DUE MODELLI DI INDUSTRIALIZZAZIONE: LA

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DUE MODELLI DI INDUSTRIALIZZAZIONE: LA
DUE MODELLI DI INDUSTRIALIZZAZIONE:
LA SPECIALIZZAZIONE PRODUTTIVA
DELL’INDUSTRIA ITALIANA
LUNGO L’ARCO DEL NOVECENTO
di
Fabrizio Traù
Centro Studi Confindustria
Viale dell’Astronomia 30
00144 Roma
Tel. 06.5903536
Fax 06.5918348
Email [email protected]
Abstract
The paper analyses the long-run pattern of development of
Italian manufacturing industry. It shows that two distinct phases can
be observed in the industrialisation process since its very beginning
to date. The first one, which came to an end around the late 1960s,
was characterised by a constant widening of the range of industrial
activities, driven by important technical developments in “modern”
industries. This process was strongly supported by State intervention,
which aimed at pursuing a convergence of Italian industrial structure
towards that of early industrialised economies. Starting with the early
1970s, the matrix of industrial activities has begun to shrink, and a
new “model” has gradually gathered importance, grounded on “light”
industries producing consumption and investment goods. The paper
argues that a key role in this connection has been played by the
decline of important “modern” industries directly controlled by the
State.
Keywords: Struttura settoriale dell'offerta, Specializzazione
produttiva, Modelli di industrializzazione, Cambiamento strutturale
Jel Classification: L6, N6
Indice
1.
2.
3.
4.
Introduzione……………………………………………..
Alle radici del modello di specializzazione: dall’avvio del
processo di industrializzazione al secondo dopoguerra…...
Lo sviluppo industriale nel secondo dopoguerra: dagli anni
della continuità (1951-1971) all’“industrializzazione dal
basso”……………………………………………………
5
23
Conclusioni, ovvero ascesa e declino di una visione dello
sviluppo industriale………………………………………
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6
1. Introduzione
Questo scritto analizza i cambiamenti che hanno interessato la
composizione settoriale dell’offerta manifatturiera italiana nell’arco
del XX secolo. La scelta di inquadrare l’evoluzione della struttura
industriale lungo un orizzonte temporale così ampio è suggerita dal
fatto che l’attuale orientamento della specializzazione – così
frequentemente contestato dalla più parte degli osservatori – non
sembra affatto configurarsi, nell’esperienza italiana del secolo scorso,
come un tratto costante del processo di industrializzazione. Come
anzi si vedrà nel seguito di questa analisi, esso sembra emergere con
sempre maggiore evidenza soltanto nella fase più recente, nel corso
della quale si assiste da un lato all’arresto di un processo di diffusione
settoriale delle risorse produttive – ossia di ampliamento della matrice
dell’offerta – che aveva caratterizzato l’espansione industriale
dell’Italia fin dai primi anni del suo avvio; dall’altro, al riaggregarsi
della specializzazione intorno ad attività che per tutta la prima fase
dell’industrializzazione avevano invece subito una sostanziale
penalizzazione.
Nelle pagine che seguono il fenomeno di cui si discute è
osservato direttamente a partire dal secondo dopoguerra (in
particolare, per gli anni che vanno dal 1951 al 1996); indirettamente –
sulla base cioè delle informazioni già disponibili in letteratura – per gli
anni precedenti (prevalentemente quelli compresi tra il 1911 e il 1951,
con qualche riferimento alla situazione esistente alla fine
dell’Ottocento). L’obiettivo è quello di fornire una misura
dell’ampiezza e della direzione dei cambiamenti che hanno interessato
la struttura per settore delle attività di trasformazione nel corso del
Novecento.
Di fatto, l’unica fonte che consenta un’analisi di questo tipo è
costituita dai Censimenti industriali (ciò che circoscrive
implicitamente
l’osservazione
al
livello
dell’occupazione).
L’allineamento dei censimenti, tuttavia, pone com’è noto problemi
non sempre banali di armonizzazione, in particolare per quanto
riguarda il raccordo delle diverse attività economiche (problemi tanto
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maggiori quanto più l’ampiezza dell’arco temporale rende obsoleta la
stessa classificazione delle attività). I dati utilizzati nell’analisi empirica
qui svolta sono ricavati, per gli anni compresi tra il 1951 e il 1991, da
una ricostruzione degli archivi dei Censimenti Industriali realizzata
congiuntamente dall'Ufficio Censimenti Istat e dal Centro Studi
Confindustria secondo la classificazione delle attività economiche
attuale (Ateco 1991). Ad essi si aggiungono le informazioni ricavabili
dal Censimento intermedio del 19961. Per quanto riguarda invece le
fonti secondarie, sulle quali si basa l’analisi relativa alla prima metà del
Novecento, i riferimenti di base sono, tra gli altri, quelli di Carreras
(1999) e soprattutto Cainelli e Stampini (2002), ai quali naturalmente
si rinvia anche per una discussione dei problemi metodologici relativi
alla ricostruzione dei confini settoriali (e dello stesso campo di
osservazione) per gli anni più lontani.
2. Alle radici del modello di specializzazione: dall’avvio del
processo di industrializzazione al secondo dopoguerra.
2.1. La ricostruzione dei cambiamenti strutturali osservabili
nella prima fase del processo di industrializzazione, e poi negli anni
La ricostruzione a cui ci si riferisce nel testo (d’ora in avanti Istat-Csc) è stata
realizzata nel corso del 1996. Su questa base è stata effettuata da chi scrive una prima
esplorazione delle linee di evoluzione del fenomeno nel corso del secondo
dopoguerra (cfr. Traù, 1998). A partire dal 1998 l’Istat ha realizzato (e pubblicato)
una nuova ricostruzione dei dati censuari 1951-91, disaggregata a livello comunale
(cfr. Istat 1998). L’esigenza di articolare il data-set a un livello di dettaglio così spinto
sul piano territoriale si è tuttavia tradotta, in questo caso, in una disaggregazione
settoriale più limitata di quella possibile in funzione di un’analisi dei soli cambiamenti
della struttura industriale. In particolare, il data-set in questione è vincolato dalla
necessità di utilizzare come base di riferimento la classificazione delle attività
economiche del 1951 (più aggregata rispetto all’Ateco adottata nei censimenti più
recenti, soprattutto per quello che riguarda le industrie meccaniche, che – a livello
comunale – nel 1951 risultano tutte ricomprese nell’ambito di un’unica voce). Dal
momento che l’analisi qui svolta non richiede informazioni di carattere territoriale,
per questa ragione nel presente lavoro la fonte utilizzata resta il data-set Istat-Csc.
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che precedono e seguono il primo conflitto mondiale, è
un’operazione dai risultati ineludibilmente incerti. Le ragioni sono
facilmente comprensibili, e attengono alle disomogeneità di partenza
delle diverse rilevazioni che, a partire dai primi anni del Novecento,
avviano la raccolta sistematica di informazioni sul nascente apparato
produttivo nazionale. I numerosi problemi che è necessario
affrontare quando si intenda “allineare” le informazioni contenute
nelle singole rilevazioni – fosse anche solo a livello settoriale – sono
tali da rendere in molti casi le stime piuttosto acrobatiche; e in alcuni
casi i risultati ottenuti da ricercatori diversi risultano apertamente
contraddittori. Una discussione approfondita delle questioni
metodologiche e dei risultati empirici ottenuti nei principali lavori
sull’argomento è contenuta in un recente contributo di Carreras
(1999), da cui risulta assai chiaramente l’intrinseca aleatorità dei
risultati ottenuti in letteratura.
Pur con tutte le cautele del caso, tuttavia, si può dire che le
informazioni raccolte nel corso di un’attività di ricerca che è stata
comunque molto estesa siano ormai tali da consentire di ricavare
almeno alcune indicazioni di fondo in merito al “profilo del mutevole
contenuto settoriale dell’industria”. Per gli anni più lontani (quelli
immediatamente successivi all’unificazione politica) i vincoli sono
naturalmente più stringenti. Carreras propone al riguardo alcune
stime – assai grossolane e incomplete – dei valori aggiunti settoriali,
per lo più ricavate da serie, a loro volta ricostruite, di indici di
produzione.
La possibilità di calcolare una qualsiasi misura della
composizione settoriale delle attività di trasformazione è in questo
caso fortemente condizionata dallo stesso grado di copertura delle
fonti (per molte attività non si dispone di alcuna informazione
utilizzabile); ne risultano valutazioni – anche per quanto riguarda
macrosettori dai confini molto ampi – considerevolmente divergenti
rispetto a quelle proposte da altri studiosi. In particolare, si può
osservare che nel 1861 il peso complessivo delle industrie tessili sul
totale delle attività manifatturiere è secondo Carreras dell’ordine del
65%, a fronte del 34% che risulterebbe dalle stime prodotte
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dall’Istat2. Ma secondo stime più recentemente proposte da Fenoaltea
(2001), nel 1871, cioè solo un decennio più tardi, il peso dell’industria
tessile sul totale della trasformazione sarebbe addirittura del 10,4%.
Come che sia, e al di là delle pur sconcertanti differenze tra le
fonti, il complesso delle informazioni disponibili – riportate nello
studio citato – indica in termini difficilmente controvertibili che “fino
almeno al 1878, parlare di industria italiana significa parlare di
industria tessile”3. La questione è per altro verso intuitiva, e rinvia al
ruolo preponderante che le produzioni tessili svolgono da sempre
nelle fasi iniziali dell’industrializzazione. Nel caso italiano, la
specializzazione risente peraltro positivamente, fin dall’inizio, anche
degli interventi posti in essere dalla politica economica, che assume
negli anni a cavallo del 1880 una decisa svolta protezionista,
culminando nell’introduzione della tariffa doganale del 1887. Il nuovo
regime tariffario conferma l’orientamento verso la difesa, già in atto,
delle industrie tessili (lana e cotone in particolare), mentre lascia senza
barriere la nascente industria chimica e le produzioni meccaniche4.
Così, all’interno di un settore che aveva fino ad allora mostrato un
ritmo di crescita modestissimo, si realizzeranno presto importanti
cambiamenti, che si sostanzieranno in una forte ascesa delle
produzioni laniere e, soprattutto, cotoniere, a fronte di un netto
ridimensionamento della filatura di fibre dure (canapa, iuta).
Condizionata dalla “grande depressione” internazionale degli
anni 1887-94 (a cui si aggiungono gli effetti della crisi bancaria)5,
l’attività industriale ristagna in realtà ancora per qualche anno, per poi
impennarsi rapidamente a partire dal 1896. Con la fine del secolo si
avvia finalmente il decollo dell’Italia come paese industriale, che si
porterà dietro un primo ampliamento dello spettro delle attività
I dati Istat sono ripresi dallo stesso Carreras dall’Indagine statistica sullo sviluppo del
reddito nazionale dell’Italia dal 1861 al 1956, pubblicata negli Annali di Statistica (serie
VIII, n. 9) nel 1957.
3 Cfr. su questo punto anche Bianchi (2002).
4 Su questo specifico punto cfr. tra gli altri Crepax (2002, cap. 4).
5 Sulla crisi del sistema bancario e sui suoi presupposti (tra i quali le mancate
promesse del precedente boom edilizio) cfr., per tutti, Grifone (1971).
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produttive. Come sottolineato da Cafagna (1981), dopo l’industria
tessile6, il “secondo beneficiario del nuovo clima che sia andava
creando” è l’industria meccanica, l’espansione della quale –
nonostante l’esclusione dalla protezione tariffaria – trova alimento in
importanti interventi di sostegno della domanda, come la creazione di
quote di privilegio per le imprese italiane nelle commesse ferroviarie e
le agevolazioni riservate alla cantieristica. Ma è la stessa industria
tessile a creare una crescente domanda di attrezzature meccaniche,
che – almeno per quanto riguarda le lavorazioni meno complesse –
può cominciare ad essere soddisfatta da produttori nazionali.
Nel quadro del lavoro qui svolto è importante sottolineare,
seguendo Bonelli (1978, par. 6), che il processo di industrializzazione
trova in ogni caso una sponda decisiva nella “fortunata serie di
circostanze che consentì all’Italia di esorcizzare per un certo numero
di anni il pericolo di un deficit commerciale insostenibile”, e in
particolare in “quel regime di libera circolazione degli uomini e dei
capitali che dominò incontrastato fino allo scoppio del primo
conflitto mondiale”. Per un paese privo di risorse naturali e –
soprattutto – di qualsiasi autonomia sul piano della produzione di
beni intermedi e di investimento, l’attivazione di un processo di
espansione industriale non poteva che comportare infatti l’immediata
creazione di un passivo strutturale nella bilancia commerciale; in un
contesto del genere l’equilibrio dei conti con l’estero è ottenuto in
primo luogo attraverso l’esportazione “in massa” di forza-lavoro,
“trasformando così in emigranti produttori di redditi all’estero quelli
che potevano essere … una massa di produttori-consumatori
all’interno” (pp. 1222-23). Questa scelta iniziale manterrà la sua
impronta anche sugli sviluppi successivi dell’industrializzazione
italiana, che ancora negli anni Cinquanta del Novecento (quelli del
“miracolo”) vedrà nel sostegno valutario delle rimesse dall’estero
Cafagna sottolinea tra l’altro, a questo riguardo, come i produttori tessili restassero
relativamente immuni dallo shock rappresentato dalla crisi finanziaria, grazie alla
sostanziale autonomia, rispetto ai grandi circuiti nazionali, del finanziamento loro
assicurato da una rete di banche locali che nel periodo in questione risultava già
ampiamente attiva.
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(ampliato dalla ripresa dei flussi migratori) e nella compressione della
domanda interna di consumo due strumenti decisivi della tenuta dei
saldi di bilancia commerciale (infra, par. 3).
