PAG 1 - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
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ARTAUD HOMME THÉÂTRE Estratti da tre trasmissioni per Rai3 di Ferruccio Marotti (1964) Artaud nasce a Marsiglia da una famiglia benestante di armatori navali. Una meningite devastante fin dall’età di cinque anni gli determina progressivi pesanti problemi di nervi. Poco più che ventenne si trasferisce a Parigi per curarsi e con il desiderio di diventare attore e di scrivere poesie. Invia le sue composizioni alla Nouvelle Revue Française e il direttore Jacques Rivière gli scrive rilevando alcune manchevolezze linguistiche. Artaud risponde spiegando, in una serie di lettere appassionate, come quelle manchevolezze siano in realtà “delle erosioni, degli sprofondamenti centrali dell’anima” dovuti alla sua malattia, che gli impedisce di essere completamente padrone di sé. Rivère, colpito e commosso, gli propone di pubblicare i suoi poemi insieme con la loro corrispondenza. Artaud accetta e da quel momento diviene il caso clinico letterario più famoso in Francia. In quegli anni Artaud viene iniziato al teatro nell’Atelier di Charles Dullin. Si era ai primi del 1922. L’Atelier non era una semplice compagnia, ma un laboratorio di ricerche. Era insieme un teatro e una scuola in cui si applicavano dei principi di insegnamento che avevano per fine di interiorizzare la recitazione. Artaud vi prese coscienza del proprio essere teatrale, rompendo insieme con la conversazione scenica, la barriera tra teatro e vita. BARRAULT Senza dubbio insoddisfatto delle gioie artificiali che procura il teatro, Artaud traspose le proprie possibilità teatrali nella vita. Visse autenticamente il proprio personaggio e si consumò con esso. Divenne teatro. La sua vita è esattamente una tragedia. Artaud era innanzi tutto poeta. Egli era un meraviglioso scrittore, ma era anche attore. Ed era da poeta che aveva sempre recitato. Aveva recitato con Dullin agli inizi dell’Atelier. Un giorno, in un’opera che metteva in scena Dullin, e in cui Artaud interpretava la parte di Carlo Magno, durante una prova Artaud avanza verso il trono a quattro zampe. Dullin temeva Artaud e le sue reazioni; tuttavia, quel salire sul trono a quattro zampe, gli sembrava… un po’ troppo… stilizzato. Con molta precauzione Dullin cerca di dissuadere Artaud da questa interpretazione e tenta di convincerlo ad una stilizzazione più verosimile. Ma Artaud si leva di scatto e, rizzando in alto un braccio, con atteggiamento imperiale gli grida: Ah, se voi lavorate nella verità! Allora………! DULLIN Artaud adorava i nostri lavori di improvvisazione e vi portava una vera immaginazione di poeta. Io ero attratto dalla tecnica dei teatri orientali, ma egli andava in questo senso già molto più lontano di me, e da un punto di vista pratico la cosa diveniva talvolta pericolosa: come quando per esempio, nel Piacere dell’onestà di Pirandello, in cui faceva la parte di un uomo d’affari, mi arrivò in scena con un trucco ispirato alle maschere di cui si servono gli attori cinesi: trucco simbolico, che era leggermente fuori posto, in una commedia moderna… TOURRET Dullin non intendeva relegare gli attori in parti stereotipate: quello che un giorno faceva l’ingenuo, l’indomani faceva il delinquente. Ebbene, non ci posso far niente se, in quegli anni in cui Artaud debuttava nel teatro, recitava bene solo parti di traditori, miserabili, allucinati, psicopatici, perversi, monomani, drogati, folli. L’Artaud autentico, violentemente individualista, venne fuori, a partire dal 1924, dall’avventura del surrealismo. Dapprima si applicò, con foga eversiva, contro le strutture accademiche del teatro. Come nella famosa lettera all’amministratore delle commedie francesi, il tempio del teatro nazionale. Ma ben presto questa esigenza rivoluzionaria prese forma in un esperimento teatrale che rompeva con i dogmi di chiarezza e di ordine tradizionali nella cultura francese: il teatro che, nel nome di uno dei precursori dell’avanguardia, Artaud volle chiamare Teatro Alfred Jarry. SURREALISTA Noi surrealisti lanciammo alla società questo avvertimento solenne: che faccia attenzione ai suoi errori, a ciascuno dei passi falsi del suo spirito; noi non glieli perdoneremo. A ciascuno dei tornanti del suo pensiero la società ci ritroverà. Noi siamo specialisti della rivolta, non c’è mezzo che non siamo capaci, al bisogno, di imparare. ARTAUD Signori della commedia francese, voi siete degli autentici coglioni. Ai piedi della solennità voi deponetele le vostre cacate come l’arabo ai piedi delle piramidi. La vostra stessa esistenza è una sfida allo spirito. Noi guardiamo più in alto della tragedia, pietra angolare della vostra baracca appestata, e il vostro Molière non è che un coglione. Ma non si tratta della tragedia. Noi rifiutiamo al vostro apparato digerente il diritto di rappresentare qualunque cosa del teatro, passato, avvenire e presente. L’onnipotenza del sentimento è abbastanza forte da non permettere che si prostituisca a caso. Il teatro è la terra del fuoco, è l’acume del cielo, la battaglia dei sogni. Il teatro è la solennità. Largo al teatro, signori, largo al teatro di tutti coloro ai quali basta il campo illimitato dello spirito. Il teatro Alfred Jarry, fondato nella primavera del 1927, debuttò nel giugno dello stesso anno al Teatro des Grenelles, l’anno successivo ed ultimo passò alla Comédie des Champs Elisées dove diede tre spettacoli. Tutti gli spettacoli furono provati per intero una sola volta, durante la notte o il mattino precedente lo spettacolo. Qualcuno direttamente in scena, perché il Teatro Jarry non ebbe mai né una vera compagnia, né una sede. Artaud se ne frega della rivoluzione? ARTAUD Me ne frego della vostra, e della mia. (Esplosioni, armonie fratte, rumori, smorzarsi di suoni; la musica darà l’impressione di un cataclisma lontano che cade come da un’altezza vertiginosa. Degli accordi si accennano e degradano, passano da un estremo all’altro. Diversi piani di suoni). ARTAUD Ci sono delle bombe da mettere da qualche parte, alla base delle abitudini del pensiero attuale, europeo o non europeo. (I rumori si propagheranno a ondate, intervallati da un telegrafo morse applicato, che sarà, nel linguaggio morse, quello che è la musica delle sfere interpretata da Bach.) ARTAUD Noi siamo dal punto di vista spirituale in un’epoca critica. Noi crediamo alle minacce dell’invisibile, ed è anche contro l’invisibile che lottiamo. Noi siamo interamente applicati a dissotterrare un certo numero di segreti, e vogliamo mettere in luce questo groviglio di desideri, di sogni, di illusioni, di credenze che hanno approdato ad una menzogna nella quale nessuno più crede, che quasi per derisione si chiama il teatro. (grida di strada, voci diverse, rumore infernale) ARTAUD Per me il teatro è i miei nervi, io cerco un teatro di nervi, cospargo il teatro di gridi, di gemiti, di contorsioni, di lamenti. Perché se il testo non serve a far sussultare lo spettatore sulla sedia, a cosa serve? (Grida di strada, voci diverse, rumore infernale. I testi che seguono sono rotti da lampi di grida, da rumori, da ondate sonore che coprono tutto. E una voce ossessiva, enorme annuncia una cosa che non si capisce, in crescendo.) VOCI VOCE – VINO, BICCHIERI VOCE – BIRRA? GELATI VOCE – IL PLATINATO MIA CARA VOCE – BIONDO MALVA… SOLE E CARNE VOCE – LA MANO OSA APPENA LEVARE LA MANO? VOCE – LA LETTERA, VOGLIO LA LETTERA VOCE OSSESSIVA, ENORME IO VI DICO CHE… IO ANNUNCIO CHE… IO VI ANNUNCIO CHE…. UN GRANDE, UN GRANDE, UN ENORME UN ENORME……… ARTAUD Abbiamo bisogno di credere a qual che vediamo. Abbiamo bisogno che lo spettacolo cui