PAG 1 - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo

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PAG 1 - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
ARTAUD HOMME THÉÂTRE
Estratti da tre trasmissioni per Rai3 di Ferruccio Marotti (1964)
Artaud nasce a Marsiglia da una famiglia benestante di armatori navali. Una meningite devastante fin
dall’età di cinque anni gli determina progressivi pesanti problemi di nervi. Poco più che ventenne si
trasferisce a Parigi per curarsi e con il desiderio di diventare attore e di scrivere poesie. Invia le sue
composizioni alla Nouvelle Revue Française e il direttore Jacques Rivière gli scrive rilevando alcune
manchevolezze linguistiche. Artaud risponde spiegando, in una serie di lettere appassionate, come quelle
manchevolezze siano in realtà “delle erosioni, degli sprofondamenti centrali dell’anima” dovuti alla sua
malattia, che gli impedisce di essere completamente padrone di sé. Rivère, colpito e commosso, gli propone
di pubblicare i suoi poemi insieme con la loro corrispondenza. Artaud accetta e da quel momento diviene il
caso clinico letterario più famoso in Francia.
In quegli anni Artaud viene iniziato al teatro nell’Atelier di Charles Dullin. Si era ai primi del 1922. L’Atelier
non era una semplice compagnia, ma un laboratorio di ricerche. Era insieme un teatro e una scuola in cui si
applicavano dei principi di insegnamento che avevano per fine di interiorizzare la recitazione. Artaud vi
prese coscienza del proprio essere teatrale, rompendo insieme con la conversazione scenica, la barriera tra
teatro e vita.
BARRAULT
Senza dubbio insoddisfatto delle gioie artificiali che procura il teatro, Artaud traspose le
proprie possibilità teatrali nella vita. Visse autenticamente il proprio personaggio e si consumò con esso.
Divenne teatro. La sua vita è esattamente una tragedia. Artaud era innanzi tutto poeta. Egli era un
meraviglioso scrittore, ma era anche attore. Ed era da poeta che aveva sempre recitato. Aveva recitato con
Dullin agli inizi dell’Atelier. Un giorno, in un’opera che metteva in scena Dullin, e in cui Artaud interpretava la
parte di Carlo Magno, durante una prova Artaud avanza verso il trono a quattro zampe. Dullin temeva Artaud
e le sue reazioni; tuttavia, quel salire sul trono a quattro zampe, gli sembrava… un po’ troppo… stilizzato.
Con molta precauzione Dullin cerca di dissuadere Artaud da questa interpretazione e tenta di convincerlo ad
una stilizzazione più verosimile. Ma Artaud si leva di scatto e, rizzando in alto un braccio, con atteggiamento
imperiale gli grida: Ah, se voi lavorate nella verità! Allora………!
DULLIN Artaud adorava i nostri lavori di improvvisazione e vi portava una vera immaginazione di poeta. Io
ero attratto dalla tecnica dei teatri orientali, ma egli andava in questo senso già molto più lontano di me, e da
un punto di vista pratico la cosa diveniva talvolta pericolosa: come quando per esempio, nel Piacere
dell’onestà di Pirandello, in cui faceva la parte di un uomo d’affari, mi arrivò in scena con un trucco ispirato
alle maschere di cui si servono gli attori cinesi: trucco simbolico, che era leggermente fuori posto, in una
commedia moderna…
TOURRET Dullin non intendeva relegare gli attori in parti stereotipate: quello che un giorno faceva l’ingenuo,
l’indomani faceva il delinquente. Ebbene, non ci posso far niente se, in quegli anni in cui Artaud debuttava
nel teatro, recitava bene solo parti di traditori, miserabili, allucinati, psicopatici, perversi, monomani, drogati,
folli.
L’Artaud autentico, violentemente individualista, venne fuori, a partire dal 1924, dall’avventura del
surrealismo. Dapprima si applicò, con foga eversiva, contro le strutture accademiche del teatro. Come nella
famosa lettera all’amministratore delle commedie francesi, il tempio del teatro nazionale. Ma ben presto
questa esigenza rivoluzionaria prese forma in un esperimento teatrale che rompeva con i dogmi di chiarezza
e di ordine tradizionali nella cultura francese: il teatro che, nel nome di uno dei precursori dell’avanguardia,
Artaud volle chiamare Teatro Alfred Jarry.
SURREALISTA
Noi surrealisti lanciammo alla società questo avvertimento solenne: che faccia attenzione ai
suoi errori, a ciascuno dei passi falsi del suo spirito; noi non glieli perdoneremo.
A ciascuno dei tornanti del suo pensiero la società ci ritroverà. Noi siamo specialisti della rivolta, non c’è
mezzo che non siamo capaci, al bisogno, di imparare.
ARTAUD
Signori della commedia francese, voi siete degli autentici coglioni. Ai piedi della solennità voi
deponetele le vostre cacate come l’arabo ai piedi delle piramidi. La vostra stessa esistenza è una sfida allo
spirito. Noi guardiamo più in alto della tragedia, pietra angolare della vostra baracca appestata, e il vostro
Molière non è che un coglione. Ma non si tratta della tragedia. Noi rifiutiamo al vostro apparato digerente il
diritto di rappresentare qualunque cosa del teatro, passato, avvenire e presente. L’onnipotenza del
sentimento è abbastanza forte da non permettere che si prostituisca a caso. Il teatro è la terra del fuoco, è
l’acume del cielo, la battaglia dei sogni. Il teatro è la solennità. Largo al teatro, signori, largo al teatro di tutti
coloro ai quali basta il campo illimitato dello spirito.
Il teatro Alfred Jarry, fondato nella primavera del 1927, debuttò nel giugno dello stesso anno al Teatro des
Grenelles, l’anno successivo ed ultimo passò alla Comédie des Champs Elisées dove diede tre spettacoli.
Tutti gli spettacoli furono provati per intero una sola volta, durante la notte o il mattino precedente lo
spettacolo. Qualcuno direttamente in scena, perché il Teatro Jarry non ebbe mai né una vera compagnia, né
una sede.
Artaud se ne frega della rivoluzione?
ARTAUD
Me ne frego della vostra, e della mia.
(Esplosioni, armonie fratte, rumori, smorzarsi di suoni; la musica darà l’impressione di un cataclisma lontano
che cade come da un’altezza vertiginosa. Degli accordi si accennano e degradano, passano da un estremo
all’altro. Diversi piani di suoni).
ARTAUD
Ci sono delle bombe da mettere da qualche parte, alla base delle abitudini del pensiero
attuale, europeo o non europeo.
(I rumori si propagheranno a ondate, intervallati da un telegrafo morse applicato, che sarà, nel linguaggio
morse, quello che è la musica delle sfere interpretata da Bach.)
ARTAUD
Noi siamo dal punto di vista spirituale in un’epoca critica. Noi crediamo alle minacce
dell’invisibile, ed è anche contro l’invisibile che lottiamo. Noi siamo interamente applicati a dissotterrare un
certo numero di segreti, e vogliamo mettere in luce questo groviglio di desideri, di sogni, di illusioni, di
credenze che hanno approdato ad una menzogna nella quale nessuno più crede, che quasi per derisione si
chiama il teatro.
(grida di strada, voci diverse, rumore infernale)
ARTAUD
Per me il teatro è i miei nervi, io cerco un teatro di nervi, cospargo il teatro di gridi, di gemiti,
di contorsioni, di lamenti. Perché se il testo non serve a far sussultare lo spettatore sulla sedia, a cosa
serve?
(Grida di strada, voci diverse, rumore infernale. I testi che seguono sono rotti da lampi di grida, da rumori, da
ondate sonore che coprono tutto. E una voce ossessiva, enorme annuncia una cosa che non si capisce, in
crescendo.)
VOCI
VOCE – VINO, BICCHIERI
VOCE – BIRRA? GELATI
VOCE – IL PLATINATO MIA CARA
VOCE – BIONDO MALVA… SOLE E CARNE
VOCE – LA MANO OSA APPENA LEVARE
LA MANO?
VOCE – LA LETTERA, VOGLIO LA LETTERA
VOCE OSSESSIVA, ENORME
IO VI DICO CHE…
IO ANNUNCIO CHE…
IO VI ANNUNCIO CHE….