Ai cambiamenti sopra menzionati (e a quelli che cominciano a
interessare le produzioni di base della chimica e della siderurgia, oltre
alla cantieristica) devono comunque aggiungersi, ai fini della
descrizione del “nuovo” corso dell’espansione industriale, gli sviluppi
che nello stesso periodo investono l’industria elettrica, che assumerà
presto un ruolo centrale nella trasformazione del sistema produttivo:
da un lato, ampliando i propri stessi confini con eccezionale rapidità
(nell’ultimo quinquennio dell’Ottocento la crescita del numero degli
impianti e della potenza installata è vertiginosa); dall’altro
imprimendo una svolta decisiva alla disponibilità (a prezzi
competitivi) di energia per usi industriali, che per un paese privo di
risorse carbonifere come l’Italia aveva fino ad allora costituito uno dei
vincoli più stringenti7.
Come osserva ancora Bonelli (1978, pp. 1206-7), “la tariffa
doganale del 1887 viene solitamente … indicata come la sanzione
simbolica della scelta di un modello di industrializzazione [, nel senso]
che allora prese forma il nucleo essenziale delle scelte che oggi
giudichiamo essere state strategiche in base ai loro successivi sviluppi,
[e cioè] che negli anni ’80 si costituì su scala ridotta e semplificata una
matrice dalla quale, attraverso successive articolazioni, sarebbe
scaturito il modello complessivo dello sviluppo capitalistico italiano”.
In questo senso, lo stesso successo delle politiche di
“modernizzazione” della struttura economica – innescando un
processo di ampliamento dello spettro delle produzioni
manifatturiere – avvierà con il tempo anche il graduale declino
dell’importanza relativa delle produzioni tessili, destinato poi a
continuare per tutto il secolo XX. Secondo Carreras (1999, p. 206) il
cambiamento è tale che, alla data del Censimento industriale del 1911
“la forte crescita degli anni precedenti … ha [già] totalmente
7 Sugli sviluppi dell’industria elettrica in questa fase cf. tra gli altri Mortara (1981),
Crepax (2002).
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trasformato la struttura dell’industria italiana. Il settore tessile [in
termini di valore aggiunto] rappresenta solamente il 10 per cento
dell’industria [manifatturiera]”. E, contemporaneamente, “le
costruzioni meccaniche raddoppiano la loro importanza”.
Ma su queste valutazioni è il caso di spendere qualche parola in
più.
2.2. Come si è già sottolineato, il carattere aleatorio delle stime
quantitative tentate dai diversi studiosi è tale che, passando da una
ricerca all’altra, i “pesi” delle singole industrie non coincidono mai. E
in effetti i dati ricavabili da una recente ricostruzione degli archivi
censuari proposta da Cainelli e Stampini (2002) attribuiscono al
complesso delle industrie tessili, ancora nel 1911, un peso più che
doppio di quello indicato da Carreras (con esclusione del vestiario,
22,7 contro 10,1 per cento). Il peso è in questo caso espresso in
termini di numero di occupati (i censimenti non registrano variabili di
flusso), ma è certo difficile attribuire a divari di produttività di tipo
intersettoriale una differenza così ampia. A parere di chi scrive, il
contesto statistico è tale che accontentarsi dei dati sull’occupazione
appare già abbastanza eroico (è veramente difficile riconoscere alle
stime dei valori aggiunti settoriali di anni così lontani i requisiti minimi
di affidabilità che dovrebbero essere richiesti per un’analisi
quantitativa); in ogni caso, non sembra ragionevole immaginare che il
declino dell’industria tessile possa essere stato così repentino da
determinare – pur nei cinquant’anni compresi fra il 1861 e il 1911,
che come si è detto vedono gradualmente ampliarsi l’articolazione
delle produzioni manifatturiere – un crollo dal 65 al 10 per cento
dell’output totale8.
Cainelli e Stampini (d’ora in avanti C&S), a partire dal raccordo
dei censimenti già effettuato per gli anni 1911-1951 da Chiaventi
(1987), ricostruiscono un data-set di lungo periodo riferito al periodo
1911-1991, contenente informazioni sull’occupazione a livello di 15
Vale la pena di osservare a questo riguardo che secondo le stime Fenoaltea (2001)
tra il 1871 e il 1911 il peso in termini di valore aggiunto dell’industria tessile
mostrerebbe addirittura un leggero aumento, passando dal 10,4 all’11,2 per cento.
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settori manifatturieri e 18 regioni. Per quanto riguarda l’arco
temporale che precede il 1951, in particolare, gli anni di riferimento
sono il 1911, il 1927 e il 1937 (che raccoglie in realtà il complesso
delle rilevazioni Istat del triennio 1937-39); la classificazione settoriale
adottata segue quella utilizzata dall’Istat nel 1951. Una ricostruzione
in parte diversa, che riporta informazioni per lo stesso arco temporale
ma su un numero di variabili più ampio e seguendo la classificazione
Istat del 1991, è stata recentemente proposta anche da Federico
(2003)9. E – per un periodo ancora più breve (1911-51) anche se con
un dettaglio settoriale più ampio – altre stime sono state prodotte da
Bardini (1996).
Come accennato più sopra, l’analisi che segue si basa su due
fonti distinte: la ricostruzione effettuata da C&S per il sottoperiodo
1911-51 e i già menzionati dati Istat-Csc per il periodo successivo
(1951-96). Le ragioni di questa scelta sono due. La prima è che la
tenuta di un’unica Ateco – quale che essa sia – lungo un arco
temporale di ottant’anni è di fatto insostenibile, dal momento che un
raccordo puntuale delle classificazioni relative a ciascuna rilevazione
richiederebbe un livello di dettaglio dei dati di partenza che non
esiste; in questo senso si ritiene preferibile osservare l’intero periodo
sulla base di due Ateco diverse, scegliendo in ogni caso per gli anni
1911-51 una classificazione (quella del 1951) più prossima al periodo
di osservazione. La seconda è che, come si è detto nel par. 1, per gli
anni successivi al 1951 (e fino al 1996) i dati ricostruiti da Istat-Csc
contengono informazioni più disaggregate sia di quelle fornite da
C&S (che devono allineare un numero maggiore di censimenti), sia di
quelle contenute nella stessa ricostruzione Istat del 1998 (che
raccorda i censimenti lungo il periodo 1951-91)10.
Entrambe le fonti contengono numerose indicazioni di carattere metodologico in
merito ai problemi del “riallineamento” delle informazioni di partenza.
10 Il maggiore grado di aggregazione delle statistiche disponibili per il primo
sottoperiodo analizzato (anni fino al 1951) costituisce, in un certo senso, un
problema limitato: nei primi stadi del processo di industrializzazione infatti quello
che conta è ancora lo “spostamento” di risorse tra aggregati settoriali relativamente
ampi, piuttosto che la loro articolazione interna (e in ogni caso le attività emergenti,
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Il primo periodo di riferimento è dunque costituito dal
quarantennio che va dagli anni immediatamente precedenti al primo
conflitto mondiale a quelli immediatamente successivi al secondo. Per
questo intervallo temporale, che coincide con l’ascesa e il
consolidamento del “primo” modello di industrializzazione nazionale,
la tabella 1 mostra i cambiamenti che interessano la composizione
percentuale (espressa in termini di occupati) delle attività
manifatturiere. L’evidenza è netta: il complesso delle produzioni di
tipo più tradizionale (dall’industria alimentare a quella del mobile
nella sequenza della tabella), che ancora nel 1911 rappresentavano i
due terzi delle attività di trasformazione, si riduce nel 1951 a poco più
della metà; le industrie “emergenti” della metallurgia, della chimicagomma e della meccanica quasi raddoppiano di importanza (da 21,8 a
36,5 per cento del totale degli occupati). Il grosso della flessione nei
settori del primo gruppo è da imputare alle industrie tessili e
dell’abbigliamento, che perdono insieme oltre sette punti percentuali.
Questa tendenza appare del tutto costante durante l’intero arco di
tempo considerato, e dunque attraverso “passaggi” tutt’altro che
indolori tra una fase e l’altra della storia nazionale.
Il ritmo di crescita dell’attività industriale (del numero degli
occupati) è però caratterizzato nel tempo da ampie oscillazioni. Di
conseguenza i cambiamenti osservabili nelle semplici quote settoriali
dell’occupazione tra le diverse date possono riflettere variazioni
assolute dei livelli del tutto diverse. Le variazioni assolute
dell’occupazione vengono riportate nella tabella 2, che mostra anche i
tassi medi annui di crescita per ciascuno dei sottoperiodi nei quali è
possibile ripartire l’intervallo temporale considerato. Da questi dati si
può dedurre che i cambiamenti di struttura sono effettivamente
considerevoli. In particolare è evidente che l’aumento di peso delle
produzioni meccaniche sopra evidenziato riflette un aumento del
numero degli addetti molto consistente, che corrisponde a oltre il
40% di quello dell’intera industria di trasformazione (oltre 500.000
come ad esempio quelle meccaniche, sono ancora troppo poco consistenti per poter
essere disaggregate più di tanto).
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unità su un totale di poco più di 1.200.000). E assai notevole è anche
l’accrescimento degli addetti all’industria chimica (quasi 140.000
unità), che pone il settore al secondo posto tra tutti quelli considerati
nella ricostruzione di C&S. Dalla tabella si ricava anche che al
ridimensionamento del peso delle industrie più tradizionali
corrisponde una dinamica dell’occupazione ancora positiva se
osservata sull’intero intervallo, ma nettamente più contenuta:
nell’arco dei quarant’anni considerati gli aumenti sono mediamente
dell’ordine del 20-30%, a cui corrispondono tassi medi annui di
crescita che superano raramente il punto percentuale (le industrie
tessili e dell’abbigliamento sono le uniche a mostrare variazioni
dell’occupazione negative nel decennio 1927-37). Il confronto tra i
diversi sottoperiodi rivela in ogni caso come per tutte le industrie gli
anni a cavallo del secondo conflitto mondiale siano quelli in cui
l’espansione dell’occupazione è minore – nella media manifatturiera
l’incremento di occupazione è poco più che nullo; i risultati migliori li
ottengono le produzioni di base (metallurgia, chimica, gomma)11.
Nel leggere entrambe le tavole ricavate da C&S sopra riportate
va in ogni caso considerato che le stime C&S, oltre a includere le
11 Indicazioni solo in parte convergenti con quelle qui riportate si ricavano dalle
ricostruzioni degli archivi censuari più sopra menzionate, realizzate da Federico
(2003) e Bardini (1996). Secondo entrambe le fonti il peso complessivo dell’industria
tessile mostrerebbe infatti nel periodo di osservazione variazioni molto contenute se
non nulle (in percentuale dell’occupazione manifatturiera totale, da 22,5 nel 1911 a
18,8 nel 1951 secondo Federico; rispettivamente 18,6% e 18,9% secondo Bardini).
Dalla seconda fonte, che riporta dati più disaggregati sul piano merceologico, si
ricava in particolare che l’unico comparto in flessione sarebbe quello della seta.
Secondo Federico risulta limitata anche la flessione dell’abbigliamento (da 8,1 a 6,4),
che invece presenta nei dati di Bardini un vero crollo (dal 21 al 7,6 per cento). Per
l’industria conciario-calzaturiera le divergenze sono anche più pronunciate (stabile a
6,2 secondo Federico; in caduta libera dall’11 al 6 per cento secondo Bardini). Le
convergenze sono maggiori – anche nei confronti delle stime di C&S – per quanto
riguarda le produzioni meccaniche, che nel complesso mostrano nell’arco del periodo
in esame un accrescimento considerevole (da 16 a 25,6 per cento secondo Federico;
da 15,8 a 31,1 per Bardini). Un incremento ancora maggiore è osservabile per le
industrie chimiche (gomma e derivati del petrolio inclusi), la cui occupazione passa
da 3,3 a 6,6 per cento del totale per Federico e da 1,7 a 5,9 per Bardini.
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calzature nell’abbigliamento12, escludono dal complesso delle
produzioni metallurgiche le fonderie (inserite nella meccanica).
Secondo la ricostruzione Istat-Csc (cfr. oltre, tabb. 3ss.), che
seguendo l’Ateco 1991 include le attività di fonderia tra quelle
metallurgiche, nel 1951 il peso della metallurgia risulta superiore a
quello indicato nella tab. 2 di circa due punti percentuali, mentre il
complesso delle produzioni meccaniche risulta corrispondentemente
ridimensionato. La questione non è del tutto irrilevante quando si
consideri l’importanza attribuita, nell’ambito del processo di
industrializzazione che si afferma nel periodo considerato, allo
sviluppo dell’industria di base. Da questo punto di vista infatti
l’espansione della produzione di input intermedi rappresenta uno
degli assi portanti sia dei piani autarchici impostati il 1934 e il 1937,
sia dell’economia “di guerra” che egemonizza gli orientamenti della
politica industriale negli anni successivi13. Come mostrato da Tattara
e Toniolo (1976), anche se nel quadro di un certo rallentamento nel
ritmo di espansione dell’industria di trasformazione nel suo
complesso, negli anni compresi tra le due guerre i tassi di crescita
medi annui della produzione nelle industrie meccaniche e in quella
chimica risultano molto elevati anche nel confronto internazionale
(per gli anni compresi tra il 1922 e il 1937, rispettivamente 7,6 e 7,1
per cento).
Se in termini meramente quantitativi l’aumento di peso delle
industrie di base alla fine del periodo non appare comunque
travolgente (ancora nel 1951 le industrie metallurgica – fonderie
incluse – chimica e della gomma raggiungono appena il 13%
dell’occupazione manifatturiera), questa relativa “lentezza” non rende
giustizia alle trasformazioni via via introdotte nell’apparato
produttivo: come osserva Crepax (2002, p. 235), alla fine della guerra
“erano cambiati i beni prodotti, le tecniche utilizzate e
l’organizzazione delle imprese. Lavorazioni ad alta intensità di capitali
e di tecnologia avevano sostituito in larga parte le produzioni
Sia le stime Chiaventi (1987) sia la ricostruzione Istat-Csc (che segue l’Ateco 1991)
raggruppano le calzature insieme agli altri prodotti in pelle e cuoio.