aspiriamo sia unico, imprevedibile come qualsiasi atto della vita. VOCE – EH VECCHIO MIO, IL VISO TUTTO COPERTO DI MACCHIE DI ROSSORE SPORCO CORNUTO UN’ARIA MALATA IO VI DICO CHE… IO ANNUNCIO CHE IO VI ANNUNCIO CHE UN GRANDE, UN GRANDE UN ENORME UN ENORME…………. ARTAUD Il Teatro Jarry non bara con la vita, non la scimmieggia, non la illustra, mira a essere una specie di operazione magica. VOCE – l’astronomo dice che le macchie Non ho mai visto un sole così Grande Come l’eclissi del 1912 Il grano cresce, l’oro cala La polvere copre tutto IO VI DICO CHE… IO ANNUNCIO CHE IO VI ANNUNCIO CHE UN GRANDE, UN GRANDE UN ENORME UN ENORME…………. ARTAUD Non è allo spirito o ai sensi degli spettatori che noi ci indirizziamo, ma a tutta la loro esistenza, alla loro e alla nostra. Noi giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena. (Ben presto le voci, i rumori, le grida, stranamente si stemperano come risucchiate verso l’alto da trombe d’aria. Un’isterica si lamenta, un bambino piange con immensi e terribili lamenti.) (Brusca sospensione. Tutto ricomincia. La scena si riempie di gente che corre.) VOCE – Là, là cos’è? No, non là, ti dico che è là. La macchia, guarda la macchia, no ma guarda questa macchia. ARTAUD Nel teatro che noi vogliamo fare, il rischio sarà il nostro Dio. Non abbiamo paura di nessuno scacco, di nessuna catastrofe. Se non avessimo fede in un miracolo possibile, non ci impegneremmo in questa via piena di alea. Ma un miracolo solo è capace di ricompensarci dei nostri sforzi e della nostra pazienza. È su questo miracolo che noi contiamo. VOCE – Sono le dieci di sera. È la luna o il sole questo? UN RAGAZZO DI VITA – È la luna, idiota, mai vista la luna rossa? UN BAMBINO – Mamma se la luce se ne va tu diventerai cieca? ARTAUD Ecco con quale angoscia umana lo spettatore deve uscire da noi. Egli sarà scosso e strigliato del dinamismo interiore dello spettacolo che si svolgerà davanti ai suoi occhi. Questo dinamismo sarà in diretto rapporto con le angosce e le precauzioni di tutta la sua vita. (ondeggiamento, la gente litiga per vedere) VOCE – guarda là, scemo; è là È nel cielo, il cataclisma è nel cielo La luna cade, ti dico che la luna cade. Guardale: si stacca, cade Ma che cada e che tutto crepi Di’ loro di dove viene il mio amore, o augusto selenita Altro che amore, la volta azzurra cade Ah, mio Dio, è vero, è proprio vero! ARTAUD Se noi facciamo un teatro non è per dare delle opere, ma per arrivare a che tutto quel che c’è di oscuro nello spirito, di sepolto, di irrivelato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale. STRILLONI DI GIORNALI – GRANDE SCOPERTA. LEGGETE LA GRANDE SCOPERTA. UFFICIALE. LA SCIENZA SCONVOLTA. UFFICIALE! NON C’È PIÙ FIRMAMENTO. NON C’È PIÙ FIRMAMENTO. VOCE – Ma CHE DICONO, ma che raccontano? (Un attimo di calma. Poi da molto lontano altre voci riprendono con una nuova invasione di strilloni. Si sente il nome di SIRIO, pronunciato a tutti i toni e tutti i diapason della gamma, che cresce amplificandosi.) VOCI – SIRIO SIRIO SIRIO. IL GOVERNO RACCOMANDA LA CALMA VOCE – Andate a dormire, razza di visionari Ma io non comprendo quel che succede, ho paura, ne ho abbastanza. Ardo Mamma eccola, eccola, la vedo cadere! Caro leggimi il giornale. Non capisco niente; che cosa succede? IL GOVERNO RACCOMANDA LA CALMA VOCE D’UOMO IN PRIMO PIANO – Ecco, ecco io so. Ascoltate: ecco la verità. (si stabilisce il silenzio) ARTAUD Tutto quel che appartiene all’illeggibile e al fascino magnetico dei sogni, tutto ciò, questi angoli oscuri della coscienza che sono tutto quel che ci preoccupa nello spirito, noi vogliamo vederlo raggiare e trionfare sulla scena, a costo di perderci da noi stessi e di esporci al ridicolo di uno scenario colossale. VOCE DI ALTOPARLANTE – IMMENSA SCOPERTA. IL CIELO MATERIALMENTE ABOLITO. LA TERRA È A UN MINUTO DA SIRIO, NON C’È PIÙ FIRMAMENTO. LA TELEGRAFIA CELESTE È COSA FATTA. È STATO FISSATO IL LINGUAGGIO INTERPLANETARIO. (Gioia e disperazione della folla. La folla sciama. Suono d’organo di Barberia, voci.) Ecco, comprendi, è basato su… Ma, vecchio mio, uno scatenamento di forze prodigiose. Non si tratta di forza, si tratta di volatilizzazione Di che……? Di alterazione della materia. VOCE DRAMMATICA – È la fine di tutto. Non si liberano forze come questa. Sono due mondi che entrano l’uno nell’altro. È come se la terra saltasse nel cielo. (Avanza un canto lontano e rivoluzionario.) ARTAUD Lo spettatore andrà ormai a teatro come va dal chirurgo e dal dentista. Con lo stesso stato d’animo, con la consapevolezza che non morirà, ma che è grave e che non ne uscirà intatto. Deve essere ben persuaso che noi siamo capaci di farlo gridare. (Mentre il canto cresce, scoppiano delle dispute isolate. Scambio di insulti. Fischi. Due ritmi di tam tam, l’uno cavernoso, l’altro molto acuto, dissonate, si mescolano alla confusione.) ARTAUD Tutto quel che proviene da un errore fecondo dello spirito, da una illusione dei sensi, il contatto di sentimenti e cose che colpiscono innanzi tutto per la sorta di densità materiale, saranno presentati sotto un angolo insolito, nella loro pura brutalità, in rilievo e maleodoranti, come appaiono allo spirito, e lo spirito ne conserva memoria. (Gente che corre. Donne terrorizzate.) VOCE – – Ci siamo, arrivano. Ancora Oh, ma non ho ancora finito (due volte) Ecco, vedi, ora la rivoluzione. Ma no, guardiamo bene; è Sirio? Altroché. Sirio. Io ti dico che questi si rivoltano. (Terribili sirene di polizia, corse folli. Il frastuono cresce, i canti e la confusione divengono terribili.) ARTAUD Cosa di più obbiettivo e insieme di più sinistramente terribile dello spettacolo di uno spiegamento di polizia. Quando la polizia prepara una retata si direbbe l’evoluzione di un balletto, una specie di solennità dolorosa si sprigiona da tutti i movimenti. (Nel mezzo della confusione di voci e di sirene si apre un vuoto di silenzio. Poco a poco un rumore di tamburo bizzarro copre tutto; rumore quasi umano che comincia acuto e finisce sordo. Un corpo, un canto di rivolta, acquista un diapason prodigioso, cresce in forza e in profondità, e risponde come una litania al rumore del tamburo.) (Il coro scandisce le sue parole su un ritmo che precipita.) - Parassita, che cosa vedi, parassita? - Io vedo la gran fifa di gonzi e l’itterizia. - Parassita, che cosa senti, parassita? - Il tuono e lo squarciarsi della terra che lascia il campo. - Parassita, che vedi parassita? - La morte, la rapina, la malattia, il sangue, la lordura, l’incendio. - Parassita, che vedi parassita? - Il vuoto, il vuoto, il vuoto, è la fuga dei possidenti. (Una calma feroce irrompe ad ondate, dei motori d’aereo provocano dei formidabili turbini di vento.) ARTAUD Un’opera che sia una sintesi di tutti i desideri e di tutte le torture, che sia come il crogiuolo di una rivolta che, teatralmente, assocerà il massimo dell’espressione col massimo dell’audacia; che sarà come la dimostrazione di tutti i possibili procedimenti di messa in scena; che nel minimo di spazio e di tempo raccoglierà il maggior numero di situazioni; dove gli aspetti di una stessa situazione teatrale appariranno sotto l’evidenza del loro aspetto oggettivo; in cui cercheremo infine di esprimere in un’epopea la fisionomia di tutto il teatro come lo concepiamo. (Il canto si fonde, travolgendo le parole, un concerto di gridi si leva, dove si sente la fame, il freddo, la rabbia, dove emergono singhiozzi, rantolii di bestie, lamenti di animali, e con questo concerto la folla si disperde e lascia la scena, rientra poco a poco in una notte vocale, luminosa e strumentale.) ARTAUD Il teatro partecipa di quel discredito nel quale cadono