UN GRANDE, UN GRANDE, UN ENORME
UN ENORME………
ARTAUD
Abbiamo bisogno di credere a qual che vediamo. Abbiamo bisogno che lo spettacolo cui
aspiriamo sia unico, imprevedibile come qualsiasi atto della vita.
VOCE – EH VECCHIO MIO, IL VISO
TUTTO COPERTO DI MACCHIE
DI ROSSORE
SPORCO CORNUTO
UN’ARIA MALATA
IO VI DICO CHE…
IO ANNUNCIO CHE
IO VI ANNUNCIO CHE
UN GRANDE, UN GRANDE UN ENORME
UN ENORME………….
ARTAUD Il Teatro Jarry non bara con la vita, non la scimmieggia, non la illustra, mira a essere una specie di
operazione magica.
VOCE – l’astronomo dice che le macchie
Non ho mai visto un sole così
Grande
Come l’eclissi del 1912
Il grano cresce, l’oro cala
La polvere copre tutto
IO VI DICO CHE…
IO ANNUNCIO CHE
IO VI ANNUNCIO CHE
UN GRANDE, UN GRANDE UN ENORME
UN ENORME………….
ARTAUD Non è allo spirito o ai sensi degli spettatori che noi ci indirizziamo, ma a tutta la loro esistenza, alla
loro e alla nostra. Noi giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena.
(Ben presto le voci, i rumori, le grida, stranamente si stemperano come risucchiate verso l’alto da trombe
d’aria. Un’isterica si lamenta, un bambino piange con immensi e terribili lamenti.)
(Brusca sospensione. Tutto ricomincia. La scena si riempie di gente che corre.)
VOCE – Là, là cos’è?
No, non là, ti dico che è là.
La macchia, guarda la macchia, no ma guarda questa macchia.
ARTAUD
Nel teatro che noi vogliamo fare, il rischio sarà il nostro Dio. Non abbiamo paura di nessuno
scacco, di nessuna catastrofe. Se non avessimo fede in un miracolo possibile, non ci impegneremmo in
questa via piena di alea. Ma un miracolo solo è capace di ricompensarci dei nostri sforzi e della nostra
pazienza. È su questo miracolo che noi contiamo.
VOCE – Sono le dieci di sera. È la luna o il sole questo?
UN RAGAZZO DI VITA – È la luna, idiota, mai vista la luna rossa?
UN BAMBINO – Mamma se la luce se ne va tu diventerai cieca?
ARTAUD
Ecco con quale angoscia umana lo spettatore deve uscire da noi. Egli sarà scosso e
strigliato del dinamismo interiore dello spettacolo che si svolgerà davanti ai suoi occhi.
Questo dinamismo sarà in diretto rapporto con le angosce e le precauzioni di tutta la sua vita.
(ondeggiamento, la gente litiga per vedere)
VOCE – guarda là, scemo; è là
È nel cielo, il cataclisma è nel cielo
La luna cade, ti dico che la luna cade. Guardale: si stacca, cade
Ma che cada e che tutto crepi
Di’ loro di dove viene il mio amore, o augusto selenita
Altro che amore, la volta azzurra cade
Ah, mio Dio, è vero, è proprio vero!
ARTAUD
Se noi facciamo un teatro non è per dare delle opere, ma per arrivare a che tutto quel che
c’è di oscuro nello spirito, di sepolto, di irrivelato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale.
STRILLONI DI GIORNALI – GRANDE SCOPERTA. LEGGETE LA GRANDE SCOPERTA. UFFICIALE. LA
SCIENZA SCONVOLTA. UFFICIALE! NON C’È PIÙ FIRMAMENTO. NON C’È PIÙ FIRMAMENTO.
VOCE – Ma CHE DICONO, ma che raccontano?
(Un attimo di calma. Poi da molto lontano altre voci riprendono con una nuova invasione di strilloni. Si sente
il nome di SIRIO, pronunciato a tutti i toni e tutti i diapason della gamma, che cresce amplificandosi.)
VOCI – SIRIO SIRIO SIRIO. IL GOVERNO RACCOMANDA LA CALMA
VOCE – Andate a dormire, razza di visionari
Ma io non comprendo quel che succede, ho paura, ne ho abbastanza.
Ardo
Mamma eccola, eccola, la vedo cadere!
Caro leggimi il giornale. Non capisco niente; che cosa succede?
IL GOVERNO RACCOMANDA LA CALMA
VOCE D’UOMO IN PRIMO PIANO – Ecco, ecco io so. Ascoltate: ecco la verità.
(si stabilisce il silenzio)
ARTAUD
Tutto quel che appartiene all’illeggibile e al fascino magnetico dei sogni, tutto ciò, questi
angoli oscuri della coscienza che sono tutto quel che ci preoccupa nello spirito, noi vogliamo vederlo
raggiare e trionfare sulla scena, a costo di perderci da noi stessi e di esporci al ridicolo di uno scenario
colossale.
VOCE
DI ALTOPARLANTE
– IMMENSA SCOPERTA. IL CIELO MATERIALMENTE ABOLITO. LA TERRA È A UN
MINUTO DA SIRIO, NON C’È PIÙ FIRMAMENTO. LA TELEGRAFIA CELESTE È COSA FATTA. È STATO
FISSATO IL LINGUAGGIO INTERPLANETARIO.
(Gioia e disperazione della folla. La folla sciama. Suono d’organo di Barberia, voci.)
Ecco, comprendi, è basato su…
Ma, vecchio mio, uno scatenamento di forze prodigiose.
Non si tratta di forza, si tratta di volatilizzazione
Di che……?
Di alterazione della materia.
VOCE DRAMMATICA – È la fine di tutto. Non si liberano forze come questa. Sono due mondi che entrano l’uno
nell’altro. È come se la terra saltasse nel cielo.
(Avanza un canto lontano e rivoluzionario.)
ARTAUD
Lo spettatore andrà ormai a teatro come va dal chirurgo e dal dentista. Con lo stesso stato
d’animo, con la consapevolezza che non morirà, ma che è grave e che non ne uscirà intatto. Deve essere
ben persuaso che noi siamo capaci di farlo gridare.
(Mentre il canto cresce, scoppiano delle dispute isolate. Scambio di insulti. Fischi. Due ritmi di tam tam, l’uno
cavernoso, l’altro molto acuto, dissonate, si mescolano alla confusione.)
ARTAUD
Tutto quel che proviene da un errore fecondo dello spirito, da una illusione dei sensi, il
contatto di sentimenti e cose che colpiscono innanzi tutto per la sorta di densità materiale, saranno
presentati sotto un angolo insolito, nella loro pura brutalità, in rilievo e maleodoranti, come appaiono allo
spirito, e lo spirito ne conserva memoria.
(Gente che corre. Donne terrorizzate.)
VOCE – – Ci siamo, arrivano.
Ancora
Oh, ma non ho ancora finito (due volte)
Ecco, vedi, ora la rivoluzione.
Ma no, guardiamo bene; è Sirio?
Altroché.
Sirio. Io ti dico che questi si rivoltano.
(Terribili sirene di polizia, corse folli. Il frastuono cresce, i canti e la confusione divengono terribili.)
ARTAUD
Cosa di più obbiettivo e insieme di più sinistramente terribile dello spettacolo di uno
spiegamento di polizia. Quando la polizia prepara una retata si direbbe l’evoluzione di un balletto, una specie
di solennità dolorosa si sprigiona da tutti i movimenti.
(Nel mezzo della confusione di voci e di sirene si apre un vuoto di silenzio. Poco a poco un rumore di
tamburo bizzarro copre tutto; rumore quasi umano che comincia acuto e finisce sordo. Un corpo, un canto di
rivolta, acquista un diapason prodigioso, cresce in forza e in profondità, e risponde come una litania al
rumore del tamburo.)
(Il coro scandisce le sue parole su un ritmo che precipita.)
- Parassita, che cosa vedi, parassita?
- Io vedo la gran fifa di gonzi e l’itterizia.
- Parassita, che cosa senti, parassita?
- Il tuono e lo squarciarsi della terra che lascia il campo.
- Parassita, che vedi parassita?
- La morte, la rapina, la malattia, il sangue, la lordura, l’incendio.
- Parassita, che vedi parassita?
- Il vuoto, il vuoto, il vuoto, è la fuga dei possidenti.
(Una calma feroce irrompe ad ondate, dei motori d’aereo provocano dei formidabili turbini di vento.)