13 Sui piani autarchici e l’economia di guerra cfr. in particolare Petri (2002, cap. 4).
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tradizionali del tempo di pace. Lo stato era diventato il maggior
cliente. Enormi complessi industriali erano nati in funzione delle
commesse di materiali per la guerra”. Ma nell’arco di tempo
considerato l’industria vede emergere anche produzioni affatto
nuove, che i semplici dati aggregati qui riportati possono
documentare solo marginalmente: lo stesso Crepax sottolinea a
questo riguardo i progressi realizzati nel campo delle forniture
elettriche e delle apparecchiature radiofoniche e telefoniche (nelle
quali era però ancora rilevante la presenza di imprese a capitale
straniero) e i risultati ottenuti nell’ambito della chimica organica, oltre
che il decollo dell’Olivetti nel campo della meccanica; Castronovo
(1980) ricorda gli sviluppi nel campo della produzione di fibre tessili
artificiali, in quello degli oli minerali (nel 1926 viene fondata l’Agip),
nell’industria aeronautica, nella fabbricazione di pneumatici.
Anche in questo caso, come già per gli anni del “decollo”, il
quadro dei cambiamenti deve essere completato tenendo conto degli
sviluppi che interessano la produzione di energia elettrica. La
tendenza verso la creazione di un nucleo nazionale di grandi imprese
produttrici aveva ricevuto già negli anni della prima guerra mondiale
una forte accelerazione, attraverso l’ampliamento della capacità – in
particolare per quanto riguarda gli impianti idroelettrici – e la
connessione delle reti distributive tra i diversi centri di produzione;
secondo le valutazioni fornite da Romeo (1963, p. 135), “nel 1927 il
capitale investito nell’industria elettrica ammontava … a un quinto
del capitale azionario italiano, superando di due volte e mezzo il
capitale di tutta l’industria siderurgica e meccanica”. Soprattutto, “era
… cresciuta largamente la parte della energia elettrica nel quadro della
forza motrice al servizio dell’industria italiana” (p. 136). La crisi che
esplode negli anni successivi, e che porta sull’orlo del collasso l’intero
sistema industriale14, non pregiudica né la tenuta finanziaria del
settore (grazie al blocco delle tariffe), né la sua autonomia (il trust
elettrico riuscirà a mantenere la propria rotta al di fuori degli
14 Sulla crisi tra le due guerre cfr. per tutti, oltre allo stesso Romeo (1963, cap. 7),
Grifone (1971, cap. 6), e, più recentemente, Bianchi (2002, cap. 1) e Petri (cap. 4).
16
interventi di indirizzo dello Stato fino alla nazionalizzazione dei primi
anni Sessanta). E anzi nel corso degli anni Trenta e Quaranta
l’orientamento autarchico prima e l’economia di guerra poi
contribuiscono a un ulteriore rafforzamento del settore, favorendo
anche un aumento del grado di concentrazione. Lo stesso shock della
guerra è rapidamente riassorbito: secondo Gualerni (1980, p. 29), nel
1945 la produzione era pressoché dimezzata. Ma già nel 1946 risulta
inferiore solo del 5% rispetto a quella dell’anteguerra e nel 1947 la
supera, continuando ad aumentare negli anni successivi”.
2.3. Le stime realizzate da Rossi, Sorgato e Toniolo (RST,
1993) mostrano che ai cambiamenti di cui si è fin qui discusso
corrisponde a livello aggregato – nonostante la profondità della crisi
del quadriennio 1929-33 – anche un sostanziale aumento del tasso di
industrializzazione. In termini di unità di lavoro le valutazioni di RST
(disponibili soltanto per gli anni compresi tra il 1911 e il 1938)
indicano che il peso sull’occupazione totale dell’intero ramo
industriale (comprensivo sia della produzione e distribuzione di
energia elettrica, gas e acqua che delle costruzioni), che aveva già
raggiunto nel 1911 il 27,7%, scende fortemente negli anni della guerra
e raggiunge un punto di minimo nel 1921 (18,4%). Negli anni
successivi l’indice torna ad aumentare (24,6% nel 1928), per poi
subire un’ulteriore ridimensionamento negli anni della crisi e scendere
di nuovo nel 1933 al 21%. Tra il 1934 e il 1938 – gli anni che
“preparano” la guerra – il tasso di industrializzazione sale a 29,7%. In
questa fase sia l’intensità che la direzione dell’espansione produttiva si
inscrivono in un “orizzonte istituzionale” sempre più contrassegnato
dalla presenza di potenti strumenti di controllo del sistema
industriale: l’uscita dalla crisi degli anni 1929-33 passa com’è noto
attraverso la costituzione dell’Imi (1931), dell’Iri (1933) e – più avanti
– la realizzazione della legge bancaria (1936)15. Il complesso di questi
strumenti definisce un quadro in cui, anche grazie al controllo diretto
sul sistema finanziario, l’allocazione degli investimenti segue da un
15
Sugli aspetti qui menzionati cfr. gli stessi riferimenti di cui alla nota precedente.
17
punto di vista settoriale un percorso fortemente orientato. In questo
senso, “autarchia e… economia di guerra …, canalizzando risorse
umane e materiali in alcuni settori maggiormente che in altri,
incidono profondamente sulla composizione dell’industria italiana”.
Ne deriva “un processo di accumulazione – con rilevanti spinte verso
la concentrazione tecnica e finanziaria – nei settori meccanico,
chimico e metallurgico (…), in presenza di una stasi complessiva della
capacità produttiva (…) dei settori leggeri come conseguenza della
compressione dei consumi interni e dei bassissimi tassi di sviluppo
del commercio internazionale” (Covino, Gallo e Mantovani, 1976, p.
233). In toni del tutto simili si esprimono anche Tattara e Toniolo
(1976, p. 105), secondo cui “la crescita dei settori metallurgico,
meccanico e chimico appare dovuta soprattutto ad una deliberata
politica di redistribuzione forzosa delle risorse a loro favore”.
Le informazioni di cui disponiamo offrono assai poco che
possa corroborare l’ipotesi secondo cui al cambiamento strutturale
corrisponderebbe – come spesso sostenuto – anche un aumento della
dimensione media delle unità produttive; le fonti fin qui utilizzate non
forniscono infatti alcuna informazione in merito al numero delle unità
(imprese o stabilimenti) rilevate nel corso dei diversi censimenti
industriali. Stime della dimensione media (in termini di addetti)
direttamente proposte da Federico (2003) non consentono di
individuare tra il 1911 e il 1911 alcuna tendenza apprezzabile;
secondo stime fornite da Petri (2002, tab. 8.2 p. 330), che tuttavia
non indica la fonte primaria delle sue valutazioni, escludendo le
imprese artigiane la dimensione media delle imprese manifatturiere
risulterebbe comunque effettivamente in aumento almeno tra il 1936
e il 1951 (in termini di addetti, da 24,6 a 33 per cento).
D’altra parte è fuori discussione che gli anni di cui si discute
siano caratterizzati da un forte aumento della concentrazione
finanziaria: da questo punto di vista è lo stesso sistema finanziario
controllato dallo Stato che “non solo non cercò di ostacolare la
formazione di trust, ma anzi li favorì, continuando a garantire pieno
appoggio [alle] concentrazioni industriali formatesi e consolidatesi per
lo più grazie alle commesse pubbliche e ora liberate dal peso delle
18
imprese fallite durante la crisi postbellica” (Bianchi 2002, p. 48)16.
Complessivamente, si può dunque dire che i cambiamenti
sopra osservati nella struttura settoriale dell’occupazione
costituiscano, in misura sostanziale, l’esito di una politica industriale
esplicitamente rivolta a “forzare” la trasformazione dell’apparato
produttivo in direzione di un forte ampliamento della matrice
dell’offerta. L’ampliamento si realizza con lo sviluppo di un
complesso di produzioni ad alta intensità di capitale, in gran parte
orientate alla domanda interna di input intermedi, che tendono a
spostare il baricentro dell’industria di trasformazione verso un assetto
più “moderno” (ovvero verso una struttura più simile a quella già
raggiunta dagli altri paesi industriali). All’aumento di peso di queste
produzioni corrisponde una accentuazione del carattere oligopolistico
dei mercati in questione; in questo senso negli anni considerati
“l’Italia risulta caratterizzata da forme oligopolistiche proprie del
capitalismo maturo, [anche se] in misura chiaramente limitata dal suo
grado di arretratezza relativa” (Ciocca 1976, p. 38).
Un tale processo non si realizza certamente a costo zero. Esso
comporta infatti in primo luogo una forte penalizzazione delle
industrie di tipo tradizionale, che in quanto produttrici di beni di
consumo subiscono più fortemente i vincoli imposti da un mercato
interno modestissimo e dalla scelta protezionistica. Ma problemi
forse ancora più rilevanti l’opzione industrialista – fin dai primi anni
del suo affermarsi – crea all’agricoltura, alla quale resta affidato il
compito di “fornitore netto” di risorse al resto dell’economia17.
Dal punto di vista della collocazione internazionale dell’Italia, il
meccanismo fin qui descritto comporta in ogni caso una sostanziale
16 Ciocca (1976, pp. 38-39) ricorda a questo riguardo come negli anni Trenta si
realizzi anche l’assorbimento di un numero elevato di piccole società per azioni da
parte di società più grandi.
17 Da questo punto di vista, “il settore agricolo è stato il vero e quasi unico
protagonista, fino al secondo dopoguerra, di quell’equilibrio dei bassi consumi che
… ha reso possibile il funzionamento del ‘modello’ ”. E d’altra parte “della
propensione al risparmio della popolazione rurale … furono ben consapevoli i
finanzieri e gli uomini di governo dell’età giolittiana, come pure coloro che tra le due
guerre difesero il risparmio per finanziare il riarmo […].” (Bonelli 1978, pp. 1229-30).
19
marginalizzazione del sistema industriale nazionale rispetto agli
scambi mondiali. Tra la metà degli anni Venti e i primi Quaranta
l’industria di trasformazione è sottoposta a una serie pressoché
ininterrotta di shock che vincolano di fatto la crescita alle sorti del
solo mercato interno: prima la politica di rivalutazione della lira (che
culmina con “quota 90” alla fine del 1927), poi la crisi internazionale
(1929-33), poi la definizione dei piani autarchici (1935-37) e infine
l’economia di guerra tagliano fuori i settori produttori di beni finali di
consumo da qualsiasi chance di espansione sui mercati esteri18; e dal
momento che la domanda interna resta compressa da una politica
salariale depressiva, che si spingerà fino a ridurre le retribuzioni in
termini reali, l’intera industria “leggera” rimane per un’intera fase dello
sviluppo industriale italiano confinata nell’ambito di strutture
produttive modeste (spesso non più che artigianali). Allo stesso
tempo, le industrie ad alta intensità di capitale beneficiano della stessa
rivalutazione della lira per i loro acquisti dall’estero (che l’assenza di
un mercato interno di beni intermedi e di investimento rende cruciali
per il loro sviluppo), e trovano nella domanda pubblica un canale
“autonomo” di creazione di un mercato interno per i loro prodotti19.
2.4. Il modello di industrializzazione fin qui (assai
sommariamente) stilizzato si inscrive nel quadro di un orientamento
della politica industriale che caratterizza lo sviluppo “moderno”
dell’Italia fin dai suoi anni iniziali. Tale orientamento si incardina sul
presupposto che la specializzazione produttiva di un sistema
industriale non sia neutrale dal punto di vista della sua possibilità di
svilupparsi nel lungo periodo. Più specificamente ancora, esso assume
esplicitamente che il ritardo accumulato dall’Italia rispetto ad altri
grandi paesi europei imponga di accelerare “artificialmente”
18 Il mancato contributo delle esportazioni di questi settori al sostegno della bilancia
dei pagamenti è fortemente aggravato dal contemporaneo assottigliarsi, dal lato delle
partite invisibili, delle rimesse dall’estero, implicato dal vero e proprio crollo dei flussi
migratori che si realizza negli anni Trenta. Su questo aspetto cfr. ad es. Ciocca (1976).
19 Sulle relazioni tra commercio estero e struttura industriale nel periodo in questione
cfr. Paradisi (1976).
20
l’espansione delle industrie c.d. di base – ovvero, di quelle industrie
che garantendo una produzione nazionale di input per gli investimenti
possano consentire in prospettiva un graduale allentamento del
vincolo esterno alla crescita. Ma perché si realizzi un obiettivo di
questo tipo è naturalmente necessario che le industrie da espandere
siano fortemente protette: e come si è visto l’orientamento
protezionista è il connotato di fondo dello sviluppo industriale
italiano per almeno il suo primo cinquantennio di vita (dalla fine
dell’Ottocento alla fine della seconda guerra mondiale).
L’ampliamento della matrice dell’offerta che l’Italia riesce così
gradualmente (e faticosamente) ad acquisire trova dunque le sue
ragioni fondanti nel ruolo di indirizzo dello Stato – e non solo negli
interventi diretti sul terreno della politica industriale, ma anche in
quelli stessi rivolti alla riorganizzazione del sistema creditizio. Quando
non bastino gli uni e gli altri, l’azione dello Stato si sposta
direttamente sul terreno dei salvataggi, che rappresentano il pendant
del “modello” protezionista sul versante finanziario. A partire almeno
dalla grande crisi bancaria di fine Ottocento, che porta alla nascita
della Banca d’Italia (1894), lo Stato interviene sistematicamente in
tutte le fasi di crisi del sistema: prima tra il 1907 e il 191120, poi nei
primi anni Venti (quando “crollano i colossi dai piedi di argilla” 21
trascinando con sé interi pezzi del sistema bancario come la Banca di
Sconto e il Banco di Roma), poi ancora negli anni successivi alla
“grande crisi” del 1929, che vedono la nascita di Imi e Iri. Ma a
questo ruolo lo Stato non abdicherà anche negli anni del secondo
dopoguerra (infra, par. 3.3); e come è stato osservato da Vera
Zamagni (1994, pp. 153-54), questa stessa politica a sua volta
“rinforza la componente di ‘permanenza’ della struttura economica
italiana, salvando con le aziende i patrimoni aziendali di know-how e di
specializzazione. Normalmente, infatti, un salvataggio dà luogo alla
rimozione del vertice aziendale, ma non dei quadri intermedi, né
porta a destinazioni produttive interamente nuove”.