una dopo l’altra tutte le forme d’arte. Nel mezzo della conclusione, dell’assenza, dello snaturamento di tutti i valori umani, di questa angosciosa incertezza in cui siamo immersi, che investe la necessità e il valore di qualsiasi forma d’arte, di qualsiasi attività dello spirito, l’idea di teatro è probabilmente la più colpita. (Si sentono delle voci soffocate, sorde, come una sacrestia in un giorno di festa religiosa o di funerale. Le voci a gruppi si avanzano; da un gruppo all’altro il tono è diverso, cambia di accento, di diapason, di velocità. Su tutto un passo pesante, come il passo d’uno scafandro su una strada concava. Al suo passaggio si sentono le espressioni seguenti. A momenti le voci dei sapienti soffiano come ghiandaie su fili telegrafici, a momenti gracchiano come corvi, a momenti muggiscono come buoi o soffiano come ippopotami.) ecco è lui… quello che pretende… ma è innegabile che siano rimasti colpiti, colpiti io per me non ci credo insomma, potrebbe sopprimere lo spazio comunque Sirio ha risposto, ma in questo modo è la fine del mondo, ma è un crimine, un crimine, ed è già iniziato - dice che lui se ne frega: la scienza sopra ogni cosa - ma state tranquilli, è tutto un bluff, non si è fatto mai nulla di simile, non siamo ancora a quel punto - sì, sì per fortuna non siamo ancora a quel punto. La fine del mondo è cosa per i libri. Noi non vedremo l’anticristo. - Sono dei sogni, è un’utopia - Dice che ha trovato la radiazione istantanea - Ma la radiazione istantanea è la fine del cosmo - Già, la fine del cosmo. (sul boato prolungato di un’esplosione nucleare, urli di sirene, nel punto estremo del loro diapason) - ARTAUD Nell’epoca di sgomento in cui viviamo, epoca sovraccarica di blasfemi e di fosforescenze di un rinnegamento infinito, dove tutti i valori sembrano fondersi in un abisso di cui non c’è mai stato nulla che possa darci un’idea, ho avuto la debolezza di pensare che potessi fare un teatro, che potessi almeno accennare questo tentativo di ridar vita al valore universalmente disprezzato del teatro; ma la bestialità degli uni, la cattiva fede e la canaglieria degli altri me ne hanno ormai per sempre dissuaso. L’esperienza del Teatro Jarry si conclude per Artaud in un disastro, anche perché viene rumorosamente sabotato dai surrealisti amici di Breton. Premuto da esigenze economiche, egli si rivolge per collaborazione al famoso regista e attore Louis Jouvet, cercando anche di riprendere il filo del proprio racconto. ARTAUD Se il Teatro Jarry non è più, io vivo ancora, disgraziatamente per me, e mi trovo attualmente in una situazione pietosa. Ho urgente bisogno di lavoro e ho pensato che voi non potreste non darmi una mano. Infine spero che non mi giudicherete sulla base delle rappresentazioni del Teatro Jarry: voi sapete meglio di me come la messa in scena è una cosa in sostanza indiretta, e come si viene traditi dagli attori innanzitutto, e dalle circostanze poi. Io posso dire che tradito lo sono stato al massimo. Ma la collaborazione con gli altri uomini di teatro francesi, che lo ammirano ma diffidano dei suoi modi di visionario, è difficile. Così Artaud si dedica con sempre maggiore frequenza al cinema. È soprattutto un modo di guadagnarsi la vita, ma gli permette anche di immaginare soggetti e scenari, solo in parte realizzati e sempre traditi nel loro spirito (tra essi famoso quello della Coquille et le Clergiman, che nella realizzazione di Germaine Dulac provocò le ire di Artaud). In questi soggetti cinematografici Artaud prosegue l’eterna inchiesta sulla propria afasia, come appare esemplarmente dallo scenario mai realizzato I 18 secondi dove Artaud tocca uno dei lati più misteriosi della vita e rivela strane tenebre in una luce di purezza glaciale. ARTAUD In una strada, la notte, sul bordo di un marciapiede, sotto un lampione a gas, un uomo in nero, lo sguardo fisso. Un orologio, la lancetta segna i secondi. Al diciottesimo secondo il dramma sarà terminato. (inizia la scansione dei secondi) Il tempo che sta per scorrere è un tempo interiore, interno all’uomo che pensa. Quest’uomo è un attore. (si interrompe la scansione dei secondi) ARTAUD Io non potrò fare niente finché non sarò guarito. Avevo cessato di credermi malato, ma con tutta la mia lucidità…… (riprende la scansione dei secondi) ARTAUD …è sul punto di raggiungere la gloria e di conquistare il cuore di una donna che ama da tempo. È stato colpito da una malattia bizzarra. È divenuto incapace di possedere i propri pensieri; ha conservato intatta la sua lucidità, ma qualsiasi pensiero gli si presenti, non può dargli una forma esteriore, cioè tradurlo in gesti e parole appropriate. Gli mancano le parole necessarie, non rispondono più al suo richiamo, ed è ridotto a veder sfilare dentro di sé null’altro che immagini, immagini per giunta contraddittorie e senza rapporto tra loro. (si interrompe la scansione dei secondi) ARTAUD Avevo cessato di credermi malato, ma con tutta la mia lucidità, l’orribile compressione della testa e della parte alta della colonna vertebrale, il petto compresso, le idee di sangue e di assassinio. (riprende la scansione dei secondi) ARTAUD Questo lo rende incapace di mescolarsi con la vita degli altri e di svolgere un’attività. Egli può avere tutto, sì, tutto, eccetto il possesso del suo spirito. Ma che cos’è infine lo spirito, in che cosa consiste? Se solo si potesse essere padroni della propria persona fisica, avere tutti i mezzi, potersi servire delle proprie mani e del proprio corpo. (si interrompe la scansione dei secondi) ARTAUD Il petto compresso, le idee di sangue e di assassinio, i torpori, le debolezze innominabili, l’orrore generale nel quale mi trovo immerso… (riprende la scansione dei secondi) ARTAUD 18 secondi sono appena trascorsi. Egli contempla un’ultima volta il proprio destino miserabile, poi senza esitazione, né emozione alcuna, tira fuori un revolver dalla tasca e si spara un colpo alla tempia. ARTAUD Le idee di sangue e di assassinio, i torpori, le debolezze innominabili, l’orrore generale nel quale si trova immerso con uno spirito nel fondo intatto, rendono inutilizzabile questo spirito. Dal continuo riproporsi delle idee di sangue e di assassinio, dall’orrore generale nel quale si sente immerso, dall’apparente disperazione dei suoi anni Trenta Artaud matura la pienezza della propria poetica teatrale. L’occasione di questa rivelazione a se stesso, gli è provocata dalla visione di uno spettacolo dato all’esposizione coloniale del teatro dell’isola di Bali. Il teatro di Bali realizza per Artaud col più estremo rigore l’idea di un teatro puro; un teatro che non esiste se non nel suo grado di oggettivazione scenica e mostra la preponderanza assoluta del regista, il cui potere creativo elimina le parole, traducendo tutti gli elementi dello spettacolo in immagini animate. Nel 1932 la Nouvelle Revue Française pubblica il primo manifesto del teatro della crudeltà. L’anno dopo Artaud fonda la società anonima del teatro della crudeltà e pubblica il suo secondo manifesto. Il 6 aprile, alla Sorbonne tiene una conferenza sul tema della peste, che dei manifesti ci restituisce l’immagine viva e traumatica. ARTAUD Insorta la peste in una città, le strutture regolari crollano; si accendono roghi per bruciare i morti. Già i morti ingombrano le strade, piramidi crollanti, di cui gli animali rodono i bordi. Il fetore sale nell’aria come una fiamma. Allora si aprono le case, e appestati deliranti, con l’anima colma di spaventose immagini, si riversano urlando per le strade. Nelle case aperte entra la feccia della popolazione, come immunizzata dalla sua stessa cupida frenesia, e saccheggia