lanciai un’occhiata al mio capo negoziatore, Beck. Controvoglia, ma stava annuendo. Storm,
dal canto suo, non stava ascoltando la conversazione telefonica. Stava sfogliando alcuni documenti
dentro una cartellina.
«Okay» dissi, «vada per il quindici per cento».
«E ovviamente la mia amica dovrà avere la sua parte». Beck annuì di nuovo.
«D’accordo. La chiameremo al nostro arrivo a Miami».
«Posso consigliarvi di fare scalo al porto turistico di Sea Spray?»
«Non se ci costa un altro quindici per cento!»
«Oh, no, ragazzo mio. Il porto mi paga di già una sostanziosa provvigione per le barche che gli
invio».
«Ottimo. La chiameremo quando saremo ormeggiati a Miami».
Pigiai il pulsante di fine chiamata.
«Cavolo» disse Beck, rabbrividendo. «Mi sento le orecchie viscide solo per averlo ascoltato».
«Già. Il viscidume di quel tipo sembra filtrare dal telefono».
«E filtra anche qui» ci informò Storm, battendo col dito sulla cartellina. «Secondo gli appunti di
papà, Louie Louie è la chiave di… tutto quanto».
Storm ci mostrò l’appunto (scritto nella grafia di papà) che aveva appena trovato nella
cartellina:
«Chi è il dottor Lewis?» chiese Beck.
«Un esperto di oggetti antichi» rispose Storm, che a quanto pareva aveva memorizzato l’ultima
edizione di Chi è chi nel mondo dei periti. «In assenza di mamma, il professor Lewis era probabilmente
l’unica persona di cui papà si fidasse per autenticare l’amuleto a forma di ape. Insegna alla Columbia
University di New York».
«Dovremmo portargli il ciondolo» disse Beck.
«O portarlo a mamma, a Cipro» suggerii.
«Ragazzi?» ci richiamò Tommy, facendo capolino sulla soglia. «Una cosa alla volta. Prima
andiamo a incassare il nostro tesoro».
Ormeggiammo a Miami nel porto indicatoci da Louie Louie. Poi lui ci indirizzò a un losco
personaggio che rispondeva al nome di Miss Laticia, la quale risultò essere una trafficante del mercato
nero con un debole per gli orfani…
«Da quando ho letto quel libro di Dickens!» ansimò con voce gracchiante tra un attacco di tosse
e l’altro.
La signora fumava parecchio.
Quella mattina Storm aveva memorizzato il prezzo dell’oro alla borsa merci, perciò potemmo
accertarci che Miss Laticia ci stava offrendo un prezzo adeguato per i nostri dobloni (meno il 30 per
cento di parcella che si sarebbe spartita con Louie Louie). Miss Laticia procedette poi a bonificare la
somma su un conto corrente intitolato ‘Fondo Famiglia Kidd’ che aveva aperto a nostro nome, con
tanto di carta di credito che Tommy verificò al bancomat più vicino prima che concludessimo
ufficialmente l’affare.
Quindi, senza farci la minima domanda su dove avessimo trovato il nostro tesoro, Miss Laticia
fece arrivare una lunghissima limousine e ci rispedì per la nostra strada con una valigetta piena di
mazzette di banconote da cento dollari.
«Immagino che a voi ragazzi non dispiacerà questo gruzzoletto per le piccole spese, come
contorno al vostro nuovo fondo fiduciario multimilionario!» aveva detto sbottando poi in una risata che
aveva fatto cadere i quattro centimetri di cenere che penzolavano dalla punta della sua sigaretta.
Messe definitivamente a tacere le nostre preoccupazioni economiche, ci infilammo tutti e
quattro nei sedili posteriori di un’elegantissima limousine.
«Dove andiamo?» chiese l’autista.
«New York» rispose Beck.
«Cipro» ribattei.
«Un momento, ragazzi» s’intromise Tommy. «Io muoio di fame».
«Anch’io» rincarò Storm.
A sentire parlare di cibo, anche Beck e io concordammo che si sarebbe trattato di una scelta
eccellente come primo investimento.
«Chi fa i migliori cheeseburger di Miami?» chiesi.
«Facile» rispose l’autista. «Il Cheeseburger Baby a South Beach».
Perciò fu lì che andammo, cantando lungo l’intero tragitto Cheeseburger in Paradise dal
tettuccio apribile della limousine.
L’insegna al neon del Cheeseburger Baby diceva: EHI! SIAMO APERTI.
Ci precipitammo dentro e ci piazzammo sugli sgabelli al bancone. Eravamo talmente affamati
(compreso l’autista, che non aveva pranzato e fu felice di sapere che offrivamo noi) che ordinammo
tutti quanti il doppio cheeseburger da 450 grammi. Tommy, da quel senza fondo che era, accarezzò
l’idea di ordinare il Punisher, un hamburger da due chili e due. Se lo finivi, ti regalavano una T-shirt e
inserivano la tua fotografia nell’albo d’oro del Cheeseburger Baby.
«Purtroppo quella T-shirt starebbe malissimo sopra un pancione da elefante» si convinse alla
fine.
Storm ordinò un contorno di patatine fritte al cheddar e un altro di patatine fritte al chili. Beck e
io optammo per gli anelli di cipolla.
E bevemmo tutti Coca-Cola. Diversi bicchieri. Questo provocò una serie di allegri ruttini che,
ovviamente, attirarono parecchia attenzione, nonché le risate di alcune ragazze molto carine.
Ammiravano ‘l’appetito’ di Tommy. Credo che lui, invece, ammirasse i loro costumi da bagno.
Perciò decise di offrire loro dei frappè. E ai loro amici.
E agli amici dei loro amici.
Di lì a poco stavamo offrendo grossi frappè schiumosi a chiunque si trovasse nel ristorante
(compresi un paio di fustacchioni con baffi a manubrio e una ragazza con gli occhiali da sole che
poteva essere Beyoncé).
Infine pagammo il conto con quattro dei nostri fruscianti biglietti da cento dollari e posammo
sul bancone un altro centone come mancia per gli addetti alla griglia, i camerieri e i preparatori di
frappè. Sazi da scoppiare, ci trascinammo fuori e salimmo a bordo della limousine.
«È stato divertente» dissi, allungandomi sul divanetto posteriore e mollando un rutto
supersonico di almeno cinque secondi. «Ma ora dobbiamo discutere seriamente di cosa fare con i nostri
soldi».
«Investirli» rispose Storm. «Me la cavo bene con l’e-commerce».
«Tornare qui domani» disse Tommy. «Alcune di quelle ragazze mi hanno scritto il loro numero
di telefono sui tovaglioli».
«Portare a termine il piano di papà» ribatté Beck. «Proseguire verso New York».
«No» mi opposi io. «Dobbiamo tornare a Cipro e recuperare mamma».
E quello fu l’inizio della Filippica Gemellare numero 428.
Credo sia stata una delle più lunghe che avessimo mai fatto. Di sicuro fu tra le più rumorose e
pubbliche, proprio davanti a Storm e Tommy, che cercarono di ignorarci fissando fuori dal finestrino le
palme che ci scorrevano di fianco. L’autista alzò il volume della radio per coprire le nostre grida.
«Mamma è morta!» gridò Beck.
«No che non lo è!» gridai a mia volta.
«Tu sogni, Bickford».
«Ah sì? E senza i sogni, a te cosa resta?»
«Un appunto di papà che dice ‘andare a New York’, idiota!»
La litigata proseguì per l’intero tragitto da South Beach al porto.
E proseguì mentre Storm pagava l’autista e Tommy scuoteva la testa e alzava gli occhi al cielo.
In realtà Beck e io continuammo a discutere lungo tutto il molo fino al punto in cui era
ormeggiata La Sperduta.
Ci fermammo solo quando un uomo con gli occhiali da sole a specchio uscì dalla tuga della
nostra barca e gridò: «Rebecca? Bickford? Piantatela. Mi fate venire il mal di testa!»
L’uomo con gli occhiali da sole a specchio (che iniziò a parlottare in uno di quegli auricolari
Bluetooth che lo facevano sembrare un protagonista di Star Trek) era nostro zio Timothy.
Non è davvero nostro zio: è il migliore amico di papà (o sarebbe meglio dire era?).
«Accelera l’estrazione» disse rivolto all’aria, cioè a chiunque avesse nell’orecchio.
Detto per inciso, non ho mai visto zio Timothy senza i suoi occhiali a specchio o un auricolare
incollato alla testa. Credo se li sia fatti saldare chirurgicamente al cranio.
«Le risorse sono in posizione» disse. «Il pacco va estratto alle ventitré e zero zero. Pronti a
partire».
Zio Timothy stava sempre dicendo fesserie del genere a qualcuno. Per parecchio tempo ero
stato convinto che lavorasse per l’UPS o la FedEx.
«Come ve la cavate, ragazzi?» chiese.
Nessuno di noi rispose perché pensavamo stesse ancora parlando all’auricolare.
«Thomas?»
«Mmm?»
«Ho chiesto come state».
Tommy si diede una pacca sulla pancia. «In questo momento un tantino pieni, zio Tim, ma,
insomma, reggiamo».
«Be’, ragazzi, non dovete preoccuparvi. Ho sentito cos’è successo a vostro padre. Sono qui per
prendere il suo posto sulla Sperduta».
«Ehm, zio Timothy?» dissi.
«Sì, Bick?»
«Dov’è che hai ‘sentito’ di papà?»
«Aspetta un momento». Mise due dita sull’auricolare. «Be’, controllate di nuovo il meteo. La
nuvolosità è prevista per le ventidue e trenta. Le nuvole basse copriranno la luna piena, quindi la zona
di lancio sarà al buio. Seguite il protocollo. Estraete il pacco. Non ricordo esattamente dove l’ho
sentito, Bick. L’ho sentito e basta».
Immaginai fosse tornato a rivolgersi a me. Per cui mi chiesi se dovessimo andare a recuperare
un pacco per conto suo.
«Uhm, be’, mi sembra solo curioso che tu sappia della scomparsa di papà quando noi non lo
abbiamo detto praticamente a nessuno».
«Ma sembrerebbe che lo sappiano tutti. Tu, Louie Louie…» aggiunse Beck con aria sospettosa.
«Aveva l’amuleto?» chiese zio Timothy.
«Chi, papà?»
«No. Louie Louie».
«Sì» confermò Tommy. «Ce l’aveva Louie. Ma lo abbiamo barattato con una maschera».
«Bene. La maschera non conta niente. La chiave è l’ape».
«Già» fece Tommy, «credo di sì. Non sono del tutto certo di che cosa significhi o del perché
tutti continuino a dire…»
«Cosa c’è nella valigetta?» chiese zio Timothy, cambiando rapidamente discorso e indicando la
valigetta di alluminio che Storm stringeva al petto.
«Oh, quella è…» iniziò Tommy.
Lo interruppi: «La nostra nuova cassetta degli attrezzi. Ora è tutto organizzato in appositi spazi.
Martello, cacciaviti, chiavi inglesi, un intero set di quegli affari piegati ad angolo che nessuno usa mai.
Be’, zio Tim, è stato bello rivederti».
«E se avessimo bisogno di aiuto ti contatteremo senz’altro» aggiunse Beck.
«Ehi, magari dovresti darci il tuo numero di cellulare» feci io.
«Non occorre, Bickford. Io resterò con voi a bordo della Sperduta».
«Perché?» chiese Storm bruscamente. «Ce la caviamo bene. Non abbiamo bisogno del tuo
aiuto».
«E invece sì, Stephanie. Ne avete bisogno. Vostro padre mi ha designato come vostro tutore
legale in caso di disgrazia, e il fatto che durante una tempesta tropicale sia caduto nell’oceano e
affogato credo rientri nella fattispecie. Tu no?»
Stavo per dire ‘Papà non è morto’ quando zio Timothy tirò fuori una pila di quattro documenti
dall’aspetto ufficiale. In cima a ognuno erano stampate le parole dichiarazione di tutela legale,
corredate dal sigillo dello stato della Florida.
Sui moduli erano elencati i nostri nomi, date di nascita e codici fiscali. Erano anche firmati,
giurati e autenticati.
Potevano essere contraffatti, ma se erano dei falsi erano fatti benissimo.
«Bene, cosa volete stasera per cena, ragazzi? Ce ne andiamo a South Beach a farci un
cheeseburger?»
Ugh. Cenare con zio Timothy era l’ultima cosa che volevo (oltre a vederlo assumere il comando
della Sperduta).
Ma a quanto pareva non avevamo scelta.
Zio Timothy sarebbe rimasto.
La mattina dopo, Tommy e io ci preparammo alla partenza: staccammo il cavo dell’elettricità
dalla colonnina sul molo, legammo le scotte del fiocco, attaccammo al grillo la drizza della randa, più
un’altra quarantina di cose che facciamo ogni volta prima di salpare.
La sera prima, mentre zio Timothy andava avanti e indietro sul ponte di poppa blaterando al
cellulare cose come ‘pulitura a secco’, ‘contraccolpo’ e ‘mangime per polli’ (mi immaginai stesse
parlando a un contadino che aveva avuto un incidente nel pollaio e aveva bisogno di farsi lavare la tuta
come si deve), avevamo fatto una riunione di famiglia e avevamo deciso che avremmo utilizzato il
nostro generoso conto in banca per seguire le misteriose istruzioni di papà, dirigendoci a New York per
fare autenticare dal professor Lewis l’amuleto minoico a forma di ape. Quindi non saremmo saltati sul
primo volo per Cipro alla ricerca di mamma.
Parlammo a zio Timothy del nostro piano di dirigerci a nord.
Non gli dicemmo dei contanti nella valigetta.
Poi, intorno alle 10 del mattino, capimmo perché non sempre è una buona idea offrire in giro
frappè al cioccolato.
Mentre Tommy e io stavamo preparando La Sperduta, due agenti della polizia di Miami,
entrambi con baffi a manubrio, si presentarono al nostro attracco. Esatto. Gli stessi due tizi con i baffi a
manubrio del Cheeseburger Baby.
«Dai volta a quella cima, figliolo» mi esortò uno dei due mentre saliva a bordo della Sperduta.
«Dobbiamo parlarvi» disse l’altro mentre saliva dietro al collega.
«Uh, salve, ragazzi» salutai. «Che succede?»
«Perché non lo dici tu a noi?» disse il primo.
«Così lo sapremo tutti» aggiunse l’altro.
«Voialtri ragazzi sfoggiavate parecchi contanti ieri».
«Troppi per dei ragazzi della vostra età».
«Dove avete preso tutti quei soldi?»
«Trasportate droga su questa barca?»
Continuavano a tormentare Tommy e me, martellandoci di domande senza lasciarci la
possibilità di rispondere.
«Forse voi due e le vostre sorelle dovreste passare una notte ospiti da noi» suggerì il primo.
«Al Centro di Detenzione Giovanile della contea di Miami-Dade» aggiunse l’altro.
«Oppure potremmo spedirvi direttamente in affidamento».
«O in un orfanotrofio».
«I cheeseburger non sono un granché all’orfanotrofio».
«E neppure gli anelli di cipolla».
Fu allora che zio Timothy, seguito da Beck e Storm, uscì dalla tuga.
«Buongiorno, agenti. I miei figli sono finiti in qualche guaio?»
«I suoi figli?»
«Esatto». Zio Timothy allungò il braccio per stringere la mano agli agenti. «Sono Timothy
Kidd. Questi sono i miei figli, Thomas e Bickford. E le mie splendide figlie, Stephanie e Rebecca».
«Be’, forse potrebbe rispondere a qualche nostra domanda».
«Ci provo» si offrì zio Timothy, aggiustandosi gli occhiali a specchio.
«Dov’è che i suoi figli hanno trovato i soldi per offrire a tutti quanti un frappè al Cheeseburger
Baby?» chiese il primo.
«E patatine» disse l’altro. «Io ho preso anche le patatine».
«Semplice. Do ai miei figli una paghetta molto generosa. Probabilmente li vizio. Ma, vede, da
quando la loro madre è morta, be’…»
Zio Timothy si comportò come se il ricordo della nostra defunta madre lo stesse sopraffacendo.
«Scusatemi, agenti. Non volevo mettermi a piangere. È solo che avete riacceso dei ricordi molto
dolorosi. A noi… tutti… manca… così… tanto… BWAAAAAAH!»
Zio Timothy si mise a frignare. I due agenti iniziarono a indietreggiare.
«Va tutto bene, signor Kidd».
«Ci scusi per l’intrusione».
«Le nostre condoglianze».
«E, a proposito, grazie ragazzi. Per i frappè».
Poi sostanzialmente scapparono via dal porto. Quando se ne furono andati, zio Timothy toccò il
suo auricolare Bluetooth e rientrò nella tuga. «Scusami, Dieter. Emergenza familiare. Chiama Parigi.
Contatta il DGSE…»
«Okay, credo che siamo in debito con lui» disse Beck, quando si fu allontanato.
Annuimmo tutti. Non ci aveva nemmeno fatto domande sui contanti che secondo gli agenti
avevamo sfoggiato.
Ma sapeva di nostro padre finito in mare senza che glielo avessimo detto.
Perciò non riuscivamo a deciderci: zio Timothy era un buono o un cattivo?
Prima che potessimo scoprire qualcosa di certo su zio Timothy, lui ricevette un’altra telefonata
e partì di corsa da Miami, a bordo di una lucidissima barca argentata che assomigliava di più a
un’astronave che a un motoscafo.
Mentre faceva i bagagli disse: «Mi spiace, ragazzi, devo occuparmi di una faccenda
urgentissima. Ma ricordate: vostro padre conta su di voi perché vi occupiate della sua faccenda
urgentissima. Seguite il piano che vi ha indicato. Portate quell’affare a New York!»
Salpammo circa venti minuti dopo, ancora una volta soltanto noi quattro. Ma un’ora dopo avere
lasciato il porto mi ritrovai a desiderare che zio Timothy fosse ancora a bordo fingendo di essere nostro
padre. All’orizzonte erano apparse tre barche molto minacciose.
Tommy prese il binocolo. «Non sembrano molto amichevoli».
Ci pareva di scorgere dei potenti motori fuoribordo montati sulle poppe squadrate dei loro scafi
a fondo piatto.
«Conto tre uomini su due di quelle barche, e due sull’altra» disse Tommy.
«Sono pirati?» chiese Beck.
«Sembrano più dei surfisti» rispose Tommy, abbassando il binocolo.
Come a voler smentire mio fratello, uno dei tipi sulla seconda imbarcazione si alzò in piedi e
iniziò a sventolare una bandiera dei pirati rossa.
«Ci serve più velocità» gridò Tommy. «Abbassate il boma e tesate la randa. Slegate quel filo su
in cima».
«Sissignore!» Beck e io saltammo sulla tuga per occuparci della randa.
Fatte le regolazioni, La Sperduta aumentò decisamente la velocità.
«Voglio che il vento ci arrivi al traverso!» gridò Tommy mentre girava bruscamente il timone a
sinistra. «Storm? Dammi le istruzioni per portare le vele a quarantacinque gradi rispetto al vento!»
Storm effettuò mentalmente alcuni rapidissimi calcoli trigonometrici e iniziò a indicare a
Tommy ad alta voce rotte e virate per mettere le nostre vele nella posizione migliore.
Di lì a poco sfrecciavamo a una velocità doppia di quella del vento.
Ma anche la più veloce delle barche a vela ha una velocità massima. Più forte andavamo e più si
allungavano le onde sotto al nostro scafo. Quando infine superammo il nostro limite, quella che
chiamano velocità critica, fu come se stessimo navigando in salita, lottando contro la nostra stessa scia.
In men che non si dica una delle barche ci arrivò alle spalle. Le altre due si stavano accostando
alla nostra su entrambe le fiancate.
«Lascate la randa!» gridò l’uomo in piedi sulla prua della barca dietro di noi. «O lo farò io!»
Imbracciava un mitra malridotto e aveva due bandoliere di munizioni appese al petto.
Due rampini di arrembaggio piombarono sui lati della nostra barca e si agganciarono alle
battagliole.
«Lascate quella vela, gente!» L’uomo alle nostre spalle scaricò in aria una breve raffica di
mitra.
«Lasca la randa, Bick» mi ordinò Tommy. «Beck, molla il fiocco. Fallo sventolare!»
Facemmo come ci disse Tommy. La Sperduta scaricò tutto il vento dalle vele e si spostò di
traverso come una banderuola, finché la prua non si mise controvento. Praticamente girammo su noi
stessi trascinandoci appresso le due barche di pirati che si erano agganciate ai nostri fianchi.
Il tipo con il mitra (una sorta di surfista tatuato con lunghi capelli sudici e un pizzetto da hippy)
saltò sulla nostra poppa. I suoi sette compagni salirono a bordo dietro di lui.
«Sei un gran manico a navigare, amico» disse il capo dei pirati a Tommy, che era ancora alla
timoneria, mentre i suoi degni compari sciamavano sui lati della nostra barca, caricando le loro armi.
Sembravano dei brutti ceffi abbronzati usciti da un bar di motociclisti.
«Ma adesso, caro il mio skipper fenomeno» continuò il capo dei pirati, «sarà meglio che ti dai
una calmata, intesi?»
Tommy non disse nulla e restò al timone, fissando l’ammasso di odiosi pirati sotto di lui e
facendo scudo a Storm, che gli era scivolata alle spalle in cerca di riparo. Beck e io restammo dove
eravamo sopra la tuga. Per un attimo pensai di scaraventare in fuori il boma e abbattere alcuni di quei
tagliagole. Ma sarei riuscito a colpire solo la metà di loro, permettendo all’altra metà di aprire il fuoco
con il loro ricco assortimento di armi.
«Rilassatevi, ragazzini. Non vogliamo nessuno dei vostri elmi da conquistador o teste di
cocco».
Tutti i suoi compari sghignazzarono.
«Vogliamo solo quello che c’è nella Stanza».
«Forza, mis amigos» gridò il capo dei pirati. «Dobbiamo scendere sottocoperta».
Beck e io ci scambiammo uno sguardo. Ci stavamo facendo la stessa domanda: Come facevano
quei rozzi pirati surfisti a sapere della Stanza?
Quelle otto schifose canaglie sgattaiolarono giù nella tuga. Fu davvero strano. Non lasciarono
nessuno a sorvegliarci. A proposito, se dovete subire l’assalto di un manipolo di pirati, vi consiglio
caldamente di optare per dei surfisti imbecilli!
«Tommy?» chiamai.
«Muoviamoci» rispose. «Beck? Tu stai con Storm».
«D’accordo».
Tommy e io scendemmo dalla scaletta del ponte di poppa e ci infilammo nella tuga.
Sorprendentemente, nessuno dei pirati stava saccheggiando i tesori in mostra nel salone, salvo un
piccoletto metallaro con il codino che si stava provando l’elmo da conquistador.
Tommy e io ci affrettammo a scendere sottocoperta. Il capo dei pirati stava battendo i pugni
sulla porta d’acciaio della Stanza. Poi un paio dei suoi scagnozzi tentarono di forzare la porta con le
canne dei loro fucili.
Dopo una serie di grugniti e lamenti, cinque di loro si misero a prendere a calci la porta (idea
decisamente poco brillante se si portano scarpette da mare di gomma).
«Okay, skipper fenomeno» disse a Tommy il capo dei pirati, paonazzo. «Dov’è la dannata
chiave?»
Tommy si strinse nelle spalle. «Non lo so».
«Ce l’aveva nostro padre quando è caduto in mare» aggiunsi.
«Che cosa?» sibilò il capo.
«Be’, vedi, c’era questa tempesta. Il cielo si era oscurato tutto a un tratto. Da ovest si era alzato
un vento fortissimo. ‘Ammainare tutto, ragazzi!’ ha gridato nostro padre dalla timoneria, mentre lottava
con il timone per evitare che ci rovesciassimo. Io ero nella coffa di vedetta, la camicia ridotta a
brandelli dal vento di burrasca…»
I pirati pendevano letteralmente dalle mie labbra.
Tranne il loro capo. Caricò il suo mitra. «La chiave, ragazzino. Dov’è?»
«In fondo al mare» risposi, provando a fingere di singhiozzare come aveva fatto zio Timothy.
«Nello scrigno di Davy Jones insieme al caro vecchio papà. BWAAAAAH!»
«Smettila di piangere, ragazzino. Dov’è la chiave di riserva?»