20
21
Sulla crisi che si apre nel 1907 cfr. in particolare Bonelli (1971).
La definizione è di Grifone (1971, p. 39).
21
La storiografia più recente sottolinea con forza il ruolo
strategico che in questo contesto viene svolto a partire dagli anni
Trenta da un gruppo di tecnocrati che – all’interno di istituzioni
direttamente coordinate dagli organi dell’esecutivo, ma al di fuori
della pubblica amministrazione – definisce le principali linee di
indirizzo del processo di accumulazione. Questo stesso gruppo
dirigente (cui corrispondono tra gli altri i nomi di Beneduce,
Menichella, Saraceno)22 costituirà un importante fattore di continuità
attraverso le vicende della guerra e del dopoguerra, e non smetterà di
svolgere il proprio ruolo fino ancora agli anni Cinquanta, più o meno
dall’interno delle stesse istituzioni (Banca d’Italia e Iri in primo
luogo). Questo assetto istituzionale e la sua tenuta nel tempo
garantiscono alla politica industriale una sostanziale continuità (anche
in assenza di un disegno esplicito e coerente degli interventi che si
succederanno) lungo l’intero trentennio compreso tra i primi anni
Trenta e i primi Sessanta – quando, come osserva De Cecco, “molti
degli uomini che passarono indenni attraverso il fascismo e l’avvento
della Repubblica …, che avevano iniziato molto giovani la loro
carriera all’interno delle istituzioni, … la conclusero per ovvi motivi
demografici” (1997, p. 390).
Petri (2002, cap. 7) ricorda come già nel 1944 – con la Linea
gotica in piedi e l’Italia ancora divisa in due – un documento anonimo
rinvenuto negli archivi dell’Iri identificasse esplicitamente come
“obiettivo fondamentale della ricostruzione” quello del
rafforzamento delle “industrie chiave”, indicando tra esse in
particolare la metallurgia, la meccanica, la chimica e la produzione di
energia. Il radicamento di questa visione all’interno degli organismi
preposti a presiedere alla ricostruzione sarà una delle condizioni che
consentiranno al modello di specializzazione italiano di mantenere la
propria rotta ancora per tutto il primo ventennio del dopoguerra. In
22 Sul “modello Beneduce” cfr. le considerazioni avanzate da De Cecco (1997) e da
Spagnolo (1992, capp. 1 e 2). Sul ruolo specifico che il gruppo dirigente di cui sopra
ha in particolare svolto fin dagli anni Trenta nel costituire il “retroterra” del progetto
di industrializzazione del Mezzogiorno (cioè dell’area in maggiore ritardo del paese)
cfr. in particolare De Benedetti (1996).
22
questo senso, “la cosiddetta ricostruzione per il settore industriale …
appare … come una fase di transizione, … che peraltro non
comportò mutamenti sostanziali di indirizzo quanto piuttosto una
semplice riattivazione e adeguamento della struttura esistente (…).
Nelle sue linee essenziali lo sviluppo della industria italiana prosegue
secondo una direzione assunta in precedenza. (…) Fin
dall’impostazione del piano di primi aiuti formulato all’indomani della
Liberazione, ci si basò sulla premessa che bisognava partire da quello
che c’era” (Gualerni 1980, pp. 31-32).
Un punto specifico, in tutto questo quadro, è che la politica
“interventista” – che raggiunge il suo acme negli anni Trenta – lascia
in eredità al paese all’indomani della Seconda guerra mondiale una
struttura industriale in gran parte in mano pubblica per quanto
riguarda la sua stessa proprietà. Non solo infatti lo Stato controlla
direttamente una quota rilevantissima dell’intermediazione finanziaria,
ma si trova anche a gestire quasi per intero la siderurgia, la
cantieristica, l’attività armatoriale, la meccanica pesante, la produzione
di energia elettrica e di gas, la telefonia; e ad avere comunque
partecipazioni in molte altre industrie23.
3. Lo sviluppo industriale nel secondo dopoguerra: dagli anni
della continuità (1951-71) all’“industrializzazione dal basso”
(1971-1996)
3.1. La ricostruzione si inscrive dunque in un quadro in cui
le strutture di governo dell’economia che avevano guidato il processo
di “modernizzazione” forzata della struttura industriale restano tutte
a loro posto, e anzi – quasi a compensare la perdita dello strumento
dirigista conseguente alla caduta del fascismo – vengono
ulteriormente ampliate. Non soltanto infatti rimarranno in piedi tanto
l’Iri24 che gli enti minerari (Agip, Snam, Anic), ma a queste istituzioni
Cfr. su questo aspetto in particolare Bianchi, 2002.
In questo contesto, come osserva Gualerni (1980, pp. 152-154), appare evidente
come, “nonostante il momento in cui nacque, l’Iri non [fosse] un fenomeno
23
24
23
se ne affiancheranno fin dai primi anni del dopoguerra altre,
potenzialmente capaci di rafforzare ulteriormente il controllo dello
Stato sulle linee dello sviluppo industriale (la Cassa per il
Mezzogiorno nel 1951, l’Eni nel 1953, lo stesso Ministero delle
partecipazioni statali nel 1956). E, più avanti, altri enti (l’Egam nel
1958, l’Efim nel 1962, e da ultimo la Gepi nel 1971) sorgeranno a
sostenere le imprese che non ce la faranno a restare sul mercato da
sole, arrivando a estendere la politica dei salvataggi – che accompagna
lo sviluppo industriale dell’Italia fin dai suoi albori – al sostegno di
inziative spesso tutt’altro che “strategiche”.
Il complesso di questi strumenti configura un assetto
istituzionale in grado di garantire una forte capacità di orientamento
settoriale dell’attività produttiva anche nel contesto di una politica
economica che – chiusa la parentesi autarchica – sceglie senza riserve
la strada dell’apertura commerciale, in una prospettiva di crescente
integrazione internazionale del sistema industriale. E subito dopo
l’adesione al Trattato di Roma (1957) gli strumenti di governo
dell’economia reale tenderanno a rafforzarsi ancora, attraverso
l’istituzione del Cipe (la Commissione nazionale per la
programmazione economica, che ne costituisce la premessa, viene
insediata nel 1962), e successivamente la costituzione della Segreteria
per la programmazione presso il Ministero del bilancio (1967)25.
Come è stato osservato, le stesse premesse sulle quali si fonda
la decisione di mantenere la proprietà pubblica al centro del sistema
produttivo sono tali da contenere in se stesse i presupposti della
“degenerazione” del modello. Se infatti l’ispirazione di fondo è quella
di separare la proprietà degli enti di gestione dal “controllo”,
garantendo agli amministratori autonomia sul piano della gestione
congiunturale”, allo stesso modo in cui “sarebbe errato ritenere che l’Iri rappresenti
una creazione del fascismo, [mentre] si può solo dire che è durante la dittatura di
Mussolini che giunge a compimento un processo avviatosi anni prima”.
25 A questo riguardo vale la pena di osservare come già lo Schema Vanoni (1954)
considerasse le imprese pubbliche uno strumento importante per il conseguimento
degli obiettivi di industrializzazione delle regioni del Mezzogiorno (questo punto è
esplicitamente richiamato in Barca e Trento, 1997).
24
operativa, l’inadeguata specificazione dei meccanismi di supervisione
sulla loro attività farà sì che “l’efficienza della gestione [resti]
sostanzialmente affidata alla benevolenza, al senso di missione, dei
manager pubblici” (Barca e Trento, 1997, p. 196). E, passata la fase in
cui l’“atmosfera politica [è] caratterizzata da un’alta tensione morale”
(p. 197), il sistema scivolerà gradualmente lungo una deriva che vedrà
gli obiettivi di efficienza gestionale prima affiancati e poi
definitivamente sostituiti da ambizioni del tutto estranee a qualsiasi
logica di strategia industriale. D’altra parte, questo stesso processo –
mentre tenderà di per sé ad offuscare la chiarezza degli intenti
dell’operatore pubblico – comunque non eliminerà, e anzi per certi
versi accentuerà, la determinazione a condizionare strettamente lo
sviluppo del sistema produttivo – massimamente per quanto attiene
all’allocazione territoriale degli insediamenti delle imprese pubbliche.
Anche se non è naturalmente questa la sede per entrare nel
merito di un problema così complesso, è impossibile prescindere
dalle sue implicazioni nell’analisi delle linee di sviluppo della struttura
industriale italiana nella seconda metà del Novecento, soprattutto per
quanto riguarda gli anni della ricostruzione e del “miracolo”, nei quali
il modello di industrializzazione mostra di evolversi in evidente
continuità con le tendenze che lo caratterizzano fin dalle prime fasi
del suo avvio. Prima di tentare un inquadramento “storico” della
questione, tuttavia, è opportuno fornire un primo quadro di carattere
quantitativo in merito ai cambiamenti che interessano la
composizione settoriale dell’offerta negli anni successivi al 1951, così
da disporre di un profilo delle diverse fasi in cui è possibile
periodizzare il fenomeno.
3.2. Per gli anni del dopoguerra, come si è detto (infra, par. 2.2),
le statistiche disponibili si riferiscono a uno spaccato settoriale più
ampio rispetto alle stime di C&S, in particolare per quanto riguarda il
complesso delle industrie meccaniche. Ciò rende possibile, almeno in
parte, seguire l’evolversi della specializzazione anche in funzione dei
cambiamenti che interessano la stessa natura delle produzioni che via
via emergono nel corso del cinquantennio di riferimento.
25
Anche per il periodo in esame l'informazione più semplice che
può essere fornita è costituita dalle quote settoriali dell'occupazione26.
Dalla tab. 3 si ricava che, da questo punto di vista, nell'arco dei
quarantacinque anni che vanno dall’immediato dopoguerra alla metà
degli anni Novanta i mutamenti sono tutt’altro che insignificanti. Il
semplice confronto della struttura dell’occupazione nei due estremi
del periodo, tuttavia, tende a nascondere buona parte del fenomeno,
dal momento che il saldo delle variazioni osservabili tra il 1951 e il
1996 sottostima notevolmente il complesso delle trasformazioni da cui
la struttura dell’offerta è stata caratterizzata in fasi diverse dello
sviluppo industriale. A questo riguardo le indicazioni che emergono
dalla tavola sono sostanzialmente di tre tipi:
i) Con riferimento all’intero periodo, si può comunque
osservare in primo luogo che l’importanza relativa di alcune
produzioni si presenta – almeno a un primo sguardo – pressoché
invariata. E' immediato notare, ad esempio, che il ridimensionamento
dell'industria di base, che può essere considerato un dato fisiologico
del processo stesso di sviluppo manifatturiero, è nell’insieme limitato
(per il totale dei settori 23, 24, 26 e 27 si passa dal 18% del 1951 al
12.9% del 1996). Contemporaneamente – e diversamente da quanto
alcuni potrebbero attendersi – quando venga esclusa l’industria tessile
il peso delle produzioni “tradizionali”, cui oggi ci si riferisce come al
c.d. made in Italy (settori 18, 19, 36.a), resta di fatto invariato, passando
in termini percentuali da 16,1 a 16,4, analogamente a quanto avviene
per l’industria alimentare, che subisce un ridimensionamento
piuttosto contenuto.
ii) Ancora con riferimento all’intero intervallo 1951-96, in altri
casi i cambiamenti sono invece consistenti: dal punto di vista delle
produzioni in espansione, il caso più rilevante è quello delle industrie
meccaniche (settori da 28 a 35), la cui incidenza complessiva sul
totale dell'occupazione manifatturiera quasi raddoppia, passando dal
26 Come già osservato (infra, par. 2.2), le due diverse rilevazioni mostrano in alcuni
casi differenze apprezzabili a livello delle quote di occupazione (rivelate dal
confronto tra le tabb. 1 e 3); tali differenze sono da attribuirsi alla diversa
ricostruzione dei confini settoriali.
26
21,8 del 1951 al 39,5 del 1996. Simmetricamente prosegue il costante
ridimensionamento dell’industria tessile (in atto come si è visto fin
dagli anni iniziali del Novecento), il cui peso passa tra il 1951 e il 1996
dal 19,4 al 7,1 per cento27. L’ampiezza dei cambiamenti è in questi
casi tale che, di due industrie che ancora all’inizio del secondo
dopoguerra contribuivano all'occupazione in misura pressappoco
simile, l’una si riduce alla fine del secolo a meno di un quinto
dell’altra. Il fatto che l'occupazione manifatturiera sia in misura
crescente costituita da addetti alle produzioni meccaniche, d’altra
parte, trova una spiegazione anche nel graduale spostamento verso
fasi produttive più a monte (per la produzione di macchine
specializzate) delle stesse imprese della filiera tessile-abbigliamento,
così come di quelle dei settori conciario e calzaturiero e del mobile:
da questo punto di vista, il trasferimento intersettoriale di
occupazione riflette semplicemente il naturale processo di sviluppo
proprio delle industrie “leggere” centrate sulla produzione di beni
finali di consumo28.
iii) In questo contesto, peraltro, il punto più rilevante è nel
fatto che – lungo il periodo che si considera – il modello di
specializzazione mostra una netta discontinuità di segno. La
discontinuità è osservabile, in particolare, nel passaggio tra la fase di
più intensa crescita produttiva – quella della c.d. Golden Age delle
economie industriali, qui individuabile nell’intervallo intercensuario
compreso tra il 1951 e il 1971 – e quella che segue gli shock che
27 Nel corso del periodo qui considerato la ristrutturazione comporta un graduale
abbandono delle fasi produttive più "lontane" dalla domanda finale, una forte
automatizzazione della produzione, la progressiva riduzione del contenuto di fibre
naturali dei beni prodotti dai settori utilizzatori. Cfr. a questo riguardo le
considerazioni contenute già in Martelli (1973).