ricchezze di cui sente che è inutile approfittare. È allora che il teatro si insedia. Il teatro, cioè la gratuità immediata che spinge ad atti inutili e senza profitto per il presente. Come la peste, il teatro è un delirio, un delirio comunicativo. Se il teatro è come la peste non è solo perché agisce su importanti collettività e perché le sconvolge nel medesimo senso. C’è nel teatro come nella peste qualcosa di vittorioso e di vendicatore al tempo stesso. Gli ultimi superstiti si esasperano, il figlio, fino a quel momento sottomesso e virtuoso; l’uomo morigerato sodomizza i familiari. Il lussurioso diventa puro, l’avaro getta l’oro a manciate dalla finestra. Se il teatro essenziale è come la peste, è perché come la peste è la rivelazione, la spinta in avanti, verso l’esterno, di un fondo di crudeltà latente, per il quale si localizzano su un individuo o su un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito. Come la peste esso è il tempo del male, il trionfo delle forze nere che una forza ancora più profonda alimenta fino all’estinzione. Il teatro, come la peste, è fatto a immagine di questa carneficina, di questa essenziale separazione. Esso risolve conflitti, libera forze, scatena possibilità, e se queste forze sono nere la colpa non è della peste o del teatro ma della vita. Quello che Artaud propone è una rivoluzione tecnica e spirituale del linguaggio scenico, in cui la parola crudeltà serve ad indicare il carattere assoluto e totale, l’intransigenza e l’irreversibilità sconvolgente che coinvolge integralmente la persona umana. ARTAUD Io non coltivo sistematicamente l’orrore. Questa parola, crudeltà, deve essere presa in un senso ampio, e non nel senso materiale e rapace che le è dato abitualmente. Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. Io impiego la parola crudeltà nel senso di appetito di vita, di rigore cosmico e di necessità implacabile, nel senso gnostico di turbine di vita che divora le tenebre, nel senso di questo dolore, fuori dalla cui necessità ineluttabile, la vita non saprebbe esercitarsi. Lo sforzo è una crudeltà. L’esistenza attraverso lo sforzo è una crudeltà. Uscendo dal suo riposo e distendendosi fino all’essere, Brahma soffre di una sofferenza che rende forse delle armonie gioiose, ma che all’estremità ultima della curva non si esprime più che con un orribile stritolamento. Io credo nell’azione reale del teatro, ma sul piano della vita. La questione che si pone è di permettere al teatro di ritrovare il suo vero linguaggio, linguaggio spaziale, linguaggio di gesti, di atteggiamenti, di espressione e di mimiche, linguaggio di gridi e di onomatopee, linguaggio sonoro, in cui tutti gli elementi oggettivi sfoceranno in segni sia visuali sia sonori, ma che avranno importanza intellettuale e significato sensibile tanto quanto il linguaggio delle parole. E io conto di provare a fare, attorno a un tema conosciuto, popolare o sacro, uno o più saggi di realizzazione teatrale, in cui i gesti, gli atteggiamenti, i segni, si inventeranno di volta in volta che saranno pensati, e direttamente sulla scena. In cui le parole nasceranno per concludere e fare sfociare in un ambito riconosciuto questi discorsi lirici fatti di musica, di gesti, di segni attivi. Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, che non vale che per un legame magico, atroce, con la realtà e con il rischio. Bisogna innanzi tutto rompere l’assoggettamento del teatro al testo e ritrovare la nozione di una specie di linguaggio unico a metà tra il gesto e il pensiero. Spezzare il linguaggio per attingere alla vista e fare e rifare il teatro; e l’importante è di non credere che questo atto debba restare sacro, cioè riservato. Se c’è ancora qualcosa di infedeltà e di veramente maledetto in questo tempo, è di attardarsi artisticamente sulle forme, invece di essere come dei suppliziati che vengono arsi e che fanno dei sogni sui loro roghi. Dapprima un malessere fisico o psicologico troppo marcato, delle macchie rosse disseminate sul corpo che balzano all’attenzione del malato solo quando volgono verso il nero: egli non ha il tempo do spaventarsi, che già la testa gli bolle, diventa gigantesca per il peso ed egli cade. È allora che una fatica atroce, la fatica di una aspirazione magnetica centrale delle sue molecole scisse in due, spinte verso la distruzione si impadronì di lui. Gli sembra che i suoi umori appassiti, sconvolti, in disordine, galoppino attraverso il corpo. Lo stomaco si solleva, sembra che le interiora del ventre vogliano schizzare fuori dall’orifizio dei denti. Il polso che ora si indebolisce fino a diventare un’ombra, una virtualità di polso che ora galoppa, segue i ribollimenti della sua febbre interna, il ruscellante smarrimento del suo spirito. Tutto il corpo è una piaga. Grossi due o tre dita, nell’inguine, sotto le ascelle, compaiono i bubboni attraverso i quali l’organismo si scarica del putridume interno, della stessa vita. Il teatro come la peste è una crisi che si risolve con la morte o con una guarigione, e come la peste è il male superiore perché è una crisi completa, dopo la quale non resta altro che la morte, un’estrema purificazione. Il cadavere dell’appestato non mostra lesioni, il corpo è duro come la pietra, sulle pareti della membrana stomacale sembrano essersi ridestate innumerevoli sorgenti di sangue. Tutto indica un fondamentale disordine delle secrezioni. Ma non c’è perdita né distruzione di materia. La condizione dell’appestato, che muore senza che vi sia distruzione di materia, con tutte le stimmate di un male assoluto e quasi astratto, è identica alla condizione dell’attore che viene scandagliato integralmente e sconvolto dai propri sentimenti, senza alcun profitto per la realtà. Tutto, nell’aspetto fisico dell’attore come in quello dell’appestato, mostra che la vita ha reagito al parossismo, e tuttavia nulla è accaduto. Quello che Artaud propone è una rivoluzione tecnica e spirituale del linguaggio scenico, in cui la parola crudeltà serve ad indicare il carattere assoluto e totale, l’intransigenza e l’irreversibilità sconvolgente che coinvolge integralmente la persona umana. Nella ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, nel bisogno di verificare sulla scena le proprie idee, Artaud compone e realizza un dramma, la cui trama trae da Shelley e Stendhal: è la storia di Beatrice Cenci che, vittima dell’incestuosa passione del padre ne prepara l’assassinio e viene perciò condannata a morte dall’autorità. L’ultima scena del dramma rappresenta il lamento funebre di Beatrice nell’atto di venire accompagnata all’estremo supplizio, tra le urla dei torturati, dalla madre Lucrezia e dai suoi guardiani. Confinato in un locale di secondo ordine, privo di mezzi, accolto in maniera contrastata dal pubblico e dalla critica, Artaud deve concludere la rappresentazione dei Cenci dopo poche repliche. I Cenci restano l’unica realizzazione concreta sulla strada della poetica della crudeltà, perché torna subito a rifugiarsi in grembo all’utopia pura. L’idea del doppio, presa dal libro egiziano dei morti, è assunta a cardine dell’utopia teatrale di Artaud, e vi appare nella forma di un’idea elementare, magica, a valore terapeutico, che ieratizza l’attore e coinvolge lo spettatore costringendolo ad assumere attraverso l’estremo lo stato al quale lo si vuole condurre. L’aspetto tecnico dell’estrema utopia teatrale di Artaud è dato dalla triade neutro, maschile, femminile e dalla combinazione di 7 stati, secondo una simbologia esoterica, in cui Artaud immagina articolarsi i tempi dell’emissione della voce e dei gesti dell’attore. Egli cerca cioè di dare nuova base positiva alle