«Non c’è».
«Che cosa?»
«Nostro padre, che riposi in pace, era un po’ spilorcio. Comprava tutte le sue camicie al
mercato. E le chiavi di quel tipo costano intorno ai dieci dollari l’una. Ci vuole un fabbro. Non è che
basta andare al primo ferramenta e…»
«Perquisite la barca!» gridò il capo dei pirati.
«Woo-hoo!» gridarono in risposta i suoi compari.
All’improvviso, lenzuola e coperte vennero scaraventate via dalle nostre cuccette. Volarono
cuscini. Qualcuno ficcò una testa di cocco nel water e tirò l’acqua, inondando il pavimento. Qualunque
cosa non fosse imbullonata o inchiodata alle pareti venne rovesciata, presa a calci, colpita e totalmente
devastata. Ruppero addirittura la vetrinetta che conteneva il nostro coltello da bistecca del Titanic. Il
piccoletto col codino calciò al volo l’elmo da conquistador lanciandolo dall’altra parte del salone, dove
un suo collega stava strappando la nostra striscia di luci natalizie a forma di peperoncino.
Guardai Tommy.
«Sono soltanto degli oggetti» borbottò. «Lascia perdere».
Per fortuna avevamo già cambiato tutti i nostri dobloni d’oro da Miss Laticia, e Storm era stata
abbastanza furba da imboscare la nostra valigetta di alluminio piena di contanti in uno dei numerosi
nascondigli della Sperduta.
Il capo dei pirati si mise due dita in bocca e fischiò. «Ricreazione finita, gente. Dobbiamo
tornare a fare rapporto dal nostro uomo. Prendiamo il pacco di riserva e smammiamo». I ladri
sgattaiolarono fuori dalle cabine e dalla tuga e si misero a sparare in aria come Yosemite Sam.
«Stai qui!» mi gridò Tommy, correndo dietro ai pirati.
Sì, come no.
Mi lanciai per le scale dietro a lui, ma sentii che i pirati avevano già acceso i motori delle
barche.
Trovammo Storm nella timoneria, che piangeva disperata.
«Che succede?» gridai. «Dov’è Beck?»
«I pirati! L’hanno presa!»
Fu allora che capii: era Beck il loro ‘pacco di riserva’.
Non mi ero mai sentito così male.
Avevo i brividi. Poi mi sentivo bruciare dalla febbre. Mi ritrovai persino a vomitare dal fianco
della barca.
Sì, avevo il mal di mare, malgrado la barca non si stesse muovendo.
Tommy aveva deciso di gettare l’ancora e accendere la radio. Aveva avvisato la Guardia
Costiera del rapimento. Aveva chiesto ai nostri nuovi amici della Polizia di Miami di lanciare un
allarme generale e un’allerta AMBER.
Nel frattempo Storm era nella Stanza a consultare un database dell’FBI su Internet, cercando di
riconoscere nelle foto segnaletiche dei pregiudicati le facce dei pirati che aveva appena memorizzato.
Probabilmente Tommy avrebbe chiamato anche zio Timothy, ma zio Timothy non ci aveva mai
dato il suo numero di cellulare.
E io?
Ero praticamente inutile.
Passai diverse ore abbracciato a una battagliola sul pulpito di poppa. A gemere. A lamentarmi.
A vomitare.
Era come se mi avessero segato a metà.
(Sì, vorrei che Beck mi disegnasse così: diviso in due. Magari da un mago pirata pazzo con una
motosega. Ma Beck non è qui a vedere in che stato sono ridotto, perciò non mi può disegnare.)
Perdere la mia sorella gemella era la cosa peggiore che mi potesse capitare, perché è tutta la vita
che stiamo insieme. Pensateci. Eravamo insieme persino prima di nascere.
Era peggio che perdere mamma e papà.
Beck, ovviamente, si sarebbe opposta con violenza a questa affermazione.
Perciò, dal momento che lei non c’era, mi imbarcai nella Filippica Gemellare numero 429 con
me stesso.
«Non essere ridicolo, Bickford!» gridai, con un tono di voce lievemente più acuto del solito per
somigliare a Beck. «Come può essere peggio perdere una persona che perderne due?»
«Ehi, ricordi? Ti conosco da nove mesi prima di quanto abbia conosciuto le altre due».
«Certo. Quei primi nove mesi sono stati così divertenti…»
«Sì che lo sono stati! Ti ricordi quando mollavamo calci allo stomaco di mamma?»
«Quella era stata una tua idea, Bickford».
«Ma l’hai fatto anche tu, Rebecca».
«Perché tu hai sempre avuto una pessima influenza su di me».
«Io? E tu allora?»
«Io non ti ho mai fatto fare niente di stupido, Bick».
«E quella volta che mi sono mangiato una caccola?»
«Era stata una tua idea, moccioso».
«No!»
«Sì, anche quella».
«No».
«Sì!»
«Okay, è vero. Fu mia».
«Già. Mi spiace».
«Colpa mia».
«Non preoccuparti. È tutto okay».
Smisi un attimo di gridare da solo.
«Allora, Bick?» chiesi, con la voce di Beck.
«Sì, Beck?»
«Di cosa sapeva quella caccola?»
Non risposi.
Mi sporsi dal fianco della barca e vomitai di nuovo.
Questo ero io, quattro ore dopo.
(Per vostra informazione, in assenza di Beck mi occupo io dei disegni. Potrebbe risultare un po’
difficile distinguerci. Tommy non avrà più un corpo da palestrato. O bei capelli. Me ne scuso.)
Ci vollero circa altre otto ore perché Tommy e Storm riuscissero a riscuotermi dal mio stato di
shock.
«Coraggio, fratellino» mi incoraggiò Tommy. «Reagisci!»
«Abbiamo bisogno di te, Bick» disse Storm. «Beck non ti vorrebbe vedere così triste».
«Avete ragione, ragazzi. Devo rimettermi insieme!»
(Ah, come vorrei che Beck fosse qui a disegnarlo! Io che mi rimetto insieme. Magari
avvitandomi la testa sopra il sedere; o mettendo i piedi al posto delle mani. Per ora dovrete
accontentarvi della vostra immaginazione. Grazie.)
Comunque, cercavo di essere ottimista. Ma era difficile. Specialmente quando il sole iniziò a
tramontare e Storm e Tommy iniziarono a parlare di Beck come se fosse morta anche lei.
«Sai, mi mancheranno quei suoi disegni dei gabbiani e dei pesci» disse Storm. «Non aveva
bisogno di una memoria fotografica per ricordarsi perfettamente i dettagli».
«Ricordi il suo primo disegno?» chiese Tommy ridacchiando.
«Sì» rispose Storm. «Quel capolavoro di pittura con le dita sulle pareti della nursery. Aveva
usato un barattolo di omogeneizzati. Crema di spinaci. Mamma e papà lo chiamarono il suo ‘periodo
verde’».
«Già» mormorò Tommy, ricordando la scena. «Ma giuro che la sua Barbalalla era perfetta».
«Ehm, ragazzi?» li interruppi. «Per caso stiamo organizzando un altro funerale in mare?»
«Noo» si affrettò a rispondere Tommy. «Stavamo solo, insomma, pensando a Beck».
«Volete che vada giù in cabina a prendere il suo cappello dei Marlins?» sbottò Storm.
«Potremmo buttarlo in mare come abbiamo fatto con quello di papà».
«Ragazzi, andiamo! Mi state spaventando. Beck non è morta».
Tommy mi mise una mano sulla spalla. «E non lo sarà mai, fratellino. Finché la terremo qui». E
si toccò il cuore.
Gesù, pensai, può andare peggio di così?
E a quel punto, naturalmente, la situazione peggiorò.
Sentii il rumore di un motoscafo in lontananza. E non sembrava il rumore delle barche dei
pirati.
Cos’altro stava per succedere?
Sorprendentemente, erano in arrivo buone notizie.
La barca che spuntava dal tramonto e si stava avvicinando a tutto gas, sfiorando le onde con la
prua come un sasso che rimbalza sull’acqua, era il motoscafo aerodinamico di zio Timothy. Zio
Timothy era al timone.
E Beck era in piedi di fianco a lui.
Aveva gli occhiali 3D legati stretti alla testa, entrambe le braccia alzate e i capelli al vento.
Gridava «Cowabunga!» mentre il lucido motoscafo d’argento rimbalzava sull’oceano come un razzo.
(Come vedete, Beck ha sorvolato sulle lacrime, gli abbracci, e le altre smancerie che ci
scambiammo una volta che ci trovammo tutti riuniti sul ponte della Sperduta. Ha preferito optare per
una scena d’azione. Hai ragione, Beck. Fu un entrata in scena super spettacolare, e tu eri un vero
schianto. Ottima scelta.)
«Zio Timothy mi ha salvato!» gridò Beck, eccitata. «E sentite questa, ragazzi: hanno un
sottomarino!»
«Chi?» chiesi.
«I pirati! Io non l’ho visto, perché mi hanno tenuto bendata tutto il tempo, ma li ho sentiti dire
cose tipo ‘collegati al sottomarino’ e ‘portala giù nel sottomarino’, il che, se intendevano mantenere il
segreto sul sottomarino, è stato incredibilmente stupido».
«La benda non ha rotto i tuoi occhiali 3D?» chiese Storm, che penso fosse stufa di vedere Beck
indossarli.
«No. Mi hanno detto di togliermeli prima di bendarmi e tutto il resto».
«E tu l’hai salvata?» chiese Tommy a zio Timothy.
«Diciamo semplicemente che ho negoziato il suo rilascio. Quelli sono pirati. Vogliono soltanto
i soldi, che arrivino da merce rubata o da un riscatto. Non fa differenza per quella gentaglia».
«Quanto sono costata?» chiese Beck. «Che so, un milione di dollari?»
Zio Timothy sorrise. «Ci siamo accordati».
«Be’, sono felice che tu lo abbia fatto!»
«Anch’io» dissi, sentendomi di nuovo intero adesso che Beck era al sicuro. «Ti hanno fatto del
male?»
«No. Solo continuavano a farmi un sacco di domande. Sembrava la scena dell’interrogatorio in
uno di quei film di spionaggio. Mi hanno persino attaccata a una macchina della verità!»
«Davvero?»
«Sì. Mi hanno legato un grosso arnese al polso con il velcro, e mi hanno collegato le dita a degli
elettrodi».
«Pensavo fossi bendata» disse Storm.
«Lo ero» disse Beck. «Ma una volta esaurite le domande tutti i pirati sono saliti ‘di sopra’ a
parlare al ‘loro uomo’. Perciò ho sollevato rapidamente la benda e ho dato un’occhiata».
«Cos’hai visto?» chiesi.
«Il foglio della macchina della verità con un sacco di ghirigori e qualche altra cosa. Tipo un
posacenere pieno di mozziconi di sigaro inzuppati».
Ebbi la sensazione che Beck avesse visto dell’altro ma non volesse dirlo di fronte a tutti. «Che
genere di domande ti hanno fatto?»
«Di tutto! Volevano sapere delle ultime cacce al tesoro fatte da papà e della scomparsa di
mamma a Cipro. E poi sentite questa, hanno iniziato a farmi un sacco di domande sull’arte come ‘Hai
mai visto I papaveri di Van Gogh o Il ragazzo con il panciotto rosso di Cézanne?»
«Quelli delle foto che papà teneva giù nella Stanza?»
«Sì».
«E tu cosa hai risposto?»
«La verità. Ho detto ‘No, non ho mai visto quei dipinti’».
«Ma tu li hai visti» disse Storm.
«No. Io ho visto soltanto delle fotografie, non i dipinti!»
«Perciò hai superato l’esame della macchina?» chiesi.
«Assolutamente» rispose Beck. «Perché non stavo mentendo».
In quel momento mi sentii orgogliosissimo di essere il fratello gemello di Beck.
«Aspetta un momento» disse Tommy lo Svampito. «Come facevano i pirati a sapere quali
fotografie papà aveva appeso alle pareti della Stanza? Avevano forse aperto uno spioncino nella porta
con un trapano?»
«Non c’erano buchi nella porta» intervenne Storm. «E poi, le fotografie di papà non erano nella
Stanza quando i pirati ci hanno abbordato. Le avevo nascoste».
«Giusto» disse Tommy. «Me n’ero dimenticato. Grazie di avermelo ricordato».
«Dunque come facevano a saperlo?» borbottai. «Non solo dei quadri. Di mamma e Cipro. Di
tutto».
Beck si rivolse a Storm. «Il peggio è stato questo. Più di tutto, loro volevano la Chiave».
«Gli hai detto dov’era?» chiese Tommy, di nuovo con quell’espressione confusa da svampito.
«Ehm, no. Solo Storm sa dov’è nascosta, ricordi?»
«Oh. Giuuusto. Avevo scordato anche questo».
«Be’» intervenne zio Timothy, che, a dirla tutta, se ne era restato un po’ troppo zitto per tutto il
tempo in cui Beck aveva raccontato del suo rapimento, «a quanto pare i pirati hanno imbarcato la figlia
sbagliata. Avrebbero dovuto rapire Storm».
«Non si possono prendere anche Storm!» esplosi, fulminando zio Timothy con lo sguardo.
«Stavo solo scherzando, Bickford. Non prenderla dal verso sbagliato, figliolo».
In realtà c’era un motivo se mi agitavo tanto: c’era qualcosa di sospetto. Qualcosa di strano
riguardo a zio Timothy.
«Comunque, zio Timothy» dissi, «grazie per avere riportato Beck».
«Prego, Bickford».
«Ho solo una domanda».
«Sì?»
«Come facevi a sapere dove i pirati l’avevano portata?»
Non potei giudicare la reazione di zio Timothy alla mia domanda perché i suoi occhi erano
sempre nascosti dietro gli occhiali a specchio. Inoltre, sul suo viso non si mosse un muscolo.
Quell’uomo sembrava scolpito nel marmo.
«La mia barca» disse infine, indicando l’astronave galleggiante legata alla nostra poppa, «è
equipaggiata con scanner radio molto sofisticati. Stavo appunto monitorando una serie di frequenze
abitualmente utilizzate dai pirati».
Alzai la mano.
«Sì, Bickford?» sospirò zio Timothy.
«Ho un’altra domanda per te».
«Sì?»
«Perché i pirati hanno chiamato Beck il loro ‘pacco di riserva’?»
«Quasi sicuramente il loro obiettivo iniziale era un altro. Probabilmente la Chiave della Stanza.
Hanno preso Beck come rimpiazzo».
(Vi siete accorti di come non abbia assolutamente spiegato perché i pirati avessero usato la
parola pacco, un termine che zio Timothy usa in continuazione? Sì, anch’io.)
«Ho una domanda anch’io» disse Storm.
«Santo cielo» esclamò zio Timothy con una risatina decisamente falsa. «Questo è peggio del
terzo grado che hanno fatto a Rebecca».
«Come facevi a sapere dov’era il sottomarino dei pirati?»
«Ve l’ho detto. Ho rintracciato il loro segnale radio».
«No. Tu hai detto che stavi ‘monitorando una serie di frequenze abitualmente utilizzate dai
pirati’».
«Nella tua barca hai anche l’attrezzatura per localizzare la fonte delle trasmissioni?» chiese
Tommy, che è un appassionato di gadget tecnologici.
«Sentite, ragazzi» disse zio Timothy. (Rapida osservazione: quando un adulto si rivolge a un
gruppo di ragazzi chiamandoli ‘ragazzi’, sappiate che sta per non dirgli qualcosa.) «In questo momento
non posso rispondere a tutte queste domande. Dovrete fidarvi di me».
Annuimmo tutti.
Ma notai che tutti i miei fratelli, persino Tommy lo Svampito, stavano fissando zio Timothy
allo stesso modo in cui lo avevo guardato io prima.
Chi era questo zio Timothy che in realtà non era nostro zio?
Da che parte stava davvero?
La nostra?
Quella dei pirati?
O era in combutta con qualcuno che non avevamo ancora conosciuto?
Mentre navigavamo verso nord, trainando la barca di zio Timothy, i miei sospetti sull’uomo
misterioso con gli occhiali a specchio continuarono a crescere.
Tra l’altro, non permise a nessuno di noi di salire sulla sua barca a vedere le sue fighissime
strumentazioni. Questo non fece che ingigantire i miei dubbi come fossero grossi pomodori mutanti e
radioattivi.
«C’è qualcosa che puzza in zio Timothy» confidai a Beck.
«È il suo gilet multitasche» disse Beck. «Credo stesse sventrando un tonno prima di venirmi a
salvare».
«Parlo sul serio!»
«Lo so. E per quanto possa valere, credo anch’io che ci sia qualcosa di losco in lui».
«Credi che ti abbia trovato sul sottomarino dei pirati perché lavora con loro?»
«È una possibilità. In più, è probabile che papà abbia parlato a zio Timothy della Stanza…»
«… E lui l’ha detto ai pirati».
«Ecco come facevano a sapere delle fotografie dei quadri…»
«… e di quello che era successo a mamma a Cipro. Riunione di famiglia?»
«Sì» assentì Beck. «Ho un’idea. Qualcosa che ho preso dal sottomarino dei pirati».
«Tipo usare la macchina della verità su di lui?»
«Qualcosa di meglio».
Andammo a chiamare Storm e Tommy e tenemmo una breve riunione sul ponte di poppa.
Beck ci mostrò la scatoletta che aveva preso ‘in prestito’ dai pirati che l’avevano rapita.
«L’hai rubata?» chiese Storm.
«Ehi, la stavano per usare con me. Inoltre, è davvero contro la legge rubare a qualcuno che sulla
sua barca non ha niente che non sia rubato da altre barche?»
Tommy annuì pensosamente. «Wow. Sei tosta, Beck».
Proprio in quel momento zio Timothy uscì a grandi passi dalla tuga e stiracchiò le braccia,
assorbendo la calda luce del sole che inondava l’estremità posteriore della nostra barca.
«Questo è un piano idiota, Bickford!» gridò Beck strizzandomi l’occhio, per farmi capire che la
Filippica Gemellare numero 430 era destinata solo alle orecchie di zio Timothy.
«Ah, sì? Be’, e allora qual è il tuo piano, Rebecca?»
«Semplice! Rubiamo quegli stupidi occhiali da sole che indossa sempre e lo facciamo sedere al
sole!»
«E perché in questo modo ci dovrebbe raccontare la verità?»
«Ha gli occhi ipersensibili!»
«E allora? Li può chiudere!»
«Non se lo obblighiamo a tenerli aperti».
«E come?»
«Io ho delle tenaglie» intervenne Tommy.
«Abbiamo anche quelle pinze per gli spaghetti» aggiunse Storm.
«Ragazzi?»
Zio Timothy, le mani sui fianchi, ci stava fissando dal basso.
«Oh, ciao, zio Tim» lo salutai. «Non ci eravamo accorti che fossi laggiù».
«Mi pare ovvio. Statemi a sentire, vi ho detto tutto quello che posso, okay? Adesso piantatela,
Bick e Beck». Si stirò e sbadigliò. «Sono a pezzi. Andrò a farmi un pisolino di sotto. Non svegliatemi a
meno che non ci sia un altro attacco di pirati».
«Sissignore» rispondemmo tutti e quattro all’unisono.
Non credevo ai miei occhi: zio Timothy si staccò l’auricolare Bluetooth dall’orecchio.
Era evidente che aveva proprio intenzione di dormire.
«Aspettiamo dieci minuti che si sia addormentato» sussurrò Beck quando se ne fu andato. Tirò
fuori di tasca la scatola sottile. «Poi gli diamo questo».
Annuimmo tutti.
Perché, come ho già detto, noi Kidd siamo Creature Selvagge.
E anche se ciò che proponevamo di fare a zio Timothy era probabilmente illegale (per non dire
potenzialmente letale) lo avremmo fatto comunque.
Messi con le spalle al muro, non avevamo alcuna paura degli adulti e un interesse pari a zero
nell’obbedire alle regole della loro cosiddetta società.
Avremmo concesso a zio Timothy dieci minuti per addormentarsi.
Poi le Creature Selvagge avrebbero colpito.
Beck aveva rubato dal sottomarino dei pirati una scatoletta delle dimensioni di una custodia di
stilografica.
L’etichetta della scatola recitava: siero della verità. Credo che serva ad assicurarsi che nessuno
riesca a fregare la macchina della verità.
Sotto il coperchio a scatto della scatola c’erano una siringa e una fiala di Pentothal, una droga a
effetto immediato e di breve durata utilizzata per svariate finalità mediche, tra le quali addormentare la
parte del cervello che inventa le bugie.
Storm consultò nel giro di cinque minuti diversi siti Internet per infermieri e memorizzò tutto
quello che c’era da sapere per fare un’iniezione in modo sicuro. Poi tutti e quattro entrammo in punta di
piedi nella cabina principale, dove zio Timothy stava facendo il suo pisolino.
«Scusami, zio Tim» sussurrò Storm mentre gli affondava l’ago nel braccio. «Ma dobbiamo
sapere tutta la verità e nient’altro che la verità».
Stranamente, zio Timothy non si svegliò, si limitò a grugnire e rigirarsi, si diede una botta sul
braccio e ritornò immobile.
Lasciammo agire la droga per un minuto.
Poi Tommy spruzzò un po’ d’acqua fredda da una bottiglia sul viso di zio Timothy.
«Uh?» disse, svegliandosi.
«Chi sei tu?» chiesi.
«Vostro zio Timothy».
«Ma chi sei veramente?»
E zio Timothy iniziò a parlare.
«Il mio nome è Timothy Quinn».
«Per chi lavori? Per i pirati?»
Scosse la testa. «No, lavoro per l’Agenzia. La CIA».
«La Central Intelligence Agency? Sei una spia?»
«Affermativo. Organizzo e dirigo operazioni clandestine per garantire la sicurezza
dell’America. Proprio questa settimana, con l’aiuto dell’oscurità, abbiamo estratto diversi cittadini
statunitensi che erano tenuti in ostaggio nella famigerata zona montuosa del Pakistan. Sono lieto di
riferire che il pacco è stato felicemente consegnato senza contraccolpi significativi».
«Cosa intendi per contraccolpi?»
«Conseguenze non intenzionali di attività sotto copertura, come le vittime tra i civili».
Okay. La cosa era decisamente clamorosa.
«Come mai conosci papà?» chiese Beck.
«Vostro padre, Thomas Kidd, lavora per me».
«Cosa?»
«Lui è, o era, un agente della CIA».
«Papà lavorava per te?» sbottai. «Sul serio?»
«Certo. E lo fa, o faceva, anche vostra madre».
«Wow» esclamò Tommy. «Anche mamma è una spia?»
«Papà e mamma sono vivi?» incalzai, senza aspettare la risposta alla domanda di Tommy.
«Al momento non posso dirlo».
«Be’» disse Storm, «allora sono morti?»
«Non lo so».
Questo mi diede speranza. «Quindi potrebbero essere vivi?»
«Sono entrambi agenti di eccezionale talento. Tuttavia, le loro missioni più recenti erano e
restano estremamente pericolose. Do a entrambi il trenta per cento di possibilità di sopravvivenza».
Sorrisi. Insomma, il trenta per cento era di gran lunga meglio che ‘sicuramente deceduti’.
Se zio Timothy diceva la verità (e in quel momento non è che avesse molta scelta) forse al
prossimo scalo avremmo addirittura dovuto comprare a papà un nuovo cappello da capitano, per
rimpiazzare quello che avevamo buttato in mare al suo funerale.
«Cosa mi avete dato, ragazzi?» chiese zio Timothy quando il siero della verità si fu assorbito. Si
massaggiò il braccio dove Storm gli aveva fatto l’iniezione. «Pentothal?»
«In realtà» puntualizzò Storm, «il nome del farmaco è tiopental sodico».
«Lo so» disse zio Timothy. «Una volta lo usavamo. Finché non hanno trovato qualcosa di
meglio».
«Allora dove si trova esattamente mamma?» chiesi. «E papà?»
«Non ho informazioni circa la loro posizione attuale».
«Be’, sono vivi o morti?»
«Sì».
«Tutto qui?» esclamò Beck. «È una risposta che non regge!»
«Ed è estremamente criptica» aggiunsi, utilizzando la parola più difficile che conoscevo per dire
reticente e vile.
Storm mi tirò per la camicia. «È una spia. Le spie sono criptiche per definizione».