28 Secondo le stime contenute in Centro Studi Confindustria (1997), nel 1996
l'occupazione nei comparti delle macchine per l'industria tessile, per la lavorazione
del legno, per concerie, per calzature e pelletteria corrispondeva a quasi il 17% del
totale dell'occupazione della meccanica strumentale (Ateco 29.3, 29.4, 29.5).
Aggiungendo le macchine per ceramica – la cui produzione è strettamente legata a un
altro comparto di forte specializzazione dell’Italia nell’ambito dei beni destinati alla
domanda finale – la percentuale sfiora il 20%.
27
colpiscono il sistema industriale tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio dei Settanta (qui racchiusa tra le date del 1971 e del 1996)29.
Questo fenomeno, che può essere meglio evidenziato isolando alcune
industrie in grandi aggregati settoriali ed eliminando gli anni
“intermedi” 1961, 1981 e 1991 (fig. 1), è tale da configurare due fasi
nettamente distinte del processo di industrializzazione, nelle quali la
dinamica della specializzazione mostra di seguire percorsi del tutto
diversi: mentre nella prima fase il “modello” mantiene un carattere di
forte continuità con la tendenza – già in atto da lungo tempo – verso
un aumento di peso delle produzioni di base e di quelle meccaniche,
nella seconda questo processo si arresta, e la direzione del
cambiamento strutturale sembra addirittura invertirsi.
Come mostra la figura, tra il 1951 e il 1971 (fase I) il
complesso delle industrie di base aumenta la sua incidenza
percentuale sul totale dell’occupazione manifatturiera da 19,4 a 22,8
punti (per il solo comparto petrolchimico l’aumento è da 7,2 a 9,9),
mentre l’insieme delle produzioni metalmeccaniche (esclusi i grandi
mezzi di trasporto e la carpenteria) passa dal 12 al 22 per cento.
Contemporaneamente le industrie di tipo più “tradizionale” (tessile e
alimentare incluso), che ancora nel 1951 raccoglievano più della metà
dell’intera
occupazione
manifatturiera,
subiscono
un
ridimensionamento molto forte, riducendosi dal 51,5 al 38,4 per
cento del totale.
Negli anni successivi (fase II) il profilo del fenomeno è
totalmente diverso: il peso delle industrie di base torna a declinare
(17% nel 1996; la sola industria chimica scende a 8,9), mentre la
crescita delle produzioni meccaniche rallenta vistosamente,
raggiungendo appena il 24,6%. Simmetricamente l’area tradizionale
subisce un ridimensionamento non più che lieve, attestandosi al 36%.
Più nel dettaglio (fig. 2), vale la pena di rilevare come nella fase II sia
relativamente più rapida che nella fase I l’espansione delle industrie
produttrici di articoli in metallo (Ateco 28), mentre il contrario
29 Sulle relazioni tra il contesto macroeconomico che definisce il “regime” della
Golden Age (e la sua successiva crisi ) e le caratteristiche del processo di
industrializzazione cfr. Traù (2001 e 2003).
28
avviene per la produzione di macchine (29), per l’industria della
gomma (25) e per quella degli elettrodomestici (31); sia l’industria
automobilistica (34) che quella degli apparecchi per radio e
telecomunicazioni (32) aumentano invece fortemente il loro peso
nella fase I e lo riducono nella fase II.
3.3. Qualche ulteriore indicazione in merito alle tendenze del
cambiamento strutturale può essere ricavata dai dati relativi alla
dimensione media degli stabilimenti (tab. 4)30. Anche in questo caso il
fenomeno può essere considerato con riferimento sia all’intero
periodo 1951-96, sia a ciascuna delle due fasi sopra individuate. Nel
primo caso, le tendenze della dimensione aiutano in primo luogo a
rendere giustizia all'evidenza secondo cui le produzioni “tradizionali”
dell'abbigliamento, delle pelli e del legno-arredamento non sarebbero
state interessate nel periodo di osservazione da alcun cambiamento.
In realtà, il fatto che in tutte queste produzioni si sia assistito a un
considerevole aumento delle dimensioni medie (da 2 addetti per unità
locale a 7-9 nell’abbigliamento e nel conciario-calzaturiero, da meno
di 3 a più di 5 nel mobile) indica chiaramente che anche in
quest'ambito il cambiamento strutturale è assai rilevante; alla
sostanziale stabilità delle quote di occupazione corrisponde infatti il
passaggio da una situazione in cui la struttura produttiva è costituita
in misura prevalente da unità artigianali (massimamente individuali
come sarti, calzolai, falegnami) a una situazione in cui la produzione
viene organizzata all'interno di imprese industriali (ancorché di
dimensione molto piccola)31. Un fenomeno analogo è osservabile
anche, all'interno della meccanica, nella carpenteria metallica (Ateco
30 La necessità di disporre di una disaggregazione settoriale molto fine per ricostruire
le serie censuarie ad Ateco costante richiede necessariamente di utilizzare come unità
di riferimento le unità locali invece delle imprese (la cui attribuzione ai diversi settori
imporrebbe il riferimento all’“attività prevalente”, e risulterebbe conseguentemente
tanto più imprecisa).
31 Nel 1951 il numero delle unità locali appartenenti al settore 18 pesava per il 21%
del totale manifatturiero, quello del settore 19 per il 17%; nel 1996 queste quote
erano diventate rispettivamente 8,5 e 4,3 per cento.
29
28), ovvero in un'attività che a livelli modesti di sviluppo è largamente
svolta all'interno di semplici officine di lavorazione artigianale; anche
in questo caso con il tempo l'unità media tende a consolidarsi sul
piano dimensionale.
Il “modello” in questione, tuttavia, appare circoscritto a questo
genere di produzioni: nel resto dell'industria meccanica, e in
particolare nella produzione di macchine e strumenti di precisione
(Ateco 29, 31, 33), la dimensione media è – con la rilevante eccezione
degli autoveicoli – in progressivo declino. Poiché differentemente dal
tessile tali produzioni vedono aumentare la loro quota
sull'occupazione (e come verrà meglio visto in seguito l'occupazione
aumenta anche in termini assoluti), si può dire che in questo caso si
realizzi un processo di espansione della base produttiva che procede
attraverso l'accrescimento del numero degli stabilimenti piuttosto che
attraverso l'ampliamento dimensionale di quelli esistenti32.
L'evoluzione delle dimensioni medie, d'altra parte, non è
sempre uniforme nell'arco dell'intero arco temporale sotto
osservazione. Al contrario, in molti dei settori in cui esse nel lungo
periodo si riducono si può riscontrare, con riferimento almeno al
primo decennio (e in un numero minore di casi anche al secondo) un
evidente aumento. Il peso assoluto, in termini di occupazione, di
questi settori (in buona parte quelli a più elevata intensità di scala
come il 22, 23, 26, 34, 35) fa sì che a livello aggregato la dimensione
media aumenti tra il 1951 e il 1971 più di quanto non si riduca negli
anni successivi33.
32 La quota sulle unità locali delle Ateco 29, 31 e 33 passa rispettivamente da 1, 0,4 e
0,3 per cento nel 1951 a 7,3, 2,9 e 4,8 nel 1996. La differenza tra questo modello di
comportamento e quello osservato con riferimento all'industria tessile può essere
ulteriormente sottolineata considerando che in quel caso (Ateco 17) alla flessione
delle quote di occupazione corrisponde una quota delle unità locali che rimane ferma
per tutto il periodo intorno al 7.5%, per scendere nel 1996 leggermente al di sopra
del 6%.
33 In merito al break strutturale che a partire dall’inizio degli anni Settanta investe la
struttura per dimensione delle imprese nell’ambito delle attività di trasformazione cfr.
ancora Traù (2003). Si può qui osservare che nel caso dell’industria del mobile il
consolidamento dimensionale sembra essere stato raggiunto prima che nelle
30
3.4. Il diverso andamento dell'occupazione manifatturiera nei
singoli intervalli intercensuari (in crescita nella prima fase dello
sviluppo post-bellico, e successivamente in diminuzione) impedisce di
valutare se i cambiamenti osservati nelle quote settoriali riflettano, in
termini assoluti, variazioni positive o negative. Questo fenomeno
può essere misurato in primo luogo attraverso l'andamento dei tassi
di crescita del numero degli addetti in ciascun intervallo. Dalla tab. 5
si ricava a questo riguardo che pressoché in tutti i settori le variazioni
assolute dell'occupazione sono positive per tutto il trentennio 195181; l'ampiezza di tali variazioni, come stilizzato nel dato che si
riferisce all'intero aggregato manifatturiero, tende tuttavia a
decrescere con regolarità. Nel decennio 1981-91 la flessione diventa
tale da determinare una vera e propria inversione di segno, e
l'occupazione si contrae in termini assoluti nella maggior parte dei
settori. Nel quinquennio successivo la contrazione dell’occupazione si
accentua ulteriormente, e si estende alla quasi totalità delle industrie.
Un quadro più completo si può ottenere calcolando il
contributo (percentuale) di ciascun settore alle variazioni assolute
dell’occupazione. La tab. 6, che riporta i valori corrispondenti ai tre
sottoperiodi 1951-71, 1971-91 e 1991-96, evidenzia nel profilo
intertemporale del fenomeno differenze importanti34. Una tra le più
evidenti riguarda la netta inversione di tendenza delle produzioni ad
alta intensità di capitale (“di base” e non, Ateco 24-27, 34, e in misura
minore 21), che passano da contributi positivi elevati nel primo
altre industrie di tipo “tradizionale”: la traiettoria della dimensione media è cioè più
simile, nel tempo, a quella delle altre industrie che invece subiscono in pieno gli
effetti della de-verticalizzazione produttiva osservabile negli anni successivi al 1971 (e
d’altro canto anche nel comparto del legno la dimensione media resta di fatto
inchiodata, lungo l’intero periodo di osservazione, intorno al livello di tre addetti, che
nel confronto intersettoriale è attualmente quello minimo).
34 I valori corrispondenti a ciascun settore sono ottenuti dividendo la variazione ad
esso relativa per la variazione corrispondente al totale manifatturiero. Con
riferimento al periodo 1991-96, in cui la variazione totale è negativa, il segno delle
variazioni settoriali riportate nella tabella è invertito, in modo da indicare la
“direzione” effettiva del contributo.
31
ventennio a contributi pesantemente negativi nel secondo. Un
comportamento opposto caratterizza invece le industrie del made in
Italy corrispondenti alle Ateco 18, 36.a e soprattutto 19, il cui
contributo all'occupazione appare al contrario più elevato nel
secondo ventennio che nel primo.
Questi dati mostrano che la creazione (netta) di posti di lavoro
è alimentata in misura rilevante negli anni Cinquanta e Sessanta da
produzioni che nel ventennio successivo entrano in crisi,
quantomeno sul piano occupazionale; queste produzioni non
rappresentano semplicemente l'industria di base, ma comprendono al
loro interno anche comparti che almeno fino alla prima crisi
petrolifera rappresentano, insieme ad una parte della meccanica,
anche la componente più avanzata dell'industria nazionale sul piano
tecnologico35. Nello stesso periodo in cui queste produzioni entrano
in difficoltà, si accresce il ruolo svolto da altre più mature, come la
lavorazione delle pelli, la produzione di mobili, l'industria alimentare,
ma anche la carpenteria metallica (cioè la componente a minore
contenuto tecnologico dell'intera industria meccanica).
Il fenomeno appare tanto più rilevante quando si consideri che
mentre nel primo dei due periodi considerati l'occupazione
manifatturiera cresce in termini assoluti di quasi un milione e
settecentomila unità, nel secondo l'aumento è di poco più di
centoventimila. Lo spartiacque rappresentato dal 1971 (secondo la
periodizzazione consentita dai censimenti) è d'altra parte nettamente
percepibile nell'eccezionale aumento della variabilità dei
comportamenti settoriali osservabile nel ventennio 1971-91:
l’ampiezza delle variazioni – sia positive che negative – subisce infatti
rispetto agli anni precedenti un'amplificazione considerevole, che
In quest'ambito risultano comprese l'industria farmaceutica, quella delle fibre,
quella dei materiali plastici, che costituiscono, almeno per tutti gli anni Sessanta, un
vero e proprio laboratorio di ricerca permanente. Dovrebbero probabilmente essere
considerati in questa prospettiva anche i primi tentativi di sviluppare, da parte di
un'industria nazionale, un'autonoma produzione di strumenti di calcolo elettronico
(sforzi poi abbandonati negli anni Settanta e ripresi solo successivamente).
35
32
mostra come il “modello” di espansione dell’occupazione a livello
settoriale che caratterizza la prima fase dello sviluppo industriale del
dopoguerra di fatto si dissolva a partire dall’inizio degli anni Settanta.
Negli anni successivi al 1991 il quadro subisce ancora
cambiamenti di rilievo, tanto più notevoli in quanto il periodo di
osservazione è in questo caso particolarmente breve. Il cambiamento
più netto è quello che riguarda le produzioni dell’abbigliamento, della
filiera conciario-calzaturiera e del mobile, che dopo avere sostenuto
l’occupazione per un ventennio a fronte del crollo del contributo
delle produzioni di base, passano a un contributo pesantemente
negativo, invertendo nettamente la linea di tendenza che aveva
caratterizzato tutta la seconda fase dello sviluppo post-bellico. Il
punto, in questo contesto, è che non sembrano emergere nell’ultimo
quinquenio di osservazione produzioni che “prendano il posto” di
quelle in declino – così come era avvenuto nella fase precedente ad
opera delle stesse produzioni del made in Italy. Anzi, i dati mostrano
che anche industrie a tecnologia più complessa come quella dei grandi
mezzi di trasporto o quella delle telecomunicazioni passano da un
contributo positivo a uno negativo; e d’altro canto anche nell’ambito
delle produzioni più tradizionali si assottiglia considerevolmente – fin
quasi ad annullarsi – il contributo della carpenteria dei metalli, che
nella fase precedente era invece stato eccezionalmente elevato. A
livello aggregato, queste tendenze si riflettono in una contrazione
dell’occupazione in termini assoluti superiore alle trecentosettamila
unità.