sue intuizioni, nuove possibilità al fatto scenico. Il teatro della crudeltà era stato per Artaud innanzi tutto un processo alla cultura occidentale, alla frattura in essa implicita con la vita, tra le cose e i sogni che le rappresentano. La cultura in occidente, secondo Artaud, non coincide con la vita, ma le si sovrappone e la soffoca. Quest’accusa non rimase in lui un puro fatto verbale, come accadeva per ogni sua idea-forza, si fece azione, si realizzò nel gesto del viaggio in Messico, alla ricerca di una cultura magica, totemica, di una cultura che sia la stessa cosa della vita. ARTAUD Al Messico, perché si tratta del Messico, non c’è arte e le cose servono, e il mondo è in perpetua esaltazione. Io spero di potervi raccontare al rientro molte cose stupefacenti e che potranno mostrare a tutti che in effetti il mondo è doppio, è triplo, e che tutto si muove per piani e per regioni. Ma non era il Messico europeizzato – per il quale al suo arrivo tenne una serie di conferenze e scrisse articoli di giornale – non era questo Messico che poteva interessare e soddisfare l’ansia di Artaud. Egli cercava il contatto con le terre rosse, con le antiche civiltà autoctone. Si inoltrò così nel paese verso il territorio degli indiani Tarahumaras, ai cui riti magici volle essere iniziato. ARTAUD Per quanto possa sembrare incredibile, gli indiani Tarahumaras vivono come se fossero morti. Essi non vedono la realtà e traggono delle forze magiche dal disprezzo che hanno per la civiltà. Il viaggio ai Tarahumaras si svolse attraverso un paesaggio che gli apparve come animato da intime forze magiche, i Manas, quelle forme cioè che rendono significante il linguaggio simbolico della natura. ARTAUD Giunto nel cuore della montagna Tarahumara sono stato colpito da reminiscenze fisiche così vive che mi parve richiamassero ricordi personali diretti. Il paese Tarahumara è ricco di segni, di forme, di immagini naturali che non sembrano sorte dal caso, come se gli dei che qui si sentono dovunque avessero voluto significare i loro poteri con queste singolari cifre in cui l’immagine dell’uomo viene perseguita da ogni lato. ARTAUD Forse sono nato con un corpo torturato, camuffato come l’immensa montagna, ma un corpo dalle ossessioni che servono, ed ho capito che nella montagna serve avere l’ossessione di contare. Ho visto l’immagine della morte come estirpata dalle rocce circostanti e teneva nella mano sinistra enorme un bambino. Ho visto nella montagna un uomo nudo sporgersi da una grande finestra. La testa non era che un grande foro, una specie di cavità rotonda da cui di volta in volta, a seconda delle ore, appariva il sole o la luna. Vidi ripetersi otto volte la stessa roccia, che proiettava al suolo due ombre. Vidi due volte la stessa testa di animale portar nelle fauci la propria immagine che divorava. Rinvenni uomini annegati, mezzo divorati dalla pietra, e su rocce più alte altri uomini che si adoperavano a respingerli. Altrove una statua della Morte, enorme, teneva in mano un bambino. Dico quel che ho visto e che credo. E a chi dirà che non ho visto quel che ho visto, ora spaccherò la testa. Dopo 28 giorni di attesa non ero ancora rientrato in me. Dovrei dire uscito in me. Muovere un passo per me non era più muovere un passo, ma sentire dove portavo la testa. 28 giorni di un gravoso soggiogamento, di quel groviglio d’organi mal raccolti che io ero, e ai quali mi davo l’impressione di assistere, come un immenso paesaggio di ghiacci sul punto di sciogliersi. 28 giorni dall’inizio di un inenarrabile supplizio e da 12 giorni mi trovavo in quel punto isolato di terra, in quell’intercapedine della smisurata montagna, a sperare nella buona volontà dei miei stregoni. Non voglio più essere un illuso, morto al mondo, a quel che per gli altri è il mondo; caduto, caduto infine, salito in quel vuoto che rifiutavo, possiedo un corpo che patisce il mondo e accoglie la realtà. La lunga e disagiata permanenza presso i Tarahumaras, durante la quale si astenne dall’uso della droga, si concluse con l’iniziazione al Ciguri, la danza del Peyotl. Il rito consisteva in una espurgazione fisica che si realizzava per fasi, accompagnandosi ad una ossessione ritmica di danza e di percussioni, angosciosa, ma che nell’atto di bere la bevanda – il peyotl – approdava non solo simbolicamente a una totale liberazione della vita. ARTAUD Davanti a me avevo la natività di Jeronimus Bosch, disposta e orientata nello stesso ordine, con la vecchia tettoia di assi sconnesse davanti alla stalla, con i raggi del re bambino che brillano tra gli animali, con le fattorie sparse, i pastori, e in primo piano altri animali che belano, e a destra i re danzatori. E già le donne in ginocchio davanti ai mortai pestavano il peyotl con una specie di metodica brutalità. Gli aiutanti si misero a calpestare il cerchio e in mezzo al cerchio accesero un fuoco che il vento aspirò vorticosamente dall’alto. Il danzatore entra ed esce, tuttavia non lascia il cerchio, volutamente avanza nel male. Dieci croci nel cerchio, dieci specchi. Un trave con sopra tre stregoni. Quattro aiutanti, due maschi e due femmine. Il danzatore epilettico e io stesso, per il quale si faceva il rito. È fatta. Sono proprio precipitato nel vuoto da quando tutto quel che fa questo mondo ha cessato di farmi disperare. Sveglio ed ebbro venni condotto per la guarigione finale verso le croci, dove gli stregoni fanno vibrare la raspa proprio sulla testa del paziente. Mi avevano fatto coricare molto in basso, sulla terra, ai piedi dell’enorme trave sulla quale tra una donna e l’altra sedevano i tre stregoni, sdraiato in basso perché potesse cadere su di me il rito, perché il fuoco i canti le grida la danza e la stessa notte come una volta animata, umana, ruotasse viva sopra di me. Il Peyotl non restituisce il reale, ma scoraggia l’intelligenza e ci rinvia nella vita come purgati, dopo una fase indicibile di angoscia. Quel che usciva fuori dalla mia milza e dal mio fegato aveva la forma delle lettere di un antichissimo e misterioso alfabeto masticato da un’enorme bocca, ma orribilmente repressa, orgogliosa, illeggibile, gelosa della sua invisibilità: e quei segni erano trascinati via per ogni dove nello spazio, mentre mi pareva di salire ma non del tutto solo. Aiutato da una forza inusitata. Ma molto più libero di quando sulla terra ero solo. Io non andavo al Peyotl da curioso, ma al contrario da disperato che vuole togliersi fin l’ultimo brandello di speranza, staccare l’ultima, piccola, fibra rossa della speranza spirituale della carne. Io non andavo al Peyotl per entrare ma per uscire. Alla fine del 1936 Artaud rientrava in Francia. L’esperienza dell’iniziazione messicana aveva accentuato in lui il senso del distacco dalla società ma aveva insieme reso più acuta l’esigenza di reinserirsi, di ricostruirsi sia pure dall’esterno una normalità: una normalità fisiologica, sottoponendosi alla disintossicazione dagli stupefacenti; ed una normalità affettiva, fidanzandosi con una giovane della ricca borghesia di Bruxelles. ARTAUD Sono vent’anni della mia vita che getto in questo momento dietro di me. Io sento che un altro uomo ne verrà fuori, senza sapere esattamente chi è, né dove mi porterà. Il Solitario Distaccato ha vendicato il Male venuto dalle tenebre della donna con la forza che ha reinventato. La forza che egli ha impiegato a distaccarsi, gli ha reso una forza inversa. Ed era una forza di morte. Il Destino di tutti noi è un Destino di Morte. Un ciclo del mondo è concluso. Morti, gli altri non sono separati. Ruotano ancora intorno ai loro cadaveri. Io che non sono morto, sono tuttavia separato. In un atto di ribellione istintiva rompe il tentato equilibrio. Con sgomento presente la follia, e si predispone un rifugio magico in un amuleto donatogli all’Avana, e in un bastone nel quale vede un simbolo di castità. ARTAUD Da lui i sessi sono stati separati con la Fiamma, perché conosceva in natura la Fiamma dell’Amore trovato e smarrito. E per far accettare questa separazione attraverso la fiamma, per prima cosa ha giocato con la propria Fiamma. Per prima cosa si è fatto passare per uno zotico folle. In quanto tempo avverrà questa trasformazione rivoltante che non può più essere una rivoluzione? In cinque mesi A partire da quando? A partire dal 3 giugno 1937 Perché? Perché il 3 giugno 1937 sono apparsi cinque serpenti che erano già nella spada, il cui potere di decisione è rappresentato dal bastone. