XII. LA LITURGIA DI UN POETA SENZA CHIESA. VARUJAN

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XII. LA LITURGIA DI UN POETA SENZA CHIESA. VARUJAN
XII.
LA
LITURGIA DI UN POETA
SENZA CHIESA.
VARUJAN
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Daniel Varujan (1884-1915) nacque a Perknik (Anatolia). Studiò a
Venezia e a Gand, per poi stabilirsi a Costantinopoli, dove pubblicò le raccolte poetiche che lo resero celebre (Il cuore della stirpe e Canti pagani). Fu brutalmente trucidato, insieme con altri intellettuali armeni,
nell’estate del 1915. Il canto del pane, il suo capolavoro, fu pubblicato
postumo nel 1921.2
Avvoltolato nella terra come per nostalgia di una eternità arcaica, di una continuità con radici che vincolano
l’uomo a quella terra, indissolubilmente, non solo, ma anche inestricabilmente, sicché mai uomo e terra sono realtà
distinte. E se mai il cuore dolente dovesse giungere ad una
certezza di cielo, questa sarebbe ancora composta di carne
e di terra, salvezza cosmica, non approdo razionale ed ancor meno morale.
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Apparso con il titolo “Valori liturgici nella poesia di Daniel
Varujan. La tensione del cosmo verso la trasfigurazione” in Studium,
6/1997, 845-53.
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Le presenti considerazioni sono legate alla pubblicazione
delle due versioni in lingua italiana, recentemente apparse, dell’opera
di D. Varujan: Il canto del pane (trad. di A. Arslan e C. H. Megighian,
Milano 1992, e, con il titolo di Mari di grano, Milano 1995, trad. di A.
Arslan e A. H. Siraky, quest’ultimo volume comprendente anche altre poesie). Non ha dunque alcuna pretesa di essere uno sguardo
esaustivo sull’intera produzione letteraria del poeta.
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Daniel Varujan
Grido di ribellione, di rabbia, dipinto talora di odio struggente per una distruzione voluta dal male, di focolari, di affetti, di speranze, di oggetti anch’essi fili nel tessuto dei sentimenti. Villaggi abbandonati, corpi squartati, aperti; viscere sparpagliate, orgia di sangue. E di fronte a questo, e per questo, urlo senza piú lacrime, né speranza di comprensione, invocazione, rifiuto, non esaudito, forse neppure esaudibile.
Amore rosso di passione, o canuto di ricordi, ormai tenerezza lontana: fecondità caparbia, nonostante l’accanirsi
del nemico, l’incubo della strage; canto del piacere, anch’esso
di terra e di sole.
Se questo e solo questo è Daniel Varujan, allora è blasfemo parlare di sfondi liturgici; allora esiste solo culto della terra senza volto di Dio; epopea degli elementi, furia vitalistica dell’istinto, esaltazione di un uomo confitto nella terra, eroe nello strappare ancora un giorno, un solo giorno di
vita, prima di essere definitivamente riassimilato alla terra.
Eppure anche il lettore meno aduso ai sapori della fede
in poesia sente trascorrere nei versi di Daniel Varujan una
religiosità tanto indubitabile, quanto irriducibile alle categorie in cui siamo soliti rinchiudere l’esperienza di Dio.
Dura prova per il credente, se questi fosse abituato a pensare che la poesia è religiosa solo se riconducibile a catechesi,
e se risolve contraddizioni o coesistenze con mondi tradizionalmente incompatibili.
Varujan fu armeno, sí, ma formato in occidente, nelle
scuole esigenti dei monaci mechitaristi, poi addirittura permeabile alle correnti piú estreme della cultura europea.
Ebbene, se un occidentale legge Varujan, e lo valuta sullo
sfondo dei criteri di scuole e correnti, l’intuizione della sua
religiosità sarà ostacolata, non favorita. Con questo non si
vuol dire che egli debba essere appiattito ai soli archetipi del299
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la sua cultura e spogliato dell’interezza della sua esperienza
di uomo, complesso nella persona e nella molteplicità degli influssi.