3.5. La redistribuzione dell'occupazione tra i diversi settori, di
per sé, può coincidere sia con un aumento della concentrazione, sia
con un processo di diffusione; ovvero, può implicare sia un
rafforzamento della specializzazione produttiva (espressa in termini di
addetti), sia una tendenziale “de-specializzazione”.
La direzione assunta dal movimento degli occupati attraverso i
settori può essere colta attraverso la costruzione di indici di
cambiamento strutturale, che esprimano in forma sintetica il segno (e
l'ampiezza) delle variazioni osservate nelle quote di occupazione dei
33
singoli settori. Indicatori di questo tipo, da tempo utilizzati in
letteratura, possono essere calcolati secondo modalità differenti; in
questo caso viene utilizzato un indicatore (qui definito indice di
cambaimento strutturale36) che corrisponde alla differenza tra gli
indici di Herfindahl, calcolati nei due estremi del periodo di
osservazione, relativi alle quote settoriali dell'occupazione37.
L’indice in questione è rappresentato nella figura 3; dal
momento che l’intero periodo 1911-96 è osservato sulla base di due
distinti data-set, e dunque anche sulla base di un numero di settori
diverso tra i due sottoperiodi, va sottolineato che la serie degli
istogrammi è in realtà discontinua (nella figura i sottoperiodi
compaiono separati da una linea). Il profilo del fenomeno è in ogni
caso del tutto chiaro: nell'arco di tempo sotto osservazione, l’industria
di trasformazione appare caratterizzata da due tendenze nettamente
distinte. La prima è quella osservabile almeno tra il 1927 e il 1971,
fase in cui si assiste a una evidente diffusione settoriale
dell’occupazione (anche se già tra il 1961 e il 1971 l’intensità del
fenomeno si riduce); la seconda riguarda gli anni tra il 1971 e il 1996,
in cui questa tendenza prima si annulla (anni 1971-81) e poi lascia il
passo negli Ottanta e nella prima metà dei Novanta a un processo di
ri-concentrazione. Il profilo di questo fenomeno è del tutto parallelo
a quello, visto sopra, che caratterizza la dinamica dell'occupazione in
termini assoluti: il rallentamento del ritmo di formazione di nuovi
posti di lavoro coincide con il rallentamento del processo di
Cfr. United Nations (1981, cap. 4).
L’indice di cambiamento strutturale può essere espresso in questo caso come: [Si
(Xi/Xm)2 ]j – [Si (Xi/Xm)2 ]o;
dove Xi è il livello dell'occupazione nel settore i-esimo, Xm quello dell'intera industria
di trasformazione, 0 l'istante iniziale di osservazione, j quello finale. I due termini
della differenza corrispondono ai valori assunti dall'indice di Herfindahl nei due
diversi istanti. Poiché l'indice di Herfindahl varia tra 1 e 1/n (dove n è il numero dei
settori), ovvero è massimo quando tutta l'occupazione è concentrata in un settore,
minimo quando è equidistribuita, l’indice assume valori positivi quando la
concentrazione aumenta (è minore nel secondo istante rispetto al primo), negativi
quando diminuisce.
36
37
34
diversificazione produttiva dell'industria di trasformazione; quando la
base occupazionale arriva a ridursi in termini assoluti, nello stesso
tempo si passa dalla diversificazione alla polarizzazione.
Il modello di sviluppo industriale che emerge da questi dati è
dunque quello di un paese che passa da un processo di ampliamento
della matrice dell’offerta a un restringimento dell’arco delle
produzioni in cui si distribuisce l’occupazione. Nella fase attuale,
l’industria nazionale mostra di concentrare le proprie attività su un
numero di produzioni più limitato che in passato; questo fenomeno
coincide, peraltro, con un restringimento della base dell'occupazione.
La stessa dinamica dell'occupazione, d'altra parte, riflette quella del
prodotto: nel corso del quarantennio in esame, la crescita dell'output
manifatturiero è in costante rallentamento. Come mostrato dalla fig.
4, la "risalita" del coefficiente di concentrazione verso il valore
positivo del decennio Ottanta accompagna un tasso medio annuo di
crescita del valore aggiunto manifatturiero (a prezzi costanti) sempre
più contenuto. Da questo punto di vista si può dire che, a partire
dagli anni Cinquanta, alla massima diffusione settoriale abbia
corrisposto la massima crescita dell'output (oltre che
dell'occupazione); alla ri-concentrazione degli anni Ottanta e Novanta
la crescita minima.
4. Conclusioni, ovvero ascesa e declino di una visione dello
sviluppo industriale
4.1. Per quanto circoscritti alla sola occupazione, i dati censuari
fin qui riportati sembrano offrire un quadro piuttosto nitido delle
linee di tendenza della struttura dell’offerta nella seconda metà del
secolo XX. E’ infatti possibile cogliere chiaramente due differenti
modelli di sviluppo produttivo, che si susseguono nel passaggio dagli
anni Cinquanta e Sessanta a quelli successivi. Nella prima fase
guadagnano terreno – oltre a pressoché tutti i comparti della
meccanica – settori ad alta intensità di capitale che contengono al loro
interno anche produzioni ad alta intensità di ricerca, la cui posizione
35
“strategica” è rilevante in termini di spillover potenziali rispetto al resto
dell'industria di trasformazione. Perdono nello stesso tempo terreno,
oltre all'industria tessile, l'industria alimentare, quella del legno e
quella delle calzature. Questo fenomeno è accompagnato da un
aumento complessivo della dimensione media degli stabilimenti.
Negli anni Settanta, il pattern di specializzazione subisce invece
una parziale inversione, e – mentre il blocco delle produzioni
meccaniche seguita ad aumentare di peso – si avvia un rapido
ridimensionamento dei settori a più alta intensità di capitale, a
vantaggio di quelli del made in Italy. Contestualmente la dimensione
media delle unità locali torna nella maggior parte dei settori a ridursi.
Appare evidente come nella fase I il modello di
specializzazione mostri una forte continuità con i connotati di fondo
che caratterizzano il processo di industrializzazione dell’Italia fin dagli
anni del suo avvio, e che si consolidano come si è visto nel corso
degli anni Trenta (infra, par. 2). Tra questi connotati va annoverato
prima di tutto l’assetto istituzionale, e soprattutto la persistenza della
presenza pubblica nella proprietà di una quota molto rilevante del
sistema produttivo (oltre che finanziario), che conferisce al “caso”
italiano tratti del tutto peculiari.
A questo riguardo è stato in particolare sottolineato il ruolo
che gli enti pubblici economici svolgono da un lato in termini di
attivazione della domanda privata, e dall’altro in termini di fornitura
di input intermedi a prezzi competitivi con quelli – necessariamente
più bassi – dei paesi industriali già sviluppati (senza questa
“compensazione” la crescente apertura degli scambi comporterebbe
inerzialmente un ampliamento strutturale dei deficit di bilancia
commerciale). Come sottolineato da Bianchi (2002), in questo quadro
è prevalentemente l’Iri che tra i grandi enti di gestione assume il ruolo
di “sostegno” del settore privato, mentre l’Eni si pone fin dalla sua
nascita in una posizione più autonoma, fino al punto da entrare in
molti casi (e in particolare nella chimica organica con l’Anic) in
competizione diretta con le imprese private. La politica di entrambi
gli enti, in ogni caso, è fortemente orientata, per tutto il primo
ventennio del dopoguerra, verso il rafforzamento di attività che – a
36
torto o a ragione – sono considerate strategiche ai fini dello sviluppo
industriale (oltre alla siderurgia e alla chimica, lo stesso settore
energetico, che con lo sviluppo dell’industria petrolifera esce dai
confini della produzione di forza motrice elettrica)38.
I fondamenti di questa continuità, tuttavia, vanno ricercati non
soltanto nel contesto istituzionale, ma anche in presupposti di ordine
più strettamente tecnologico. Petri (2002, in particolare cap. 8),
ricorda ad esempio a questo riguardo come lo sviluppo dell’industria
dei metalli leggeri nel dopoguerra – alla base del boom dei consumi di
massa di beni durevoli – trovi un presupposto importante nei
miglioramenti tecnologici introdotti dall’industria degli armamenti nel
periodo pre-bellico, a loro volta legati ai sostegni statali che fin dagli
anni Venti avevano agevolato lo sviluppo della produzione di
alluminio. Analogamente, le innovazioni nel campo della produzione
di acciaio, trainate nel dopoguerra dalle esigenze della motorizzazione
di massa, trovano origine nella riorganizzazione del settore, nel corso
degli anni Trenta, attorno all’idea del ciclo integrale. E ancora
nell’ambito della chimica organica la produzione di nuovi materiali
sintetici si incardina sui progressi realizzati negli anni Trenta e
Quaranta.
Il ruolo decisivo, nel contesto del dopoguerra, è svolto
dall’espansione della domanda, che negli anni del “miracolo” assicura
a una tecnologia già potenzialmente capace di produrre beni
“avanzati” l’impulso che serve a realizzare la definitiva transizione
dell’Italia nel novero dei paesi industrializzati.
Questo modello entra in crisi fin dalla fine degli anni Sessanta.
Con l’inizio del decennio successivo si esaurisce l’ampliamento della
matrice dell’offerta (qui misurato dalla diffusione settoriale
dell’occupazione) e comincia a manifestarsi un processo opposto
(l’occupazione “abbandona” molte nuove produzioni e torna a
38 Il carattere comunque “modernizzante” dell’azione svolta dagli Enti delle
Partecipazioni Statali – almeno per la prima fase sopra menzionata – trova un
riscontro immediato nella stessa denominazione delle finanziarie che raggruppano le
diverse attività dell’Iri (la Finsider viene affiancata nel 1947 dalla Finmeccanica e nel
1952 dalla Finenergia).
37
concentrarsi su un numero di industrie più ristretto). L’inversione di
tendenza riflette il graduale indebolirsi delle forze che avevano
alimentato – lungo l’arco del cinquantennio precedente – il tentativo
costante di forzare l’avanzamento della base industriale in termini sia
quantitativi che qualitativi. Essa rappresenta una discontinuità
decisiva, che sposta in misura radicale la traiettoria di sviluppo
dell’industria nazionale. Alla fine del secolo, il modello di
specializzazione dell’Italia apparirà più lontano da quello degli altri
grandi paesi industrializzati di quanto non fosse trent’anni prima39.
4.2. L’implosione di un intero arco di produzioni le cui fortune
avevano contrassegnato ancora almeno il primo ventennio del
dopoguerra si inscrive in un quadro di generale cambiamento delle
condizioni di contesto all’interno delle quali le imprese avevano
operato fino alla fine degli anni Sessanta. Il cambiamento, che
sancisce la fine di quella che è stata chiamata la Golden Age delle
economie industriali, si manifesta attraverso shock di natura sia
esogena che endogena, e investe – in pressoché tutti i principali paesi
industriali – l’intera logica dell’organizzazione produttiva.
L’articolazione di questo fenomeno a livello internazionale e i suoi
esiti sulla struttura industriale sono discussi da chi scrive in altra
sede40; ma la deriva del tutto peculiare che a partire da questo
spartiacque assume la specializzazione settoriale dell’industria italiana
richiede in ogni caso una spiegazione specifica.
Una spiegazione, in una prospettiva “storica”, non può
naturalmente che essere un complesso di spiegazioni; e nel caso in
questione le ragioni di una discontinuità così marcata si articolano
lungo un arco di problemi talmente esteso (che include anche aspetti
di ordine istituzionale) che non è certo immaginabile poterle
ricondurre a una singola origine. Pure, nell’ambito dei molti fattori
che hanno contribuito a determinare il fenomeno di cui si discute –
un’analisi compiuta dei quali rinvia necessariamente a uno sforzo di
39
40
Su questa divergenza cfr. per tutti de Nardis (1997).
Vale anche in questo caso il riferimento a Traù (2003).
38
ricerca ben più ampio di quello che può essere profuso in un singolo
studio – l’analisi svolta in queste pagine attira in particolare
l’attenzione su una questione che, nell’opinione di chi scrive, non ha
fin qui ricevuto l’attenzione che merita. Segnatamente, essa riguarda
l’insieme delle vicende che hanno gradualmente portato al collasso
l’intero sistema delle Partecipazioni statali. Ciò proprio in ragione del
ruolo determinante che l’operatore pubblico aveva invece costantemente
svolto, fino agli anni in questione, in tutte le fasi decisive del processo
di industrializzazione dell’Italia, non soltanto attraverso i suoi poteri
di indirizzo, ma anche e soprattutto attraverso la sua partecipazione
diretta alla creazione di iniziative industriali.
La degenerazione del modello di impresa pubblica che ha
costituito l’asse portante delle politiche “di modernizzazione” (e nel
cui ambito si erano sviluppate competenze tra le più elevate che il
sistema industriale italiano abbia mai posseduto) ha comportato
infatti, sotto questo profilo, la dissipazione di buona parte delle
risorse su cui erano state caricate le ambizioni di sviluppo produttivo
del paese41. E in questo ambito, in particolare, deve essere segnalata la
sostanziale distruzione di un notevolissimo patrimonio di capacità
manageriali, sviluppatosi all’interno di organizzazioni produttive
spesso caratterizzate da un elevato grado di complessità42.