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che io che parlo ho una spada e un bastone. Ho avuto la Spada da un Negro Africano, e il Bastone l’ho avuto da Dio. Questo bastone, mi hanno detto, fu mio già in altri secoli. Un bastone con 13 nodi e questo bastone porta al nono nodo il segno magico del fulmine. E 9 è la cifra della distruzione con il fuoco. E IO PREVEDO UNA DISTRUZIONE CON IL FUOCO. Con il bastone scolpito che egli crede essere appartenuto a San Patrizio, patrono degli irlandesi, ed al quale attribuisce poteri occulti contro i malefici che sente gravare su di sé, Artaud parte per l’Irlanda. Qui vi è un momento in cui tra il suo mito religioso e la realtà si produce una lacerazione, un primo sintomo della follia. Viene preso, arrestato ed estromesso dall’Irlanda. Sulla nave che lo riporta in patria il processo di esaltazione mentale si accentua irrimediabilmente. ARTAUD Sono stato deportato dall’Irlanda in seguito a delle sommosse di strada che ebbero luogo intorno e a proposito della canna che portavo con me. Non ero solo a Dublino, uno contro mille. Ero solo con un bastone speciale che tutti hanno potuto vedere a Parigi in maggio, giugno, luglio e agosto 1937. Con quel bastone ho girato al Café des Deux Magots, al Dôme, alla Coupole e un po’ ovunque a Parigi. L’ho mostrato molto da vicino ad André Breton e a diversi altri amici. Quel bastone ha 200 milioni di fibre ed è intarsiato di segni magici che rappresentano forze morali e un simbolismo antenatale. In ogni modo mi sono servito di quel bastone in Irlanda solo per imporre il silenzio a tutti gli abbaiatori, e sono stato messo in prigione e deportato solo perché mi sono reso conto che come mezzo di difesa non valeva niente, e che diventavo io stesso molto cattivo, cioè incapace, idiota e sciapo d’anima, man mano che lo usavo. La verità è che a Dublino, senza soldi, braccato dal bisogno, in un sussulto disperato, egli andò a chiedere asilo ad un convento francese. Vi capitò durante un ritiro e non poté vedere il Superiore. Fece tanto chiasso e gridò così forte per farsi ricevere, che il convento avvertì la polizia. Ne seguì un tumulto. La canna di S. Patrizio, che Artaud aveva ancora in mano, sparì nel tumulto, e Artaud fu imprigionato per sei giorni. ARTAUD Ecco il regime che io non ho mai accettato e contro il quale mi sono sollevato pubblicamente in Irlanda. La dottrina della castità salvatrice fu in Irlanda la dottrina di S. Patrizio, che ha scritto delle pagine terribili su questa questione. Riapparendo a Dublino con la canna che voi conoscete e che fu di S. Patrizio ho spiegato tutto ciò agli Irlandesi, e la canna mi è servita a colpire il male molto spesso. È per questo che si è preteso che io mi dedicassi al feticismo e alla magia, e che hanno finito per farmi internare come squilibrato, benché io non sia che un cristiano che ha voluto manifestare la sua fede. La polizia frugò i suoi vestiti, scucì gli abiti, tagliò le tasche e non trovando niente lo ricondusse sotto scorta e lo imbarcò di forza su una nave in partenza per la Francia. ARTAUD Sulla nave che mi riportava in Francia hanno cercato di assassinarmi: alle tre di pomeriggio improvvisamente sono entrati nella mia cabina un mozzo e un capo macchinista armati di chiave inglese, mentre, in piedi davanti all’oblò, guardavo tranquillo il mare. Sul battello, preso da una disperazione furiosa, egli cercò di gettarsi fuori bordo. Fu necessario immobilizzarlo e chiuderlo in una cabina. ARTAUD Il Torturato è stato preso per un pazzo da tutti, è apparso come un pazzo davanti a tutti. E l’immagine della pazzia del mondo si è incarnata in un Torturato. Io sono un fanatico, ma non sono un folle. Non ne voglio più sapere dell’ordine moderno che vi conduce al caos. Mi sono lasciato liberamente rinchiudere, in uno spirito che voi non potete più comprendere, per compiere in piena sincerità e coscienza le impossibili prove della profezia di San Patrizio. Le Havre, Quatemarre, Sotteville, Sainte Anne, Ville-Evrard: mentre sull’Europa covano ed esplodono le devastazioni della seconda guerra mondiale, Artaud, internato d’autorità, trascorre nove bui anni nei manicomi per gli incurabili. Solo a Ville-Evrard cominciò a riprendere contatto col mondo esterno; preda di violente manie di persecuzione e di affatturamento, lanciava disperati appelli ai pochi amici che ancora si interessavano a lui. ARTAUD Giorno e notte delle orde sinistre si aggirano intorno a Ville-Evrard, a tutti gli angoli di Parigi e della terra, che esistono in carne ed ossa e che mi rodono il ventre e gli intestini. L’acqua e la terra ne sono pieni, sono miliardi di migliaia, ma è addosso a me che vengono. È già un anno e mezzo caro Dullin che lotto con tutte le mie forze contro il male e assolutamente non ne posso più, e comunque fino a qui nessuno ha potuto darmi conforto, perché Satana sbarra tutte le strade. Il teatro di Parigi è un posto maledetto caro Dullin. Il mio supplizio è abietto e doloroso, me lo avete detto e gridato. Aspetto da voi un ultimo gesto e vi chiedo di venirmi a trovare qui domani. Bisogna venirmi a trovare e portarmi l’eroina, le sigarette e il pane. Gli asili di alienati sono ricettacoli di magia nera coscienti e premeditati, e questo non solo perché i medici favoriscono la magia per le loro terapie intempestive e ibride. Coloro che vivono, vivono da morti, e bisogna anche che la morte viva. E non c’è nulla che come un asilo di folli covi dolcemente la morte e tenga nella covata dei morti. Com’è possibile che tutti i miei amici non capiscano che è a causa delle mie idee che io sono stato maltrattato dalla polizia per le strade di Dublino, messo in prigione, deportato e internato in Francia come Folle, chiuso in una camicia di forza, messo in cella e avvelenato nei manicomi francesi, finché morte ne seguisse, ma la morte non è mai venuta, e io sono sempre vivo e internato e io non vedo più la fine della mia disgrazia. Sono quattro anni ormai che non mangio più la mia fame ed altri sette che sono sottoalimentato e durante i primi due anni del mio internamento mettevano veleni in tutti i miei piatti, ed io non ho mai potuto procurarmi il medicamento necessario per guarire di questa narcosi dei nervi e delle ossa che vi ho guadagnato. Nel 1943 la famiglia e gli amici riescono a far trasferire Artaud a Rodez, nella casa di cura del dottor Ferdière. Nel frattempo alla mania di persecuzione si è sovrapposta una crisi mistica. Artaud si sente un altro. Immagina di essere morto e di essere rinato in Antonin Nalpas. ARTAUD Nella luce vera delle tre finestre del dormitorio di Rodez in cui mi trovavo dapprima e immediatamente non seppi dov’ero e continuai a sentirmi perduto, avvolto come un enorme feto d’essere nell’assoluto di quella sensazione pura, nell’avvolgimento di quella placenta del proprio io che si chiama eternità. Intorno