Zio Timothy attivò l’auricolare Bluetooth che si era nuovamente infilato dopo il nostro festival
della verità.
(Detto per inciso, gli occhiali da sole li tiene anche per dormire!)
«Roger» disse zio Timothy a chiunque gli stesse blaterando nell’orecchio. «Tommy? Sgancia il
mio motoscafo».
«Cosa?»
«Taglia la cima» abbaiò. «Poi metti un po’ di spazio tra la vostra barca e la mia».
«Mmm, okay. Bick?»
«Agli ordini».
Andai alla bitta dove avevo legato il super-motoscafo di zio Timothy; ora che sapevamo la
verità su di lui, mi resi conto che doveva trattarsi di una specie di segretissima barca invisibile ai radar,
in grado di avvicinarsi a un sottomarino senza essere individuata. A un cenno di zio Timothy, tagliai la
cima e tornai di corsa dal gruppo.
Tommy era al timone. Accese i motori e ci portò un centinaio di metri a ovest del motoscafo
spia.
«Per il governo è una distanza sufficiente» gridò zio Timothy.
Tommy spense i motori. Fu allora che zio Timothy tirò una delle cerniere lampo del suo gilet
multitasche, con forza.
KA-BLAM! La sua barca hi-tech esplose.
«Era solo un prototipo» disse con noncuranza, come se questo bastasse a spiegare perché aveva
appena fatto saltare un motoscafo spia da un miliardo di dollari in ottimo stato e senza battere ciglio.
«Inoltre non potevamo rischiare che quella tecnologia cadesse in mani sbagliate».
Tommy era alla balaustra del ponte di poppa, la bocca spalancata, fissando la palla di fumo nero
che aveva preso il posto del motoscafo.
«Impressionante, amico».
«Grazie, Thomas». Zio Timothy si toccò di nuovo l’auricolare. «Il pacco è pronto a essere
recuperato. Roger». Aprì un’altra cerniera del suo gilet.
Trasalimmo tutti. Ma stavolta non esplose nulla.
Si tolse dall’orecchio l’auricolare Bluetooth e lo infilò nella tasca che aveva aperto.
«Ascoltatemi, ragazzi Kidd» disse. «Che vi piaccia o no, siete le sole persone che possono
portare a termine quello che vostro padre aveva iniziato».
«Cioè cosa?» chiesi.
«Tu che cosa pensi?»
«Ritrovare mamma! Lui sapeva che era viva».
«Che lo sapesse o no, Bickford, il Thomas Kidd che conosco non avrebbe mai abbandonato la
speranza di recuperare quello che considerava il pacco più importante del mondo, non credi?»
«Certo che no, signore».
«L’ultima volta che ci siamo sentiti, mi disse che aveva già pianificato le sue prossime mosse.
A quanto pare voi ragazzi avete raccolto il testimone dopo la sua scomparsa e portato a termine la fase
uno».
«Il ritrovamento dell’amuleto a forma di ape?»
«Esatto. Il vostro prossimo passo vi sarà chiaro una volta che avrete esaminato la mappa di cui
mi ha parlato, quella appesa nella Stanza».
«Quella dell’Emisfero Occidentale?» chiese Beck.
«Roger».
«Ma è una semplice mappa scolastica».
«Studiatela ancora. Guardatela in modo diverso. Seguite la rotta tracciata sulla mappa».
«Non c’era nessuna rotta!» esclamò Beck frustrata.
«Vostro padre mi disse che c’era» dichiarò il capo di papà alla CIA. «Trovatela. Non fate
cadere nelle mani sbagliate quella mappa. Vi augurerei buona fortuna, ma voi quattro non avete
bisogno di fortuna. Ho lavorato con moltissimi agenti di primissimo livello. E ho visto come vi
comportate voi quattro. Che ci crediate o no, siete sulla buona strada per diventare dei veri agenti
segreti. I vostri genitori ne sarebbero orgogliosi».
«Grazie, signore» disse Tommy.
«Conosciamo anche il karate» aggiunse Beck.
«Lo so. Vostro padre mi ha mostrato i vostri fascicoli».
Avevamo dei fascicoli? Chi l’avrebbe mai detto?
«Confido che verrete a capo di questo pasticcio. Sappiate solo che la vostra riuscita è
d’importanza cruciale: per voi, per la vostra famiglia, per il vostro Paese e, sì, per il mondo intero».
All’improvviso sentii un elicottero sopra di noi.Il rumore dei suoi rotori divenne sempre più
forte.
Zio Timothy rivolse a tutti noi un secco saluto militare. «Vi terrò d’occhio!» disse, gridando per
farsi sentire oltre il frastuono dell’elicottero.
Guardai in alto e vidi un elicottero Black Hawk librarsi sopra La Sperduta.
Dall’elicottero scese una scala di corda. Si dispiegò completamente giusto davanti a zio
Timothy, che vi saltò sopra e venne tirato su.
Il pacco era stato recuperato.
Immagino fosse per questo che zio Timothy era rimasto impassibile mentre faceva esplodere la
sua barca. Sapeva che non gli sarebbe servita per tornare a casa.
«Dobbiamo controllare quella mappa!» gridò Beck a Storm nel momento in cui l’elicottero di
zio Timothy fece la sua uscita di scena hollywoodiana scomparendo dietro a un banco di nubi.
«È a prua» disse Storm. «Dentro a…»
Fortunatamente non finì quella frase, perché ci ritrovammo improvvisamente circondati dagli scuba
ninja! Otto tizi in luccicanti mute nere e armati di tutto punto si erano arrampicati dalle fiancate della
Sperduta. Dovevano essersi tenuti a galla appena sopra la superficie (e fuori dal nostro campo
visivo),aspettando che zio Timothy facesse la sua uscita di scena in elicottero.
Tommy scattò come un fulmine verso la tuga, sperando di riuscire a prendere la doppietta.
«Fermo dove sei, amico!» gli intimò uno dei ninja che era salito a bordo da poppa. Il suo fucile
subacqueo dall’aspetto bellicoso era puntato al petto di Tommy.
Beck, Storm e io assumemmo le nostre posizioni hachiji dachi del karate. Eravamo tutti pronti a
usare mani e piedi per staccare le pinne a quegli uomini rana quando uno dei ninja sollevò la sua
maschera e tirò indietro il cappuccio di gomma, mettendo in mostra i lunghi capelli sudici e il pizzetto
da hippy.
«Ehilà, Karate kids. Datevi una calmata».
«Uh-oh» mormorò Beck di fianco a me. «Sono tornati».
«Veniamo in pace, ragazzi e ragazze».
Era lo stesso pirata balordo che aveva comandato il rapimento di Beck.
«Non vogliamo fare del male a nessuno. Big Kahuna ha solo bisogno di vedere cosa c’è dietro
quella porta d’acciaio».
Mentre il sudicio pirata blaterava, notai uno stemma molto fantasioso sulla manica della sua
muta e su quelle degli altri ninja.
«Nathan Collier Treasure Extractors (Estrattori di Tesori di Nathan Collier)» borbottò Storm.
Nathan Collier. Il nemico numero uno di mamma e papà. Questi pirati surfisti scuba ninja non
erano venuti qui a gridare ‘corpo di mille balene!’ o a cercare bottini. Erano qui perché Nathan Collier,
il peggiore cacciatore di tesori ad aver mai solcato i sette mari (era talmente fesso che probabilmente
pensava ce ne fossero solo cinque), voleva fregare qualche altra brillante idea a mamma e papà.
«Papà non c’è» dichiarò Tommy, unendosi al resto di noi al centro del cerchio dei ninja. «È la
sola persona ad avere mai avuto la chiave di quella stanza».
«Uh-oh» disse il capo facendosi avanti, con le pinne bagnate che sbattevano sul ponte. «A
quanto pare il fighissimo fratellone è anche un eccellente bugiardo».
«Ti sta dicendo la verità» confermai. «Papà quando è caduto in mare ha portato con sé l’unica
chiave».
«Naa, fratello» mormorò il capo. «Jadson?» chiamò uno dei suoi compari.
«Sì, Laird?»
«Fammi sentire un’altra volta quella registrazione».
Il pirata chiamato Jadson tirò fuori un registratore MP3 in miniatura dal suo marsupio a tenuta
stagna.
«Vedi, ragazzino» disse Laird, «sulle sue barche il signor Collier è pieno di questi fighissimi
marchingegni super tecnologici. Ha persino questo coso, questo… com’è che si chiama, Jadson?»
«Microfono parabolico».
«Già. È un dispositivo di ascolto a lunga distanza, un affare che possiamo far spuntare fuori dal
nostro sottomarino a… diciamo… trecento metri di distanza e sentire cose come questa».
Jadson schiacciò il tasto Play.
«Il peggio è stato questo». Era la voce di Beck. Un po’ disturbata, ma sicuramente la sua. «Più
di tutto, loro volevano la Chiave».
«Gli hai detto dov’era?» questo era Tommy.
«Ehm, no». Ancora Beck. «Solo Storm sa dov’è nascosta, ricordi?»
«Oh. Giuuusto. Avevo scordato anche questo».
A questo punto sentimmo la voce di zio Timothy. «Be’, a quanto pare i pirati hanno imbarcato
la figlia sbagliata. Avrebbero dovuto rapire Storm».
Jadson spense il registratore mp3.
Laird si avvicinò a grandi passi a Storm.
«Dunque, Cicciabomba, dov’è quella dannata chiave?»
Sembrò che a Storm stesse per venire un attacco di cuore. O un ictus. Magari tutti e due.
Perciò feci quello che mi riesce meglio. Iniziai a inventarmi una storia.
«È tutto qui quello che avete sentito?» chiesi.
«Già» rispose Jadson, vagamente imbarazzato. «L’antenna parabolica è come… avete presente
una ciotola? Perciò, se la inclinate dal lato sbagliato, un pellicano potrebbe appollaiarvisi sopra e voi
non sentireste altro che un grosso uccello intento a trangugiare pesci…»
«Non importa, ragazzino» disse il duro, Laird. «Sappiamo che la tua gigantesca sorellona, qui,
ha nascosto da qualche parte su questa tinozza la chiave di riserva».
«Ma non ci avete sentito parlare dell’immersione? E neppure dei barili di monete confederate,
giusto?»
Laird si grattò il pizzetto. Avevo catturato la sua attenzione.
«Complimenti, Bick» esclamò Beck, fingendo di essere arrabbiata, ma in realtà cercando di
aiutarmi. «Perché non gli racconti tutto dei barili di monete confederate, già che ci sei?»
«Non preoccuparti, sorellina» gongolai. «Questi non sono dei veri cacciatori di tesori. Sono solo
gli scagnozzi di Collier. Non gli importa che ci troviamo esattamente sopra alla CSS Chattahoochee».
«Salute, fratello» disse Laird. «Potevi almeno coprirti la bocca».
«No, amico» replicai. «CSS sta per ‘Confederate States Ship’: una Nave Confederata. La
Chattahoochee era una nave. Aveva forzato il blocco. Il capitano Stephen Lee ‘Ciuffo di Cotone’ Davis
era al comando di questo veloce piroscafo. Era salpato da Savannah in direzione di Cuba per prendere
un carico di zucchero, perché i soldati confederati andavano matti per le pietruzze caramellate».
«Non facevano che cantare tutto il tempo quella canzoncina sulla montagna di pietra
caramellata» aggiunse Beck.
«Esatto. E la CSS Chattahoochee trasportava dieci barili pieni zeppi di monete d’oro, per pagare
ai cubani tutto lo zucchero necessario a far vincere alla Confederazione la guerra civile».
«Cosa accadde?» chiese il capo dei pirati, che si era sporto per ascoltare il resto.
«Una corazzata yankee chiamata USS Rattletrap si mise all’inseguimento della Chattahoochee. Metà
della marina nordista, al comando dell’ammiraglio Benbow e del capitano Jim Hawkins, si unì alla
corazzata qui in mezzo all’Atlantico. I cannoni iniziarono a sparare. La Chattahoochee era in trappola.
Nel disperato tentativo di seminare i nordisti, il capitano Davis ordinò di buttare in mare quei dieci
pesantissimi barili. Senza quel peso supplementare, la Chattahoochee riuscì a liberarsi e fece rotta per
Bermuda».
«E poi?» chiese il tizio chiamato Jadson.
«I soldati confederati non ricevettero mai il loro zucchero, così il Sud perse la guerra. E…
nessuno trovò mai l’oro abbandonato».
«Fino a ieri» aggiunse Beck. Tirò fuori il suo blocchetto da disegno e schizzò velocemente
un’immagine del finto tesoro confederato.
«È tutto laggiù» dissi, indicando l’oceano sotto la nostra prua. «Perciò forza, Storm. Fai vedere
a questi signori la Stanza. Lascia che frughino nelle carte per Nathan Collier. Così noi quattro potremo
tornare a occuparci di una caccia al tesoro seria».
«Mi sembra un buon piano» concordò Beck.
«Un momento» fece Laird. «Vogliamo i barili pieni di monete d’oro».
«Per darli a Nathan Collier?» chiesi.
«No, marmocchio. Se sotto questo mare c’è un ben di Dio di monete d’oro, Collier può andare
al diavolo. Io e i miei fratellini ci compreremo un sottomarino nostro!»
Jadson mi spinse contro la schiena il suo fucile subacqueo. «Mettiti la muta, marmocchio. Ci
porti giù a raccogliere le nostre monete confederate».
«Va bene. Ma mio fratello e mia sorella devono venire con me».
«Già» confermò Beck. «Bick non è un granché a ricordarsi le cose».
«Tipo dove abbiamo trovato l’oro» aggiunse Tommy.
«Bene» decise Laird, «preparatevi. Ci immergeremo tra cinque minuti».
Tommy, Beck e io ci affrettammo a scendere sottocoperta a prendere la nostra attrezzatura.
«Li portiamo sotto la prua?» chiese Tommy.
Annuii. «E li colpiamo con tutto quello che abbiamo».
Ricordate quando vi ho detto che papà aveva dotato La Sperduta di svariati nascondigli e
bugigattoli segreti?
Be’, dal momento che papà voleva essere preparato a tutto, comprese eventuali imboscate
subacquee, aveva fatto installare dall’armatore un compartimento stagno e pressurizzato sotto la prua
della barca. Qui aveva nascosto due fucili d’assalto subacquei APS.
Ricordo che mi chiedevo spesso come avesse fatto papà a mettere le mani su quel paio di
particolari AK-47 subacquei, progettati in Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Ora che sapevo
che lui e mamma erano agenti della CIA, mi immaginai che li avessero presi a un Corso
d’Aggiornamento Spie o qualcosa del genere.
Sott’acqua, i proiettili normali sono decisamente imprecisi. In pratica finiscono per muoversi di
qua e di là e colpire pesci innocenti. L’APS (un acronimo delle parole russe che significano ‘Speciale
Automatico Subacqueo’) fu progettato per esplodere colpi precisi anche sott’acqua. Inoltre, ha una
gittata superiore e più penetrazione rispetto a quasi tutti i fucili subacquei. In altre parole, se Tommy e
io avessimo potuto mettere le mani sui due fucili d’assalto nascosti sotto la prua, avremmo avuto la
possibilità di respingere i pirati.
«Siete sicuri di farlo?» chiesi, allacciandomi le bombole.
«Assolutamente sì» rispose Tommy. «Sono stufo di questi bifolchi che mi chiamano ‘amico’».
«Io sono stufa di quel ridicolo pizzetto del loro capo» aggiunse Beck.
«Insomma, potremmo farci ammazzare».
«Naa» disse Tommy. «Noi siamo le Creature Selvagge».
«E adesso» gridò Beck, «diamo inizio alla sarabanda!»
Tornammo sul ponte, facendo sbattere rumorosamente le pinne per tutto il tragitto. Eravamo
pronti a ruggire i nostri terribili ruggiti, digrignare i nostri terribili denti, rovesciare i nostri terribili
occhi e scoprire i nostri terribili artigli.
«Ragazzini, siete pronti a renderci tutti miliardari?» sghignazzò il capo dei pirati.
«Puoi scommetterci» dissi, infilandomi la maschera sopra naso e bocca.
«E cosa facciamo con la cicciona?» sentii dire da uno dei pirati, che indicava Storm con la
canna del fucile. «Qualcuno deve restare a bordo a sorvegliarla?»
«No» disse Laird. «La balena è innocua».
Lanciai un’occhiata a Storm.
Le vidi di nuovo negli occhi quelle nuvole di tempesta.
«Cominciamo!» gridò Laird. Fece un cenno verso il fianco della barca. «Dopo di voi,
marmocchi».
Benissimo.
Ci stavano offrendo un vantaggio.
Tommy saltò per primo.
«Un momento» intervenne Beck. «C’è un groppo nel mio tubo dell’aria».
«Aspetta, sorellina» dissi, fingendo di scioglierlo. Poi diedi un paio di manate alle sue bombole,
come se questo aggiustasse tutto quanto. Dovevo dare a Tommy più tempo possibile per aprire il vano
subacqueo dov’erano nascoste le nostre armi.
«Forza, voi due» grugnì il capo dei pirati. «C’è un’onda fantastica. Iniziamo a surfare».
«Ehm, se non ti dispiace» disse Beck, continuando ad armeggiare con il suo tubo, «preferirei
respirare mentre sono sott’acqua».
Il pirata tirò fuori il suo coltello. «In realtà là sotto non ci servi, marmocchia».
«Sì, invece» puntualizzai io mentre Beck si metteva la maschera, infilava il boccaglio e ci
faceva il segno di okay con i pollici alzati. «Beck ha trovato i barili nove e dieci. Tommy e io avevamo trovato solo i primi otto».
«Ok. Fa lo stesso» acconsentì Laird.
Spinse Beck in mare. Poi ci spinse me.
Scivolammo in acqua entrambi, ci liberammo dalla nuvola delle nostre bollicine e saettammo
come delfini sotto la prua della barca.
Tommy aveva aperto il nascondiglio. Ci vide e sporse una mano, ruotando il polso e indicando
il ripostiglio delle armi.
Nel linguaggio a gesti dei sommozzatori significava ‘c’è qualcosa che non va’.
Beck e io ci avvicinammo.
Il ripostiglio delle armi era vuoto.
La mia ipotesi è che gli uomini di Louie Louie, quelli che ci avevano riparato lo scafo, si
fossero portati a casa qualche souvenir russo.
Non ci fu il tempo per arrabbiarsi, perché fu allora che sentii i tonfi sordi degli otto pirati che
saltavano in acqua di fianco alla Sperduta.
Vidi di sfuggita gli occhi di Laird, il capo dei pirati, ingigantiti dalle lenti della sua maschera.
Sembrava decisamente furioso. La nostra unica speranza era di lanciarci mano nella mano, sott’acqua,
contro i pirati. Loro erano otto, e noi tre.
E loro avevano i fucili.
Il mio piano aveva un problema fondamentale: non si praticano arti marziali sott’acqua. Quando
gli otto pirati ci arrivarono contro, facemmo del nostro meglio per prenderli a colpi e calci di karate.
Ma loro erano armati. E noi avevamo i guanti sulle mani e le pinne ai piedi.
Fu allora che mi resi conto che qualcuno poteva morire… forse più di qualcuno.
Ma sul ponte o sott’acqua, noi Kidd eravamo sempre Creature Selvagge.
Tommy strappò la maschera al surfista che gli era arrivato addosso con un coltello da sub
seghettato. Era il tizio basso con il codino. Terrorizzato dall’acqua salata che gli entrava negli occhi, si
mise a scalciare con le gambe per tornare in superficie.
Vidi uno degli scagnozzi puntare il fucile su Beck. Nuotai verso di lei per spingerla fuori tiro,
ma un cattivo mi afferrò le caviglie. Gli sferrai un calcio all’indietro e sentii il vetro della sua maschera
frantumarsi. Lui mollò la presa per portarsi le mani alla faccia e mi liberai.
Diedi a Beck una brusca spinta. Lei mi lanciò un’occhiataccia come a dire ‘da che parte stai?’
Finché la fiocina del fucile non sibilò in mezzo a noi.
La fiocina forò una bombola d’aria attaccata alla schiena del pirata che stava cercando di
strappare il boccaglio dalla bocca di Tommy. Il tizio, come se indossasse uno zaino a razzo con motore
a bolle, schizzò anche lui verso la superficie.
Tommy mi rivolse un rapido cenno di okay e uno ancora più rapido con i pollici rivolti
all’ingiù.
Mi abbassai all’istante mentre un’altra fiocina mi passava un centimetro sopra la testa.
Anche se sott’acqua i rumori vengono molto attutiti avrei giurato di avere sentito la fiocina
sbattere su qualcosa alle mie spalle.
Era Beck? Era solo la mia immaginazione?
Mi girai di scatto.
No. Non era la mia immaginazione. Era Laird, il capo dei pirati.
Mi stava arrivando addosso per pugnalarmi alla schiena quando la fiocina gli era entrata nel
braccio e gli era uscita dalla spalla. Contorcendosi per il dolore spargeva sangue da tutte le parti,
mentre dalla sua ferita si alzava una spessa nuvola rossa che si spostava nell’acqua come una medusa
scarlatta.
Tommy toccò sulla spalla Beck e me e ci fece segno di allontanarci molto in fretta dal pirata
sanguinante.
Il sangue in acqua non è mai una buona cosa.
Attira gli squali.
In effetti, dalla torbida oscurità ne sbucarono due e si misero a girare in cerchio attorno a Laird,
che si strinse in gruppo con i compagni che gli restavano. Nessuno di loro ci puntava più addosso i
fucili o i pugnali. Erano troppo concentrati sui grossi denti degli squali, il cui olfatto ultrasensibile
aveva appena annunciato che era arrivata l’ora di cena.
Fu in quel momento che Storm avviò i motori della Sperduta e fece girare le eliche finché non
fecero ribollire l’acqua come tosaerba subacquei. Doveva avere inserito la retromarcia, perché
all’improvviso la barca fece un balzo all’indietro, con le pale turbinanti delle eliche che puntavano
dritte sul gruppo di pirati.
(Non credo che a Storm piaccia sentirsi chiamare cicciona o balena.)
In preda al panico, i pirati si allontanarono dalla poppa della barca, ritirandosi di una ventina di
metri in modo da potere affrontare gli squali senza farsi tagliare a fettine.
Storm invertì i motori, girò il timone e posizionò la poppa della Sperduta direttamente sopra il
punto in cui le bollicine delle nostre bombole arrivavano in superficie.
Tre cime di nylon dotate di maniglie triangolari furono lanciate in acqua.
Tommy indicò le sue pinne e se le sfilò.
Beck e io facemmo lo stesso.
Poi ognuno di noi afferrò una delle maniglie attaccate alle cime.
Tommy lanciò un’occhiata alle sue spalle per assicurarsi che gli squali stessero ancora
circondando i pirati. Poi alzò il braccio sopra la testa facendolo sbucare oltre la superficie, per mandare
a Storm un chiaro segnale di via libera con il pollice alzato.
Storm mise i motori avanti tutta. La Sperduta schizzò in avanti come un razzo.
Vi ho mai detto che uno dei nostri passatempi preferiti è fare sci d’acqua a piedi nudi? Proprio
così. Si può fare a meno degli sci se la barca raggiunge una certa velocità.
Ci chinammo tutti e tre all’indietro rispetto alla cima, portando i piedi in alto fino alla
superficie, e a forza di addominali ci sollevammo e uscimmo dall’acqua. In un attimo Beck, Tommy e
io stavamo sciando sull’acqua a piedi nudi dietro alla Sperduta. Fu uno sballo.
Mi dispiacque che i pirati se lo fossero perso.
Ma erano troppo occupati a fare da esca per gli squali.
Gratificammo Storm con un altro abbraccio di gruppo per essere stata un autentico genio e
averci salvato la pelle, poi infilammo i piedi doloranti in comode scarpe da ginnastica.
Ma i pericoli non erano finiti.
Prima che potessimo stappare la prima bottiglia di succo di pompelmo frizzante per festeggiare,
sul nostro fianco sinistro comparve un cerchio d’acqua schiumante in rapida espansione. Il mare ribollì,
si gonfiò, e gorgogliò di bollicine. Apparve un periscopio, rapidamente seguito da uno scrosciante
fiotto d’acqua mentre la torretta di un sommergibile sbucava dalla superficie.