ARTAUD
Un’opera che sia una sintesi di tutti i desideri e di tutte le torture, che sia come il crogiuolo di
una rivolta che, teatralmente, assocerà il massimo dell’espressione col massimo dell’audacia; che sarà
come la dimostrazione di tutti i possibili procedimenti di messa in scena; che nel minimo di spazio e di tempo
raccoglierà il maggior numero di situazioni; dove gli aspetti di una stessa situazione teatrale appariranno
sotto l’evidenza del loro aspetto oggettivo; in cui cercheremo infine di esprimere in un’epopea la fisionomia di
tutto il teatro come lo concepiamo.
(Il canto si fonde, travolgendo le parole, un concerto di gridi si leva, dove si sente la fame, il freddo, la rabbia,
dove emergono singhiozzi, rantolii di bestie, lamenti di animali, e con questo concerto la folla si disperde e
lascia la scena, rientra poco a poco in una notte vocale, luminosa e strumentale.)
ARTAUD Il
teatro partecipa di quel discredito nel quale cadono una dopo l’altra tutte le forme d’arte. Nel
mezzo della conclusione, dell’assenza, dello snaturamento di tutti i valori umani, di questa angosciosa
incertezza in cui siamo immersi, che investe la necessità e il valore di qualsiasi forma d’arte, di qualsiasi
attività dello spirito, l’idea di teatro è probabilmente la più colpita.
(Si sentono delle voci soffocate, sorde, come una sacrestia in un giorno di festa religiosa o di funerale. Le
voci a gruppi si avanzano; da un gruppo all’altro il tono è diverso, cambia di accento, di diapason, di velocità.
Su tutto un passo pesante, come il passo d’uno scafandro su una strada concava. Al suo passaggio si
sentono le espressioni seguenti. A momenti le voci dei sapienti soffiano come ghiandaie su fili telegrafici, a
momenti gracchiano come corvi, a momenti muggiscono come buoi o soffiano come ippopotami.)
ecco è lui… quello che pretende…
ma è innegabile che siano rimasti colpiti, colpiti
io per me non ci credo
insomma, potrebbe sopprimere lo spazio
comunque Sirio ha risposto, ma in questo modo è la fine del mondo, ma è un crimine, un crimine, ed
è già iniziato
- dice che lui se ne frega: la scienza sopra ogni cosa
- ma state tranquilli, è tutto un bluff, non si è fatto mai nulla di simile, non siamo ancora a quel punto
- sì, sì per fortuna non siamo ancora a quel punto. La fine del mondo è cosa per i libri. Noi non
vedremo l’anticristo.
- Sono dei sogni, è un’utopia
- Dice che ha trovato la radiazione istantanea
- Ma la radiazione istantanea è la fine del cosmo
- Già, la fine del cosmo.
(sul boato prolungato di un’esplosione nucleare, urli di sirene, nel punto estremo del loro diapason)
-
ARTAUD
Nell’epoca di sgomento in cui viviamo, epoca sovraccarica di blasfemi e di fosforescenze di
un rinnegamento infinito, dove tutti i valori sembrano fondersi in un abisso di cui non c’è mai stato nulla che
possa darci un’idea, ho avuto la debolezza di pensare che potessi fare un teatro, che potessi almeno
accennare questo tentativo di ridar vita al valore universalmente disprezzato del teatro; ma la bestialità degli
uni, la cattiva fede e la canaglieria degli altri me ne hanno ormai per sempre dissuaso.
L’esperienza del Teatro Jarry si conclude per Artaud in un disastro, anche perché viene rumorosamente
sabotato dai surrealisti amici di Breton. Premuto da esigenze economiche, egli si rivolge per collaborazione
al famoso regista e attore Louis Jouvet, cercando anche di riprendere il filo del proprio racconto.
ARTAUD
Se il Teatro Jarry non è più, io vivo ancora, disgraziatamente per me, e mi trovo attualmente
in una situazione pietosa. Ho urgente bisogno di lavoro e ho pensato che voi non potreste non darmi una
mano. Infine spero che non mi giudicherete sulla base delle rappresentazioni del Teatro Jarry: voi sapete
meglio di me come la messa in scena è una cosa in sostanza indiretta, e come si viene traditi dagli attori
innanzitutto, e dalle circostanze poi. Io posso dire che tradito lo sono stato al massimo.
Ma la collaborazione con gli altri uomini di teatro francesi, che lo ammirano ma diffidano dei suoi modi di
visionario, è difficile. Così Artaud si dedica con sempre maggiore frequenza al cinema. È soprattutto un
modo di guadagnarsi la vita, ma gli permette anche di immaginare soggetti e scenari, solo in parte realizzati
e sempre traditi nel loro spirito (tra essi famoso quello della Coquille et le Clergiman, che nella realizzazione
di Germaine Dulac provocò le ire di Artaud). In questi soggetti cinematografici Artaud prosegue l’eterna
inchiesta sulla propria afasia, come appare esemplarmente dallo scenario mai realizzato I 18 secondi dove
Artaud tocca uno dei lati più misteriosi della vita e rivela strane tenebre in una luce di purezza glaciale.
ARTAUD
In una strada, la notte, sul bordo di un marciapiede, sotto un lampione a gas, un uomo in
nero, lo sguardo fisso. Un orologio, la lancetta segna i secondi. Al diciottesimo secondo il dramma sarà
terminato.
(inizia la scansione dei secondi)
Il tempo che sta per scorrere è un tempo interiore, interno all’uomo che pensa.
Quest’uomo è un attore.
(si interrompe la scansione dei secondi)
ARTAUD
Io non potrò fare niente finché non sarò guarito. Avevo cessato di credermi malato, ma con
tutta la mia lucidità……
(riprende la scansione dei secondi)
ARTAUD …è sul punto di raggiungere la gloria e di conquistare il cuore di una donna che ama da tempo. È
stato colpito da una malattia bizzarra. È divenuto incapace di possedere i propri pensieri; ha conservato
intatta la sua lucidità, ma qualsiasi pensiero gli si presenti, non può dargli una forma esteriore, cioè tradurlo
in gesti e parole appropriate. Gli mancano le parole necessarie, non rispondono più al suo richiamo, ed è
ridotto a veder sfilare dentro di sé null’altro che immagini, immagini per giunta contraddittorie e senza
rapporto tra loro.
(si interrompe la scansione dei secondi)
ARTAUD
Avevo cessato di credermi malato, ma con tutta la mia lucidità, l’orribile compressione della
testa e della parte alta della colonna vertebrale, il petto compresso, le idee di sangue e di assassinio.
(riprende la scansione dei secondi)
ARTAUD
Questo lo rende incapace di mescolarsi con la vita degli altri e di svolgere un’attività. Egli
può avere tutto, sì, tutto, eccetto il possesso del suo spirito. Ma che cos’è infine lo spirito, in che cosa
consiste? Se solo si potesse essere padroni della propria persona fisica, avere tutti i mezzi, potersi servire
delle proprie mani e del proprio corpo.
(si interrompe la scansione dei secondi)
ARTAUD
Il petto compresso, le idee di sangue e di assassinio, i torpori, le debolezze innominabili,
l’orrore generale nel quale mi trovo immerso…
(riprende la scansione dei secondi)
ARTAUD
18 secondi sono appena trascorsi. Egli contempla un’ultima volta il proprio destino
miserabile, poi senza esitazione, né emozione alcuna, tira fuori un revolver dalla tasca e si spara un colpo
alla tempia.
ARTAUD Le idee di sangue e di assassinio, i torpori, le debolezze innominabili, l’orrore generale nel quale si
trova immerso con uno spirito nel fondo intatto, rendono inutilizzabile questo spirito.
Dal continuo riproporsi delle idee di sangue e di assassinio, dall’orrore generale nel quale si sente immerso,
dall’apparente disperazione dei suoi anni Trenta Artaud matura la pienezza della propria poetica teatrale.
L’occasione di questa rivelazione a se stesso, gli è provocata dalla visione di uno spettacolo dato
all’esposizione coloniale del teatro dell’isola di Bali. Il teatro di Bali realizza per Artaud col più estremo rigore
l’idea di un teatro puro; un teatro che non esiste se non nel suo grado di oggettivazione scenica e mostra la
preponderanza assoluta del regista, il cui potere creativo elimina le parole, traducendo tutti gli elementi dello
spettacolo in immagini animate. Nel 1932 la Nouvelle Revue Française pubblica il primo manifesto del teatro
della crudeltà. L’anno dopo Artaud fonda la società anonima del teatro della crudeltà e pubblica il suo
secondo manifesto. Il 6 aprile, alla Sorbonne tiene una conferenza sul tema della peste, che dei manifesti ci
restituisce l’immagine viva e traumatica.