Come sottolineava Bonelli già intorno alla metà degli anni
Settanta, “si assiste al fatto quasi paradossale che il paese nel quale da
più lungo tempo lo Stato aveva operato in qualità di garante e di
propulsore del processo di accumulazione nei settori di base, si trova
nell’incapacità di riattivare o aggiornare gli stessi strumenti di cui
dispone per assegnare all’intervento pubblico quel ruolo di creatore di
base produttiva e di ‘battistrada’ dello sviluppo che sembra essere
41 Per un’analisi del contesto in cui matura il “mutamento di funzione” della grande
impresa manageriale a partecipazione statale cfr. in particolare il recente contributo di
Nardozzi (2003).
42 Cfr. su questo punto anche quanto recentemente osservato da Castagnoli e
Scarpellini (2003, cap. 6) sul ruolo svolto dalla (grande) impresa pubblica anche nel
favorire innovazioni di rilievo nell’ambito dell’organizzazione aziendale.
39
l’acquisizione più recente del capitalismo mondiale” (1978, p. 1250)43.
Lo Stato italiano comincia a uscire di fatto dal ruolo che aveva
rivestito per almeno un settantennio proprio quando l’industria
mondiale riceve in pieno l’onda d’urto di una serie di shock
macroeconomici che scompaginano completamente il quadro di
riferimento delle imprese. L’industria pubblica si estinguerà
definitivamente intorno alla metà degli anni Novanta, ossia quando il
salto tecnologico avrà già amplificato eccezionalmente – in un
contesto di sostanziale assenza di adeguati strumenti di finanziamento
delle imprese – il grado di rischio connesso all’entrata nelle “nuove”
produzioni dell’alta tecnologia.
La crisi dell’impresa pubblica si accompagna d’altra parte (e
certo non casualmente) a una serie di problemi specifici che nel
frattempo condizionano negativamente anche le sorti di quella
privata, contribuendo a ridimensionare la presenza italiana in diverse
industrie “moderne” nelle quali già nelle prime fasi di sviluppo erano
stati ottenuti risultati apprezzabili (in quest’ambito le difficoltà
maggiori investiranno l’industria chimica di base, portando di fatto la
più grande industria nazionale all’uscita dal mercato) 44.
Per una struttura industriale che alla fine degli anni Sessanta
era per così dire “a metà del guado”, essendo ancora caratterizzata dai
connotati tipici di un’economia in ritardo (tra cui la persistente
presenza di produzioni di tipo tradizionale realizzate in imprese di
dimensione molto ridotta), l’emergere di questi problemi comporta di
per sé una nuova centralità di quelle produzioni mature che –
precedentemente sviluppate nell’ambito di organizzazioni produttive
di tipo artigianale – avevano nel frattempo cominciato (in gran parte
43 Cfr. in questa prospettiva le considerazioni avanzate da Federico e Giannetti
(1999) in merito all’“impantanamento” della politica industriale nel corso degli anni
Settanta.
44 Sulla crisi strutturale che investe il complesso delle produzioni – sia in mano
pubblica che privata – che avevano guidato lo sviluppo industriale italiano fino alla
fine degli anni Sessanta cfr., in particolare, le considerazioni contenute nei recenti
interventi di de Cecco (2000) e Gallino (2003). Per un’analisi più articolata e
documentata della crisi specifica delle industrie c.d. ad alta tecnologia cfr. invece
Onida e Malaman (1989) e Bussolati et al. (1996).
40
del tutto autonomamente) a strutturarsi secondo una logica
industriale45.
Questo processo viene a sua volta alimentato dagli esiti del
deciso inserimento dell’Italia nel processo di integrazione
internazionale, che amplia rapidamente (e finalmente) il mercato per i
beni di consumo (soprattutto non durevole) di produzione interna,
massimamente prodotti proprio all’interno dei confini delle industrie
“tradizionali”. Ma i primi anni Settanta – con la crisi del sistema di
Bretton Woods – avviano anche una lunga fase di scivolamento del
cambio che contribuirà robustamente a mantenere “loose” il vincolo
della domanda estera di beni di consumo, in un contesto in cui la
stessa domanda interna comincia a risentire positivamente di un
meccanismo redistributivo favorevole al lavoro.
Per tutta la sua fase più recente, lo sviluppo industriale trova
dunque una fonte di sostegno decisiva nel contributo di settori che
trent’anni fa sembravano destinati a scomparire senza lasciare tracce,
e che invece riescono, in un contesto mutato, a imboccare un
percorso che li porterà in molti casi a ottenere risultati spettacolari sui
mercati di tutto il mondo. Il punto, in questo quadro, è che il
mutamento della specializzazione (che troppo spesso non viene rilevato
come tale) si realizza per effetto di un processo di sottrazione, dalla
matrice dell’offerta, di produzioni precedentemente presidiate: così che,
dal punto di vista della concorrenza internazionale, la stessa logica dei
vantaggi comparati subisce cambiamenti apprezzabili. Da questo
punto di vista, la posizione relativa che l’Italia ha ormai assunto nella
divisione internazionale del lavoro è quella di un paese che alloca una
quota rilevante delle sue produzioni in ambiti merceologici
definitivamente abbandonati dai first comer, e ora invasi da economie
45 Per un’analisi del carattere “neo-manchesteriano” del percorso di sviluppo di
questo blocco di produzioni e della sua continuità lungo l’intero arco della storia
industriale dell’Italia cfr. tra gli altri lo stesso Bonelli (1978), Cafagna (1998), Toninelli
(2001), Castagnoli e Scarpellini (2003).
41
in via di industrializzazione46.
In questo quadro, tuttavia, devono essere sottolineati due
aspetti importanti. Il primo è che sul piano internazionale, grazie
all’altissimo livello di competitività non di prezzo raggiunto, l’Italia di
fatto si sottrae ampiamente anche alla concorrenza dei late comer, dal
momento che le sue produzioni si collocano generalmente, e spesso a
larga distanza da tutte le altre, al top delle fasce di mercato47. La
seconda è che naturalmente non è immaginabile che la sola
produzione di beni di consumo di tipo tradizionale (filiere conciariocalzaturiera, tessile-abbigliamento, legno-arredamento) possa essere
stata fin qui in grado di garantire la tenuta dei saldi di bilancia
commerciale – o anche solo il livello dell’occupazione – di un paese
delle dimensioni industriali dell’Italia. E infatti in tutti questi casi lo
sviluppo produttivo ha coinciso con una considerevole estensione
delle attività in questione al di fuori dei confini settoriali, e in
particolare verso monte, in direzione della produzione dei beni
capitali ad esse destinati. Come già osservato (infra, par. 3.2),
l’espansione dell’industria meccanica italiana (che è certamente
anch’essa una storia di successi importanti) è in misura rilevante
l’espansione verso monte di settori verticalmente integrati che
“chiudono” a valle su produzioni destinate ai consumi, e che si
aggiungono a una presenza in altre importanti industrie meccaniche
(maxime quella automobilistica) che, per quanto assottigliata, resta
ancora determinante.
Ma il vero nodo di tutta questa discussione è che questo
complesso di industrie (a monte e a valle), che costituisce ormai il
cuore del “secondo” modello di industrializzazione dell’Italia, appare
in ogni caso il risultato di un processo di sviluppo sostanzialmente
spontaneo, realizzatosi al di fuori di qualunque obiettivo consapevole di
Naturalmente ciò non significa che l’Italia acquisisca un vantaggio comparato nella
produzione di beni di consumo di tipo tradizionale soltanto a partire dalla
discontinuità di cui si parla.
47 Su questo punto cfr. in particolare de Nardis e Traù (1999) e, più recentemente,
Pensa e de Nardis (2003).
46
42
politica industriale48. I risultati talvolta eccezionali ottenuti in
quest’ambito indicano con chiarezza che i “problemi” dell’industria
nazionale, se ce ne sono, non hanno nulla a che vedere con l’esistenza
delle industrie di cui si discute; ma non è immaginabile che solo per
questo si possa pensare di evitare di fare i conti con il vuoto lasciato
dalle industrie che non ci sono più.
48 Naturalmente questo non significa che sul processo di cui si discute non abbia
influito positivamente il complesso di esternalità positive assicurate, a livello locale,
dalla rete delle istituzioni intermedie presenti sul territorio. Su questo specifico punto
cfr. Arrighetti e Seravalli (1997 e 1999).
43
TAVOLE
44
Tab. 1 - Industria manifatturiera, quote settoriali dell'occupazione
Ateco 1951
1911
1927
1937
Settore
3.01
3.02
3.03
3.04
3.05
3.06
3.07
3.08
3.09
3.10
3.11
3.12
3.13
3.14
3.15
Alimentari e bevande
Tabacco
Pelli e cuoio
Tessili
Vestiario e abbigliamento
Legno (e mobilio)
Carta e cartotecnica
Poligrafico-editoriali
Foto-fono-cinematografiche
Metallurgiche
Meccaniche
Minerali non metalliferi
Chimiche
Gomma
Manifatturiere varie
13,8
1,0
1,2
22,7
15,2
11,8
1,5
2,0
0,1
1,9
17,2
8,4
2,6
0,1
0,5
Fonte: Elaborazioni da Cainelli e Stampini (2002)
45
11,3
0,8
1,1
23,2
17,2
10,1
1,6
2,1
0,3
3,2
17,9
6,2
3,0
0,6
1,5
13,9
1,4
1,1
17,7
13,5
8,2
1,6
2,1
0,3
3,0
24,7
6,0
4,4
0,8
1,2
1951
10,3
1,5
1,1
18,6
11,8
8,4
1,8
2,1
0,3
4,1
25,6
5,9
5,7
1,1
1,5
Tab. 2 - Crescita dell'occupazione per settore
Ateco
Settori
1951
3.01
3.02
3.03
3.04
3.05
3.06
3.07
3.08
3.09
3.10
3.11
3.12
3.13
3.14
3.15
Tassi medi
crescita
annui
di
Variazioni assolute 1911-51
1911-27 1927-37 1937-51
numero di occupati indice
Alimentari e bevande
Tabacco
Pelli e cuoio
Tessili
Vestiario e abbigliamento
Legno (e mobilio)
Carta e cartotecnica
Poligrafico-editoriali
Foto-fonocinematografiche
Metallurgiche
Meccaniche
Minerali non metalliferi
Chimiche
Gomma
Manifatturiere varie
0,1
1,0
1,4
2,1
0,3
1,9
1,4
4,2
7,5
1,3
-0,7
-0,4
0,0
2,1
2,0
-2,0
0,9
0,4
0,5
-0,8
0,3
0,9
0,4
48.453
30.447
11.471
138.094
68.073
26.457
29.595
28.407
116
238
142
127
120
110
187
162
7,7
4,6
1,6
-0,7
2,0
11,6
8,7
3,1
1,5
5,4
1,8
6,3
5,0
-0,1
0,7
2,5
0,5
0,1
2,0
3,1
2,0
8.781
101.523
507.995
15.862
139.929
37.388
42.834
484
333
231
108
334
1465
499
Totale
1,3
2,0
0,2
1.235.309
155
Fonte: Elaborazioni da Cainelli e Stampini (2002)
46
Tab. 3 - Composizione % dell'occupazione manifatturiera
Ateco
Settori
1991
15 Alimentari e bevande
1951
1961
1971
1981
1991
1996
10,6
9,3
8,0
7,9
8,8
8,9
16
Tabacco
1,5
0,6
0,4
0,4
0,3
0,2
17
Tessili
19,4
13,8
10,8
9,2
7,7
7,1
18
Confezione, articoli di vestiario
7,1
7,8
8,0
7,1
8,0
7,1
19
Conciarie, fabbric. prod,. in cuoio, calzature
5,8
5,1
3,8
4,7
4,7
4,8
20
Legno
5,4
5,7
3,8
4,1
3,6
3,5
21
Carta e prodotti di carta
1,9
1,9
1,8
1,7
1,7
1,8
22
Editoria, stampa, supporti registrati
2,3
2,6
2,8
3,2
3,7
3,6
23
Fabbricaz. di coke, raffinerie di petrolio
0,5
0,4
0,5
0,5
0,6
0,5
24
Prodotti chimici e fibre sintetiche
5,3
5,7
5,8
5,1
4,6
4,3
25
Gomma e materie plastiche
1,4
2,2
3,6
3,8
3,4
4,1
26
Minerali non metalliferi
6,1
7,4
6,4
5,8
5,3
5,2
27
Produz. di metalli e loro leghe
6,1
5,8
5,5
4,8
3,3
2,9
28
Prodotti in metallo
6,4
7,8
8,5
10,2
11,8
12,8
29
Fabbricaz. di macchine
5,2
6,8
9,1
9,9
10,4
11,4
30
Macchine per ufficio, elaboratori
0,3
0,5
0,7
0,5
0,5
0,4
31
Macchine ed apparecchi elettrici
2,5
3,6
3,8
4,4
4,0
4,2
32
Apparecchi radiotelev. e per le
comunicazioni
0,9
1,5
2,4
2,3
2,7
2,1
33
Apparecchi medicali, di precisione, ottici
0,8
0,9
1,2
1,7
2,3
2,7
34
Fabbricaz. di autoveicoli
2,3
3,0
4,8
4,7
4,1
3,8
35
Altri mezzi di trasporto
3,4
2,5
2,0
2,5
2,8
2,1
36.a Fabbricazione mobili
3,2
3,7
4,0
3,9
4,2
4,5
36.b Altre manifatturiere
1,4
1,3
2,0
1,4
1,7
1,9
100
100
100
100
100
100
Totale manifatturiero
Fonte: Elaborazioni su Censimenti industriali
47
Fig. 1 - Composizione % dell'occupazione manifatturiera per alcuni gruppi di industrie
60
50
40
1951
1971
1996
30
20
10
0
Industrie di beni di
consumo
Industrie di base
Industrie
metalmeccaniche
Fonte: Elaborazioni su Censimenti industriali
Fig. 2 - Scarti assoluti tra le quote settoriali dell'occupazione.