L’orientale, e l’armeno in particolare, può essere facilitato a comprendere, quasi per connaturale simpatia, il mondo interiore di Varujan. È forse solo una coincidenza che,
nella rivista ufficiale del Patriarcato armeno cattolico, si
stia pubblicando a puntate, proprio in questi mesi, un saggio sui sacramenti in Varujan.
Il mio approccio non è, tuttavia, neppure questo. Non è
mia intenzione raccogliere qua e là i contenuti teologici della sua poesia, sulla base dei vari capitoli nei quali siamo soliti suddividere il sapere della fede. Il mio scopo è piú modesto: recepire risonanze, mantenendole il piú possibile nel
contesto, consapevole di rinunciare ad ogni completezza, ma
desideroso di rispettare al massimo l’interezza del respiro poetico, e umano, dell’autore. Non separare il grano dalla pula, il religioso dal non religioso, magari per giustificare quest’ultimo, per “battezzare” il pagano Varujan, o per attribuire il “religioso” alla sua evoluzione, all’uomo nuovo, dimentico dell’indissolubile legame che unisce, in ogni temperamento umano, la storia interiore, condannandola ad
una incancellabile e scomoda, ma proprio per questo autentica, continuità.
Perché nella poesia di Varujan le metafore liturgiche fioriscono in contesti che non ci appaiono sacrali? Esse sembrano
quasi non essere il frutto di una riflessione successiva alla descrizione, ma parte della descrizione stessa. I simboli della fede sono elementi del paesaggio, dei volti, dei sentimenti. Essi
sono là, oggettivi, indiscutibili. Nel descrivere il mondo,
non si possono omettere. Senza di essi quel mondo non sarebbe piú integro, sarebbe mutilato.
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Daniel Varujan
Cogliamoli nell’aspetto dei contadini: “testa che piegano davanti all’altare santo / è sempre incoronata di polveri
di paglia dorata” (I contadini).
La sera scende sulle fatiche del contadino, “Prima che
dietro la montagna risuoni la campana sacra del villaggio ...”
(L’aratura).
La prodiga generosità del seminare è presagio, preludio
e premessa necessaria al generoso gesto di culto:
Semina, contadino – in nome del misero affamato
non esca dimezzato il tuo palmo dal grembiule;
un povero oggi nella lampada del tempio
versò il suo ultimo olio per il raccolto di domani
(La semina).
Ma il poeta non si limita a svelare il sacro che è parte di
oggetti ed abitudini della realtà. Egli dà voce all’invocazione perché, attraverso la potenza di Dio, il mondo diventi ancora piú sacro, cioè piú abitato da una provvidenza che significa, nel linguaggio concreto dei semplici, prosperità, salute, abbondanza, serenità. È questo il senso del “benedire”,
che ricorre non di rado nei testi poetici. La benedizione è
convocazione di Dio, invito ripetuto, affinché intenda e faccia risplendere la sua potenza benefica. Vi sono intere composizioni: Croce di spighe (sull’altare della Vergine) e Antasdan,
che volutamente sono composte in forma di benedizione
invocata.
Talora benedire è consueto, naturale, come i gesti piú
quotidiani: “Alcuni sbriciolano una spiga matura / nel cavo della mano / e benedicono i grani, e li masticano” (La
mietitura).
Stupisce come già in questo “masticare” si manifesti
quasi una eucaristicità latente.
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Altre volte benedizione è tripudio del cuore, gonfio di
gratitudine: “Tu che rendi d’argento il muso dei miei agnelli / sii benedetto” (I fienili).
A volte è il gesto di una paternità, che si fa invocazione
e mandato: “Padre mio, benedici: metti sulla mia testa le tue
mani tremanti: / lascia che dalle tue dita goccioli giú / la tua
preghiera, venuta dal fulgido altare della tua anima: / è l’ora
finale, benedicimi, padre” (Padre, benedici).
Il gesto liturgico è talmente connaturato, che persino la
rugiada che protegge e rinforza è paragonata al sacro crisma,
distillato dall’alto, dalle stelle: “Dal cielo, sulle spighe, / – La
stella filante è passata – / gocciolano le stelle l’olio consa.
crato (miwron). / – II tuo viso è illuminato” (Raccolgo la messe ...).