Su un fianco erano incise le lettere NCTE.
Cinque minuti dopo Nathan Collier, accompagnato da due guardie del corpo armate, era salito a
bordo della Sperduta.
Era più o meno della mia statura (ma si assicurava sempre di farsi fotografare in modo da
sembrare più alto) e aveva un mozzicone di sigaro incollato tra i denti. Indossava la sua tenuta standard
da ‘io sono un esploratore’: scarponi impolverati (sebbene non ci fosse sabbia nel raggio di miglia),
pantaloni cachi, camicia cachi e giubbotto di pelle stinto. Come sempre aveva i capelli fissati col gel,
con una ciocca che gli pendeva sul sopracciglio sinistro. Mi immaginai che Collier avesse a bordo del
suo sommergibile parrucchiere e truccatore personali. Probabilmente anche un lettino abbronzante.
«Buon pomeriggio, ragazzi Kidd» disse con il sorrisetto che sfoggia nel suo show televisivo.
(Va in onda su un misterioso canale via cavo, mi sembra il Fricchettoni Subacquei Channel.)
«Collier» gracchiò Tommy. (In realtà la C di Collier sembrò quasi sputarla.)
Collier inarcò un sopracciglio. Anche questo lo fa spessissimo in TV.
«Vedo che vi siete liberati di quegli imbecilli dei miei compagni di bordo».
«Già, è così» confermai. «L’ultima volta che li abbiamo visti stavano facendo un provino per
Lo squalo 5».
«E pure per il sei, il sette e l’otto» rincarò Beck.
«Una degna conclusione, direi» mormorò Collier con un sospiro annoiato, visto che non si
parlava di lui. «I miei squali ritardati che si ricongiungono ai loro simili. Al giorno d’oggi è veramente
difficile trovare degli scagnozzi come si deve».
Lanciai un’occhiata alle sue guardie del corpo.
«Oh, questi due non si offendono» disse Collier. «Parlano solo ucraino. Allora, bambini, perché
non state cercando i galeoni perduti di Córdoba? Dovreste trovarvi trecento miglia a sud-ovest di qui, a
pescare dobloni spagnoli».
«Si riferisce a quella stupida mappa in miniatura?» chiese Storm.
Come avrete probabilmente capito, si stava di nuovo infuriando.
«Sì» rispose Collier, tirando un’altra boccata di sigaro. «Vi siete arresi in fretta».
«Perché la mappa era tarocca!» dissi.
«Certo che lo era!» sbottò Collier. «L’ho disegnata io, per farvi perdere tempo a cercare
robaccia e tenervi lontano dai piedi!»
«L’ha disegnata lei?» disse Beck, socchiudendo gli occhi.
«Esatto. Quando ho visitato il ‘negozio’ di Louie Louie a Grand Cayman, non aveva l’articolo
che cercavo, perciò io e i miei colleghi gli abbiamo chiesto di farci un piccolo favore, naturalmente
dietro lauta ricompensa. Lui ha realizzato quella mappa assurdamente piccola e l’ha messa dentro a un
ninnolo senza valore, che poi ha dato a voi ragazzi».
Storm portò automaticamente una mano al ciondolo a forma di ape, che aveva preso l’abitudine
di indossare appeso a una catenina.
«Mi piace il signor Louie» continuò Collier. «È uno che fa affari con chiunque voglia fare affari
con lui».
«Che cosa vuole, Collier?» chiese Tommy in tono impaziente.
«Voglio qualsiasi informazione abbiate sulla ricerca avviata da vostro padre del tesoro
mancante per Pirate King».
«Ehm, cosa?» dissi.
«Non fate gli ingenui. So bene che avete interrotto le ricerche della flotta di Córdoba per
completare la missione di vostro padre per Pirate King, non è così?»
«Non conosciamo nessun Pirate King» dissi io.
«È una roba tipo Burger King?» insinuò Tommy lo Svampito. «Ma che serve hamburger di
pesce invece che hamburger di carne?»
«Basta! Sapete di che parlo: Pirate King, il re pirata» gridò Collier. «Voglio le mappe e i file di
vostro padre, e li voglio adesso. Altrimenti, voi quattro finirete anche peggio di esche per gli squali!»
«Oh!» esclamai. «Si rilassi. Che genere di tesoro stava cercando papà per questo
King-come-si-chiama?»
«Un’opera d’arte».
«Davvero?»
«Andiamo, andiamo, Bickford. Per quanto dobbiamo continuare questa farsa? Sai perfettamente
di cosa sto parlando. Un particolare e raro objet d’art».
«Che cos’è?» chiese Tommy.
«Un oggetto d’arte» rispose Beck. «Ceramica o simili».
«Esatto, Rebecca» disse Collier. «Manufatti artistici di valore astronomico».
«Be’» feci io, «noi non ne sappiamo nulla di arte».
«Nemmeno io» replicò Collier. «Però so quanto la valuta un certo collezionista molto esigente.
E adesso che il vostro caro vecchio papà è fuori dal gioco, c’è solo una persona in grado di trovare
l’ultimo tesoro sulla lista dei desideri di Pirate King. Io!»
Collier si avvicinò a Storm. «Voglio la chiave della stanza segreta, Stephanie. La stanza piena
di tutti i documenti, le carte e i fascicoli di tuo padre. Dov’è la Chiave?»
Storm non disse una parola. Non si mosse. Non sbatté gli occhi. Credo che non stesse neppure
respirando.
«Come preferisci» dichiarò Collier. Si rivolse alle sue guardie del corpo e sbraitò un ordine in
ucraino.
Immediatamente, entrambi gli uomini puntarono le loro armi alla testa di Storm.
«Oh!» gridai. «Un momento!»
Le guardie del corpo alzarono il cane delle loro pistole.
«Mi spiace, Bickford» disse Collier. «Gli ucraini non capiscono la parola oh!»
«Allora fermi!»
«Vuoi che si fermino?»
«Sì!» gridò Beck.
«Allora di’ a tua sorella di consegnare la Chiave della Stanza. Adesso!»
Finalmente, Storm si mosse. In realtà, si limitò a incurvare le spalle.
«Okay. D’accordo. Facciamola finita con questa storia».
Wow.
Non riuscivo a credere che Storm avesse ceduto così in fretta.
D’altra parte, non ero io a fissare le canne di due pistole ucraine.
Storm entrò nella tuga e scese in cucina, dove prese una mannaia e si voltò verso di noi.
Di nuovo gli ucraini sollevarono le pistole.
«Calma» disse Storm. «Mi serve questa per prendere la Chiave». Prese dal lavandino una grossa
spugna gialla e la tagliò in due. La Chiave rotolò fuori tintinnando. «La Stanza è a prua. Seguitemi».
Quando arrivammo alla Stanza, Storm infilò
la Chiave nella serratura della porta d’acciaio e la girò rapidamente.
«Coraggio» disse a Collier. «Si serva pure».
Salivando come un cane che abbia appena sentito qualcuno gridare ‘Braciole!’ Collier, seguito
dai suoi scagnozzi, si scaraventò nella Stanza.
E allora capii perché Storm si era arresa tanto in fretta.
Tutto il materiale relativo alle opere d’arte era sparito. Persino la vignetta sull’urna di Creta non
era più sotto la lastra di vetro del tavolo. Storm aveva tolto dalla Stanza qualsiasi cosa che potesse
sembrare importante (per qualsiasi ragione) per mamma e papà.
Collier e i suoi due tirapiedi aprirono con violenza tutti i cassetti. Sfogliarono documenti.
Guardarono persino dentro a tutte le maschere e gli elmi e le cornici ancora appese alle pareti.
Continuarono per più di un’ora, esaminando e riesaminando ogni centimetro quadrato.
Beck, Tommy, Storm e io ci annoiammo a tal punto nel vederli mettere a soqquadro la Stanza
che andammo in cucina a farci uno spuntino. Panini al formaggio grigliato con sottaceti. Vivevamo sul
mare da un tempo sufficiente a sapere che il formaggio grigliato è lo spuntino migliore in caso di
incursione di pirati.
Infine, Collier e suoi compari ucraini ci raggiunsero.
I capelli di Collier non erano più ingessati al loro posto. C’erano almeno tre ciuffi che gli
ricadevano sugli occhi. E un po’ del suo spray abbronzante gli si stava sciogliendo dietro le orecchie.
(Non credo fosse abituato a sudare.)
Si ficcò in bocca un sigaro nuovo.
«Non c’è da stupirsi che vostro padre sia saltato in mare» disse con un ghigno sprezzante. «Era
un vero impostore».
«No, non lo era».
«Oh sì che lo era. Non aveva la minima informazione sull’ultimo articolo che doveva trovare
per conto di Pirate King, sebbene avesse accettato un lauto anticipo quando aveva assunto l’incarico.
Vostro padre si doveva essere accorto che la sua incapacità stava per essere smascherata, perciò ha
fatto il vigliacco abbandonando la sua nave, per non parlare dei suoi figli, nel mezzo di una tempesta
tropicale!»
«Scenda dalla nostra barca» disse Tommy.
Io gli feci eco. «Se ne vada. Adesso».
«Se ne torni strisciando nel suo sommergibile, Collier» aggiunse Beck.
«Mi viene voglia di vomitarle in faccia» concluse Storm.
Nessuno di noi badava più agli ucraini o alle loro armi.
Nathan Collier aveva insultato nostro padre.
«Oh, certo che me ne vado» esclamò Collier. «Perché qualcuno dovrà portare a termine il
compito che vostro padre ha così sventatamente abbandonato. Ho sempre saputo che era un pessimo
cacciatore di tesori». Fece un gesto rivolto alle sue spalle in direzione della Stanza. «Ora ne ho la
prova».
Collier e i suoi tirapiedi tornarono fuori sul ponte.
Ma prima di andarsene, Collier si girò per darci un ultimo consiglio. «E sapete una cosa, ragazzi
Kidd? Se dovessimo incontrarci di nuovo, non sarò assolutamente così gentile con voi. Anzi, voi
quattro vi ritroverete morti. Me ne assicurerò di persona. Buon viaggio!»
Non appena lo splendente sommergibile di Collier scivolò sott’acqua e sparì, Storm ricevette
l’ennesimo abbraccio di gruppo per essere stata tanto furba da nascondere tutto ciò che papà aveva
appeso alle pareti della Stanza.
«Molto previdente» mi complimentai.
«La vita è come una partita a scacchi» disse Storm. «In ogni momento ti devi trovare tre mosse
più avanti del tuo avversario».
«Pensi che Collier tornerà indietro ad aiutare i suoi pirati?» chiese Tommy.
«Forse» risposi io. «O forse no. Dovremmo farlo noi?»
«Io dico di lasciare i pirati agli squali o a Collier e andare a controllare quella mappa» propose
Beck, ricordandoci quello che stavamo per fare prima di essere abbordati dai ninja in muta subacquea.
«È dentro all’albero maestro» disse Storm, facendoci strada verso prua.
Diede un colpetto alla parte inferiore dell’albero e si aprì un pannello di legno. Allungando un
braccio dentro alla cavità, tirò fuori la mappa arrotolata. Ognuno di noi la prese per un angolo e la
stendemmo sul ponte.
«A me continua a sembrare una carta scolastica» dissi.
«A me no» obiettò Beck, sollevando un attimo i suoi occhiali 3D e poi riabbassandoli sul naso.
«È incredibile! Dev’essere per questo che mamma mi disse di conservare questi occhiali dopo che
avevamo visto quel film in 3D a Cipro. Sono lenti di decifratura per spie!»
Incredibile. Quella era la prima volta che Beck guardava la carta con le sue lenti colorate. (Sì,
Beck, stavo appunto per ricordare a tutti che la prima volta che eri entrata nella Stanza ti eri tolta gli
occhiali 3D, perché la cabina era troppo buia.)
«Che cosa vedi?» chiesi.
«La nostra prossima tappa» annunciò Beck trionfante.
«New York, giusto?»
«No. Charleston, nel Sud Carolina».
«Guarda» disse Beck. «C’è un cerchio su George Town a Grand Cayman. E c’è una scritta:
‘Numero uno: trovare l’amuleto a forma di ape’».
«Aspetta un attimo» notai. «Sono le stesse parole che Storm ha trovato in quell’appunto nella
cartelletta».
«Già» disse Beck. «E anche queste: ‘Numero due: fare lo scambio’».
«Lo abbiamo fatto lo scambio. Con Louie Louie. Gli abbiamo dato la maschera africana per la
metà di quel ciondolo a forma di ape».
«Vero» confermò Beck. «Ma sulla mappa, ‘Fare lo scambio’ è collegato a Charleston». Toccò
sulla mappa la costa del Sud Carolina.
«Quindi dobbiamo fare un altro scambio» dichiarò Storm.
«Già» confermò Beck, «e qualunque sia l’oggetto con cui scambieremo la nostra ape a
Charleston, sarà quello che dovremo portare a New York per farlo autenticare al dottor Lewis».
«Dobbiamo portare a termine la missione di papà» conclusi.
«Ah sì, eh? È quello che ripeto da sempre, signor Prendiamo I Soldi E Partiamo Per Cipro».
Non era il caso di far scattare un’altra Filippica Gemellare. Beck aveva ragione.
«Tommy?» dissi.
«Pronto. Faccio rotta per Charleston». Scattò in piedi e si diresse alla timoneria. Il resto di noi
arrotolò la mappa e la rimise dentro alla cavità nell’albero.
«Charleston è una grande città» puntualizzò Storm. «La seconda più grande del Sud Carolina.
Di preciso, dove dovremo fare questo scambio a Charleston?»
«Buona domanda» concordai. «Torniamo nella Stanza. Frughiamo ancora tra le carte».
«Perché?» chiese Storm. «Collier e i suoi gorilla ucraini non hanno trovato nulla».
«Lo so» dissi con un sorrisetto malizioso. «Ma loro non portavano i super-occhiali 3D di
Beck».
Il pomeriggio successivo, Beck e io eravamo seduti su un paio di sedie a sdraio sprofondate
nella sabbia di Folly Beach, vicino a un punto chiamato Washout (noto anche come Hollywood o Il
Bordo dell’America) dove, secondo Tommy, un surfista poteva trovare le migliori onde di tutta la costa
del Sud Carolina. Eravamo sotto a un ombrellone, setacciando un’altra pila di cartellette che avevamo
trovato nella Stanza. Storm era rimasta sulla Sperduta per esaminare gli oggetti che aveva nascosto, nel
caso ci fosse sfuggito qualcosa.
E Tommy? Cavalcava le onde e si intratteneva con la gente del posto, inclusa questa tale JJ, una
‘pollastrella surfista’ palestrata che riusciva a surfare sulla cresta di un onda stando sulla prua della
tavola su un piede solo.
«Ecco qui» disse Beck, alzando lo sguardo dai suoi occhiali 3D. «Era ora!»
Beck e io avevamo passato tutte le nove ore di viaggio dal nostro ultimo punto di immersione al
largo della Florida fino a Charleston infilandoci a turno gli occhiali grigi e leggendo tomi accademici di
archeologia, egittologia e svariate altre -ologie. Un magnifico passatempo. Un sacco di risate. (Mica
tanto.)
«Questo documento parla degli scavi su una collina sopra Sparta chiamata Terapne, vicino al
fiume Eurota, dove secondo alcuni studiosi Elena di Troia avrebbe posseduto un castello. E guarda qui:
ha spaziatura doppia».
Questo era interessante. Non Sparta o Elena di Troia.
Il fatto della spaziatura doppia. «Riesci a leggere qualcosa tra le righe?»
«Sì. Ed è tutto con la grafia di papà. Dice ‘Scambiare la maschera africana con il ciondolo
minoico a forma di ape’».
«Bene. Questo lo abbiamo già fatto».
«Questo è interessante: ‘Louie Louie fa scambi onesti, ma con chiunque’».
«Questo è poco ma sicuro. Ancora non riesco a credere che abbia aiutato Nathan Collier».
«Io sì» ribatté Beck. «Losco chiama losco. Adesso annotati questo: ‘Portare l’amuleto a forma
di ape a Potnia Macy-Hudson, commerciante d’arte e antichità sul mercato grigio, 33 Sunset Lane,
Daniel Island, fuori Charleston. Scambiare l’oggetto».
«Scommetto che questa Potnia Macy-Hudson possiede l’altra metà del ciondolo» dissi.
«Lo credo anch’io. Una volta che avremo ‘ottenuto l’oggetto’ dovremo portare ‘l’oggetto’ dal
dottor Lewis a New York e chiedergli di autenticarlo».
«Mmm, e cos’è, di preciso, ‘l’oggetto’?»
«Papà non lo dice».
«Perché pensava che sarebbe stato lui a fare lo scambio».
Beck annuì. «Possiamo solo sperare che questa Potnia sappia che cosa papà stava cercando».
«Come lo sapeva Louie Louie».
«Esattamente».
Beck chiuse la cartelletta.
«Sai» dissi, «credo di avere capito perché papà ha scritto le sue note segrete tra le righe di quel
documento in particolare: Elena di Troia fu rapita».
«Già. Lo imparammo da mamma quando ci faceva lezioni di mitologia greca in seconda».
«Ma non capisci?» esclamai entusiasticamente. «Papà sapeva che anche mamma è stata rapita.
Questa missione consisteva, e consiste tuttora, nel salvare lei!»
«Questa è un po’ tirata» rispose Beck, alzando gli occhi al cielo.
«Dai, Beck. Pensa positivo. Stiamo per salvare mamma!»
«No, Bick. Tu devi crescere e piantarla di essere tanto ingenuo».
E fu così che proprio lì, a Folly Beach, circondati da surfisti e ragazze da spiaggia, la Filippica
Gemellare numero 431 eruppe come il Vesuvio (di cui avevamo appena letto qualcosa su un
documento di papà che parlava delle rovine di Pompei).
«Crescere? Guarda che sono due minuti più vecchio di te!»
«E allora comportati di conseguenza, Bickford. Smettila di dire che salveremo mamma».
«La smetterò, Rebecca, non appena tu la smetterai di essere così deprimente e parruccona».
«Parruccona? Che razza di parola è?»
«Significa che ti comporti come una vecchia bisbetica».
«Non è vero. Sono solo realistica».
«No, sei una vecchietta acida e pessimista».
«Mi dispiace, Bick. Ma il mondo è quello che è, non quello che vogliamo che sia».
«Non è detto che debba restare così, Beck».
«Sei senza speranza».
«No, non lo sono».
«Sì che lo sei».
«Ma non dicevi che dovevo smettere di sperare?»
«Certo, perché continui a farlo!»
«Be’, come posso essere senza speranza se non faccio che sperare in continuazione?»
«Non lo so».
«Nemmeno io».
«Allora okay».
«Bene».
Tirammo entrambi un lungo sospiro.
La discussione, come l’ultima onda che si era appena infranta sulla spiaggia, era ufficialmente
terminata.
Beck fu la prima a parlare. «Credi che la nuova fidanzata di Tommy ci darà uno strappo al 33 di
Sunset Lane?»
Dal modo in cui JJ e Tommy confrontavano i loro bicipiti e ridacchiavano, avevo la sensazione
che in un paio di settimane avrebbero spedito gli inviti per il matrimonio.
«Assolutamente sì».
«Bene. Diamoci una mossa».
«Dobbiamo passare a prendere Storm. Il ciondolo lo ha indosso lei».
«Giusto». Beck fece una pausa. «Sai, forse tutto questo ci porterà davvero a mamma, Bick».
Sorrisi. «Grazie».
«Ehi» aggiunse Beck. «La voglio salvare anch’io. Devo ringraziarla per avere scelto di fare
indossare questi occhiali 3D al gemello più sveglio».
Fortunatamente, JJ aveva questo spettacolare camioncino ristorante che aveva trasformato nella
sua surf-mobile. Era color viola acceso con interni a fiori gialli, e sul retro aveva spazio in abbondanza
per tutti noi.
«La vostra amica dev’essere ricca sfondata» disse JJ quando accostammo davanti al palazzo
tutto vetri e stucchi di Daniel Island. C’era un garage a cinque posti. Probabilmente ognuna di quelle
macchine aveva il suo bagno privato.
«Forse è meglio se ci aspetti qui fuori, JJ» le consigliò Tommy.
«Già. Non posso andare per musei vestita così».
JJ era ancora in abbigliamento da surf: una maglietta aderente che usava per proteggersi dai
graffi contro la tavola, un asciugamano legato attorno alla vita, occhiali da sole e orologio sportivo
viola. E aveva ragione; il grosso edificio a vetri sembrava un museo d’arte moderna.
Tommy, Storm, Beck e io ci incamminammo sotto un pergolato coperto di rampicanti, fino ad
arrivare in un cortile ombreggiato con uno specchio d’acqua. Salimmo una scalinata di marmo bianco e
bussammo alle doppie porte di bronzo battuto. Suonammo il campanello. Un paio di volte.
Circa un minuto dopo, le porte si spalancarono e una signora molto elegante sulla cinquantina
apparve nell’atrio. Indossava degli occhiali rossi fiammanti e un rossetto di un rosso ancora più
fiammante.
«Seee?» biasciò, guardandoci come fossimo dei mendicanti arrivati chissà come dal continente.
«Posso esservi utile?»
«Ehm, è lei la signora Potnia Macy-Hudson?»
«Seee?»
«Wow» si lasciò sfuggire Beck, che stava sbirciando alle spalle della signora Macy-Hudson
l’interno della casa. C’era un colossale salotto inondato dal sole, con giganteschi dipinti a olio che
coprivano tutte le pareti alte due piani. «Quello è un Picasso? E quello laggiù, sopra il caminetto, è un
Cézanne autentico, giusto?»
«Scusatemi» disse la signora Macy-Hudson con aria molto snob, «voi ragazzini chi sareste,
esattamente?»
«Siamo i figli del dottor Kidd» dissi.
«Chi?»
«Il professor Thomas Kidd. Ha presente l’archeologo e cacciatore di tesori di fama mondiale?»
«Oh, seee. Certamente. Vostro padre e io abbiamo avuto una conversazione telefonica circa una
settimana fa».
«Possiamo entrare?» chiese Storm, invadendo il salotto senza aspettare una risposta. «Sono
vulnerabile alle scottature».
La signora Macy-Hudson farfugliò qualche protesta mentre il resto di noi entrava a passo di
marcia dietro a Storm.
Tommy fischiò. «Guarda un po’ quella» esclamò. «Non ha niente addosso salvo un fiore nei
capelli e una stringa da scarpa attorno al collo».
«Quella, giovanotto» disse la signora Macy-Hudson arricciando il naso, «è uno dei capolavori
modernisti di Manet. Ovviamente si ispira alla Venere di Urbino di Tiziano».
«Era nuda anche Venere?»
«Naturalmente».
«Cavolo. È decisamente il caso che frequenti più spesso i musei».
«Nessuno di questi corrisponde» borbottò Storm, esaminando rapidamente quella dozzina di
quadri. Ovviamente aveva appena richiamato alla sua memoria fotografica le immagini artistiche
attaccate alle pareti della Stanza.
«Avete qualche motivo per trovarvi qui, oltre a starvene lì come degli allocchi?» chiese la
signora Macy-Hudson. «Se non è così, mi vedo costretta a chiedere a tutti voi di…»
All’improvviso restò a bocca aperta. «Dove… hai preso quella collana?» chiese la signora
Macy-Hudson, indicando il ciondolo a forma di ape che pendeva dal collo di Storm.
«Da un uomo d’affari» risposi io con disinvoltura. «Uno che ama fare affari con coloro che
amano fare affari con lui».
«Le piace fare affari, Potnia?» chiese Beck. «Vuole fare uno scambio?»
«Per quel ciondolo della dea-ape minoica?»
«È una dea?» chiese Storm, avvicinando il ciondolo a un centimetro dalla faccia.
«Non dovresti indossarlo!» esclamò la signora Macy-Hudson. «Ha più di duemila anni! Il
bronzo è estremamente fragile».
«Vero!» disse Tommy. «Insomma, già così è spaccato in due».
«Ho io l’altra metà!» rivelò la signora Macy-Hudson, allungando le braccia come uno zombie.
«Mi serve quell’amuleto».
«Benissimo» affermai io. «Che cosa può darci in cambio?»
«Quello che volete!»
«Mmm, lei e papà avete parlato di uno scambio?»
«Sì!» I suoi occhi avidi divennero ancora più grandi.