ARTAUD
Insorta la peste in una città, le strutture regolari crollano; si accendono roghi per bruciare i
morti. Già i morti ingombrano le strade, piramidi crollanti, di cui gli animali rodono i bordi. Il fetore sale
nell’aria come una fiamma. Allora si aprono le case, e appestati deliranti, con l’anima colma di spaventose
immagini, si riversano urlando per le strade. Nelle case aperte entra la feccia della popolazione, come
immunizzata dalla sua stessa cupida frenesia, e saccheggia ricchezze di cui sente che è inutile approfittare.
È allora che il teatro si insedia. Il teatro, cioè la gratuità immediata che spinge ad atti inutili e senza profitto
per il presente. Come la peste, il teatro è un delirio, un delirio comunicativo. Se il teatro è come la peste non
è solo perché agisce su importanti collettività e perché le sconvolge nel medesimo senso. C’è nel teatro
come nella peste qualcosa di vittorioso e di vendicatore al tempo stesso.
Gli ultimi superstiti si esasperano, il figlio, fino a quel momento sottomesso e virtuoso; l’uomo morigerato
sodomizza i familiari. Il lussurioso diventa puro, l’avaro getta l’oro a manciate dalla finestra.
Se il teatro essenziale è come la peste, è perché come la peste è la rivelazione, la spinta in avanti, verso
l’esterno, di un fondo di crudeltà latente, per il quale si localizzano su un individuo o su un popolo tutte le
possibilità perverse dello spirito. Come la peste esso è il tempo del male, il trionfo delle forze nere che una
forza ancora più profonda alimenta fino all’estinzione.
Il teatro, come la peste, è fatto a immagine di questa carneficina, di questa essenziale separazione. Esso
risolve conflitti, libera forze, scatena possibilità, e se queste forze sono nere la colpa non è della peste o del
teatro ma della vita.
Quello che Artaud propone è una rivoluzione tecnica e spirituale del linguaggio scenico, in cui la parola
crudeltà serve ad indicare il carattere assoluto e totale, l’intransigenza e l’irreversibilità sconvolgente che
coinvolge integralmente la persona umana.
ARTAUD
Io non coltivo sistematicamente l’orrore. Questa parola, crudeltà, deve essere presa in un
senso ampio, e non nel senso materiale e rapace che le è dato abitualmente. Dal punto di vista dello spirito,
crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta.
Io impiego la parola crudeltà nel senso di appetito di vita, di rigore cosmico e di necessità implacabile, nel
senso gnostico di turbine di vita che divora le tenebre, nel senso di questo dolore, fuori dalla cui necessità
ineluttabile, la vita non saprebbe esercitarsi.
Lo sforzo è una crudeltà. L’esistenza attraverso lo sforzo è una crudeltà. Uscendo dal suo riposo e
distendendosi fino all’essere, Brahma soffre di una sofferenza che rende forse delle armonie gioiose, ma che
all’estremità ultima della curva non si esprime più che con un orribile stritolamento.
Io credo nell’azione reale del teatro, ma sul piano della vita. La questione che si pone è di permettere al
teatro di ritrovare il suo vero linguaggio, linguaggio spaziale, linguaggio di gesti, di atteggiamenti, di
espressione e di mimiche, linguaggio di gridi e di onomatopee, linguaggio sonoro, in cui tutti gli elementi
oggettivi sfoceranno in segni sia visuali sia sonori, ma che avranno importanza intellettuale e significato
sensibile tanto quanto il linguaggio delle parole. E io conto di provare a fare, attorno a un tema conosciuto,
popolare o sacro, uno o più saggi di realizzazione teatrale, in cui i gesti, gli atteggiamenti, i segni, si
inventeranno di volta in volta che saranno pensati, e direttamente sulla scena. In cui le parole nasceranno
per concludere e fare sfociare in un ambito riconosciuto questi discorsi lirici fatti di musica, di gesti, di segni
attivi.
Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, che non vale che per un legame magico, atroce, con la
realtà e con il rischio. Bisogna innanzi tutto rompere l’assoggettamento del teatro al testo e ritrovare la
nozione di una specie di linguaggio unico a metà tra il gesto e il pensiero.
Spezzare il linguaggio per attingere alla vista e fare e rifare il teatro; e l’importante è di non credere che
questo atto debba restare sacro, cioè riservato. Se c’è ancora qualcosa di infedeltà e di veramente
maledetto in questo tempo, è di attardarsi artisticamente sulle forme, invece di essere come dei suppliziati
che vengono arsi e che fanno dei sogni sui loro roghi.
Dapprima un malessere fisico o psicologico troppo marcato, delle macchie rosse disseminate sul corpo che
balzano all’attenzione del malato solo quando volgono verso il nero: egli non ha il tempo do spaventarsi, che
già la testa gli bolle, diventa gigantesca per il peso ed egli cade. È allora che una fatica atroce, la fatica di
una aspirazione magnetica centrale delle sue molecole scisse in due, spinte verso la distruzione si
impadronì di lui. Gli sembra che i suoi umori appassiti, sconvolti, in disordine, galoppino attraverso il corpo.
Lo stomaco si solleva, sembra che le interiora del ventre vogliano schizzare fuori dall’orifizio dei denti. Il
polso che ora si indebolisce fino a diventare un’ombra, una virtualità di polso che ora galoppa, segue i
ribollimenti della sua febbre interna, il ruscellante smarrimento del suo spirito. Tutto il corpo è una piaga.
Grossi due o tre dita, nell’inguine, sotto le ascelle, compaiono i bubboni attraverso i quali l’organismo si
scarica del putridume interno, della stessa vita. Il teatro come la peste è una crisi che si risolve con la morte
o con una guarigione, e come la peste è il male superiore perché è una crisi completa, dopo la quale non
resta altro che la morte, un’estrema purificazione. Il cadavere dell’appestato non mostra lesioni, il corpo è
duro come la pietra, sulle pareti della membrana stomacale sembrano essersi ridestate innumerevoli
sorgenti di sangue. Tutto indica un fondamentale disordine delle secrezioni. Ma non c’è perdita né
distruzione di materia.
La condizione dell’appestato, che muore senza che vi sia distruzione di materia, con tutte le stimmate di un
male assoluto e quasi astratto, è identica alla condizione dell’attore che viene scandagliato integralmente e
sconvolto dai propri sentimenti, senza alcun profitto per la realtà. Tutto, nell’aspetto fisico dell’attore come in
quello dell’appestato, mostra che la vita ha reagito al parossismo, e tuttavia nulla è accaduto.
Quello che Artaud propone è una rivoluzione tecnica e spirituale del linguaggio scenico, in cui la parola
crudeltà serve ad indicare il carattere assoluto e totale, l’intransigenza e l’irreversibilità sconvolgente che
coinvolge integralmente la persona umana.
Nella ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, nel bisogno di verificare sulla scena le proprie idee, Artaud
compone e realizza un dramma, la cui trama trae da Shelley e Stendhal: è la storia di Beatrice Cenci che,
vittima dell’incestuosa passione del padre ne prepara l’assassinio e viene perciò condannata a morte
dall’autorità. L’ultima scena del dramma rappresenta il lamento funebre di Beatrice nell’atto di venire
accompagnata all’estremo supplizio, tra le urla dei torturati, dalla madre Lucrezia e dai suoi guardiani.
Confinato in un locale di secondo ordine, privo di mezzi, accolto in maniera contrastata dal pubblico e dalla
critica, Artaud deve concludere la rappresentazione dei Cenci dopo poche repliche. I Cenci restano l’unica
realizzazione concreta sulla strada della poetica della crudeltà, perché torna subito a rifugiarsi in grembo
all’utopia pura.
L’idea del doppio, presa dal libro egiziano dei morti, è assunta a cardine dell’utopia teatrale di Artaud, e vi
appare nella forma di un’idea elementare, magica, a valore terapeutico, che ieratizza l’attore e coinvolge lo
spettatore costringendolo ad assumere attraverso l’estremo lo stato al quale lo si vuole condurre.