Questa compenetrazione di cielo e terra, quasi una ierogamia, percorre ogni composizione. La terra, in particolare, è la madre, calda, accogliente, protettiva: “E quando anche noi saremo deposti nel sepolcro / che sotto di noi la terra, Anna, / possa essere morbida” (Benedizione).
Ed ecco il rispecchiarsi della luna nell’abbeveratoio: battesimo di tenera creatura.
Nel mistero dell’ombra
diresti che sia un limpido battistero
dove la luna crescente riceve soavemente il battesimo
come un bimbo appena nato (L’abbeveratoio).
Egualmente battesimale, ma legata al simbolo della veste bianca, abito della nuova vita, tramutata in candido sudario, è l’immagine del bimbo nato morto:
Nato morto: oh, invano
tua madre attese con il bacio le rose delle tue labbra: –
esse vennero fuori appassite:
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invano tessé con canti
la camicia del tuo sacro battesimo: –
essa diventò il tuo lenzuolo funebre (L’aborto).
Non piú dunque solo il paesaggio svela la sua fitta trama di simboli sacri, ma l’intera esistenza umana è scandita
sui ritmi della preghiera e del tempio. È cosí che il tramonto
dell’umana esistenza evoca una piccola candela che illumina le volte buie, e che un soffio può spegnere, inghiottendo lo spazio nell’oscurità: “che la candela della nostra sera
/ non si spenga tra le colonne della chiesa” (Benedizione).
Anche l’amore per una donna, Maria, in un unico sangue con il poeta, che sboccia alla maternità, trascolora
nell’evocazione, in filigrana, di Maria, la benedetta, la creatura piú bella, la madre dell’Uomo:
Sii tu benedetta, Maria,
tu che con infinita tenerezza
la tua costola mi doni, e le tue ossa
per altre ossa spremi,
tu che diventi il solco
piú puro e piú fertile di tutti,
e il vaso piú bello di tutti
i vasi dei gigli,
sii tu benedetta in eterno.
Tu che, saggia, porti – come gemma preziosa nell’anfora –
l’Uomo impronta di Dio nel profondo del tuo grembo,
sii tu benedetta, o Maria ... (Tu sei benedetta fra le donne ...)
Agli anziani sposi, il ricordo della passione sfiorita evoca la lontananza di una preghiera appresa all’inizio della vita: “A loro viene in mente, ecco il vecchio amore, / come
una vecchia preghiera” (Vecchio amore).
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Il testo piú esplicito è forse La preghiera di mia nonna. Vi
si coglie una composta ammirazione, quasi un’affettuosa fierezza per questa donna, che richiama qualche tratto di La
madre di Ungaretti:
Seduta di fronte alla luna piena
la mia nonna bianca dice la preghiera della sera.
Neri pipistrelli girano intorno alla sua testa:
Dio vive nel suo cuore
Le sue labbra (rose sacre
appassite davanti all’altare della madre di Dio)
si muovono cosí piano che l’anima stessa non sente
quello che lei va dicendo
...
Ma tu hai sete, lo so,
del Cielo, nel quale hai sempre creduto,
per il quale il tuo corpo è sempre vissuto
in ginocchio davanti alla tua anima.
Il Cielo è tuo, o nonna,
perché nelle tue vecchie pupille ancora immacolato
è rimasto il suo azzurro, libero da ogni nuvola:
perché, madre benefica,
insieme al tuo sangue
le tue mammelle per cinque figli hai spremuto.
Fosti fedele: e nessuna parte del tuo cuscino hai ceduto
alla testa di estranei.
Ed ora che, oh nonna mia,
con i capelli mescolati alla luna,
sulle macerie della nostra religione
muori diritta, vecchia e donna,
domani vergine rinascerai.
Vi è poi l’immagine del sangue, rossa immolazione, vino eucaristico, partecipazione salvifica all’uccisione del304
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l’innocente Figlio di Dio, scannato come agnello. È il valore sacrale di una tragedia che permea tante pagine di
Varujan; è l’anticipo della sua stessa fine. Nella visione del
carro degli armeni massacrati:
E ancora sangue continua a sgorgare
dai cerchi delle ruote,
come se il carro trasportasse rose, come se fosse
dell’aurora il carro di fuoco (Il carro dei cadaveri).