«E papà cosa voleva in cambio?»
«Non lo ha specificato. Voglio quell’ape. Ho bisogno di quell’ape. Devo avere quell’ape!» A
questo punto, rendendosi conto che stava dando letteralmente di matto davanti a noi, si fermò un attimo
per ricomporsi. «Vi darò qualunque cosa desideriate».
Gli occhi di Beck si illuminarono. «Qualunque cosa?»
«Qualunque cosa vediate in questa casa. È vostra. Basta che me lo diciate!»
«Non capite?» disse la signora Macy-Hudson, mentre ci accompagnava lungo una rampa di
scale in un salotto al piano inferiore. «Io sono la reincarnazione dell’antica Potnia, la dama minoica
nota come Pura Madre Ape, scelta da Apollo e gratificata del dono della profezia».
(A me la tipa sembrava parecchio schizzata, devo dire.)
Il salotto inferiore della strampalata signora era ancora più strampalato. Ogni centimetro
quadrato era ingombro di gingilli a forma di ape. Un affresco della dea-ape sumera. Sculture in calcare
a forma di ape. Un dipinto su seta raffigurante la dea indù Bhramari Devi, una divinità indiana a quattro
braccia con la testa circondata da uno sciame d’api. C’erano persino alcune scatole incorniciate di
Cheerios al miele, quelli con l’ape sulla confezione.
E, in mezzo alla stanza delle api, montata su una catena d’oro sfavillante, c’era l’altra metà del
nostro ciondolo.
«Quando il mio ciondolo sarà completo» gongolò Potnia, gli occhi spalancati, «sarò la nuova
sacerdotessa dell’antica magia dell’ape! Datemi l’amuleto! Prendete quello che volete!»
«Davvero?» disse Beck. «Possiamo prendere quel Picasso nell’altra stanza? Perché deve valere un
fantastiliardo di dollari».
«Qualsiasi cosa. È vostra. Basta che mi diate quel ciondolo!»
Okay, diciamocelo, era un po’ come ricevere un buono regalo da un milione di dollari in un
Apple Store… Specialmente per Beck, che adoooooora l’arte (non che ci sia qualcosa di sbagliato).
«Okay, prendiamo il Picasso» disse. «No, aspetti. Il Degas. O magari, mmm, il Cézanne!»
«Io voglio quello» si intromise Tommy. (Sono certo che avrete capito a quale dipinto si
riferiva.)
«Quel dipinto laggiù» affermò Storm, indicando un quadro scuro che raffigurava un’antica
barca a vela in cima a un’onda gigantesca sul mare in tempesta. «È la Tempesta sul Mare di Galilea di
Rembrandt, vero?»
«Guarda un po’. Non c’è da stupirsi che sia tu a indossare il ciondolo. Hai un occhio fino per l’arte, mia
cara».
«No, non ce l’ho. Questa è materia di Beck. Ho solo una memoria fotografica. Quel Rembrandt
in particolare fu rubato da un museo di Boston nel marzo del 1990 insieme a dodici altri capolavori, in
quello che viene considerato il più grande furto d’arte nella storia degli Stati Uniti. Un caso tuttora
irrisolto».
«Dici davvero?» si stupì Potnia, mettendo in scena il suo numero della distinta damigella del
Sud. «Accidenti, non ne avevo la minima idea. Io sono solo un’intermediaria. Non faccio domande».
Mentre la signora si difendeva, una pila di casse di legno piene di paglia attirò la mia
attenzione. Erano stipate in un armadio aperto.
«Cos’è tutta quella roba?» chiesi.
«Nuova merce» rispose Potnia. «In gran parte robaccia. Mi è arrivata qualche settimana fa da
un esperto in oggetti del Mediterraneo con cui lavoro. Non ho ancora avuto il tempo di catalogarla o
prezzarla».
«Le dispiace se do un’occhiata?» chiesi.
«Fai pure».
In una delle casse vidi un vaso sbeccato e impolverato con due maniglie e un piedistallo. Era
dipinto con scene color ruggine su uno sfondo nero, che mi ricordarono le illustrazioni dei nostri libri di
mitologia greca. La scena che riuscivo a scorgere tra le asticelle della cassa raffigurava un giovane che
inseguiva una ragazza.
«Cosa c’è in questa cassa?» chiesi.
«Quell’affare polveroso? È un’urna di semplice creta».
«Un’urna di creta?» le fece eco Tommy lo Svampito con espressione confusa.
«Be’, non è certo di plastica!» esclamai. «Prendiamo quella!»
Tirai fuori dall’armadio la cassa di legno. Nell’istante in cui lo feci giuro che sentii nella mia
testa la voce di papà che diceva: Bravissimo, Bick. Hai decifrato il mio codice segreto!
Sfortunatamente, nelle mie orecchie sentii la signora Macy-Hudson che ridacchiava beata.
«Avresti potuto scegliere uno dei miei inestimabili capolavori e hai scelto quello? Un vecchio
vaso sbeccato? Che ragazzino stupido, incredibilmente stupido!»
E sentii anche Beck. «Sei impazzito, Bick? Dovremmo prendere il Rembrandt o il Picasso».
«O il bocconcino» disse Tommy.
«Io prenderei il Rembrandt» affermò Storm. «Ricordo che la compagnia di assicurazioni del
museo offriva un’enorme ricompensa per riavere il quadro sano e salvo».
«No!» mi impuntai. «È questo l’oggetto che vogliamo».
Cercai di sottolineare con forza le mie parole, in modo che Beck capisse che era per questo che
papà teneva quella vignetta del vaso greco sotto il vetro nella Stanza, perché continuava a ripetermi la
stessa battuta idiota. Ma lei non lo capì. Non potevo biasimarla.
«Usciamo di qui» conclusi. «In fretta».
«M-m-ma» balbettò Beck, totalmente sconcertata. «Picasso? Rembrandt?»
«Un momento!» gridò l’ape regina svitata. «Devo prima prendere possesso della mia mercanzia
e accertarmi che si tratti dell’autentico amuleto minoico e non di un’imitazione da quattro soldi».
Iniziò ad agitare le dita, muovere le labbra ed emettere strani brusii mentre si avvicinava a
Storm. Si mise persino a contrarre le spalle come se avesse le ali. Già. Avevamo la nostra personale
Ape pazza dei Cheerios.
«Dalle il ciondolo, Storm» la esortai.
Storm sollevò cautamente il ciondolo sopra la testa e porse l’ape alla signora Potnia
Macy-Hudson, che la prese come si trattasse del Sacro Graal.
«Dopo tutti questi anni, finalmente è mia!» Stava letteralmente ansimando. Prese l’amuleto e si
precipitò verso il manichino che sfoggiava il gemello mancante. «Oh, ancestrale ape sacerdotessa di
Creta! Siamo di nuovo complete».
Immaginai che questo significasse che i due pezzi combaciavano.
«Sono anni che cerco questa reliquia perduta. Decenni. Dove l’avete trovata?»
Stavo per rispondere quando fui interrotto da una voce familiare. «So perfettamente dove
l’hanno trovata, mamma!»
E chi poteva entrare sculettando in quella stanza se non Daphne, la biondona delle Cayman?
Stavolta non indossava bikini e hot-pants. Sfoggiava un completo da tennis bianco immacolato, con
delle api ricamate nel punto in cui di solito c’è un coccodrillo.
«Ehi, Daphne» la salutò Tommy, sfoggiando una delle sue svariate pose virili. «Come butta?»
Questa volta il suo fascino non funzionò. Daphne aveva tirato fuori gli artigli. Di brutto.
«Questi marmocchi hanno fatto uno scambio con Louie Louie, mamma. Gli hanno dato una
maschera africana per quel ciondolo a forma di ape. Stavo per fare esattamente la stessa cosa, ma
quella là…» Puntò la sua unghia curatissima su Beck. E a giudicare dal suo sguardo folle e omicida, era
una psicopatica anche peggiore della madre.
«Dico, mi ha spianato contro una doppietta! E adesso tocca a voi provare come ci si sente a
essere terrorizzati».
Fracassò una vetrina montata sulla parete e tirò fuori un antico pugnale da sacrificio azteco.
Aveva l’impugnatura a forma di ape e un lunghissimo pungiglione molto affilato.
«Scappiamo!» gridai.
Questa volta, nessuno disapprovò la mia decisione.
Volammo tutti e quattro fuori dalla porta, sguazzammo attraverso lo specchio d’acqua e
balzammo sul retro della surf-mobile di JJ.
Daphne, strillando come un’ossessa, era a meno di dieci metri alle nostre spalle.
«Smammiamo!» esclamò Tommy.
«Già» rispose JJ, pigiando così forte sull’acceleratore da fare impennare il camion.
Schizzammo via. Daphne la pazza ci corse dietro con quel pugnale a forma di ape per circa
quattrocento metri.
Quando finalmente la perdemmo di vista, JJ si rivolse a Tommy.
«Allora, chi era quella?»
«Niente, solo una strana tipa che ho conosciuto. Giù alle isole».
JJ annuì. «È un filo schizzata, giusto?»
«Totalmente fuori di testa».
Mi guardai attorno nel retro del camion. Non c’erano coltelli, né aztechi né di altro tipo. Mi
immaginai che se un giorno JJ avesse voluto assalire Tommy come aveva fatto Daphne, al massimo lo
avrebbe colpito in testa con la tavola da surf.
Una volta tornati al porticciolo e messi in salvo a bordo della Sperduta, Beck e io ci dirigemmo
al pulpito di prua.
Stavo ancora reggendo la cassa di legno contenente l’urna greca. Beck stava ancora borbottando
cose tipo «Avremmo potuto prenderci il Picasso o il Rembrandt, e invece noooo. Bick voleva il vecchio
vaso da miele greco dell’ape regina».
Era chiaramente il momento della Filippica Gemellare numero 432.
«Che diavolo ti è successo laggiù, Bickford?»
«Ho seguito l’indizio!»
«Quale indizio?»
«La stupida battuta di papà sull’urna di creta».
«Con me non l’ha mai fatta».
«Sì, be’, neppure a me mamma ha mai dato un paio di occhiali 3D per decifrare mappe e
messaggi segreti».
«E allora? Storm sapeva dov’era nascosta la Chiave della Stanza, e noi no!» sbottò Beck.
«Capirai» sbottai di rimando. «Tommy sapeva dov’erano nascosti i fondi per l’università!»
«E con questo?» strillò Beck. «Credi che mamma e papà abbiano dato a ciascuno di noi una
sorta di indizio speciale che non hanno dato a nessun altro?»
«Sì, adesso che lo dici penso proprio che abbiano fatto così!» strillai a mia volta.
«Be’, io l’ho pensato per prima».
«Lo so».
«Ecco perché l’ho detto prima di te».
«Lo so».
«Okay».
«Bene».
«Pace?»
«Certo».
Tirammo entrambi un sospiro.
«Cos’è quello?» domandò Beck, indicando qualcosa sul fianco della cassa che io non riuscivo a
vedere. Girai la cassa di legno verso di me.
Su una delle assicelle era disegnato qualcosa con la vernice spray: una sagoma color rame che
somigliava a un rinoceronte molto tozzo e con una zampa sola. O a una braciola di maiale mezza
masticata. Sotto a quella macchia d’inchiostro color rame c’erano due rami di ulivo incrociati.
Fortunatamente, mentre Beck e io fissavamo quello strano disegno, Storm arrivò a prua.
«Interessante» disse, studiando il disegno. «Immagino che in origine quel vaso greco fosse destinato a
Cipro, prima che qualcuno lo rubasse e lo spedisse al Mercatino d’Arte Rubata dell’Ape Regina».
Storm non fece in tempo a finire la frase che Beck e io subentrammo.
«Ma certo» disse Beck. «Quella è la sagoma dell’isola di Cipro».
«La sagoma è color rame» notai, ricordando la lezione di mamma sulle bandiere del mondo,
«perché il nome Cipro deriva dalla parola greca che significava ‘rame’».
«Che succede, ragazzi?» chiese Tommy, che aveva finito di salutare JJ nel parcheggio del
porticciolo.
«Bick è un genio!» esclamò Beck.
«Naa, semmai lo è Storm».
«Giusto» confermò Storm con un’alzata di spalle. «Niente sbruffonate. Solo fatti».
«Questo dev’essere l’oggetto che papà voleva che prendessimo in cambio dell’amuleto»
continuò Beck.
«Stava per essere spedito a Cipro» intervenni. «Dove quei delinquenti tengono mamma».
«Questa potrebbe essere la chiave per riaverla indietro» aggiunse Beck.
Inclinai la cassa in modo da vedere attraverso le asticelle inchiodate sulla parte superiore e
scrutai nella bocca del vaso.
«Ragazzi! C’è qualcosa infilato dentro al vaso! Sembra una busta».
«Riporta la cassa a poppa» mi ordinò Tommy. «Vado a prendere una leva per aprirla».
Beck e io trasportammo cautamente la cassa verso poppa. Tommy uscì da sottocoperta con un
piede di porco.
«Non rompere il vaso» disse Storm.
Tommy divelse le quattro assi di legno sul coperchio della cassa. Quand’ebbe finito, Storm
prese le pinze da spaghetti per estrarre la busta dal vecchio vaso di ceramica.
Restai subito perplesso.
«Cos’è un certificato d’origine?» chiesi.
«Un documento che aiuta a stabilire che un oggetto artistico di valore non sia un falso» disse
Beck.
«Allora questo vaso è di valore?» dissi.
«C’è solo un modo per esserne certi» rispose Beck. «Farlo autenticare da un esperto».
«Il dottor L. Lewis» confermò Storm. «Docente di Archeologia e Arte Antica del Vicino
Oriente, Ottavo Piano, Schermerhorn Hall, Columbia University, New York, New York 10027».
«Agli ordini» rispose Tommy. Salì alla timoneria e tracciò le nostre nuove coordinate.
Dieci minuti dopo, La Sperduta solcava di nuovo l’oceano, diretta a nord verso New York.
Era il momento di andare a conoscere il dottor Lewis.
Quando ci infilammo nel porto di New York e oltrepassammo la Statua della Libertà, c’erano
talmente tante barche (chiatte, navi da crociera, yacht, barche a vela) che una qualsiasi di loro poteva
essere sulle nostre tracce.
O forse eravamo solo paranoici.
Capita, quando vieni a sapere che entrambi i tuoi genitori lavorano per la CIA.
Risalimmo il fiume Hudson e attraccammo al molo sulla Settantanovesima Strada Ovest, non
troppo lontano dall’ufficio del dottor Lewis al campus della Columbia, vicino alla Centodiciottesima
Strada Ovest. Una volta ormeggiati, sul computer della timoneria risuonò l’avviso di posta in entrata.
Era una mail dello zio Timothy:
A Charleston si dice che vi siate avvicinati all'obiettivo. Congratulazioni. Grazie ad alcuni amici ho
fatto in modo che possiate passare la notte all'Hotel Plaza.
L’Hotel Plaza è l’albergo più elegante di tutta New York.
Mamma e papà avevano trascorso lì la loro luna di miele e ci eravamo andati tutti insieme un
paio di volte quando eravamo ancora una grande famiglia felice.
Perciò Tommy avvolse l’urna in una felpa soffice (e puzzolente) e l’infilò in una sacca da
ginnastica. Chiamammo un taxi e attraversammo la città diretti al nostro albergo di lusso.
«Qui ci vuole un bel giro in carrozza!» dichiarò Beck.
«Assolutamente sì» concordò Tommy.
Ci sono sempre delle carrozze a cavalli in attesa davanti all’hotel, una specie di castello vicino
al margine meridionale di Central Park. Tanto che papà scherzava sul fatto che il Plaza costava più di
quasi tutti gli altri alberghi perché ‘aveva più cavalli’.
Già. A papà piaceva fare battute come questa.
Mentre risalivamo al piccolo trotto una sinuosa collina di Central Park, restammo tutti in
assoluto silenzio per un lungo, lunghissimo momento.
Pensavo a papà e mamma e all’ultima volta che avevamo fatto quel giro in carrozza. Immagino
lo stessero facendo anche gli altri.
«Mi piacerebbe essere in braccio a papà» mormorò Beck.
«Mentre mamma elenca i nomi di tutte le statue e altra robaccia» aggiunse Tommy.
«E poi, la sera» sussurrò Storm, «si sedevano con me sul pavimento della camera e mi
aiutavano a memorizzare la mappa della metropolitana».
«Ehi» li interruppi io, cercando di cambiare argomento prima che tutti (compreso il conducente
e il suo cavallo) si mettessero a singhiozzare. «Dopo il giro in carrozza, perché non ce ne andiamo a
mangiare qualcosa?»
«Serendipity!» gridarono tutti all’unisono, compreso me. Serendipity 3 era il ristorante di New
York preferito da mamma e papà, probabilmente perché serviva questo dolce chiamato ‘Cioccolato
Caldo Ghiacciato’.
Tra le decoratissime pareti del famoso ristorante c’erano ricordi familiari di tutti i tipi. Perciò
anche se stavamo assaggiando la più spettacolare miscela di gelato e cioccolata mai creata, ci
sentivamo tutti un po’ tristi.
Ma a metà del dolce, Beck si chinò e mi sussurrò all’orecchio: «Non preoccuparti. La prossima volta
che verremo qui ci saranno altre due cannucce infilate nel gelato. Una di mamma».
Completai il suo pensiero: «E una di papà».
La mattina dopo di buon’ora, dopo una grandiosa colazione al Plaza con uova, pancetta e pane
tostato del costo di trentatré dollari (a testa), ci avviammo verso la Columbia University con l’urna
greca stipata nel grosso borsone da ginnastica di Tommy.
Ma nell’istante in cui uscimmo dall’hotel attraverso porte ancora più grandi, e iniziammo a
percorrere il grandioso tappeto rosso della scalinata che scendeva fino al marciapiede, ebbi la
sensazione che qualcuno ci stesse osservando.
«Ragazzi?» dissi, indicando con la testa tre giovanotti in occhiali da sole, bermuda e camicia
hawaiana (di quelle abbondanti che possono nascondere le fondine di pistola). Tutti e tre avevano dei
fili a spirale che uscivano dagli auricolari: sembravano agenti segreti in vacanza ai Tropici. Tutti e tre
ci stavano fissando.
«State calmi» ci intimò Tommy, che aveva con sé la borsa da ginnastica. «Dobbiamo seminare
questi tre zarri».
(Non avevo idea di cosa avesse appena detto mio fratello. JJ la surfista aveva insegnato a
Tommy un sacco di parole strane nel breve periodo in cui erano stati insieme.)
Per sfuggire agli ‘zarri’ girammo attorno a una grossa fontana gorgogliante e ci dirigemmo
verso la Quinta Strada.
I tre surfisti di New York ci seguirono.
«Da questa parte» disse Tommy quando arrivammo sulla Cinquantasettesima Strada Est. Ci
guidò lungo l’isolato fino all’ingresso di vetro ad archi del megastore Nike. Non perché avesse bisogno
di un altro paio di scarpe da ginnastica, ma perché sapeva che quel posto era pieno zeppo di gente.
Sfrecciammo dentro a quello che in sostanza è il Museo delle Scarpe da Ginnastica di New
York. Erano esposti manichini di tutti i tipi vestiti Nike da capo a piedi. Le pareti brulicavano di scarpe
di una tale moltitudine di colori da fare impallidire un pacchetto gigante di M&M’s. L’atrio alto cinque
piani rimbombava di una musica martellante.
«Dobbiamo seminare quei tre» dissi. «Credo siano surfisti».
«Non c’è niente di male nei surfisti» rispose Tommy. «JJ era in gamba».
«Sì» tagliò corto Beck. «Ma quei tre che ci inseguono significano guai».
«Potremmo prendere le scale mobili fino al quinto piano e sgusciare fuori dall’uscita
antincendio, per tornare sulla strada scendendo dalle scale» propose Storm, che aveva già memorizzato
i piani d’evacuazione dell’edificio.
«Facciamo così» acconsentì Tommy.
Storm salì sulla scala mobile per prima, con Beck e me subito dietro. Tommy chiudeva il
gruppo (dopo aver passato un paio di secondi a esaminare delle orribili scarpe di gomma da mare).
Risalendo la scala mobile dal secondo al terzo piano, vidi un tizio basso che scendeva sul lato
opposto. Aveva i capelli tirati indietro in un codino. Un codino molto familiare.
Guardai Beck. Lei guardò me.
«Muovetevi, voi due» sussurrò Tommy, arrivandoci alle spalle. «Dobbiamo seminare il tizio col
codino».
Concordai. Altrimenti il piccoletto avrebbe voluto che gli ricomprassimo una bombola per
rimpiazzare quella che avevamo fiocinato in quel tratto di mare infestato dagli squali.
Iniziammo a salire le scale mobili due gradini alla volta. Finché non andammo a sbattere su
Storm. Lei non si spostò.
«Qual è il problema, Bick?» chiese.
«Pirati» dissi a denti stretti. «Quelli che avevamo lasciato agli squali».
«Impossibile. Sai quante sono le probabilità di sopravvivere a un attacco di squali?»
Non riuscii a sentire la risposta.
Perché quando arrivammo al terzo piano, vidi un’altra faccia familiare. Questa aveva un
minuscolo triangolo di barba sul mento. Laird, il capo dei pirati. Aveva un braccio al collo, e dallo
sguardo torvo che ci rivolse capii che sentiva ancora bruciare l’acqua salata sulla ferita alla spalla che
gli avevamo provocato.
Laird portò la mano destra all’orecchio sinistro (perché il braccio sinistro ce l’aveva al collo).
Aveva un auricolare come i tre tizi in occhiali da sole e camicia hawaiana che erano appena
arrivati al secondo piano e stavano parlando rivolti alle maniche delle loro camicie.
«Benvenuti a New York, marmocchi» disse Laird. «Terra dei broker di Wall Street e altri
svariati squali. Il signor Collier ha bisogno di scambiare due parole con voi».
«Okay» risposi, «la nostra parola è questa: scappiamo!»
Tutti e tre ci lanciammo attraverso il negozio come forsennati.
«Largo, gente!» gridò Storm. «Chi si ferma è perduto!»
Laird ci inseguiva zoppicando. Immaginai che uno di quegli squali gli avesse azzannato una
gamba (o mordicchiato i piedi) prima che lui e i suoi compari fossero riusciti a scappare in qualche
modo.
«Wow!» esclamò Tommy, che chiudeva la fila. «Guardate quelle scarpe!»
Figuriamoci. Correvamo per salvarci la pelle, ma Tommy trovava comunque il tempo per
ammirare la merce in esposizione.
«Ehi!» gridò uno dei commessi della Nike mentre passavamo di corsa accanto a una fila di
manichini vestiti da calcio. «Qui non potete correre!»
«Certo che possiamo!» gridai di rimando. «Infatti è quello che stiamo facendo».
«Vogliamo assicurarci che le nostre nuove scarpe da corsa funzionino» aggiunse Beck. «Finora
vanno alla grande!»
Storm ci fece strada fino agli ascensori e schiacciò il pulsante ‘Giù’. Le porte si aprirono.
Saltammo dentro. Le porte si chiusero.
Proprio nell’attimo in cui Laird e i suoi tre compari surfisti apparvero nel nostro campo visivo.
«Prenderanno le scale» dissi. «O le scale mobili. In ogni caso arriveremo all’ingresso prima di
loro».
«E poi?» chiese Storm. «Continuiamo a correre?»
«Assolutamente sì» disse Tommy. «Ce la fai, sorellina?»
«Certo».
Le porte si aprirono e noi ci involammo verso l’uscita.
«Ehi, non si corre!» gridò un altro commesso della Nike.
«Ci scusi!» gridai. «Scarpe da passeggiata non ne abbiamo trovate!»
Ci precipitammo fuori dalle porte.
«Taxi!» gridò Storm.
Incredibilmente ce n’era uno parcheggiato proprio di fianco al marciapiede.
«È il nostro giorno fortunato!» esclamò Beck.
Salvo che nel nanosecondo che impiegò per dirlo, un uomo d’affari in impermeabile afferrò la
maniglia della portiera e ci rubò il taxi!
«A Ovest» suggerì Storm. «Dobbiamo dirigerci verso Broadway e prendere la metropolitana
fino alla Columbia».
Stavamo per partire quando sentii alle nostre spalle un rumore di ruote di skateboard che
scivolavano sull’asfalto.