L’aspetto tecnico dell’estrema utopia teatrale di Artaud è dato dalla triade neutro, maschile, femminile e dalla
combinazione di 7 stati, secondo una simbologia esoterica, in cui Artaud immagina articolarsi i tempi
dell’emissione della voce e dei gesti dell’attore. Egli cerca cioè di dare nuova base positiva alle sue
intuizioni, nuove possibilità al fatto scenico.
Il teatro della crudeltà era stato per Artaud innanzi tutto un processo alla cultura occidentale, alla frattura in
essa implicita con la vita, tra le cose e i sogni che le rappresentano. La cultura in occidente, secondo Artaud,
non coincide con la vita, ma le si sovrappone e la soffoca.
Quest’accusa non rimase in lui un puro fatto verbale, come accadeva per ogni sua idea-forza, si fece azione,
si realizzò nel gesto del viaggio in Messico, alla ricerca di una cultura magica, totemica, di una cultura che
sia la stessa cosa della vita.
ARTAUD
Al Messico, perché si tratta del Messico, non c’è arte e le cose servono, e il mondo è in
perpetua esaltazione. Io spero di potervi raccontare al rientro molte cose stupefacenti e che potranno
mostrare a tutti che in effetti il mondo è doppio, è triplo, e che tutto si muove per piani e per regioni.
Ma non era il Messico europeizzato – per il quale al suo arrivo tenne una serie di conferenze e scrisse
articoli di giornale – non era questo Messico che poteva interessare e soddisfare l’ansia di Artaud. Egli
cercava il contatto con le terre rosse, con le antiche civiltà autoctone. Si inoltrò così nel paese verso il
territorio degli indiani Tarahumaras, ai cui riti magici volle essere iniziato.
ARTAUD
Per quanto possa sembrare incredibile, gli indiani Tarahumaras vivono come se fossero
morti. Essi non vedono la realtà e traggono delle forze magiche dal disprezzo che hanno per la civiltà.
Il viaggio ai Tarahumaras si svolse attraverso un paesaggio che gli apparve come animato da intime forze
magiche, i Manas, quelle forme cioè che rendono significante il linguaggio simbolico della natura.
ARTAUD
Giunto nel cuore della montagna Tarahumara sono stato colpito da reminiscenze fisiche così
vive che mi parve richiamassero ricordi personali diretti. Il paese Tarahumara è ricco di segni, di forme, di
immagini naturali che non sembrano sorte dal caso, come se gli dei che qui si sentono dovunque avessero
voluto significare i loro poteri con queste singolari cifre in cui l’immagine dell’uomo viene perseguita da ogni
lato.
ARTAUD
Forse sono nato con un corpo torturato, camuffato come l’immensa montagna, ma un corpo
dalle ossessioni che servono, ed ho capito che nella montagna serve avere l’ossessione di contare.
Ho visto l’immagine della morte come estirpata dalle rocce circostanti e teneva nella mano sinistra enorme
un bambino.
Ho visto nella montagna un uomo nudo sporgersi da una grande finestra. La testa non era che un grande
foro, una specie di cavità rotonda da cui di volta in volta, a seconda delle ore, appariva il sole o la luna.
Vidi ripetersi otto volte la stessa roccia, che proiettava al suolo due ombre. Vidi due volte la stessa testa di
animale portar nelle fauci la propria immagine che divorava.
Rinvenni uomini annegati, mezzo divorati dalla pietra, e su rocce più alte altri uomini che si adoperavano a
respingerli. Altrove una statua della Morte, enorme, teneva in mano un bambino.
Dico quel che ho visto e che credo. E a chi dirà che non ho visto quel che ho visto, ora spaccherò la testa.
Dopo 28 giorni di attesa non ero ancora rientrato in me. Dovrei dire uscito in me. Muovere un passo per me
non era più muovere un passo, ma sentire dove portavo la testa.
28 giorni di un gravoso soggiogamento, di quel groviglio d’organi mal raccolti che io ero, e ai quali mi davo
l’impressione di assistere, come un immenso paesaggio di ghiacci sul punto di sciogliersi.
28 giorni dall’inizio di un inenarrabile supplizio e da 12 giorni mi trovavo in quel punto isolato di terra, in
quell’intercapedine della smisurata montagna, a sperare nella buona volontà dei miei stregoni.
Non voglio più essere un illuso, morto al mondo, a quel che per gli altri è il mondo; caduto, caduto infine,
salito in quel vuoto che rifiutavo, possiedo un corpo che patisce il mondo e accoglie la realtà.
La lunga e disagiata permanenza presso i Tarahumaras, durante la quale si astenne dall’uso della droga, si
concluse con l’iniziazione al Ciguri, la danza del Peyotl. Il rito consisteva in una espurgazione fisica che si
realizzava per fasi, accompagnandosi ad una ossessione ritmica di danza e di percussioni, angosciosa, ma
che nell’atto di bere la bevanda – il peyotl – approdava non solo simbolicamente a una totale liberazione
della vita.
ARTAUD
Davanti a me avevo la natività di Jeronimus Bosch, disposta e orientata nello stesso ordine,
con la vecchia tettoia di assi sconnesse davanti alla stalla, con i raggi del re bambino che brillano tra gli
animali, con le fattorie sparse, i pastori, e in primo piano altri animali che belano, e a destra i re danzatori.
E già le donne in ginocchio davanti ai mortai pestavano il peyotl con una specie di metodica brutalità. Gli
aiutanti si misero a calpestare il cerchio e in mezzo al cerchio accesero un fuoco che il vento aspirò
vorticosamente dall’alto.
Il danzatore entra ed esce, tuttavia non lascia il cerchio, volutamente avanza nel male. Dieci croci nel
cerchio, dieci specchi. Un trave con sopra tre stregoni. Quattro aiutanti, due maschi e due femmine. Il
danzatore epilettico e io stesso, per il quale si faceva il rito.
È fatta. Sono proprio precipitato nel vuoto da quando tutto quel che fa questo mondo ha cessato di farmi
disperare. Sveglio ed ebbro venni condotto per la guarigione finale verso le croci, dove gli stregoni fanno
vibrare la raspa proprio sulla testa del paziente.
Mi avevano fatto coricare molto in basso, sulla terra, ai piedi dell’enorme trave sulla quale tra una donna e
l’altra sedevano i tre stregoni, sdraiato in basso perché potesse cadere su di me il rito, perché il fuoco i canti
le grida la danza e la stessa notte come una volta animata, umana, ruotasse viva sopra di me.
Il Peyotl non restituisce il reale, ma scoraggia l’intelligenza e ci rinvia nella vita come purgati, dopo una fase
indicibile di angoscia.
Quel che usciva fuori dalla mia milza e dal mio fegato aveva la forma delle lettere di un antichissimo e
misterioso alfabeto masticato da un’enorme bocca, ma orribilmente repressa, orgogliosa, illeggibile, gelosa
della sua invisibilità: e quei segni erano trascinati via per ogni dove nello spazio, mentre mi pareva di salire
ma non del tutto solo. Aiutato da una forza inusitata. Ma molto più libero di quando sulla terra ero solo.
Io non andavo al Peyotl da curioso, ma al contrario da disperato che vuole togliersi fin l’ultimo brandello di
speranza, staccare l’ultima, piccola, fibra rossa della speranza spirituale della carne.
Io non andavo al Peyotl per entrare ma per uscire.
Alla fine del 1936 Artaud rientrava in Francia. L’esperienza dell’iniziazione messicana aveva accentuato in
lui il senso del distacco dalla società ma aveva insieme reso più acuta l’esigenza di reinserirsi, di ricostruirsi
sia pure dall’esterno una normalità: una normalità fisiologica, sottoponendosi alla disintossicazione dagli
stupefacenti; ed una normalità affettiva, fidanzandosi con una giovane della ricca borghesia di Bruxelles.
ARTAUD
Sono vent’anni della mia vita che getto in questo momento dietro di me. Io sento che un altro
uomo ne verrà fuori, senza sapere esattamente chi è, né dove mi porterà. Il Solitario Distaccato ha vendicato
il Male venuto dalle tenebre della donna con la forza che ha reinventato. La forza che egli ha impiegato a
distaccarsi, gli ha reso una forza inversa. Ed era una forza di morte. Il Destino di tutti noi è un Destino di
Morte. Un ciclo del mondo è concluso.