Par qui di sentir risuonare l’antico inno dei Vardanank‘,
i prodi combattenti per Cristo, incoronati del loro sangue
sparso per fedeltà. Anche qui Vardan, il nome del loro capo e il colore rosso (vard) come il sangue, e come la rosa
(vard), si susseguono in ardite assonanze:
Vardan k‘aǰ nahatak or vanec‘er zt‘šnamin, vardagoyn areambd
k‘o psakec‘er zekełec‘i: “O prode Vardan, primo nell’attacco
[ma anche “martire”], che hai fugato il nemico, / con il tuo
sangue color di rosa hai incoronato la Chiesa”.
Il canto della nostalgia fa sognare alla madre il giorno in
cui il figlio ritornerà, e allora immolerà l’unico ariete sopravvissuto alla furia dello sterminio. E sarà ad un tempo
evocazione del gesto evangelico del padre buono verso il figlio che torna e richiamo al madał, l’immolazione dell’animale accanto al tempio, quale auspicio di benedizione e rendimento di grazie:
Al tuo ritorno, con la testa cinta di rose,
lo scannerò per la tua vita giovane:
nel tuo sangue laverò, dolce figliolo,
i tuoi piedi affaticati da emigrato (Lettera di nostalgia).
Persino nella sensualità della passione, torna un’immagine di morte sempre latente nel cuore armeno: “E se una
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vittima occorre offrirti, / io mi sacrificherò sul tuo altare,
/ perché il tuo marmo beva l’ultima goccia del mio sangue”
(Alla statua della bellezza).
Il sangue dei perseguitati è l’unico sangue dell’Agnello
immolato, come nell’intera Via Crucis, o nel ricordo degli
uccisi:
Vidi che con voi, con voi vennero immersi
nella strage, perseguitati,
i santi di tutte le religioni, tutti i gigli
ed i Gesú sputacchiati (Nella prigione di mio padre).
Ma il sangue di ogni uomo, proprio come il sangue di
Cristo, immolazione estrema di un Dio che tutto ha dato
di sé, eppure sorgente di vita nuova, farmaco di immortalità, vino del Regno, è mistero inestricabile di vita e morte: l’amore dell’uomo per la sua donna è un figlio, sangue
di vita e di speranza:
L’amore divenuto uomo strappò il grigio velo del mio sogno:
capisco, – questo è il canto della forza virile:
ecco l’asse del mio movimento, il sangue del mio polso,
la vite del mio grappolo, il vino della mia ebbrezza”
(Canto del talamo).
Si tratta dunque solo di simboli arcaici, propri di un ambiente sognato perché irrimediabilmente perduto dall’intellettuale che in occidente aveva conosciuti i tormenti della ragione? No, questo non è un libro di vecchie immagini, che
si sfoglia quando ci si vuol sentire piú buoni, o si vuol provare un brivido caldo al sentirsi figli di un passato tanto piú invocato quanto piú irrimediabilmente perduto. Questa sacralità in Varujan è molto piú profonda. Essa fa parte di un modo di sentire la fede molto caro all’oriente.
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Ma perché parlare di liturgia in tutto questo? Perché qui
sta nascosto il senso stesso primigenio della liturgia, come
all’orientale si offre. Se il sacramento in occidente è divenuto il segno di una realtà spirituale, esplicitato dalle parole, che ne indicano il valore univoco e incontrovertibile, sí
che tale parola esplicativa, cioè la forma dell’atto, è fondamentale per il senso dell’atto stesso, in oriente esso è già parola scritta dalla creazione nella carne stessa del cosmo.
L’universo è stato creato sacramentale, perché tutto è stato pensato e voluto come cristico, incentrato su colui che
è l’archetipo: il Verbo, per il quale e in vista del quale tutto è stato fatto: le acque sono sin dal giorno della creazione il lavacro del battesimo; l’olio è il dono della prosperità
che configura al Figlio, re e sacerdote, e che guarisce e dà
forza; il pane e il vino sono l’alleanza nuova, il cibo della vita che non muore, distribuito da colui che muore per dare
la vita; l’amore è la gioia di Dio per la sua creatura; la morte è l’atrio dell’immortalità.