Mi girai e vidi un altro tizio trasandato sulla ventina che sfrecciava sul marciapiede con uno
skateboard. Il tizio veniva dritto verso di noi.
Era Jadson, il braccio destro di Laird.
A questo punto vorrei scusarmi con il venditore di hot-dog al quale rovesciammo il carrello
mentre correvamo sulla Quinta Strada davanti alla Trump Tower: mi dispiace, signore. Ma se la regola
dei cinque secondi si applica alle strade di New York spero che sia riuscito a raccogliere dal
marciapiede tutti quei wurstel e venderli a chi ama cibo croccante per pranzo.
Fortunatamente, Jadson fu sbalzato dallo skate quando l’ombrello del carretto degli hot-dog si
rovesciò e gli finì tra le gambe.
Arrivati sulla Cinquantatreesima Strada Est, attraversammo di corsa la Quinta Strada e ci
ritrovammo all’improvviso sulla Cinquantatreesima Strada Ovest.
«È così che hanno tracciato la mappa, Bick» disse Storm vedendo la mia espressione confusa.
«Abituati».
Sfortunatamente, sugli scalini della chiesa di St Thomas, sul lato nord della strada, vidi altri tre
surfisti in camicia hawaiana e Ray-Ban che trafficavano con i loro cellulari.
Ci avevano visto anche loro.
«Ragazzi» mormorai. «Inizio davvero a odiare i surfisti».
«Da questa parte» disse Beck. «Il Museo d’Arte Moderna è proprio in questo isolato».
«E in che modo questo ci aiuterebbe?» chiesi.
«Ehi, se dobbiamo morire, tanto vale farlo davanti alla Notte Stellata di Van Gogh o alle Ninfee
di Monet».
Ci affrettammo lungo il marciapiede affollato, saltando un incredibile disegno che un tizio
aveva impiegato tutta la mattina per disegnare sull’asfalto con i gessetti.
I tre surfisti erano appena dietro di noi. Guardandomi alle spalle vedevo le loro teste bionde
ballonzolare su e giù in mezzo alla folla degli appassionati d’arte, mentre cercavano di capire in che
direzione stessimo andando.
Spingemmo le grosse porte a vetri del MoMA ed entrammo. (MoMA sta per ‘Museum of
Modern Art’, non è un termine slang per ‘mamma’. Beck mi dice anche che si pronuncia moh-mah, non
momma. Io le ho appena detto che non mi serve sapere come si pronuncia una parola se la devo solo
scrivere. Lei mi ha detto di andare a quel paese.)
Circa un milione di persone attendevano pazientemente in una coda che si snodava dall’atrio del
museo fino all’esterno, sul marciapiede.
Un guardiano in pantaloni grigi e blazer blu venne verso di noi.
«Ehi, ragazzi. La coda inizia fuori. A meno che non siate membri tesserati. Nel qual caso potete
registrarvi all’apposito banco».
Esitai: «Be’, ecco…»
I tre surfisti spalancarono le porte a vetri ed entrarono di corsa.
Smisi di esitare: «Vorremmo acquistare una tessera familiare!»
Il guardiano indicò con il pollice alle sue spalle: «Parlate con la signora al banco». Si allontanò
per affrontare i tre nuovi entrati. «Ehi voi, hawaiani. Questo è un museo. Non si corre nei musei».
Mentre il guardiano teneva occupati i surfisti, allungai alla signora delle iscrizioni cinque
banconote da cento dollari.
«Queste ci bastano?»
«Siete una famiglia?»
«Sì, signora».
«La tessera per famiglie costa 175 dollari».
«Allora ce ne dia un po’. Siamo di fretta». Tagliammo attraverso il giardino delle sculture,
sfrecciammo lungo un paio di saloni tappezzati di quadri con strane macchie di pittura e ritratti di
minestre in scatola, e raggiungemmo un’uscita sul lato opposto dell’edificio.
Attraversammo di corsa la strada, girammo un angolo e ci dirigemmo verso l’Hotel Hilton,
davanti al quale era posteggiata una lunga fila di taxi gialli.
«Posso aiutarvi, bambini?» chiese un portiere in uniforme.
«Sì, signore» risposi, tirando fuori di tasca un altro biglietto da cento dollari. «Mio papà ha
detto che dandole una mancia ci avrebbe aiutato a trovare un taxi».
Il portiere suonò immediatamente il fischietto e un taxi arrivò stridendo sul vialetto d’ingresso.
L’autista al volante sembrava un pazzo. (Mi dicono che quasi tutti i taxisti di New York sono
pazzi.)
«Ehm, Bick?» mormorò Beck quando vide lo stralunato autista con gli occhi sporgenti. «Magari
potremmo andare a piedi fino alla Columbia».
«No» dichiarò Storm infilandosi dentro al taxi. «Sono stanca di correre e anche di camminare».
Beck e io ci sedemmo sul sedile posteriore con Storm. Tommy si mise davanti con il
conducente. Non avevo ancora chiuso la portiera che stavamo già schizzando via dall’hotel a clacson
spianato, mentre l’autista sfrecciava tra una corsia e l’altra borbottando sottovoce. Bruciammo un paio
di semafori, volammo attorno a Columbus Circle e risalimmo Broadway come una schioppettata fino
alla Columbia.
Non c’era verso che quei surfisti potessero star dietro a una fuga come questa!
Riuscimmo ad arrivare alla Columbia University. Vivi.
«Quella è la Schermerhorn Hall» disse Beck, indicando un palazzo di mattoni rossi con un tetto
dello stesso verde della Statua della Libertà.
«È stata costruita nel 1896» ci raccontò Storm. Immagino che avesse memorizzato una brochure
dell’università. «L’iscrizione sopra l’ingresso dice: ‘Parla alla Terra e lei ti insegnerà’».
«Davvero?» chiese Tommy. «Gli studenti universitari parlano con la terra?»
«Andiamo» dissi. «Dobbiamo trovare il Dipartimento di Archeologia e Arte Antica del Vicino
Oriente».
Entrammo nel palazzo e prendemmo un ascensore fino all’ottavo piano. Tommy stava ancora
trasportando l’urna greca nella sua gigantesca borsa da ginnastica. Quando ci incamminammo per il
corridoio sentimmo una studentessa dire: «Grazie, professor Lewis!»
«È stato un piacere, Kathrin. Un vero piacere».
La sua voce aveva qualcosa di familiare. Vagamente sbavata e con le vocali strascicate.
Beck batté con le nocche alla porta del suo ufficio.
«Professor Lewis?»
«Avanti, avanti».
Entrammo tutti e quattro in un piccolo ufficio pieno zeppo fino al soffitto di libri e incartamenti.
Era pieno zeppo pure del dottor Lewis, che probabilmente pesava centosessanta chili e sembrava
dovesse scoppiare da un momento all’altro fuori dai braccioli della sua scricchiolante poltroncina di
legno. Aveva guance paffute e capelli ricci impomatati con la riga in mezzo. Indossava una giacca
sportiva di tweed spiegazzata, una camicia raggrinzita con i bottoncini al colletto, una cravatta con una
danzatrice hawaiana e un paio di jeans.
«Voi quattro frequentate i miei corsi?» chiese, sbirciando da sopra gli occhiali.
«No» dissi. «Siamo i figli del dottor Kidd».
«Davvero? Ah, sì. Mio fratello mi ha detto che sareste venuti a trovarmi».
«Suo fratello?»
«Mio fratello gemello. Un esemplare molto interessante di, come possiamo dire, ‘commerciante
in antichità’ delle Isole Cayman».
Beck mi lanciò un’occhiata. Era davvero possibile?
«Sta parlando di Louie Louie?» chiesi.
«Esatto. Il suo cognome si scrive in modo diverso dal mio, ma la colpa di questa stranezza è dei
miei genitori, che ritenevano che i gemelli dovessero condividere tutto, compresi il nome e il cognome.
Per rabbonire l’ufficiale dell’anagrafe, tuttavia, li compitarono in modo leggermente diverso. Lui è
Louis con la ou, e io sono Lewis con la ew».
«Wow» mormorò Beck. «Ora che mi ci fa pensare, noto la somiglianza».
(A dire il vero Beck fu fin troppo cauta, perché avrebbe tranquillamente potuto esclamare:
‘Wow. Sembrate entrambi due fenomeni da baraccone’.)
«Voi ragazzi» continuò il professore, «siete entrati in possesso dell’amuleto a forma di ape
grazie al fatto che Louis e io siamo gemelli. Mio fratello mi disse che era stato molto tentato di non
rispettare l’accordo con vostro padre e vendere il ciondolo minoico a Nathan Collier. Ma aveva dato a
vostro padre la sua parola. E ha un debole per i gemelli».
«Non lo abbiamo tutti?» insinuò Storm (in tono un po’ sarcastico, se devo essere sincero).
«Dunque, allora» proseguì il professor Lewis, «in cosa posso esservi utile?»
«Come forse saprà, nostra madre è scomparsa…» iniziai io.
Il dottor Lewis fece schioccare la lingua. «Oh, certo. Mi spiace sia rimasta coinvolta in questo
pasticcio. Una delle più acute menti archeologiche che abbia mai conosciuto. Una vera esperta
nell’autenticare manufatti antichi».
«Per questo abbiamo bisogno di lei» disse Beck.
Tommy issò la sua borsa da ginnastica sulla scrivania del professore.
«Mamma mia. Cosa c’è in questa borsa?»
«Un oggetto che abbiamo recuperato a Charleston, nel Sud Carolina» spiegai.
«Dalla signora Potnia Macy-Hudson?»
«Esatto» confermò Beck. «La pazzoide con le api nel cervello».
«Davvero?» Il professor Lewis si sfregò le mani paffute come fosse un procione. «Posso
esaminare il vostro tesoro?»
«La prego, proceda» lo invitai. «Dal momento che mamma non c’è, speriamo che possa
autenticarlo lei».
«Farò del mio meglio, ragazzi». Aprì con cautela la cerniera lampo della borsa.
«È dentro la mia felpa imbottita» disse Tommy. «Perdoni la puzza».
Il professore aprì l’involto con molta attenzione.
«Oh, mamma!» boccheggiò. «Che sia forse…?»
Estrasse il certificato di origine da dentro l’antico vaso e lo lesse. Poi boccheggiò di nuovo.
«Oh, mamma!»
«Cos’è?» chiesi.
«L’urna greca».
«Mmm, questo lo sapevamo» disse Beck.
«Scusate. Dovrei essere più preciso. Questa è quell’urna greca. Esattamente quella di cui scrisse
il grande poeta inglese John Keats intorno al 1819. Immagino conosciate la sua Ode su un’urna greca,
no?»
«Il verso finale» disse Storm, «dichiara che ‘Bellezza è verità, verità bellezza – questo solo
sulla terra sapete, ed è quanto basta’».
«… ciurma» borbottai, perché era quello che papà aveva scritto ai margini della vignetta
sull’urna di Creta nella Stanza, «Questo solo sapete, ed è quanto basta, ciurma».
Quella scritta era un altro indizio!
«Questo inestimabile tesoro» proferì il professor Lewis, fissando ammirato il vaso di creta,
«questa semplice ma splendida urna è il vero motivo per cui vostra madre è scomparsa».
«Cosa???» gridammo tutti insieme.
«E sono certo che servirà a liberarla!»
«Mamma è viva?»
«Ne è sicuro?»
«Come faremo a salvarla, esattamente?»
«Insomma, com’è che questo vaso ci aiuterà a liberarla, professore?»
Sì, insomma, sottoponemmo il professor Lewis a un autentico bombardamento di domande. Lui
fece del suo meglio per spiegarsi in fretta.
«Diversi mesi fa» cominciò, «il collezionista d’arte multimiliardario Athos Aramis, un
famigerato trafficante d’armi internazionale noto anche come Pirate King, perché rifornisce un gran
numero di fannulloni e scapestrati, stava per portare a termine a Cipro un segretissimo scambio di
antichità-contro-armi».
«Cipro è dove quei delinquenti hanno rapito mamma!» esclamai.
«Esatto. Il signor Aramis (il quale, tra l’altro, vive qui a New York) mandò vostra madre, della
quale si fidava e di cui spesso si serviva in transazioni di questo tipo, a esaminare gli oggetti d’arte e di
antiquariato che i malavitosi ciprioti stavano utilizzando per pagare le armi. Quando fu il momento di
autenticare l’urna greca, che i ciprioti sostenevano essere il famoso vaso di Sosibios cui si era ispirato il
poeta Keats per scrivere la sua ode, vostra madre dichiarò che era un falso».
«Perché?» chiesi. «Pensavo avesse detto che era questo qui!»
«Certo che lo è. Ma questo vaso è stato rubato da una nave merci diretta a Cipro da un’altra
banda di predoni ed è finita nelle mani della signora Potnia Macy-Hudson in Sud Carolina. L’urna che i
ciprioti stavano usando per pagare il signor Aramis era un falso, come aveva dichiarato vostra madre.
Vostro padre e io abbiamo seguito scrupolosamente le tracce della vera urna fino a scoprire che era
diretta a Charleston».
«Perciò quei farabutti di Cipro» intuì Beck, «hanno rapito mamma perché aveva detto la
verità?»
«Esattamente. Vedete, vostra madre ha fatto sfumare il loro accordo con Pirate King. Quando
dichiarò che l’urna era un falso, il signor Aramis si rifiutò di consegnare a quei mascalzoni ciprioti le
loro armi. I ciprioti, dal canto loro, giurarono che non avrebbero rilasciato vostra madre, l’inviata
personale del signor Aramis, finché non avessero ricevuto le armi che gli erano state promesse. Come
potete immaginare, i negoziati sono a un punto morto perché nessuna delle due parti è in possesso
dell’autentica urna di Keats».
«Ma adesso ce l’abbiamo noi» puntualizzai.
«Proprio così» disse il dottor Lewis.
«Era questa la missione di papà» esclamò Beck. «Trovare l’urna autentica e utilizzarla per
salvare mamma».
Annuii: «E adesso tocca a noi portare a termine il suo lavoro!»
A proposito dello restare sbalorditi.
Mamma, che avevamo da poco saputo essere un’agente della CIA, fungeva inoltre da
intermediario per un famigerato trafficante d’armi noto come Pirate King. Nel frattempo, aiutava papà
nella sua attività di ricerca di tesori, faceva scuola a noi quattro e preparava i migliori tacos di pesce del
pianeta.
Nostra madre aveva davvero un talento multiforme.
«Aspetti un attimo» disse Beck al professor Lewis. «Papà aveva svariate fotografie di quadri
attaccati alle pareti del suo, ehm… ufficio. A cosa gli servivano?»
«Immagino che quasi tutte si riferissero ai quadri che vostro padre procurò personalmente al
signor Aramis in un incarico precedente. Il resto sono le opere d’arte che i banditi ciprioti avrebbero
dovuto procurare in cambio delle armi. Anzi, vostro padre aiutò il signor Aramis a stilare la lista dei
capolavori, diciamo così, ‘scomparsi’ che voleva che i terroristi si procurassero per lo scambio».
Nel sentire quella parola mi sembrò di essermi dato uno schiaffo da solo. «Terroristi?»
«Be’» disse il professor Lewis, «utilizzo questa parola in senso lato. Diciamo che quei signori
di Cipro non sono dei gentiluomini. Ladri, contrabbandieri e gentaglia simile».
«Ma anche il signor Aramis è uno cattivo, giusto?»
«Oh, sì. Assolutamente. Anzi, oserei dire che Athos Aramis è uno dei peggiori cattivi sulla lista
dei ricercati dell’FBI. Ha venduto armi a parecchi dei nemici mortali dell’America. È spietato,
estremamente violento, e incline a sferrare colpi alla cieca se messo con le spalle al muro. Ho anche
sentito che è particolarmente crudele con i bambini e i piccoli animali».
«E mamma e papà lavorano per questo tizio?» Ero atterrito. Stupefatto. Inorridito. Tutte e tre le
cose. «Mamma autentica le sue urne greche e papà cerca tesori artistici per suo conto?»
«Esatto, ma questo scambio antichità-contro-armi era solo una piccola parte di un’operazione molto più grossa che coinvolgeva Aramis e i suoi
loschi traffici».
«Sta mentendo» disse Tommy lo Svampito. «Non esiste che mamma e papà lavorino per uno
schifoso come Aramis. Storm? Hai ancora un po’ di quel siero della verità?»
«Sulla barca».
«Bene. Dobbiamo ficcare un ago nel sedere a questo parruccone e farlo smettere di mentire su
mamma e papà».
«Non sto mentendo, ragazzi. Ma…»
«No» lo interruppi. «Non si azzardi a dire che mamma e papà sono degli imbroglioni. Che
stavano solo fingendo di lavorare per la CIA in modo da fare una barca di soldi lavorando per questo
delinquente di Aramis».
«Bene» concluse il professor Lewis con un brillio misterioso nello sguardo. «Non ve lo dirò.
Perché nei vostri cuori voi sapete già qual è la verità».
Prima che uscissimo dal suo ufficio, il professor Lewis insistette per darci un suo biglietto da
visita.
«Chiamatemi a qualunque ora. Di giorno o di notte. Se posso aiutarvi in qualsiasi modo…»
«Ha già fatto abbastanza» disse Tommy, guardando torvo il professore mentre riavvolgeva
l’urna nella sua felpa sudicia prima di rimetterla nella borsa da ginnastica.
Beck prese il certificato d’origine e lo ficcò nel suo zaino. «Usciamo di qui».
«Vi assicuro, ragazzi, che non intendevo mancare di rispetto. I vostri genitori erano miei amici,
intimi amici. Vi esorto a fare un passo indietro e guardare il quadro nel suo insieme…»
«No, grazie» risposi. «Siamo stanchi di guardare quadri. In particolare quelli che lei dice papà
abbia rubato per conto di un delinquente e tagliagole».
Sfilammo fuori dall’ufficio tutti e quattro e scendemmo le scale a grandi passi. Eravamo troppo
arrabbiati per aspettare l’ascensore. Uscimmo da Schermerhorn Hall e attraversammo a piedi il campus
dell’università. Nessuno disse una parola.
«Dovremmo tornare alla barca» proposi infine, «ed escogitare un modo per entrare in contatto
con questo Athos Aramis. Forse se gli consegniamo l’urna autentica riuscirà a convincere quei farabutti
di Cipro a liberare mamma».
«È nella rubrica degli indirizzi di papà sul computer» disse Storm, che aveva chiaramente
focalizzato la sua memoria fotografica sulla lista dei nomi con la A.
«Bene. Prenderemo la…»
All’improvviso, un frisbee colpì Tommy sulla testa.
«Oops! Scusa!» ridacchiarono quattro studentesse che arrivarono sgambettando a recuperare il
loro disco volante.
«Ti sei fatto male?» tubò la bionda.
«Naa» rispose Tommy, sfoggiando un gran sorriso e relative fossette. Si batté la fronte con le
nocche. «Qui sono duro come il marmo».
Altre risatine.
«Fammi dare un’occhiata» propose la piccoletta con i capelli rossi. «Studio medicina».
«Davvero?» disse Tommy, con il suo tono più falsamente ingenuo. «Forse potremmo studiare
un po’ di anatomia insieme».
Il resto di noi alzò gli occhi al cielo. È così che Tommy affronta lo stress e le brutte notizie:
accalappiando ragazze.
«Sollevami un po’ in modo che possa controllare il punto d’impatto» lo invitò la piccola
aspirante dottoressa.
«Certo» disse Tommy. «Farei di tutto per aiutare la scienza medica». Posò a terra la borsa da
ginnastica in modo da afferrare la frizzante rossa con entrambe le mani e sollevarla.
Ma la rossa non gliene diede il tempo.
Gli mollò invece un gran calcio, proprio lì dove tutti i dottori del mondo sanno che fa più male.
Tommy si contorse per il dolore.
La seconda bionda afferrò la borsa da ginnastica e si mise a correre. Veloce.
Feci per correrle dietro, ma la brunetta mi fece balenare davanti alla faccia un coltello
dall’aspetto poco rassicurante.
«Sta’ indietro, sfigato, o ti faccio a polpette!»
«Surfiste» gemette Tommy, ancora piegato in due. «Sono surfiste».
«Esatto» confermò la rossa. «State lontani dalla nostra spiaggia di cemento, gente, altrimenti
Nathan Collier vi farà la pelle a tutti quanti. Voi quattro ve ne dovete andare da New York. Oggi
stesso!»
Poi scappò via insieme al resto delle sue amiche.
Nel frattempo, la ragazza con la borsa da ginnastica era arrivata fino a Broadway, dove saltò a
bordo di una decappottabile e partì a razzo. Il ragazzo al volante era un piccoletto col codino.
«I pirati di Collier hanno preso l’urna» dichiarò Storm, constatando una dolorosa ovvietà. «Non
la possiamo usare per salvare mamma».
Restammo lì tutti e quattro con lo sguardo perso nel vuoto, mentre le altre tre surfiste sparivano
tra la folla di studenti che andavano a lezione.
Eravamo distrutti.
No, eravamo devastati.
Probabilmente eravamo anche i ragazzi più stupidi ad avere mai messo piede nel campus della
Columbia University.
Di tutte le cose orribili che ci erano successe dalla scomparsa di mamma, questa era
probabilmente la peggiore. Perché avevamo perso la chiave per riaverla indietro.
L’urna era andata. E con lei i nostri sogni di ritrovarci con mamma sulle spiagge assolate di
Cipro. Sopraffatti dalla stanchezza e da un’indicibile tristezza, tornammo al molo sulla
Settantanovesima Strada Ovest e risalimmo sulla Sperduta.
«È tutta colpa mia» ammise Tommy, affranto. «Prima Daphne. Poi Miss Medicina. Le ragazze
portano solo guai. Non farò mai più il filo a nessuna».
Mentre Tommy, imbronciato, saliva alla timoneria e Storm scendeva in cucina a cercare
qualche confezione di gelato nella quale annegare le nostre tristezze, Beck e io iniziammo ad
armeggiare con il computer di papà nella Stanza. Volevamo scovare ogni informazione possibile sul
signor Athos Aramis, perché sapevamo entrambi che tra poco Nathan Collier avrebbe venduto a lui la
roba che aveva rubato. Se fossimo riusciti a essere presenti al momento dello scambio, forse avremmo
avuto un’altra occasione di salvare mamma.
Quasi tutte le informazioni su Aramis erano ben poco utilizzabili. A quanto pareva il governo
aveva dato la caccia per anni a quell’individuo subdolo, astuto e molto ben introdotto, ma non aveva
mai potuto provare che avesse commesso qualcosa di illecito.
«Vive al 983 della Quinta Strada, appena fuori da Central Park» riferì Beck. «Un indirizzo
molto alla moda. E, ovviamente, il superattico dove vive è di sua proprietà».
«Sistemi di sicurezza?»
«Rigidissimi».
«Dobbiamo seguire la pista di Aramis» annunciò Storm entrando nella stanza.
«Mmm, è quello a cui stiamo lavorando» le confermò Beck.
«Bene» assentì Tommy che aveva seguito Storm. «Dobbiamo riprenderci l’urna, a tutti i costi».
«Non preoccupatevi, ragazzi» dissi io, «lo faremo. Naturalmente, dobbiamo presumere che un
trafficante d’armi internazionale come il signor Aramis abbia a disposizione una certa potenza di
fuoco».
«E anche un bel po’ di muscoli» aggiunse Beck.
Storm annuì cupamente. «È assai probabile che le sue guardie del corpo armate fino ai denti ci
facciano saltare in aria con un missile Stinger. O magari un lanciarazzi. Saremo morti prima di arrivare
al secondo piano».
«Forse no» disse Beck. «Perché l’urna non servirà molto al signor Aramis senza questo». Tirò
fuori il certificato d’origine che aveva infilato nello zaino poco prima che le surfiste rubassero la borsa
da ginnastica di Tommy.
«Lo hai preso tu?» chiese Tommy.
«Già».
«Beck, sei la migliore. Sei riuscita a restituirmi la fede nel genere umano».
«Avremo bisogno anche di te, Tommy» dissi.
«Nessun problema. Cosa volete che faccia?»
«Che tu prenda a calci qualche sedere importante» disse Beck.
«Ottimo. Questo lo posso fare. Di quale sedere stiamo parlando?»