Morti, gli altri non sono separati. Ruotano ancora intorno ai loro cadaveri. Io che non sono morto, sono
tuttavia separato.
In un atto di ribellione istintiva rompe il tentato equilibrio. Con sgomento presente la follia, e si predispone un
rifugio magico in un amuleto donatogli all’Avana, e in un bastone nel quale vede un simbolo di castità.
ARTAUD
Da lui i sessi sono stati separati con la Fiamma, perché conosceva in natura la Fiamma
dell’Amore trovato e smarrito. E per far accettare questa separazione attraverso la fiamma, per prima cosa
ha giocato con la propria Fiamma.
Per prima cosa si è fatto passare per uno zotico folle.
In quanto tempo avverrà questa trasformazione rivoltante che non può più essere una rivoluzione?
In cinque mesi
A partire da quando?
A partire dal 3 giugno 1937
Perché?
Perché il 3 giugno 1937 sono apparsi cinque serpenti che erano già nella spada, il cui potere di decisione è
rappresentato dal bastone.
Questo cosa vuol dire?
Vuol dire che io che parlo ho una spada e un bastone. Ho avuto la Spada da un Negro Africano, e il Bastone
l’ho avuto da Dio. Questo bastone, mi hanno detto, fu mio già in altri secoli. Un bastone con 13 nodi e questo
bastone porta al nono nodo il segno magico del fulmine. E 9 è la cifra della distruzione con il fuoco.
E IO PREVEDO UNA DISTRUZIONE CON IL FUOCO.
Con il bastone scolpito che egli crede essere appartenuto a San Patrizio, patrono degli irlandesi, ed al quale
attribuisce poteri occulti contro i malefici che sente gravare su di sé, Artaud parte per l’Irlanda. Qui vi è un
momento in cui tra il suo mito religioso e la realtà si produce una lacerazione, un primo sintomo della follia.
Viene preso, arrestato ed estromesso dall’Irlanda. Sulla nave che lo riporta in patria il processo di
esaltazione mentale si accentua irrimediabilmente.
ARTAUD
Sono stato deportato dall’Irlanda in seguito a delle sommosse di strada che ebbero luogo
intorno e a proposito della canna che portavo con me. Non ero solo a Dublino, uno contro mille. Ero solo con
un bastone speciale che tutti hanno potuto vedere a Parigi in maggio, giugno, luglio e agosto 1937. Con quel
bastone ho girato al Café des Deux Magots, al Dôme, alla Coupole e un po’ ovunque a Parigi. L’ho mostrato
molto da vicino ad André Breton e a diversi altri amici. Quel bastone ha 200 milioni di fibre ed è intarsiato di
segni magici che rappresentano forze morali e un simbolismo antenatale. In ogni modo mi sono servito di
quel bastone in Irlanda solo per imporre il silenzio a tutti gli abbaiatori, e sono stato messo in prigione e
deportato solo perché mi sono reso conto che come mezzo di difesa non valeva niente, e che diventavo io
stesso molto cattivo, cioè incapace, idiota e sciapo d’anima, man mano che lo usavo.
La verità è che a Dublino, senza soldi, braccato dal bisogno, in un sussulto disperato, egli andò a chiedere
asilo ad un convento francese. Vi capitò durante un ritiro e non poté vedere il Superiore. Fece tanto chiasso
e gridò così forte per farsi ricevere, che il convento avvertì la polizia. Ne seguì un tumulto. La canna di S.
Patrizio, che Artaud aveva ancora in mano, sparì nel tumulto, e Artaud fu imprigionato per sei giorni.
ARTAUD
Ecco il regime che io non ho mai accettato e contro il quale mi sono sollevato pubblicamente
in Irlanda. La dottrina della castità salvatrice fu in Irlanda la dottrina di S. Patrizio, che ha scritto delle pagine
terribili su questa questione. Riapparendo a Dublino con la canna che voi conoscete e che fu di S. Patrizio
ho spiegato tutto ciò agli Irlandesi, e la canna mi è servita a colpire il male molto spesso. È per questo che si
è preteso che io mi dedicassi al feticismo e alla magia, e che hanno finito per farmi internare come
squilibrato, benché io non sia che un cristiano che ha voluto manifestare la sua fede.
La polizia frugò i suoi vestiti, scucì gli abiti, tagliò le tasche e non trovando niente lo ricondusse sotto scorta
e lo imbarcò di forza su una nave in partenza per la Francia.
ARTAUD
Sulla nave che mi riportava in Francia hanno cercato di assassinarmi: alle tre di pomeriggio
improvvisamente sono entrati nella mia cabina un mozzo e un capo macchinista armati di chiave inglese,
mentre, in piedi davanti all’oblò, guardavo tranquillo il mare.
Sul battello, preso da una disperazione furiosa, egli cercò di gettarsi fuori bordo. Fu necessario
immobilizzarlo e chiuderlo in una cabina.
ARTAUD
Il Torturato è stato preso per un pazzo da tutti, è apparso come un pazzo davanti a tutti. E
l’immagine della pazzia del mondo si è incarnata in un Torturato. Io sono un fanatico, ma non sono un folle.
Non ne voglio più sapere dell’ordine moderno che vi conduce al caos. Mi sono lasciato liberamente
rinchiudere, in uno spirito che voi non potete più comprendere, per compiere in piena sincerità e coscienza
le impossibili prove della profezia di San Patrizio.
Le Havre, Quatemarre, Sotteville, Sainte Anne, Ville-Evrard: mentre sull’Europa covano ed esplodono le
devastazioni della seconda guerra mondiale, Artaud, internato d’autorità, trascorre nove bui anni nei
manicomi per gli incurabili. Solo a Ville-Evrard cominciò a riprendere contatto col mondo esterno; preda di
violente manie di persecuzione e di affatturamento, lanciava disperati appelli ai pochi amici che ancora si
interessavano a lui.
ARTAUD
Giorno e notte delle orde sinistre si aggirano intorno a Ville-Evrard, a tutti gli angoli di Parigi
e della terra, che esistono in carne ed ossa e che mi rodono il ventre e gli intestini. L’acqua e la terra ne
sono pieni, sono miliardi di migliaia, ma è addosso a me che vengono. È già un anno e mezzo caro Dullin
che lotto con tutte le mie forze contro il male e assolutamente non ne posso più, e comunque fino a qui
nessuno ha potuto darmi conforto, perché Satana sbarra tutte le strade. Il teatro di Parigi è un posto
maledetto caro Dullin. Il mio supplizio è abietto e doloroso, me lo avete detto e gridato. Aspetto da voi un
ultimo gesto e vi chiedo di venirmi a trovare qui domani. Bisogna venirmi a trovare e portarmi l’eroina, le
sigarette e il pane.
Gli asili di alienati sono ricettacoli di magia nera coscienti e premeditati, e questo non solo perché i medici
favoriscono la magia per le loro terapie intempestive e ibride. Coloro che vivono, vivono da morti, e bisogna
anche che la morte viva. E non c’è nulla che come un asilo di folli covi dolcemente la morte e tenga nella
covata dei morti.
Com’è possibile che tutti i miei amici non capiscano che è a causa delle mie idee che io sono stato
maltrattato dalla polizia per le strade di Dublino, messo in prigione, deportato e internato in Francia come
Folle, chiuso in una camicia di forza, messo in cella e avvelenato nei manicomi francesi, finché morte ne
seguisse, ma la morte non è mai venuta, e io sono sempre vivo e internato e io non vedo più la fine della mia
disgrazia.
Sono quattro anni ormai che non mangio più la mia fame ed altri sette che sono sottoalimentato e durante i
primi due anni del mio internamento mettevano veleni in tutti i miei piatti, ed io non ho mai potuto procurarmi
il medicamento necessario per guarire di questa narcosi dei nervi e delle ossa che vi ho guadagnato.
Nel 1943 la famiglia e gli amici riescono a far trasferire Artaud a Rodez, nella casa di cura del dottor
Ferdière. Nel frattempo alla mania di persecuzione si è sovrapposta una crisi mistica. Artaud si sente un
altro. Immagina di essere morto e di essere rinato in Antonin Nalpas.
ARTAUD
Nella luce vera delle tre finestre del dormitorio di Rodez in cui mi trovavo dapprima e
immediatamente non seppi dov’ero e continuai a sentirmi perduto, avvolto come un enorme feto d’essere
nell’assoluto di quella sensazione pura, nell’avvolgimento di quella placenta del proprio io che si chiama
eternità.