a me ho eserciti di affatturatori posti in tutte le piazze di Parigi e della terra, e che tutta la terra ha visto e che nessuno più ignora. Ma vi è qualcuno che mi ha sempre voluto bene per tutto il buono che c’era in me, non solo nel corpo ma nell’anima. E questo che mi vuole bene, questo qualcuno si chiama Dio e Gesù Cristo. L’anima di Antonin Artaud era quella di un angelo, uno degli angeli più vicini a Dio. E quest’angelo ha portato Dio in terra poiché Dio in questo tempo, cioè prima della partenza di Antonin per l’Irlanda, non poteva avere un corpo quaggiù. Ed egli l’ha portato finché il peccato non sia lavato ed espiato affinché Dio potesse scendervi quando sarebbe ridivenuto vergine e purificato. Il corpo di Antonin Artaud infatti ha portato un tempo e fino alla sua morte i peccati di tutti gli uomini, ed è di questo che Antonin Artaud era malato e soffriva tanto. E soffriva al punto di aver un tempo dimenticato anch’egli i sacramenti della chiesa di Gesù Cristo. Antonin Artaud è ritornato alla fede cristiana e cattolica di Gesù Cristo a Dublino nel settembre 1937 ed è morto a Ville-Evrard nell’agosto del 1939. Ora Dio ha cominciato a ritornare in terra nel mio corpo, il corpo di Antonin Nalpas, pieno di peccati e divorato notte e giorno dai demoni. Per cacciare i demoni e per permettere a Dio di scendervi e completare in terra il mistero della redenzione umana è necessaria dell’eroina e dell’oppio, ed è un atto elementare di carità cristiana e di umanità darne allo sventurato, tormentato e malato che è qui e non può più sopportare su di sé la sofferenza del peccato umano. Il dottor Ferdière lo sottopone ad una energica cura a base di elettrochoc e di rigorosa astinenza dalla droga, che ben presto ottiene degli effetti positivi: spinto anche da Ferdière Artaud riprende a scrivere. Tra i due si stringe un rapporto di amicizia e di attiva collaborazione che Artaud ricambia con trasporto. ARTAUD Dottor Ferdière, per ritrovare un po’ d’amore attorno a me quaggiù, son dovuto venire a Rodez. Io ho orribilmente sofferto della cattiveria umana, in tutti gli asili in cui son passato da 1937 al 1943. Qui soltanto ho trovato degli amici che mi hanno aperto il loro cuore. Voi non solo mi avete aiutato a vivere, voi mi avete invitato a vivere, quando io intristivo. FERDIÈRE Io non ho certo guarito Antonin Artaud. Egli era verosimilmente inguaribile, con le risorse attuali della terapeutica psichiatrica. Ma per lo meno l’ho reso alla vita sociale, e sopra tutto alla creazione artistica e poetica. Senza di me Artaud sarebbe morto nella sterilità e nel marasma. Sono pertanto obbligato di battere un chiodo mai abbastanza battuto: l’applicazione dell’elettrochoc è rigorosamente indolore. Solo il risveglio può accompagnarsi a delle manifestazioni ansiose. Sono stato accusato di aver impiegato l’elettrochoc come una punizione. Voi conoscete l’antifona «signor Artaud rinunciate alla magia altrimenti vi sottopongo all’elettrochoc»; oppure «signor Artaud, il vostro ultimo poema è incomprensibile. Scrivete con chiarezza, fate della poesia come tutti, altrimenti sono obbligato a ricominciare con gli elettrochoc». Il che sa veramente troppo di caffè ed è una bestialità. Man mano che Artaud riprende, con gli effetti della cura, possesso di se stesso, prova insofferenza per la tirannia clinica cui è necessariamente sottosposto. Nel suo animo il rapporto con Ferdière si incrina. ARTAUD Anche Ferdière, il primario di questo posto ha finito col convincersi che si era sbagliato sul mio conto, quando non voleva che essere mio amico, ed è stato formato, con un affatturamento a considerarmi da medico. C’è una donna a Rodez che è venuta a trovarlo per parlargli di me, e che per cinque minuti lo ha addormentato e affatturato a sua insaputa per cambiare la sua coscienza nei miei confronti. Lui è rimasto incosciente per più di cinque minuti e ora non è più la stessa persona, ha un altro io e vedendomi lottare contro gli spiriti maligni e i demoni, con il sistema del soffio che ho inventato, non ha più capito, non ha più potuto capire e sopportare quel che vedeva. La polizia ha cercato di farmi avvelenare in tutti i modi a Rouen, e ho subito un tentativo di avvelenamento grave all’asilo Sant’Anna che mi ha provocato una sincope e mi ha lasciato un mese in coma. E ho subito all’asilo di Rodez cinquanta coma da elettrochoc, che mi hanno tolto la memoria e la coscienza per molti mesi. La medicina prezzolata mente ogni volta che presenta un malato guarito dalle introspezioni elettriche del suo metodo. Io non ho visto che dei terrorizzati del metodo, incapaci di ritrovare il proprio io. Chi è passato attraverso l’elettrochoc del bardo e il bardo dell’elettrochoc, non risale più dalle sue tenebre e la sua vita è stata scorciata di un cranio. FERDIÈRE Se voi fate cadere volontariamente questo libro vi faremo l’elettrochoc signor Artaud. (Rumore del libro che cade. Silenzio. Respiro affannoso) ARTAUD C’è nell’elettrochoc uno stato di ristagno attraverso il quale passa ogni traumatizzato e che gli concede in quell’istante non di conoscere ma di spaventosamente e disperatamente disconoscere quel che fu, quando egli era se, che le me re te zut e qua. FERDIÈRE Vi disegneremo il contorno del vostro essere con l’elettrochoc, signor Artaud. ARTAUD E quando ci si risveglia si è incapaci di ritrovare il proprio io, la vita si è scorciata di un cranio e si è perduto un lembo della primitiva euforia. Parallelamente alla ribellione verso la cura dell’elettrochoc Artaud ha un nuovo più blasfemo empito di coprolalia che si esprime nel rifiuto della conversione e nella sostituzione della propria immagine a quella di qualsiasi divinità. ARTAUD Questa conversione è stata solo il risultato di uno spaventoso affatturamento che aveva fatto dimenticare a me stesso la mia natura e qui a Rodez mi ha fatto ingoiare con il pretesto della comunione un numero spaventoso di ostie, destinate a tenermi per il maggior tempo possibile e se possibile eternamente in un essere che non è il mio. Ora io, signor Artaud, non ho niente a che fare con Dio e non ammetto che si fondi una religione sulle mie vertebre o sul mio cervello. Della morfina su una gamba di legno. Fatta, la morfina, con la cancrena delle ossa della gamba morta, poi spillata. Ecco cosa fu la santa trinità. C’è in questo momento nell’aria una faccenda di assurda possessione condotta da un certo numero di sette di iniziati che io conosco molto bene e che perseguito da almeno trent’anni, da quel giorno della primavera del 1915 in cui fui colpito con un colpo di coltello sulla schiena da due protettori, in Corso de Villiers a Marsiglia, davanti alla chiesa dei riformati. Io passavo davanti alla farmacia all’angolo del Corso de Villiers e del Boulevard de la Madeleine quando vidi gironzolarmi intorno due uomini dall’aria sinistra. Io non li conoscevo ed uno di essi mi sorrise come per dirmi: «no, tu non hai nulla da temere da noi, non sei tu che cerchiamo», poi vidi il suo volto cambiare e al posto dell’uomo che mi sorrideva, nello stesso corpo vidi una maschera di bestialità e vi sentii passare un’orrenda torsione. «Chi sono e che cosa voglio», sembrò dirsi all’improvviso, «quest’uomo non mi è nemico, non lo conosco e non lo colpirò» e se ne andò. Cominciavo a risalire il Boulevard de la Madeleine quando sentii l’aria dietro di me come scossa da una lacerazione. Pensai «è l’anima del ruffiano che si lacera». Non ebbi il tempo di voltarmi che sentii una lama di coltello lacerarmi il retro del cuore, sul dorso, verso la parte alta della scapola, a dieci centimetri dalla colonna vertebrale, e sentii che un corpo