«Quello di Athos Aramis in persona» risposi. «Credo che io e Beck dovremmo andare a fargli
visita. Domani. A mezzogiorno».
Mentre Tommy e Storm si esercitavano a karate, Beck e io elaborammo il nostro piano
d’attacco. Okay, forse era più simile al piano di una missione suicida, ma dovevamo fare qualcosa.
Poco dopo mezzanotte, chiamai il professor Lewis.
«Grazie per averci dato il suo numero, signore».
«È stato un piacere, Bickford».
«Spero di non averla chiamata troppo tardi».
«Oh, no. Vi ho detto in qualsiasi momento. Giorno e notte».
Beck si chinò in modo da sentire anche lei.
«Ci dispiace di esserci andati pesanti nel suo ufficio».
«Non c’è bisogno di scusarsi» rispose il dottor Lewis. «È la situazione che è molto pesante».
«Be’, comunque abbiamo deciso di fare un passo indietro e guardare il quadro nel suo insieme».
«Ah, certo. La foresta invece degli alberi. L’oceano invece delle onde. La stanza invece del
divano. Il…»
«Esatto» dissi, interrompendolo. «Il piano è questo: domani andremo sulla Quinta Strada a far
visita al signor Athos Aramis».
«O-oh. Stai scherzando. Giusto?»
«No. Domani. A mezzogiorno. Faremo un salto nel suo superattico sulla Quinta Strada».
«Oh, mamma. Non lo posso permettere. Il signor Aramis è un uomo molto pericoloso.
Mortalmente pericoloso. L’avete capito o no che è un trafficante d’armi? Voi ragazzi potreste lasciarci
la pelle!»
«Conosciamo i rischi. Tuttavia, dottor Lewis, in assenza dei nostri genitori non è lei il nostro
tutore legale. È zio Timothy. Timothy Quinn. Lo conosce?»
«Sì» la voce del dottor Lewis si fece un po’ stridula.
«Bene, se ha dei problemi su quello che stiamo per fare, le suggerisco di telefonare al signor
Quinn. Ha il suo numero?»
«Naturalmente».
«Bene. Gli dica di sbrigarsi. Come ho detto, entreremo a mezzogiorno».
Beck e io passammo il resto della notte nella Stanza cercando di scoprire altre informazioni sul
signor Aramis. Era astuto. Intelligente. Aveva un quoziente intellettivo di 202, il che gli avrebbe
garantito di finire nel Guinness dei Primati se solo non fosse stato così ‘poco amante della pubblicità’.
Era anche un ‘celebre filantropo’ di New York. Vale a dire che indossava lo smoking in un sacco di
eleganti balli di beneficenza e donava montagne di soldi per comprarsi il rispetto (e probabilmente la
protezione) delle persone più potenti della città. Inoltre spendeva intorno ai quarantamila dollari in
vestiti. Per ciascun vestito.
A peggiorare ulteriormente le cose, Athos Aramis odiava i bambini. Li riteneva troppo sguaiati
e rumorosi. Tanto che in materia citava spesso il comico Henny Youngman: ‘Cosa sarebbe una casa
senza bambini? Tranquilla!’
Dopo qualche altra ora passata a studiare il signor Aramis e la mappa su Google del suo isolato
sulla Quinta Strada, Beck e io ci addormentammo entrambi davanti al computer.
Ho un vago ricordo di Tommy che entra nella Stanza e mi porta a letto.
Credo di aver detto «Buonanotte, papà» quando mi rimboccò le coperte.
«Buonanotte, Bickford» rispose Tommy. Cercò persino di usare un tono più profondo per
somigliare a papà.
Già. Fu una cosa carina.
Ogni tanto Tommy lo Svampito è così.
Il mattino dopo, mentre sgranocchiavamo cereali, Beck e io ci lanciammo nella Filippica
Gemellare numero 433. Storm e Tommy ci ignorarono, restando zitti e concentrati sulla loro colazione.
«Ci ho pensato su» disse Beck. «Andare da Aramis è troppo pericoloso».
«Nessun rischio, nessun guadagno» ribattei.
«Be’, cosa avremo da guadagnare se saremo morti?»
«La liberazione di mamma».
«E come faremo a sapere che è libera se saremo morti?»
«Il punto non è questo, Rebecca».
«Oh sì che lo è, fuffaro».
«Eh?»
«Sei una fuffa. Insomma, una cosa senza senso. Una fuffa».
(Mia sorella, la letterata.)
«Senti» dissi, «a volte bisogna seguire il proprio istinto e basta. Come ho fatto io quando ho
preso l’urna al posto del Picasso».
«Vuoi dire l’ultima volta che siamo stati vicinissimi a farci ammazzare tutti quanti».
«Ehi, ‘vicino’ conta solo quando si gioca a bocce».
«O quando si parla di bombe a mano».
«O di alito cattivo».
«Tu pensa alle bombe a mano, Bick».
«Perché?»
«Perché il signor Aramis è un trafficante d’armi, ricordi? Questo significa che avrà a
disposizione armi di tutti i tipi, comprese le bombe a mano o i lanciarazzi con cui spararle».
«Okay» dissi. «Ci sono dei rischi. Come capita ogni volta che usciamo in mare con La
Sperduta. Una nave è sempre un posto sicurissimo quando è ormeggiata in un porto, ma non è per
questo che le navi sono costruite».
«Questa te la sei inventata adesso?»
«No, l’ho letta da qualche parte».
«Infatti non pensavo che l’avessi inventata tu».
«Ti ho detto che non l’ho fatto».
«Solo perché te l’ho chiesto».
«Be’, me lo hai chiesto perché sapevi che te lo avrei detto».
«Certo che lo sapevo. Sei mio fratello».
«Lo so».
«Okay».
«Pace?»
«Certo. Sei contento?»
Annuii.
«Allora finisci i tuoi cereali. Dobbiamo andare sulla Quinta Strada. Dove moriremo tutti».
Beck aveva ragione. Non sul fatto di morire.
Era il momento di darsi da fare e andare al 983 della Quinta Strada.
Perciò ci stipammo in un taxi e tagliammo per Central Park. Poi ci ritrovammo
sull’ombreggiato marciapiede che percorreva la Quinta Strada, guardando dal basso in alto il
torreggiante condominio sull’altro lato della strada.
Guardammo il portone d’ingresso per oltre un’ora. Forse due.
Storm si era portata un binocolo e fingeva di osservare un falco che aveva fatto il nido dietro
uno dei doccioni sul tetto del palazzo.
«L’uccello è nel nido» riferì, quando vide di sfuggita il signor Aramis passare dietro una
finestra del superattico. «Ripeto: l’uccello è nel nido».
Finalmente, a mezzogiorno, l’allarme del mio orologio subacqueo iniziò a suonare.
«Andiamo» dissi.
«Sì» aggiunse Beck. «Andiamo a morire».
«A morire!» dissero Tommy e Storm.
E attraversammo tutti la Quinta Strada.
Qualunque altra persona sulla Quinta Strada sembrava far parte di una delle concentrazioni più
lussuose di proprietà immobiliari di tutta l’America. Noi no.
Noi sembravamo quattro turisti impegnati in una missione suicida.
Facendoci coraggio, ci avvicinammo a passo di marcia all’ingresso del condominio del signor
Aramis. Un tizio enorme con orecchie a sventola e naso schiacciato, tutto intruppato in un’uniforme da
portiere con tanto di spalline e bottoni d’ottone, ci bloccò la strada. Sembrava una delle guardie del
Mago di Oz. E un ex-pugile.
«Posso esservi utile?» chiese il portiere, guardandoci dall’alto del suo naso storto e schiacciato.
«Sì, buon uomo» dissi, perché una volta lo avevo sentito dire da un riccone quando eravamo ormeggiati
fuori Londra.
«Dobbiamo vedere il signor Aramis».
«Mi dispiace. Il signor Aramis non è in casa».
«Sì che lo è» ribatté Storm, indicando il binocolo che portava al collo. «E la signora che vive
nell’appartamento sotto di lui dovrebbe comprarsi delle tende o un accappatoio».
«Statemi a sentire, razza di impertinenti» cominciò il portiere, «il signor Aramis mi ha dato
severe istruzioni di non essere disturbato questo pomeriggio».
«Ma questo prima di sapere che saremmo arrivati» dissi.
«E voi chi sareste, esattamente?»
«John Keats» risposi.
«Chi?»
«Dica soltanto al signor Aramis che siamo venuti con delle informazioni molto importanti
relative alla sua recente acquisizione artistica».
«Davvero? E in quale genere di acquisizione artistica sareste implicati, sapientone?»
«Quella di Charleston» dichiarai. «L’urna greca che ha preso ieri. Dica al signor Aramis che i
suoi uomini si sono dimenticati di prendere il certificato. E, detto francamente, senza quel documento il
suo nuovo vaso non servirà ad altro che a tenerci dentro i fiori. Coraggio, lo chiami».
L’espressione sul viso del portiere era tra il confuso e l’arrabbiato, ma alla fine chiamò.
E la sua espressione si tramutò in shock. Si voltò lentamente verso di noi.
«Il signor Aramis dice di mandarvi subito su».
Entrammo tutti e quattro in un ascensore che sembrava un’elegante gabbia per uccelli.
«Quale piano?» chiese un tizio in uniforme molto altezzoso, che immagino stesse lì tutto il giorno
seduto su uno sgabello a pigiare bottoni numerati per conto di gente troppo ricca per farlo da sola.
«Al superattico, prego» ordinai, facendo del mio meglio per avere un’aria snob.
«Con piacere» rispose il manovratore. Pigiò il bottone del superattico e abbassò una leva,
facendoci schizzare verso il ventiseiesimo piano.
«Mi si sono tappate le orecchie» disse Tommy, sbadigliando e stirando la mascella. «Odio
quando succede. Avete presente?»
«Oh, sì» ribatté il manovratore con il suo raffinato accento britannico. «Certamente».
La cabina rallentò. Risuonò un campanello.
«Superattico» annunciò il nostro manovratore.
Quando le porte sfavillanti si aprirono silenziosamente, entrammo nel palazzo del re pirata.
Dire che faceva effetto è dire poco. Le pareti erano tappezzate di dipinti coloratissimi e molto
rari, tutti inquadrati in elaborate cornici dorate, quelle piene di arabeschi e ghirigori.
«Chi di voi ragazzini è John Keats?» chiese un energumeno con un rigonfiamento a forma di
pistola sotto la giacca sportiva.
«Io».
«E questi altri chi sono? Altri poeti?»
«No» disse Tommy. «Siamo i Kidd. I figli del dottor Kidd».
«Quello che è caduto in mare ed è morto?»
«Sì» confermai. «Lui».
L’uomo scosse la testa. «Brutta storia. Non per altro, ma anche mio padre è caduto da una
barca. Nel Jersey. Con delle scarpe di cemento ai piedi. Avanti, Keats. Seguitemi, tu e gli altri Kidd».
Mentre attraversavamo l’ampio salotto, sentivo Storm borbottare alle mie spalle.
«Renoir. Corrisponde. Manet. Corrisponde. Monet. Corrisponde».
Storm stava confermando quello che già sospettavo: quelli erano gli stessi quadri che avevamo
visto nelle fotografie appese alle pareti della Stanza.
E non potei fare a meno di chiedermi se nostro padre aveva aiutato il signor Aramis a metterci
sopra le sue sporche mani.
Il gorilla ci scortò in una stanza tipo biblioteca rivestita di pannelli di legno. Il signor Aramis, i
capelli impomatati con qualcosa di ancora più denso della vaselina, era seduto su una poltrona di cuoio
dallo schienale alto, dietro a una sontuosa scrivania con ripiano di vetro sormontato da un elegante
portapenne e una piccola bandiera bianca e blu.
«John Keats» disse freddamente Aramis quando entrammo nella sua stanza, «il celebre poeta
romantico inglese, morì nel febbraio del 1821. Di conseguenza sono costretto a chiedervi: voi chi siete,
fastidiosi marmocchi?»
Credo intendesse noi.
«Siamo i figli del professor Thomas Kidd» risposi.
Fu allora che un uomo seduto su una sedia girevole di fronte alla scrivania di vetro si voltò per
guardarci.
Nathan Collier.
A quanto pareva, eravamo entrati esattamente al momento giusto. Proprio nell’attimo in cui
Collier stava consegnando l’urna ad Aramis.
Collier si tolse di bocca il mozzicone di sigaro bagnato. Viso e mani gli tremavano dalla rabbia.
«Non vi avevo detto che la prossima volta che ci saremmo incontrati sareste morti tutti?»
«Può darsi» dissi. «Non ricordo».
«Già» rincarò Beck. «Quando parla lei, è un po’ come nei suoi show televisivi. Bla-bla-bla. Una
noia mortale».
«Senti, piccola…»
«Silenzio, Nathan» sibilò il re pirata, alzando una mano delicata e agitando le dita. Collier tornò
a sedersi e fece come gli era stato ordinato.
Aramis socchiuse gli occhi.
«Dunque, bambini» pronunciò la parola come fosse una malattia, «chi di voi ha avuto l’audacia
di dire a Bruno giù alla porta che era John Keats?»
«Quello sarei io, signore» dissi.
«Anch’io» disse Beck, facendosi avanti.
«Siamo gemelli».
«Sono davvero i figli di Tom Kidd» sbottò Collier. «Li ha lasciati in mare dopo avere
abbandonato la ricerca di quell’ultimo tesoro per conto suo».
«Non ha abbandonato proprio niente» disse Tommy.
«Ha solo affidato il compito a noi» aggiunse Storm.
«Esatto» confermai. «Papà è andato alla ricerca di quel Rembrandt scomparso. Quello che il
signor Aramis avrebbe voluto aggiungere alla sua collezione».
«Ah!» esclamò Collier. «Quale Rembrandt ‘scomparso’?»
«La Tempesta sul Mare di Galilea» rispose Storm.
Il signor Aramis si chinò in avanti sul ripiano di vetro della sua scrivania. «Interessante» sibilò.
«Vostro padre sapeva dove trovare quel Rembrandt?»
«Sì. Proprio come sapeva dove trovare quella» indicai l’urna greca. «Vede, a differenza di certi
cacciatori di tesori, nostro padre la merce la consegna sul serio».
«Inclusi i documenti che provano come un tesoro sia effettivamente un tesoro» disse Beck,
tirando fuori il certificato d’origine.
Aramis guardò torvo Collier. «Tu mi hai detto che non c’erano documenti allegati a questo
oggetto, Nathan».
«Infatti non c’erano. Non nella borsa da ginnastica. Là dentro non c’era nient’altro che una
felpa puzzolente».
«Certo» ripresi. «Perché ogni cercatore di tesori degno di questo nome sa che non si tengono
mai i documenti insieme al tesoro».
«Per non facilitare il compito a ladri infingardi e pirati da quattro soldi» aggiunse Beck,
sputando quasi le parole addosso a Collier.
«Ehi» la ammonì il gorilla con il rigonfiamento da pistola sul petto. «Bada a come parli. Il
signor Aramis è Pirate King, il re pirata».
«Mi scusi, signore» disse Beck. «Con tutto il rispetto».
«Sarai perdonata» rispose Aramis con un debole sorriso, «quando mi avrai consegnato quel
certificato». Allungò le dita ossute in direzione di Beck.
«E perché dovrei farlo, esattamente?»
«Per non farti strappare le unghie con un paio di pinze!» gridò Collier.
«Nathan?» lo richiamò Aramis, scuotendo la testa e portandosi un dito alle labbra per zittire il
suo cagnolino.
«Mi scusi, signore» mormorò Collier. «Non accadrà più».
«Assicurati che sia così». Aramis puntò gli occhi neri come il carbone su Beck. «Signorina,
quando avrò esaminato quel certificato e sarò certo di essere in possesso dell’autentica urna greca
immortalata dall’autentico John Keats, porterò a termine la transazione con i miei clienti di Cipro».
«I farabutti che hanno preso nostra madre?» chiese Tommy.
«Proprio quelli» replicò il signor Aramis. «Chissà? Quando avrò consegnato loro le armi, forse
quei giovanotti arrabbiati finiranno per liberare vostra madre. Adesso, quindi, cortesemente
consegnami quel documento».
Il gorilla che ci aveva scortato nella stanza si infilò una mano sotto la sporgenza della giacca
sportiva ed estrasse… un fazzoletto di carta.
«Mi scusi, capo» disse, soffiandosi il naso. «È la polvere di tutte queste cornici e oggetti antichi.
Sono allergico».
Lo scagnozzo non aveva una pistola.
Lanciai un’occhiata a Beck.
Lei mi rivolse un impercettibile cenno d’assenso.
«Aspetti un momento!» gridai. «Nostro padre non lavorava per lei, e non è morto».
«E invece papà è morto, Bick».
«No, non lo è!»
Beck sorrise al signor Aramis: «La prego di perdonare mio fratello. A volte perde contatto con
la realtà».
«Non è vero!»
«Sì che è vero!»
Così, esattamente come avevamo stabilito, ci lanciammo nella Filippica Gemellare numero 434.
«Papà non è morto, Rebecca!» gridai.
«Lo è eccome, Bickford».
«No, non lo è!»
«Adesso basta» intervenne il signor Aramis. «Silenzio, per favore. Le vostre voci mi danno sui
nervi».
Perciò Beck e io alzammo ulteriormente i toni del battibecco.
«Da che parte stai, Rebecca?»
«Dalla tua, Bickford. Ma ti sto solo dicendo la verità».
«Allora perché continui a dire che papà è morto?»
«Perché lo è!»
«No, non lo è!»
Aramis provò di nuovo: «Silenzio! Adesso!»
Noi non gli demmo retta.
«E allora dov’è?» chiese Beck.
«È impegnato in una caccia al tesoro segretissima!»
«Che cosa?»
«Un elicottero è venuto a prenderlo».
«Nathan!» il viso di Aramis stava diventando purpureo. «Fai qualcosa. Fai smettere subito
questi marmocchi!»
«Zitti, bambini!» gridò Collier.
Beck lo ignorò.
«Ah ah! Un elicottero?»
«Esatto. Lo hanno raccolto dal ponte con una cima di salvataggio».
«Davvero? Nel bel mezzo di una tempesta?»
«Signor Collier!» ripeté Aramis, sfregandosi gli occhi con entrambe le mani come in preda a un
attacco di emicrania. «Faccia qualcosa! Subito! O sarà esonerato dal suo incarico!»
«Okay, mocciosi» sbottò Collier. «Piantatela!»
Beck e io continuammo.
«È stato proprio il frastuono della tempesta a non farci sentire il rumore dei rotori!»
«Impossibile!»
«Naa. Non se il pilota dell’elicottero era davvero in gamba».
«Bick, tu sei completamente suonato».
«E tu, Beck, sei estremamente ottusa».
«Ritira quello che hai detto!»
«Lo farò se dirai che papà non è morto».
«Lo è!»
«No!»
«E invece sì!»
«E chi lo dice?»
«Lo dico io!»
«Aha!»
«Aha sarai tu!»
«Silenzio!» urlò il signor Aramis, saltando in piedi con tale violenza da mandare la poltrona a
sbattere contro uno scaffale. Furente, proprio come Beck e io avevamo immaginato, prese la sua pistola
placcata d’oro e la puntò su di noi. «Non tollero i bambini che urlano, i neonati che piangono o i cani
che abbaiano! Se voi due non la smettete con questa filippica prima che conti fino a tre, ci penserò io a
darvi un motivo per urlare».
Beck e io lanciammo una rapida occhiata alla stanza. Aramis era l’unico ad agitare un’arma.
Fino a quel punto, il nostro piano stava funzionando perfettamente.
«Uno!» disse Aramis.
Trassi un profondo respiro. Guardai Beck in cagnesco.
«Papà. Non. È. Morto!»
Beck guardò me in cagnesco. «Sì. Lo. È!»
«Due!» gridò Aramis, sollevando la pistola e spostandola di qua e di là, cercando di decidere a
chi di noi sparare per primo.
Stava per dire ‘Tre!’ quando Tommy entrò in azione e si scagliò su Aramis sferrandogli un
calcio di karate.
Il piede sinistro di Tommy si abbatté sul polso di Aramis.
Si sentì il suono di un osso di pollo che si spezza. La pistola volò per aria.
Storm afferrò Collier e lo sollevò per il bavero della camicia.
«Questo è per quella stupida mappa che hai fatto infilare a quello stupido Louie Louie in quello
stupido ciondolo a forma di ape! Mi hai fatto piangere. Io sono Storm Kidd. Io odio piangere». Poi,
richiamando alla sua memoria fotografica il punto in cui la studentessa di medicina aveva colpito
Tommy, Storm mollò a Collier una ginocchiata dove faceva molto, ma molto male.
«Ooof!» gridò Collier, con le lacrime agli occhi dal dolore.
«Adesso chi è che piange, eh?» gongolò Storm.
Beck teneva a bada il gorilla con il naso colante mantenendo le braccia in posizione d’attacco.
Quando Tommy raccolse dal pavimento la pistola di Aramis, io mi tuffai a prendere l’urna.
Sfortunatamente, Aramis fece esattamente la stessa cosa. Insieme, facemmo cadere l’antico
vaso dal bordo del ripiano di vetro del tavolo.
«Noooo!» gridò Aramis.
L’urna stava per schiantarsi sul pavimento.
Allungai le braccia e l’afferrai. Nell’istante
in cui la ebbi tra le mani, mi girai con il corpo in modo da atterrare con il sedere sul pavimento
anziché con un vaso in faccia.
«Presa!» gridai mentre cadevo a terra, tenendo stretto al petto l’inestimabile capolavoro.
«Bene» sogghignò Aramis. «Adesso dammela».
Alzai lo sguardo.
Nel mezzo del trambusto, altre sei guardie del corpo erano entrate nella stanza.
Queste sei non si stavano soffiando il naso.
Stavano tutte puntando le loro armi su di me.
Fine degli eroismi.
Beck aveva ragione: stavamo per morire tutti.
«Uccideteli!» gridò Aramis. «Uccideteli tutti! Ma non azzardatevi a danneggiare la mia urna!»
Tre gorilla mi puntarono le pistole alla testa. Gli altri tre si girarono per puntare le loro armi su
Beck, Storm e Tommy.
«Dunque» dissi, «suppongo che questo significhi che non vuole quel Rembrandt, giusto?»
«Glielo troverò io!» intervenne Collier. «So fare molto bene il mio mestiere».
«Ah!» sbottò Beck. «Neanche per sogno».
Aramis fece segno ai suoi uomini di aspettare un attimo prima di giustiziarci. Si chinò per
interrogarmi.
«Sai davvero dove trovare quel Rembrandt, giovanotto?»
«Certo che lo so» dissi. «Noi siamo dei veri cacciatori di tesori, non dei ciarlatani come quel
come-si-chiama, ah già, quel Collier».
«Non li ascolti» si intromise Nathan Collier. «Io lo posso trovare».
«No che non può» rispose Beck.
«Sì che posso».
«Non può».
«Eccome se posso!»
Proprio mentre stavano per lanciarsi in una filippica tutta loro, finalmente sentii un baccano
arrivare dal corridoio. Quello che avrebbe dovuto scatenarsi più o meno cinque minuti prima.
Si sentirono sbattere porte. Voci aspre gridare. Uno squadrone di piedi marciò attraverso il
salotto.
Poi sentii un altro fortissimo BANG seguito da un sonoro PA-PING!
Uno sparo.
«Che sta succedendo?» chiese Aramis.
Uno dei gorilla afferrò Storm per utilizzarla come scudo umano.
Grave errore.
Lei gli tirò una gomitata allo stomaco mentre colpiva un altro scagnozzo con un calcio.
Tommy neutralizzò altri tre gorilla con dei colpi di taglio che avrebbero frantumato perfino dei
mattoni. Beck ne atterrò un altro colpendolo da sotto con un calcio alle caviglie. Il tipo andò a sbattere
contro l’ultimo gorilla ed entrambi caddero a terra. La porta dello studio si spalancò.
«Giù le armi!» gridò una voce familiare.
E poi vidi i consueti occhiali a specchio.
Zio Timothy si era portato dietro una ventina di amici, tutti armati fino ai denti e con addosso
dei giubbotti antiproiettile con le scritte FBI e CIA in grossi caratteri sul davanti e sul dietro.