5
28
4
3
29
2
33
1971-96
1
15 19
0
22
36a 31
9 36b
21
32
30
18
26
24
35
20 16
-1
25
34
-2
27
-3
17
-4
-5
-10
-8
-6
-4
-2
1951-71
Fonte: Elaborazioni su Censimenti industria
48
0
2
4
6
Tab. 4 - Dimensione media delle unità locali in termini di addetti
Ateco
1951 1971 1996
Settori
1991
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
Alimentari e bevande
Tabacco
Tessili
Confezione, articoli di vestiario
Conciarie, fabbric. prod,. in cuoio, calzature
Legno
Carta e prodotti di carta
Editoria, stampa, supporti registrati
Fabbricaz. di coke, raffinerie di petrolio
Prodotti chimici e fibre sintetiche
Gomma e materie plastiche
Minerali non metalliferi
Produz. di metalli e loro leghe
Prodotti in metallo
Fabbricaz. di macchine
Macchine per ufficio, elaboratori
Macchine ed apparecchi elettrici
Apparecchi radiotelev. e per le
32 comunicazioni
33 Apparecchi medicali, di precisione, ottici
34 Fabbricaz. di autoveicoli
35 Altri mezzi di trasporto
36.a Fabbricazione mobili
36.b Altre manifatturiere
Totale manifatturiero
Fonte: Elaborazioni su Censimenti industriali
49
4,6
65,6
15,0
2,0
2,0
2,5
29,8
10,1
50,2
28,1
19,4
11,5
74,0
3,3
29,1
169,7
48,2
7,4
49,0
10,9
4,2
13,5
3,0
27,0
10,9
48,3
48,4
15,2
13,8
59,2
6,2
18,1
340,8
15,1
5,8
72,7
9,5
7,0
9,1
3,4
16,2
6,2
29,3
27,6
13,5
8,2
34,4
6,6
12,9
30,8
11,9
6,9
11,7
81,2
61,9
2,8
7,5
72,4
15,2
167,6
54,1
6,2
7,0
10,6
4,6
82,0
22,4
5,2
5,1
5,8
10,0
8,2
Tab. 5 - Tassi medi annui di crescita dell'occupazione
Ateco
Settori
1991
1951-61 1961-71 1971-81 1981-91 1991-96
15 Alimentari e bevande
1,0
0,2
1,2
-0,1
-1,1
16 Tabacco
-6,6
-2,3
0,7
-2,5
-7,4
17 Tessili
-1,0
-0,8
-0,2
-2,8
-3,1
18 Confezione, articoli di vestiario
3,5
1,8
0,2
0,1
-3,7
19 Conciarie, fabbric. prod,. in cuoio, calzature
1,1
-1,3
3,6
-1,3
-1,1
20 Legno
2,9
-2,3
2,2
-2,6
-1,8
21 Carta e prodotti di carta
2,9
1,1
0,5
-1,1
-0,7
22 Editoria, stampa, supporti registrati
3,8
2,5
2,7
0,4
-2,2
23 Fabbricaz. di coke, raffinerie di petrolio
-0,1
4,0
1,0
-0,5
-3,6
24 Prodotti chimici e fibre sintetiche
3,3
1,8
0,0
-2,1
-2,6
25 Gomma e materie plastiche
7,1
6,8
1,8
-2,1
2,0
26 Minerali non metalliferi
4,4
0,3
0,3
-2,0
-1,8
27 Produz. di metalli e loro leghe
1,9
1,2
0,0
-4,9
-4,0
28 Prodotti in metallo
4,5
2,5
3,3
0,3
0,2
29 Fabbricaz. di macchine
5,1
4,8
2,1
-0,6
0,4
30 Macchine per ufficio, elaboratori
9,2
5,0
-2,5
-1,2
-6,5
31 Macchine ed apparecchi elettrici
6,1
2,4
2,8
-2,2
-0,2
32 Apparecchi radiotelev. e per le comunicazioni
7,9
6,6
1,1
0,4
-5,9
33 Apparecchi medicali, di precisione, ottici
3,1
5,2
4,6
1,7
1,9
34 Fabbricaz. di autoveicoli
5,0
6,5
1,2
-2,5
-2,8
35 Altri mezzi di trasporto
-0,8
-0,3
3,4
0,0
-6,9
36.a Fabbricazione mobili
4,0
2,4
1,2
-0,5
-0,1
36.b Altre manifatturiere
1,4
6,0
-2,1
1,1
0,5
2,4
1,7
1,3
-1,1
-1,5
Totale manifatturiero
Fonte: Elaborazioni su Censimenti industriali
50
Tab. 6 - Contributo % alla variazione totale dell'occupazione
Ateco
Settore
1991
1951-71
1971-91
1991-96
2,8
40,2
-6,8
15
Alimentari e bevande
16
Tabacco
-1,8
-2,9
-1,5
17
Tessili
-6,5
-120,9
-15,8
18
Confezione, articoli di vestiario
19
Conciarie, fabbric. prod,. in cuoio, calzature
20
9,7
10,1
-19,4
-0,2
40,5
-3,5
Legno
0,5
-6,6
-4,3
21
Carta e prodotti di carta
1,8
-4,7
-0,8
22
Editoria, stampa, supporti registrati
3,9
43,6
-5,6
23
Fabbricaz. di coke, raffinerie di petrolio
0,5
1,2
-1,3
24
Prodotti chimici e fibre sintetiche
6,9
-47,3
-8,0
25
Gomma e materie plastiche
8,1
-5,5
5,0
26
Minerali non metalliferi
7,1
-42,3
-6,5
27
Produz. di metalli e loro leghe
4,3
-92,8
-8,4
28
Prodotti in metallo
12,7
151,1
2,0
29
Fabbricaz. di macchine
17,0
61,6
3,3
30
Macchine per ufficio, elaboratori
1,6
-9,9
-2,0
31
Macchine ed apparecchi elettrici
6,5
9,6
-0,5
32
Apparecchi radiotelev. e per le
comunicazioni
5,3
16,2
-9,8
33
Apparecchi medicali, di precisione, ottici
2,1
45,0
3,1
34
Fabbricaz. di autoveicoli
9,6
-24,0
-7,7
35
Altri mezzi di trasporto
-0,7
33,6
-11,6
36.a Fabbricazione mobili
5,6
12,3
-0,4
36.b Altre manifatturiere
3,0
-8,1
0,6
Totale manifatturiero
(variazioni assolute)
1.697.477
Fonte: Elaborazioni su Censimenti industriali
51
120.474 -373.359
Fig. 3 - Coefficienti di concentrazione settoriale nell'industria di trasformazione
50
0
-50
-100
-150
1911-27
1927-37
1937-51
1951-61
1961-71
1971-81
1981-91
1991-96
Fonte: Anni 1911-51 elaborazioni su dati Cainelli e Stampini (2002); Anni 1951-1991 elaborazioni su
Censimenti industriali
Fig. 4 - Coefficienti di concentrazione settoriale (C) e tassi di crescita dell'industria
manifatturiera (Y)
C
40
1991-96
20
1981-91
0
1971-81
-20
-40
1961-71
-60
-80
-100
-120
1951-61
-140
-160
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Y
52
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Working Paper pubblicati
1. Testing purchasing power parity between Italy and the US with maximum
likelihood methods, di Marco Malgarini, Ottobre 1996
2. Costo d'uso del capitale e distorsioni fiscali in Italia, 1980-1996, di M. Gabriella
Briotti, Ottobre 1996
3. Commercio estero e occupazione in Italia: una stima con le tavole intersettoriali, di
Sergio de Nardis e Marco Malgarini, Ottobre 1996
4. La mobilità territoriale delle imprese dal 1970 ad oggi, di Fabrizio Traù e Massimo
Tamberi, Ottobre 1996
5. La mobilità dimensionale delle imprese nell'industria italiana, di Fabrizio Traù,
Ottobre 1996
6. Mobilità e disoccupazione in Italia: un'analisi dell'offerta di lavoro, di Riccardo Faini,
Giampaolo Galli e Fulvio Rossi, Ottobre 1996
7. Ristrutturazione finanziaria e proprietaria e ricorso al mercato di borsa: un'indagine
sui servizi di investment banking in un gruppo di Pmi, di Ugo Inzerillo, Febbraio 1997
8. Stock e costo del capitale con misure di deprezzamento non geometrico, di Paolo
Annunziato e Ioannis Ganoulis, Febbraio 1997
9. Sviluppo economico e occupazione nei paesi industriali, di Fabrizio Traù, Giugno
1997
10. La composizione settoriale dell'occupazione manifatturiera: continuità e
cambiamento strutturale (1951-1991), di Fabrizio Traù, Giugno 1997
11. Inflazione e disoccupazione in Europa: determinanti strutturali e politiche
macroeconomiche, di Marco Malgarini e Francesco Paternò, Giugno 1997
12. Legislazione, sindacato e licenziamenti collettivi - Un'analisi su dati aziendali, di
Paolo De Luca e Ioannis Ganoulis, Settembre 1997
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13. Scambi con l'estero e posti di lavoro: l'industria italiana nel periodo 1980-95, di
Sergio de Nardis e Francesco Paternò, Settembre 1997
14. A decade of regulatory reform in Oecd countries: progress and lessons learned, di
Scott H. Jacobs e Marco Malgarini, Marzo 1998
15. Un approccio "interattivo" alla teoria del reddito permanente, di Edoardo Gaffeo,
Giugno 1998
16. Dalle politiche passive alle politiche attive del lavoro: il ruolo della formazione
professionale, di Andrea Montanino, Ottobre 1998
17. Specializzazione settoriale e qualità dei prodotti: misure della pressione
competitiva sull'industria italiana, di Sergio de Nardis e Fabrizio Traù, Ottobre 1998
18. Confronti internazionali di dati censuari: aspetti metodologici e riscontri empirici,
di Anita Guelfi e Fabrizio Traù, Luglio 1999
19. La discontinuità del pattern di sviluppo dimensionale delle imprese nei paesi
industriali: fattori endogeni ed esogeni di mutamento dell' "ambiente competitivo", di
Fabrizio Traù, Settembre 1999
20. Investigating the credit channel: a parallel between the US case and the italian
one, di Francesco Paternò, Febbraio 2000
21. Formazione aziendale, struttura dell’occupazione e dimensione dell’impresa, di
Andrea Montanino, Marzo 2000
22. Regulation in Europe: justified burden or costly failure?, di Sandrine Labory e Marco
Malgarini, Marzo 2000
23. Employment protection and the incidence of unemployment: a theoretical
framework, di Anita Guelfi, Marzo 2000.
24. Can tax progression raise employment?, di John P. Hutton e Anna Ruocco,
Novembre 2000.
25. Le privatizzazioni bancarie in Italia, di Marcello Messori e Ugo Inzerillo, Novembre
2000.
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26. Employment protection, growth and jobs, di Giampaolo Galli, Aprile 2001.
27. Allargamento a Est dell’Unione Europea: gli effetti sul mercato dei beni, di Stefano
Manzocchi e Beatrice Pierluigi, Maggio 2001
28. Allargamento a Est dell’Unione Europea: l’impatto sugli investimenti diretti
esteri, di Stefano Manzocchi e Beatrice Pierluigi, Maggio 2001
29. Allargamento a Est dell’Unione Europea: il quadro di riferimento per le politiche
comunitarie di sviluppo regionale e coesione, di Giuseppe Mele, Giugno 2001
30. Ristrutturazione bancaria, crescita e internazionalizzazione delle Pmi meridionali,
di Giovanni Ferri e Ugo Inzerillo, Novembre 2002
31. L'aritmetica del congiunturalista: misure di confronto temporale e loro relazioni,
di Ciro Rapacciuolo, Dicembre 2002
32. Specializzazione produttiva e struttura dimensionale delle imprese: come spiegare
la limitata attività di ricerca dell’industria italiana, di Giovanni Foresti, Dicembre 2002
33. Judicial branch, checks and balances and political accountability, di Nadia Fiorino,
Fabio Padovano e Grazia Sgarra, Dicembre 2002
34. Tax credit policy and firms’ behaviour: The case of subsidies to open-end labour
contracts in Italy, di Piero Cipollone e Anita Guelfi, Marzo 2003
35. Tendenze di lungo periodo della filiera legno-arredamento, di Fabrizio Traù,
giugno 2003
36. Un semplice modello univariato per la previsione a breve termine dell’inflazione
italiana di Ciro Rapacciuolo, Giugno 2003
37. Misure del potere di mercato degli esportatori italiani di beni tradizionali, di Sergio
de Nardis e Cristina Pensa, Giugno 2003
38. Le transizioni dimensionali nelle piccole imprese italiane nel periodo 1995-2000:
un’analisi sui dati Aida e Mediocredito Centrale, di Francesca Sica, Giugno 2003
39. Effects of exchange rate changes on the Italian trade balance: the J-curve, di
Daniele Antonucci, Giugno 2003
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40. Coordinamento della tassazione dei redditi d’impresa nell’Unione Europea, di
Giovanni Rolle, Anna Ruocco e Piergiorgio Valente, Giugno 2003
41. La tassazione dei redditi d’impresa in Italia: la legge delega per la riforma fiscale,
di Fabrizio Carotti e Anna Ruocco, Luglio 2003
42. Hiring Incentives and Labour Force Participation , di Piero Cipollone, Corrado di
Maria e Anita Guelfi, Ottobre 2003
43. Criteri di misurazione dell’intensità dei regimi a protezione dell’impiego,
di
Andrea Salvatori, Ottobre 2003
44. Il finanziamento del programma nazionale di grandi infrastrutture della “Legge
Obiettivo” di Giuseppe Mele e Claudio Virno, Ottobre 2003
45. Occupazione e retribuzioni della Pubblica amministrazione nell’ultimo decennio,
di Paolo De Luca, Ottobre 2003
46. Due modelli di industrializzazione: la specializzazione produttiva dell’industria
italiana lungo l’arco del Novecento, di Fabrizio Trau’, Dicembre 2003
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