era caduto dietro di me, caddi anch’io in terra ma pensai «non è ancora la mia ultima ora, il sangue se ne andrà, ristagnerà» e con questo pensiero mi sollevai. Provavo un terribile dolore, che a poco a poco si calmò. Il ruffiano a terra mi disse «Non è colpa mia. Per nulla al mondo avrei cercato di colpirvi. Io vi conosco, benché mi abbiate dimenticato, e so chi siete. Ho cercato di evitare il colpo che mi si voleva obbligare a portarvi, e se ve l’ho inferto leggermente è perché sono stato d’improvviso posseduto, ma la mia anima non me l’ha inferno, e io sono caduto per strapparla al mio corpo». Gli risposi «so benissimo chi ha voluto colpirmi, è un angelo e non voi. È una vecchia storia che risale a prima della creazione». Io non ammetto, non perdonerò mai a nessuno d’aver potuto essere abbozzato vivo durante tutta la mia esistenza e questo unicamente perché io ero Dio veramente Dio io un uomo e non il sedicente spirito che non era che la proiezione nelle nubi del corpo di un uomo altro da me il sedicente demiurgo che non trovò di meglio che nascere al prezzo del mio assassinio il mio corpo si è ricostituito malgrado tutto contro e in mezzo a mille assalti del male e dell’odio che ogni volta lo deterioravano e mi lasciavano esanime ed è così che a forza di morire ho finito di conquistarmi un’immortalità reale. Nella propria dolorante intimità Artaud si costruisce una privata geografia di affetti, fatta dalla sovrapposizione di immagini femminili di diversa origine, familiari ed erotiche, sentimentali e fantastiche. Questa famiglia immaginaria è il segno di un rinato bisogno di relazioni umane. ARTAUD Ieri sera, venerdì 15 marzo, nell’insediarsi del mio dolore la dialettica è entrata in me come derisione della mia carne viva che soffre ma non capisce. Io sono uno di questi esseri di dolore, sono questo principale essere di dolore in cui Dio ha la pretesa di scendere quando sarò morto. Ma ho tre figlie che sono altri tre di questi esseri. È nato a poco a poco quell’inconscio che ho avuto come duro tra i duri davanti alla bara delle mie sei dilette figlie ancora da nascere: Yvonne, Catherine, Neneka, Cecile, Ana e la piccola Anie. E ho visto il coltello a tacche dell’altra mia figlia Neneka che ho sentito muoversi nell’oppio della terra, e con Neneka c’era anche Yvonne, Catherine, Cecile, Anie e Ana. Mi volle bene quando un giorno masticai per comporre la terra che mangerò. Fu Ana ad amare un giorno la musica dall’alto di quella tettoia che mi ascolta quando non penso a me ma a lei. Ana Corbin, figlia primogenita della mia anima, e che morì disperata di me. E per sposarsi con me Ana Corbin aspetta che la terra sia ripulita, come Yvonne, Cecile, Anie, Catherine, Neneka, questa morte che al di là delle angustie dei limbi per raggiungermi aspettano che abbia finito di sposare il mio Ka ka. E ho visto Marthe Robert di Parigi, l’ho vista da Rodez a Parigi piegarsi per la collera nell’angolo della mia camera chiusa, proprio davanti al mio comodino, come un fiore estirpato di collera nell’apocalisse della vita. Non voglio che mi si trattenga come internato e mi si impedisca di ritrovare qui le mie cinque figlie primogenite. Neneka Chilè, Catherine Chilè, Cecile Schramm, Anie Besnard, Yvonne nel Dumonchel, poi qualcun’altra, con in testa Sonia Mosse, Yvonne Gameline, Josette Lusson, Paulette Prou, assassinata a colpi d’ascia in una cella dell’ospedale di Le Havre da un guardiano assoldato dai servizi segreti dello stato, mentre ero trattenuto in camicia di forza e con i piedi legati al letto. Nell’ultimo periodo della permanenza a Rodez intensifica gli appelli agli amici che, finita la guerra, ne affrettano la liberazione, organizzando serate in suo onore per raccogliere i fondi necessari. ARTAUD Mi avete veramente così completamente dimenticato? E siete veramente così fuori da ogni sofferenza da non poter più comprendere il mio dolore? Io sono internato ormai da sette anni e il mio più grande dolore è di vedere che gli amici hanno tutti finito per credermi veramente malato, a forza di vedere questo internamento prolungarsi, e non si sono mai decisi a rivoltarsi veramente verso l’iniquità abominevole che mi è stata fatta e di cui senza rendersene conto sopportano tutto il peso, perché questa iniquità è un sortilegio dei demoni. Nel maggio del ’46 lascia Rodez: due mesi dopo è a Parigi e riprende a scrivere e disegnare con grande impeto. Il 13 gennaio del 1947 al Vieux Colombier tiene una conferenza che resta indelebile nel ricordo di chi vi assistette. Negli stessi giorni visita una mostra dedicata a Van Gogh nella cui vicenda spirituale egli immediatamente si identifica. Sente che questo estremo approccio con la società è definitivamente mancato, che essa anzi – come con Van Gogh – per punirlo di essersi sottratto alle sue costrizioni, lo precipita nel suicidio. ARTAUD Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, mia madre, e me; ma non sono nelle condizioni normali, non sono entrato in questo mondo dall’uscio della matrice, la mia nascita è stata una lotta orrenda, una guerra raccapricciante; ho navigato in un fiume di pus che fu creato sul posto e lanciato contro di me per impedirmi di passare; e il corpo osceno di questa umanità volle richiudere sopra di me la sua cicatrice quando il mio corpo era già fatto e non aveva bisogno di niente e nessuno. Van Gogh non è morto in uno stato di delirio ma per essere stato corporalmente il capro di un problema attorno al quale dalle origini si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità: quello del predominio della carne sullo spirito, o del corpo sulla carne o dello spirito su entrambi. E dov’è in questo delirio il posto dell’io umano? Van Gogh cercò il suo durante tutta la vita con un’energia e una determinazione inusitate. Egli non si è suicidato in un colpo di follia nell’angoscia di non giungervi, ma al contrario egli stava per raggiungere e scoprire quel che egli era e chi egli era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi sottratto a lei, lo suicidò. Perché non è per questo mondo, non è mai per questa terra che tutti noi abbiamo sempre lavorato, lottato, bramito l’orrore della fame, della miseria, dell’odio, dello scandalo e del disgusto, che noi tutti fummo avvelenati. Benché ne siamo rimasti ammaliati E ci siamo infine suicidati Perché non siamo noi tutti come il povero Van Gogh stesso dei suicidati della società? Artaud ha oramai i giorni contati: un altro male è venuto a minarlo senza scampo, un cancro nella zona sacrale. Per lenire questi dolori giungeva fino a tormentarsi il cranio con un coltello. L’ultima cosa che ci resta di lui è una registrazione radiofonica: Per finirla col giudizio di dio che non viene mandata in onda per la violenza del suo contenuto. In disperata antitesi contro i valori costituiti, Artaud vi propone una radicale disincarnazione, una reinvenzione dell’uomo fin dalle fondamenta del suo corpo, un nuovo istituto della natura umana. ARTAUD Fisicamente non bene, dall’alto della mia carne massacrata, incompleta, che non riesce più a nutrire il mio pensiero; spiritualmente mi distruggo da me, non mi accetto più vivo; la mia sensibilità è al livello delle pietre, e poco importa che ne escano dei versi, la putrescenza di cantieri abbandonati. Ma questa morte è molto più raffinata, questa morte moltiplicata da me stesso è in una sorta di rarefazione della […] il tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzione ma di volontà e albero di volontà che cammina tornerà. È stato e tornerà. Perché il grande inganno è stato di fare dell’uomo un organismo Ingestione, assimilazione, incubazione, secrezione.