I cattivi, già doloranti in seguito allo scontro con i miei fratelli, furono abbastanza furbi da
accorgersi di essere in chiara inferiorità numerica e di potenza di fuoco. Lasciarono subito cadere le
armi e alzarono le mani.
«Ciao, ragazzi» disse zio Timothy. «Scusate il ritardo».
«Voialtri dovevate essere qui, più o meno, cinque minuti fa!» lo accusò Beck.
«È tutta colpa mia» si scusò il dottor Lewis, trotterellando nella stanza. «Avevo perso il
tovagliolo dove avevo scritto l’indirizzo che mi avevate dato ieri notte».
«Okay, Aramis» disse zio Timothy, «la partita è finita. Tu vieni con noi».
Passai l’urna al dottor Lewis, immaginando che sapesse come maneggiarla, essendo un esperto
di roba-antica-che-si-rompe-facilmente.
«La prego di restituirmi quell’oggetto» s’intromise Aramis quando mi vide consegnare l’antico
manufatto. «Appartiene a me».
«Davvero?» chiese zio Timothy. «E quanto vale un vaso da fiori come quello?»
Aramis stava di nuovo sogghignando. «Più di quanto lei guadagnerà in tutta la sua carriera,
agente».
«Non ha prezzo!» aggiunse Collier. Si spolverò il giubbotto, cercando di darsi l’aria di una
persona importante. «Agenti, sono un esperto in materia, e vi posso assicurare che un tesoro del genere
vale un milione di dollari, forse due».
Zio Timothy fischiò come a mostrarsi impressionato. Poi indicò con il pollice alle sue spalle. «E
tutti quei quadri nell’altra stanza? Quanto valgono?»
«Oh, non vorrei affaticare il suo piccolo cervello con un’informazione del genere» gongolò
Aramis. «Si tratta di cifre astronomiche».
«Capisco» rispose zio Timothy. «Mike? Potresti entrare un momento?»
Un uomo dall’aspetto mite con un grosso paio di occhiali entrò nella stanza.
«Questo è Michael Stewart» lo presentò zio Timothy. «Lavora per l’IRS».
Il signor Aramis e Nathan Collier apparivano confusi, perciò zio Timothy spiegò.
«Sì insomma, l’agenzia delle entrate americana. È un agente del fisco».
«So cos’è l’IRS» sbraitò Aramis. «Ma perché quest’uomo è in casa mia?»
Stavolta fu zio Timothy a sogghignare: «Credo che voglia affaticare la sua ingente massa
cerebrale, signore».
«Una semplice domanda, se non le spiace, signor Aramis» cominciò l’agente del fisco Stewart,
facendo scattare una biro mentre tirava fuori dalla sua borsa una cartelletta. «Come si è potuto
permettere tutti questi capolavori?»
«Che cosa intende?»
«Insomma, questi oggetti non sembrano certo di plastica».
Athos Aramis sembrava confuso, ma io non
lo ero affatto. L’ultimo tassello del puzzle di papà si era appena incastrato al suo posto. Mi rivolsi a
Beck sorridendo.
«Be’, non è certo di plastica!» recitammo in coro.
L’agente dell’IRS sorrise.
«Niente affatto. Abbiamo notato, signor Aramis, che l’anno scorso lei non ha pagato alcuna
imposta perché, stando alla sua dichiarazione dei redditi, non ha un lavoro, né tantomeno certificazioni
di compensi o buste paga».
Il professor Lewis ridacchiò.
«Oh-ho. Nessun lavoro. Molto divertente. Davvero molto divertente».
«Questa voleva essere una battuta?» chiese il signor Aramis. «Se lo è, non ci vedo niente di
divertente».
«Allora mi permetta di spiegarglielo» rispose zio Timothy. «Athos Aramis?»
«Sì?»
«Lei è in arresto».
«Oh, davvero? E per cosa?»
«Evasione fiscale».
Come avrete probabilmente immaginato, Beck e io avevamo organizzato la piccola incursione
con l’aiuto del dottor Lewis, dopo aver ‘guardato il quadro nel suo insieme’ e capito che mamma e
papà avevano agito come agenti infiltrati.
Avevano solo finto di lavorare per il signor Aramis in modo da aiutare la CIA, l’FBI e l’IRS a
incastrare il famigerato trafficante d’armi. Avevano bisogno delle prove che garantissero di mandare
Pirate King in prigione, per quanto potenti e altolocate fossero le sue amicizie. Sfortunatamente il
signor Aramis era abilissimo a coprire le sue tracce e a nascondere qualsiasi documento che potesse
farlo finire in galera per traffico d’armi. Perciò, la CIA aveva scelto l’Operazione Al Capone.
Proprio così. Per questo, nella Stanza, papà aveva attaccato il ritaglio di giornale sul famigerato
gangster vicino alle fotografie dei quadri del signor Aramis.
Nel 1931, Al Capone era finito in carcere non perché spacciava rum, trafficava merci di
contrabbando o faceva fuori la gente ogni due per tre. Era finito in carcere per (rullo di tamburi, prego)
evasione fiscale.
Athos Aramis stava per fare la stessa fine.
Perché, come aveva sottolineato l’agente del fisco, come poteva possedere le inestimabili opere
d’arte che sfoggiava nel suo spettacolare superattico se non aveva alcuna fonte di reddito, come aveva
riportato sulla sua dichiarazione?
Mentre gli agenti dell’FBI gli mettevano le manette e gli leggevano i suoi diritti, vidi Beck,
Tommy e Storm tirare un sospiro di sollievo.
Questa storia era finita.
Noi quattro, senza particolari supervisioni degli adulti, avevamo appena portato a termine la
missione segretissima e sotto copertura di papà.
O no?
«Aspettate un attimo!» dissi. «E mamma?»
«Il giovanotto ha assolutamente ragione» disse Aramis, che ancora sorrideva compiaciuto
malgrado avesse le mani legate dietro la schiena. «Voi potete certamente arrestarmi con questa sciocca
e infondata accusa di evasione fiscale. Ma se lo fate, state pur certi che questi quattro non rivedranno
mai più la loro madre viva».
C’è sempre il trucco, non è così? Odio quando capita.
«La sua unica speranza sta nel fatto che io autorizzi il rilascio di certa mercanzia ad alcuni
giovani molto, ma molto violenti giù a Cipro» proseguì Aramis. «Cosa che, devo confessare, non mi
sentirò invogliato a fare se mi vedrò costretto a cambiare il mio vestito italiano fatto su misura con una
tuta arancione da carcerato».
Sulla stanza scese un silenzio assoluto.
Nessuno diceva una parola.
Guardammo zio Timothy. Dopo tutto, era lui l’addestratore di mamma, il suo capo alla CIA. Se
il signor Aramis non avesse fatto la telefonata per liberare il carico di armi, Beck e io non avremmo più
dovuto imbarcarci in un’altra Filippica Gemellare sulla sorte di mamma.
Perché sarebbe morta senz’altro.
D’altro canto, non avevamo fatto tutto ciò che papà avrebbe fatto per mettere il signor Aramis
dietro le sbarre, per poi consegnargli gratis una carta Esci Di Prigione alla fine del gioco.
Zio Timothy restò in silenzio per un tempo che sembrò infinito.
Poi, finalmente, tirò fuori da una delle sue tasche un sottile telefono satellitare.
Lo porse ad Aramis.
«Fai la telefonata» disse.
Navigammo verso sud da New York verso il Nord Carolina e utilizzammo una parte dei nostri
fondi universitari per affittare una bella casa sulla spiaggia, a pochi passi dall’oceano. Ormeggiammo
La Sperduta in un porticciolo molto carino, per poterle dare una mano di vernice nuova e prepararla per
la nostra prossima avventura.
Oh, a proposito, il nostro fondo per l’università ha registrato un deposito nuovo di zecca di
cinquecentomila dollari: mezzo milione di ricompensa per avere trovato tutti quei capolavori rubati nel
superattico del signor Aramis.
Aramis ha firmato un accordo per evitare la prigione. Ma in nessun caso l’FBI, la CIA o l’IRS
gli avrebbero permesso di tenersi tutti quei tesori.
Tommy ha già stretto amicizia con la gente del posto, specialmente con una ragazza di nome
Kara Kerz.
Non vi preoccupate.
Storm ha fatto un esame approfondito dei suoi precedenti non appena abbiamo preso le sue
impronte digitali da una bottiglia di succo d’arancia. Kara Kerz non è una pirata né una surfista.
Nel frattempo, zio Timothy e la sua squadra della CIA sono sulle tracce di mamma a Cipro. A
quanto pareva, l’Agenzia era più interessata a rintracciare i terroristi ciprioti che ad arrestare Aramis.
L’intera faccenda degli agenti infiltrati faceva parte di un’operazione su scala ancora più grande.
Volevano che Aramis facesse quella telefonata satellitare proprio per poter rintracciare i movimenti
delle armi.
(Quando tua madre e tuo padre lavorano per la CIA, tutta la tua vita è come dentro a un
caleidoscopio. Non riesci mai a capire dov’è il sopra e dove il sotto.)
In ogni modo, zio Timothy nutre ‘un alto grado di fiducia’ sul fatto che la sua squadra non solo
troverà i terroristi ma anche mamma. Perciò adesso persino Beck è ottimista. Potremmo ricevere, da un
giorno all’altro, la notizia del salvataggio di ‘Mamma Orso’.
E papà? Be’, io continuo a credere che sia vivo. Da qualche parte. Probabilmente in una
missione supersegreta per la CIA, di quelle di cui nessuno può parlare. Del tipo di cui il governo
negherebbe persino l’esistenza se non si concludessero nel modo sperato.
Perciò mentre aspettiamo tutti e quattro che i nostri genitori tornino a casa sulla Sperduta,
manterremo in vita l’attività di famiglia. Cercheremo altri tesori della lista di papà. Andiamo un po’ di
fretta perché vogliamo trovare ogni singolo tesoro prima che Nathan Collier abbia un colpo di fortuna e
vada a sbatterci il naso per puro caso.
Proprio così. L’FBI ha preso in custodia Collier e lo ha interrogato. Ma non c’era nessuna prova
evidente che lo collegasse a qualcuna delle opere d’arte rubate nel covo di Aramis. Zio Timothy,
comunque, si è assicurato che Collier comprasse una nuova borsa da ginnastica a Tommy e sostituisse
la sua felpa.
«Dobbiamo tornare in mare» disse Beck mentre eravamo seduti sul portico della nostra casa
sulla spiaggia, osservando Tommy che flirtava con la sua nuova amica e Storm che costruiva un
castello di sabbia identico al Taj Mahal.
«Assolutamente» confermai.
«Presto».
«Prestissimo».
«Tipo domani».
«Domani sarebbe fantastico».
Già. Non ci sarebbero state Filippiche Gemellari su questo. La vita del cercatore di tesori
l’abbiamo nel sangue. Andare in cerca della prossima avventura, qualunque fosse, era il solo modo in
cui potevamo vivere noi Creature Selvagge.
«Ragazzi?» Beck era sul portico davanti alla nostra casa sulla spiaggia del Nord Carolina,
suonando una sirena da nebbia.
WHOMP! WHOMP! WHOMP! WHOMP! WHOMP!
Arrivarono tutti di corsa. È ancora la Regola numero uno della famiglia Kidd. Un triplo suono
significa sempre che qualcuno è nei guai e ha bisogno d’aiuto. Perciò un quarto e quinto suono
significavano qualcosa di decisamente anomalo…
Poi Beck fece risuonare un inaudito sesto WHOMP!
«Che succede?» chiese Tommy arrivando di corsa dalla spiaggia.
Storm si era scaraventata attraverso la zanzariera della porta, mulinando i suoi nunchaku.
Io avevo risalito di corsa il vialetto di fianco alla casa perché mi trovavo a un isolato di
distanza, su Main Street, dove c’era un bellissimo Internet café.
«Abbiamo appena ricevuto una mail!» gridò Beck, agitando un foglio di carta. «Da papà!»
«Impossibile» dichiarò Tommy.
«Stai scherzando!» gridai.
«Sul serio?» chiese Storm.
«Assolutamente sì. Chi altro potrebbe essere a conoscenza di questo?» esclamò Beck e lesse la
mail:
Suggerisco a voi quattro di partire alla ricerca di uno dei tesori che sono in cima alla mia lista: le
Miniere di Re Salomone. Andate in Africa e trovate il mio amico Dumaka. Spero di raggiungervi lì ma
devo prima completare la mia attuale missione per zio T. Mi spiace di essermene dovuto andare in quel
modo, nella tempesta. Ma quando è apparso l'elicottero e il pilota mi ha riferito della nuova missione,
non avevo scelta. Dovevo eseguire gli ordini.
Beck mi guardò: «Avevi ragione!»
«Sapevo che era stato un elicottero!» esclamai. «Proprio come quello che ha recuperato zio
Timothy».
«Fantastico! Un giorno lo voglio fare anch’io. Voglio essere recuperato da un elicottero. E in
mezzo a un uragano, se possibile!» disse Tommy.
Storm alzò gli occhi al cielo: «Buon divertimento, Tommy».
«Cos’altro dice?» chiesi.
«Che ci vuole molto bene e che la prossima volta che saremo di nuovo insieme ci spiegherà
tutto. Be’, tutto quello che ci può spiegare senza passare dei guai con l’Agenzia».
Beck aveva la voce un po’ strozzata quando ci lesse come papà aveva concluso la sua mail:
Non potrei essere più fiero di voi, le mie quattro splendide Creature Selvagge. Avete portato a termine
la mia missione. Mi avete reso orgoglioso di essere vostro padre. Avete salvato la vita di vostra madre.
Siete i migliori figli che un padre possa mai sperare di avere. Con tutto il mio amore, Papà
P.S. Fidatevi di zio Timothy, ma non affidategli mai e poi mai le vostre vite.
P.P.S. Rebecca, è tempo di mettere via quegli occhiali 3D. Sono serviti allo scopo. Tua madre non li
trova molto belli. Io sì, ma sono stato messo in minoranza.
Perciò, un giorno o l’altro della prossima settimana, salperemo per l’Africa.
Le mitiche Miniere di Re Salomone, piene d’oro e di diamanti, sono autentiche e aspettano solo
noi per essere riportate alla luce. Papà e mamma potrebbero unirsi a noi nella ricerca.
Se la CIA riuscirà a portare a termine il suo piano per salvare mamma.
E se papà è effettivamente vivo.
La mail che ha letto Beck? L’ho scritta io. Zio Timothy mi ha spiegato come mandarla
dall’Internet café lì vicino, in modo che apparisse molto più autentica di quella falsa con cui Beck
aveva cercato di fregare il poliziotto quando stavamo scappando dalle Isole Cayman.
Ehi, vi avevo avvertito di non credere a tutto ciò che leggete.
Naturalmente, ciò non significa che non sia vero.
Perché nel profondo del mio cuore penso davvero che papà e mamma siano ancora vivi. Anzi,
loro sono i due tesori in cima alla mia lista.
E a quella di Beck.
Come faccio a esserne sicuro?
Facile.
Siamo gemelli.
Indice
Nota a margine di Bick Kidd
Prologo. Dispersi in mare
Capitolo 1
Capitolo 2
Parte prima. Acque infestate dai pirati
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Parte seconda. La mappa del tesoro del re pirata
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 40
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Parte terza. Nel palazzo del re pirata
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Capitolo 56
Capitolo 57
Capitolo 58
Capitolo 59
Capitolo 60
Capitolo 61
Capitolo 62
Capitolo 63
Capitolo 64
Capitolo 65
Capitolo 66
Capitolo 67
Epilogo
Capitolo 68
Capitolo 69
Capitolo 70
Per essere informato sulle novità
del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
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Titolo dell’originale inglese
MIDDLE SCHOOL. THE WORST YEARS OF MY LIFE
Traduzione di Pietro Formenton
Lettering italiano di Studio Plancton
Dedicato a Lexi Winchester e alla dottoressa Rebecca van der Bogert,
direttrice della Palm Beach Day Academy
J.P.
Per Jonathan
C.T.
Uno speciale ringraziamento a Sam Jefferies,
Alfi Leach, Ben Gregory e Joe Gregory.
Copyright © 2011 by James Patterson
Illustrations by Laura Park
This edition published by arrangement with Little, Brown and Company,
New York, New York, USA. All right reserved.
Copyright © 2013 Adriano Salani Editore s.u.r.l.
ISBN 978-88-6715-496-8
Prima edizione digitale 2013
Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
capitolo 1
IL MIO NOME È RAFE
KHATCHADORIAN,
EROE TRAGICO
Aessere davvero onesti, quanto davvero è schifosa questa giornata, devo iniziare questo
racconto di assoluta disperazione e sventura con me, la mia disgustosa sorella Georgia e Leonardo il
Taciturno seduti come sardine avariate sul retro di un’auto della polizia del Dipartimento di Hills
Village.
Insomma, un patetico quadretto familiare di cui non vorreste mai fare parte, credetemi. Ma
dello sfortunato incidente con la polizia parlerò più tardi. Devo prima farmi coraggio per raccontarvi la
storia di quel disastro.
E comunque ta-daa, eccola qui, amanti dei libri e tutti voi che avete bisogno di qualche nota di
merito a scuola, l’autentica autobiografia della mia vita fin qui. I temutissimi anni delle medie. Se vi è
mai capitato di frequentare una scuola media, avete già capito. Se non siete ancora arrivati alle medie,
lo capirete presto.
Ma diciamolo chiaramente: capire me, intendo dire capire davvero me e la mia stramba vita,
non è così facile. Ecco perché faccio così fatica a trovare gente di cui fidarmi. La verità è che non so di
chi mi posso fidare. Perciò in generale non mi fido di nessuno. A parte mia madre, Jules. (Insomma,
quasi sempre.)
E dunque... vediamo se posso fidarmi di voi. Per prima cosa, un minimo di antefatto.
Comunque questo sono io mentre arrivo alla ‘prigione’ (meglio nota come Scuola Media di
Hills Village) sulla quattro per quattro di Jules. Il disegno è opera di Leonardo il Taciturno. Per tornare
a noi, in effetti c’è un’altra persona di cui mi fido. E questo è Leonardo. Leo è un Pazzo con la P
maiuscola, e pure un Fuori-di-testa con la F maiuscola, ma riesce a tenere i piedi per terra.
Ed ecco qualcun altro di cui non mi fido più di quanto non riuscirei a scaraventare per terra una
camionata di pianoforti.
Vi presento la signorina Ruthless Donatello, ma potete chiamarla semplicemente Lady Dragon.
Insegna inglese alle prime, ma si occupa anche della mia materia preferita di quest’anno: reclusione
forzata a scuola dopo le lezioni.
E poi c’è la signora Ida Stricker, la vicepreside. Ida è responsabile di ogni singolo respiro che
venga esalato alla SMHV.
Quest’altra invece è Georgia, la mia super ficcanaso, super odiosa e super rompiscatole sorella,
la cui unica dote è di somigliare a mamma quando era in quarta elementare.
C’è altra gente sulla mia lista, e più tardi arriveremo anche a loro. O forse no. Non sono del
tutto sicuro di come andrà questa faccenda. Come avrete probabilmente immaginato, questo è il mio
primo libro vero e proprio.
Ma parliamo ancora un po’ di noi.
Certo mi piacerebbe fidarmi di voi, ma come faccio a farlo, con tutte le mie imbarazzanti
questioni personali tipo la storia disastrosa dell’auto della polizia? Che tipi siete voi? Insomma, che tipi
siete nel profondo?
Siete fondamentalmente delle persone perbene, gente rispettabile? E chi lo dice? Lo dite voi?
Lo dicono i vostri genitori? Lo dicono i vostri fratelli e sorelle?
Okay, per restare nello spirito di una possibile amicizia (e questo per me è qualcosa di molto ma
molto serio) vi faccio un’altra confessione.
Questo era il mio vero aspetto quando sono arrivato a scuola, quella prima mattina di prima
media. Siamo ancora amici o siete già scappati?
Ehi, non scappate, okay? In effetti mi piacete. Dico davvero. Quantomeno sapete ascoltare. E
credetemi, ho una gran bella storia da raccontarvi.
capitolo 2
LA SCUOLA MEDIA/
CARCERE DI MASSIMA
SICUREZZA
Okay, provate a immaginare il giorno in cui è nata la vostra tris-trisnonna. Ci siete? Adesso
andate indietro di un altro centinaio d’anni. E poi di altri cento. È più o meno allora che fu costruita la
Scuola Media di Hills Village. Naturalmente credo che all’epoca fosse una prigione dei Padri
Pellegrini, ma non è che sia cambiata molto. Adesso è una prigione per quelli di prima, seconda e terza.
Ho visto abbastanza film da sapere che appena arrivi in prigione hai sostanzialmente due scelte:
1) picchi qualcuno a sangue in modo che tutti gli altri pensino che sei pazzo e ti stiano alla larga,
oppure 2) chini la testa, cerchi di confonderti con gli altri e di stare lontano dal loro lato peggiore.
Avete visto che tipo sono, perciò avrete indovinato quale sia stata la mia scelta. Appena arrivato
in aula magna mi avviai direttamente all’ultima fila e mi sedetti il più lontano possibile dalla cattedra.
Quel piano aveva un solo problema, e il suo nome era Miller. Miller il Killer, per l’esattezza. È
impossibile stare lontani dal lato peggiore di Miller, perché è l’unico che ha.
Ma io ancora non lo sapevo.
«E così vuoi sederti in ultima fila?» disse.
«Sì» dissi io.
«Non sarai per caso un piantagrane o roba simile?» disse lui.
Io mi limitai a stringermi nelle spalle. «Non lo so. Non credo».
«Perché è qui che si siedono tutti i teppisti» disse, avvicinandosi di un passo. «E tu ti sei seduto
al mio posto».
«Io non vedo il tuo nome sulla sedia» gli dissi io, e stavo giusto iniziando a pensare che forse
era la cosa sbagliata da dire quando Miller mi afferrò per il collo con una mano taglia XXXL e iniziò a
sollevarmi come un manubrio da cinquanta chili.
Di solito mi piace tenere la testa attaccata al resto del corpo, perciò mi alzai in piedi come
voleva lui.
«Proviamoci di nuovo» disse. «Questo è il mio posto. Capito?»
Ovviamente capii. Ero in prima media da circa quattro minuti e mezzo e già mi trovavo sulla
schiena un bersaglio arancione fosforescente. Bel modo di confondersi con gli altri.
E non fraintendetemi, non sono un totale smidollato. Datemi qualche altro capitolo e vi
mostrerò di cosa sono capace. Nel frattempo però decisi di spostarmi in un’altra parte dell’aula.
Insomma, in una zona meno rischiosa per la mia salute.
Ma a quel punto, quando feci per sedermi di nuovo, Miller mi chiamò ad alta voce. «Ah-ah»
disse. «Anche quel posto è mio».
Potete immaginarvi il resto.
Quando arrivò il nostro insegnante, il signor Rourke, io me ne stavo lì in piedi a domandarmi
come sarebbe stato passare i successivi nove mesi senza sedermi.
Rourke mi guardò da sopra la punta degli occhiali. «Mi scusi, signor Khatch... Khatch-a...
Khatch-a-dor...»
«Khatchadorian» gli dissi.
«Salute!» gridò qualcuno, e l’intera classe scoppiò a ridere.
«Silenzio!» sbottò il signor Rourke mentre cercava il mio nome sul registro. «E come stai, oggi,
Rafe?» disse, con un sorriso mieloso.
«Bene, grazie» risposi.
«Trovi scomode le nostre sedie?» mi chiese.
«Non esattamente» dissi, perché non potevo certo scendere nei dettagli.
«E allora SIEDITI. ADESSO!»
A differenza di Miller il Killer, il signor Rourke aveva sicuramente due lati, e li avevo già
conosciuti entrambi.
Dato che nessuno era così stupido da sedersi esattamente davanti a Miller, quella era l’unica
sedia libera in tutta l’aula.
E dato che a volte io sono il più grosso idiota del mondo, non mi guardai alle spalle quando feci
per sedermi. E fu così che quando mi abbassai lo feci proprio del tutto, intendo fin giù sul pavimento.
La buona notizia? Considerato come avevo iniziato, mi immaginai che da lì in poi la scuola
media non poteva che migliorare.
La cattiva notizia? Mi sbagliavo sulla buona notizia.
CONTINUA...
Guarda cosa combina Rafe in questo video!
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