La liturgia in Varujan, lo abbiamo visto, non è concetto, né verità aggiunta alla realtà: è la salvezza nascosta nella realtà, parte di essa. La fede fa scaturire l’implicito, svela
ciò che la debolezza tiene velato, il disegno di Dio. Gli elementi naturali che partecipano alla liturgia, che sono convocati ad essa, non sono che il senso del cosmo come Dio
lo volle e come noi non siamo piú capaci di vedere con l’occhio appesantito dall’opacità della colpa.
Se chiedessimo a Varujan una religione come tematizzazione, come aggiunta di significato, come opzione morale, noi resteremmo delusi. Ciò tuttavia di cui è il testimone
quasi suo malgrado è un mondo per il quale l’occhio o è
credente o non è, dove non serve scegliere, non è chiesto
di prendere posizione, non è imposto di valutare e filtrare,
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ma di ammirare, di cantare, di sentire, di patire in tutta la sua
vibrante immediatezza l’anima eucaristica del creato.
Nulla esiste se non in Cristo; e mai il cosmo è cristiforme come nella liturgia: in questo senso essa è la nuova creazione, non nel senso che essa sia contrapposta all’antica, ma
nel senso che essa è l’unica esistente, l’unica possibile: o questa o il nulla. Neppure il massacro, neppure la violenza di chi
vuol troncare l’albero della vita è negazione di questa eucaristia. Perciò il delitto non è il nulla, che non può esistere da
quando Dio ha disegnato l’attimo creatore, ma sacrilegio, bestemmia, insulto al sacro, non annichilimento di esso. L’assassino diviene colui che si sforza di soffocare la dossologia
eucaristica del cosmo. Il male non è negazione di Dio, ma
lotta contro Dio; non è annientamento del cosmo, ma perversione dell’ordine. Perché non esiste che un’unica realtà
possibile, quella cristiforme, destinata a svelarsi nei tempi ultimi.
È per questo che l’abbeveratoio non è “come” il battesimo, né l’amore “come” il sangue, né la rugiada come
l’“olio”, né la donna “come” Maria. Ciascuna di queste metafore “è” la realtà. L’oggetto non è che immagine, evocazione, disvelamento di questa pienezza e il miracolo il manifestarsi di questa realtà, la sua epifania, il suo apparire come veramente è. Questa è la natura, non la vuota contraffazione che la comune superficialità ritiene tale.
In questo senso Daniel Varujan è il testimone di una fede come liturgia, di un gesto come profezia, di un mondo
come unico senso possibile. Poeta religioso in cui anche il
paganesimo non è la negazione, ma la tipologia, l’anticipo,
la prefigurazione di una pienezza cristica scritta dentro il corpo stesso della creazione. Se questo è vero, l’umanità che egli
canta è davvero compatta, e l’anima è la vocazione alla tra308
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sparenza del corpo, non la sua negazione; la sensualità l’attesa della metabolizzazione piena del Cristo pantocratore,
i piccoli tempi che chiamiamo stagioni sono le ore di un
unico giorno.
La testimonianza piú chiara di questa visione liturgica di
Daniel Varujan è proprio il suo canto del pane; ben piú che
epopea di una nostalgia arcaica, esso è la massima tensione
del creato verso la sua trasfigurazione. Il primo chicco di grano è già voluto da Dio e quindi esistente come il candido
corpo del Salvatore. Proprio nell’invocazione alla Musa
che apre Il canto del pane, il poeta chiede di imparare “Il piacere, il vigore creatore / che diffonde il Pane, il Pane consacrato” (Alla musa).
E piú avanti, con la forza del grido della vita, egli vedrà
il compimento della vocazione naturale di esso, non perché
vi siano intervenute nuove parole che cambiano la sostanza, ma perché si è svelata la pienezza della sostanza: “Semina,
contadino, in nome dell’ostia del Signore / germi di luce
straripino dalle tue dita; / in ciascuna delle spighe bianche
di latte / maturerà domani una parte del corpo di Gesú” (La
semina).
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