Intorno a me ho eserciti di affatturatori posti in tutte le piazze di Parigi e della terra, e che tutta la terra ha
visto e che nessuno più ignora. Ma vi è qualcuno che mi ha sempre voluto bene per tutto il buono che c’era
in me, non solo nel corpo ma nell’anima. E questo che mi vuole bene, questo qualcuno si chiama Dio e
Gesù Cristo.
L’anima di Antonin Artaud era quella di un angelo, uno degli angeli più vicini a Dio. E quest’angelo ha portato
Dio in terra poiché Dio in questo tempo, cioè prima della partenza di Antonin per l’Irlanda, non poteva avere
un corpo quaggiù. Ed egli l’ha portato finché il peccato non sia lavato ed espiato affinché Dio potesse
scendervi quando sarebbe ridivenuto vergine e purificato. Il corpo di Antonin Artaud infatti ha portato un
tempo e fino alla sua morte i peccati di tutti gli uomini, ed è di questo che Antonin Artaud era malato e
soffriva tanto. E soffriva al punto di aver un tempo dimenticato anch’egli i sacramenti della chiesa di Gesù
Cristo. Antonin Artaud è ritornato alla fede cristiana e cattolica di Gesù Cristo a Dublino nel settembre 1937
ed è morto a Ville-Evrard nell’agosto del 1939. Ora Dio ha cominciato a ritornare in terra nel mio corpo, il
corpo di Antonin Nalpas, pieno di peccati e divorato notte e giorno dai demoni. Per cacciare i demoni e per
permettere a Dio di scendervi e completare in terra il mistero della redenzione umana è necessaria
dell’eroina e dell’oppio, ed è un atto elementare di carità cristiana e di umanità darne allo sventurato,
tormentato e malato che è qui e non può più sopportare su di sé la sofferenza del peccato umano.
Il dottor Ferdière lo sottopone ad una energica cura a base di elettrochoc e di rigorosa astinenza dalla
droga, che ben presto ottiene degli effetti positivi: spinto anche da Ferdière Artaud riprende a scrivere. Tra i
due si stringe un rapporto di amicizia e di attiva collaborazione che Artaud ricambia con trasporto.
ARTAUD
Dottor Ferdière, per ritrovare un po’ d’amore attorno a me quaggiù, son dovuto venire a
Rodez. Io ho orribilmente sofferto della cattiveria umana, in tutti gli asili in cui son passato da 1937 al 1943.
Qui soltanto ho trovato degli amici che mi hanno aperto il loro cuore. Voi non solo mi avete aiutato a vivere,
voi mi avete invitato a vivere, quando io intristivo.
FERDIÈRE
Io non ho certo guarito Antonin Artaud. Egli era verosimilmente inguaribile, con le risorse
attuali della terapeutica psichiatrica. Ma per lo meno l’ho reso alla vita sociale, e sopra tutto alla creazione
artistica e poetica. Senza di me Artaud sarebbe morto nella sterilità e nel marasma. Sono pertanto obbligato
di battere un chiodo mai abbastanza battuto: l’applicazione dell’elettrochoc è rigorosamente indolore. Solo il
risveglio può accompagnarsi a delle manifestazioni ansiose.
Sono stato accusato di aver impiegato l’elettrochoc come una punizione. Voi conoscete l’antifona «signor
Artaud rinunciate alla magia altrimenti vi sottopongo all’elettrochoc»; oppure «signor Artaud, il vostro ultimo
poema è incomprensibile. Scrivete con chiarezza, fate della poesia come tutti, altrimenti sono obbligato a
ricominciare con gli elettrochoc». Il che sa veramente troppo di caffè ed è una bestialità.
Man mano che Artaud riprende, con gli effetti della cura, possesso di se stesso, prova insofferenza per la
tirannia clinica cui è necessariamente sottosposto. Nel suo animo il rapporto con Ferdière si incrina.
ARTAUD
Anche Ferdière, il primario di questo posto ha finito col convincersi che si era sbagliato sul
mio conto, quando non voleva che essere mio amico, ed è stato formato, con un affatturamento a
considerarmi da medico. C’è una donna a Rodez che è venuta a trovarlo per parlargli di me, e che per
cinque minuti lo ha addormentato e affatturato a sua insaputa per cambiare la sua coscienza nei miei
confronti. Lui è rimasto incosciente per più di cinque minuti e ora non è più la stessa persona, ha un altro io
e vedendomi lottare contro gli spiriti maligni e i demoni, con il sistema del soffio che ho inventato, non ha più
capito, non ha più potuto capire e sopportare quel che vedeva.
La polizia ha cercato di farmi avvelenare in tutti i modi a Rouen, e ho subito un tentativo di avvelenamento
grave all’asilo Sant’Anna che mi ha provocato una sincope e mi ha lasciato un mese in coma. E ho subito
all’asilo di Rodez cinquanta coma da elettrochoc, che mi hanno tolto la memoria e la coscienza per molti
mesi.
La medicina prezzolata mente ogni volta che presenta un malato guarito dalle introspezioni elettriche del suo
metodo. Io non ho visto che dei terrorizzati del metodo, incapaci di ritrovare il proprio io. Chi è passato
attraverso l’elettrochoc del bardo e il bardo dell’elettrochoc, non risale più dalle sue tenebre e la sua vita è
stata scorciata di un cranio.
FERDIÈRE
Se voi fate cadere volontariamente questo libro vi faremo l’elettrochoc signor Artaud.
(Rumore del libro che cade. Silenzio. Respiro affannoso)
ARTAUD
C’è nell’elettrochoc uno stato di ristagno attraverso il quale passa ogni traumatizzato e che
gli concede in quell’istante non di conoscere ma di spaventosamente e disperatamente disconoscere quel
che fu, quando egli era se, che le me re te zut e qua.
FERDIÈRE
Vi disegneremo il contorno del vostro essere con l’elettrochoc, signor Artaud.
ARTAUD E quando ci si risveglia si è incapaci di ritrovare il proprio io, la vita si è scorciata di un cranio e si è
perduto un lembo della primitiva euforia.
Parallelamente alla ribellione verso la cura dell’elettrochoc Artaud ha un nuovo più blasfemo empito di
coprolalia che si esprime nel rifiuto della conversione e nella sostituzione della propria immagine a quella di
qualsiasi divinità.
ARTAUD
Questa conversione è stata solo il risultato di uno spaventoso affatturamento che aveva fatto
dimenticare a me stesso la mia natura e qui a Rodez mi ha fatto ingoiare con il pretesto della comunione un
numero spaventoso di ostie, destinate a tenermi per il maggior tempo possibile e se possibile eternamente in
un essere che non è il mio.
Ora io, signor Artaud, non ho niente a che fare con Dio e non ammetto che si fondi una religione sulle mie
vertebre o sul mio cervello.
Della morfina su una gamba di legno. Fatta, la morfina, con la cancrena delle ossa della gamba morta, poi
spillata. Ecco cosa fu la santa trinità.
C’è in questo momento nell’aria una faccenda di assurda possessione condotta da un certo numero di sette
di iniziati che io conosco molto bene e che perseguito da almeno trent’anni, da quel giorno della primavera
del 1915 in cui fui colpito con un colpo di coltello sulla schiena da due protettori, in Corso de Villiers a
Marsiglia, davanti alla chiesa dei riformati. Io passavo davanti alla farmacia all’angolo del Corso de Villiers e
del Boulevard de la Madeleine quando vidi gironzolarmi intorno due uomini dall’aria sinistra. Io non li
conoscevo ed uno di essi mi sorrise come per dirmi: «no, tu non hai nulla da temere da noi, non sei tu che
cerchiamo», poi vidi il suo volto cambiare e al posto dell’uomo che mi sorrideva, nello stesso corpo vidi una
maschera di bestialità e vi sentii passare un’orrenda torsione.
«Chi sono e che cosa voglio», sembrò dirsi all’improvviso, «quest’uomo non mi è nemico, non lo conosco e
non lo colpirò» e se ne andò.
Cominciavo a risalire il Boulevard de la Madeleine quando sentii l’aria dietro di me come scossa da una
lacerazione. Pensai «è l’anima del ruffiano che si lacera». Non ebbi il tempo di voltarmi che sentii una lama
di coltello lacerarmi il retro del cuore, sul dorso, verso la parte alta della scapola, a dieci centimetri dalla
colonna vertebrale, e sentii che un corpo era caduto dietro di me, caddi anch’io in terra ma pensai «non è
ancora la mia ultima ora, il sangue se ne andrà, ristagnerà» e con questo pensiero mi sollevai. Provavo un
terribile dolore, che a poco a poco si calmò. Il ruffiano a terra mi disse «Non è colpa mia. Per nulla al mondo
avrei cercato di colpirvi. Io vi conosco, benché mi abbiate dimenticato, e so chi siete. Ho cercato di evitare il
colpo che mi si voleva obbligare a portarvi, e se ve l’ho inferto leggermente è perché sono stato d’improvviso
posseduto, ma la mia anima non me l’ha inferno, e io sono caduto per strapparla al mio corpo». Gli risposi
«so benissimo chi ha voluto colpirmi, è un angelo e non voi. È una vecchia storia che risale a prima della
creazione».
Io non ammetto,
non perdonerò mai a nessuno
d’aver potuto essere abbozzato vivo
durante tutta la mia esistenza
e questo
unicamente perché
io
ero Dio
veramente Dio
io un uomo
e non il sedicente spirito
che non era che la proiezione nelle nubi
del corpo di un uomo altro da me
il sedicente demiurgo
che non trovò di meglio
che nascere al prezzo del
mio assassinio
il mio corpo si è ricostituito malgrado tutto
contro
e in mezzo a mille assalti del male e dell’odio
che ogni volta lo deterioravano
e mi lasciavano esanime
ed è così che a forza di morire
ho finito di conquistarmi un’immortalità reale.
Nella propria dolorante intimità Artaud si costruisce una privata geografia di affetti, fatta dalla
sovrapposizione di immagini femminili di diversa origine, familiari ed erotiche, sentimentali e fantastiche.
Questa famiglia immaginaria è il segno di un rinato bisogno di relazioni umane.
ARTAUD
Ieri sera, venerdì 15 marzo, nell’insediarsi del mio dolore la dialettica è entrata in me come
derisione della mia carne viva che soffre ma non capisce.
Io sono uno di questi esseri di dolore, sono questo principale essere di dolore in cui Dio ha la pretesa di
scendere quando sarò morto. Ma ho tre figlie che sono altri tre di questi esseri. È nato a poco a poco
quell’inconscio che ho avuto come duro tra i duri davanti alla bara delle mie sei dilette figlie ancora da
nascere: Yvonne, Catherine, Neneka, Cecile, Ana e la piccola Anie.
E ho visto il coltello a tacche dell’altra mia figlia Neneka che ho sentito muoversi nell’oppio della terra, e con
Neneka c’era anche Yvonne, Catherine, Cecile, Anie e Ana. Mi volle bene quando un giorno masticai per
comporre la terra che mangerò.
Fu Ana ad amare un giorno la musica dall’alto di quella tettoia che mi ascolta quando non penso a me ma a
lei. Ana Corbin, figlia primogenita della mia anima, e che morì disperata di me.
E per sposarsi con me Ana Corbin aspetta che la terra sia ripulita, come Yvonne, Cecile, Anie, Catherine,
Neneka, questa morte che al di là delle angustie dei limbi per raggiungermi aspettano che abbia finito di
sposare il mio Ka ka.
E ho visto Marthe Robert di Parigi, l’ho vista da Rodez a Parigi piegarsi per la collera nell’angolo della mia
camera chiusa, proprio davanti al mio comodino, come un fiore estirpato di collera nell’apocalisse della vita.
Non voglio che mi si trattenga come internato e mi si impedisca di ritrovare qui le mie cinque figlie
primogenite. Neneka Chilè, Catherine Chilè, Cecile Schramm, Anie Besnard, Yvonne nel Dumonchel, poi
qualcun’altra, con in testa Sonia Mosse, Yvonne Gameline, Josette Lusson, Paulette Prou, assassinata a
colpi d’ascia in una cella dell’ospedale di Le Havre da un guardiano assoldato dai servizi segreti dello stato,
mentre ero trattenuto in camicia di forza e con i piedi legati al letto.
Nell’ultimo periodo della permanenza a Rodez intensifica gli appelli agli amici che, finita la guerra, ne
affrettano la liberazione, organizzando serate in suo onore per raccogliere i fondi necessari.
ARTAUD
Mi avete veramente così completamente dimenticato? E siete veramente così fuori da ogni
sofferenza da non poter più comprendere il mio dolore? Io sono internato ormai da sette anni e il mio più
grande dolore è di vedere che gli amici hanno tutti finito per credermi veramente malato, a forza di vedere
questo internamento prolungarsi, e non si sono mai decisi a rivoltarsi veramente verso l’iniquità abominevole
che mi è stata fatta e di cui senza rendersene conto sopportano tutto il peso, perché questa iniquità è un
sortilegio dei demoni.
Nel maggio del ’46 lascia Rodez: due mesi dopo è a Parigi e riprende a scrivere e disegnare con grande
impeto. Il 13 gennaio del 1947 al Vieux Colombier tiene una conferenza che resta indelebile nel ricordo di
chi vi assistette. Negli stessi giorni visita una mostra dedicata a Van Gogh nella cui vicenda spirituale egli
immediatamente si identifica. Sente che questo estremo approccio con la società è definitivamente mancato,
che essa anzi – come con Van Gogh – per punirlo di essersi sottratto alle sue costrizioni, lo precipita nel
suicidio.
ARTAUD
Io, Antonin Artaud, sono mio figlio,
mio padre, mia madre,
e me;
ma non sono nelle condizioni normali,
non sono entrato in questo mondo dall’uscio della matrice,
la mia nascita è stata una lotta orrenda,
una guerra raccapricciante;
ho navigato in un fiume di pus
che fu creato sul posto e lanciato contro di me
per impedirmi di passare;
e il corpo osceno
di questa umanità volle richiudere sopra di me la sua cicatrice
quando il mio corpo era già fatto e non aveva bisogno di niente e nessuno.
Van Gogh non è morto in uno stato di delirio ma per essere stato corporalmente il capro di un problema
attorno al quale dalle origini si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità: quello del predominio della carne
sullo spirito, o del corpo sulla carne o dello spirito su entrambi. E dov’è in questo delirio il posto dell’io
umano? Van Gogh cercò il suo durante tutta la vita con un’energia e una determinazione inusitate. Egli non
si è suicidato in un colpo di follia nell’angoscia di non giungervi, ma al contrario egli stava per raggiungere e
scoprire quel che egli era e chi egli era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi
sottratto a lei, lo suicidò. Perché non è per questo mondo, non è mai per questa terra che tutti noi abbiamo
sempre lavorato, lottato, bramito l’orrore della fame, della miseria, dell’odio, dello scandalo e del disgusto,
che noi tutti fummo avvelenati.
Benché ne siamo rimasti ammaliati
E ci siamo infine suicidati
Perché non siamo noi tutti come il povero Van Gogh stesso dei suicidati della società?
Artaud ha oramai i giorni contati: un altro male è venuto a minarlo senza scampo, un cancro nella zona
sacrale. Per lenire questi dolori giungeva fino a tormentarsi il cranio con un coltello.
L’ultima cosa che ci resta di lui è una registrazione radiofonica: Per finirla col giudizio di dio che non viene
mandata in onda per la violenza del suo contenuto. In disperata antitesi contro i valori costituiti, Artaud vi
propone una radicale disincarnazione, una reinvenzione dell’uomo fin dalle fondamenta del suo corpo, un
nuovo istituto della natura umana.
ARTAUD
Fisicamente non bene,
dall’alto della mia carne massacrata, incompleta, che non riesce più a nutrire il mio pensiero;
spiritualmente mi distruggo da me,
non mi accetto più vivo;
la mia sensibilità è al livello delle pietre, e poco importa che ne escano dei versi,
la putrescenza di cantieri abbandonati.
Ma questa morte è molto più raffinata,
questa morte moltiplicata da me stesso è in una sorta di rarefazione della […]
il tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzione
ma di volontà
e albero di volontà che cammina
tornerà.
È stato e tornerà.
Perché il grande inganno è stato di fare dell’uomo un organismo
Ingestione, assimilazione,
incubazione, secrezione.