Il muratore stanco

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Il muratore stanco
IL MURATORE STANCO
Arturo Loria
Padre e figlio si allontanarono dall’abbaino per un passaggio piano che orlava la base del tetto
a piramide, cappello così freddamente minerale sull’umanità architettonica dell’edificio da dar
sgomento quanto un’imprevista vetta di montagna.
Il muratore, cercando intorno con lo sguardo, scoprì il comignolo diroccato dal temporale:
emergeva solitario da un piovente rapido dove i quadratini di ardesia nuova specchiavano ghiacciati riflessi del cielo tra l’opacità di quelli vecchi, spartiti per l’ordine sconnesso degli interstizi in
tante scacchiere di cui l’occhio era tratto a cercar la fortuita completezza.
“È quasi all’angolo” disse, e il tenere in mira il comignolo gli fece sembrar più luminoso sulla
villa che intorno quel cielo pesante di nubi, così che il senso del vuoto a lato ne fu accresciuto per
lui. Tuttavia procedeva sicuro e si volgeva per sorvegliare il ragazzo che sfidava un cane nero latrante all’erta laggiù nel piazzale di ghiaia.
“Lascialo stare.”
“L’ha con noi” rispose il figlio e si chinò a raccogliere una scheggia d’ardesia che piovve accanto alla bestia tosto zittita a ricercarla.
Il padre sorrise, poi:
“Tira avanti” fece severamente.
Giunti al comignolo, che usciva diritto dal primo pendio del tetto, e deposti materiali e arnesi
sul camminamento, il muratore si rese conto che il lavoro da compiere era poco.
“Vammi a prender l’acqua” comandò, “e fa’ presto. Ho paura che voglia piovere.”
Il ragazzo si allontanò verso l’abbaino e il padre rimase a spiare il cielo. La pioggia pareva imminente; le nubi in moto disperdevano la loro lucentezza bianca entro grandi onde grigie, pese e
ferme. Nell’oscurarsi graduale la foresta distesa intorno perdeva il suo colore aereo, folta e pari
com’umile erba di prato. Accanto alla villa i primi alberi del parco riflettevano le loro vette nel laghetto, e l’acqua, contenendole, pareva salire al cielo e farsi vicina.
Il muratore calcolò con l’occhio esperto la distanza reale per vincere l’illusione conturbante di
quel ravvicinamento, poi si mise a staccar dalla pila smantellata i mattoni pericolanti fino a ritrovare la muratura intatta e sana.
Il ragazzo venne con un bussolotto pieno d’acqua e preparò la calce sull’asse.
Il padre gli volse il viso sorridente:
“Non ho bisogno di te, ora. Perché non scendi a vedere il giardino? Ci sono i cigni nel lago.
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Vai, che l’occasione non torna. Sta’ attento al cane e non toccar nulla.”
Il ragazzo parti per quella comandata avventura, un po esitante, come temesse di non trovar
libero passaggio, cosi ozioso.
“Se incontri qualcuno, di’ che sei mio figlio” gli gridò dietro il muratore, che, rimasto solo,
s’accorse della propria fretta di finire il lavoro e di scendere dal tetto.
Il cielo annunziava la pioggia, il vento taceva a tratti come a favorirla, ma c’eran sempre sugli
alberi vicini foglie che continuavano a svolettare e a trillare tra l’altre ferme, preda di giuochi mi steriosi e invisibili dell’aria. Allora l’uomo levava lo sguardo a cercarle con inquieta curiosità, poi
sorrideva.
Nei momenti di assoluto silenzio egli sentiva il proprio respiro ronfar dentro quel po’ di cannoncello ch’aveva ristabilito e gli veniva voglia di fischiar dentro la gola nera e grassa come in un
flauto sfogato al suono nei camini aperti delle stanze sovrapposte e dar così risposta a quei rumori vaghi che giungevano a lui ora da una cena festosa, ora come da fughe e inseguimenti di gente
scalza per lunghissimi corridoi.
Si tratteneva; però maliziosamente picchiava forte sui mattoni col fianco sonoro della mestola
per accomodarli nella stesa di calce, e si fermava in ascolto, deluso che né l’orgia né il baccanale
fossero veri nella villa come avrebbe voluto. Cresciuta la pila, poteva lavorare in una posizione
meno sacrificata e guardare attorno senza sforzo. Qualcuno correva nel parco inseguito dal cane
che abbaiava festosamente. Riconobbe suo figlio; lo intravide sulla riva del lago ammirar qualcosa
che rimaneva nascosto a lui, poi lo perse dietro ai monti di fascine verdi allineati su di un piazzale.
La pila cresceva e i rumori vaghi della casa venivano su sempre più attutiti, strangolati dalla materia nuova e umida. La muratura andava contraendosi e rassodandosi: a grattar con l’unghia tra
gl’interstizi di calce il muratore s’assicurava che aveva già fatto presa.
‘Può piovere, ora’ pensò, adattando sul comignolo il nuovo cappello di latta nera. Rialzandosi
da un’incomoda posizione, tenuta per raccogliere gli arnesi, avvertì uno sbalordimento, una leggera vertigine. Il suo sguardo aveva percorso troppa foresta e troppo cielo in quei brevi istanti e le
immagini facevano ressa, inaccolte. Sorrise e s’affisò nell’orizzonte in cerca di una linea ferma.
Sulle lontane e fumose distese della foresta la pioggia era già incominciata. Scopri allora la sua
perfetta solitudine come un pericolo. Le pietre nuove del comignolo, rosse vive sulla pila vecchia
ingrigita, gli davano il senso d’aver aggiunto qualcosa di scabro e di nemico a quel tetto che fuggiva ripido verso il cielo, e n’ebbe un rammarico iroso.
Si mosse verso l’abbaino, fatti due passi si fermò tremando. Un freddo interno, un mancar improvviso delle forze lo buttò ad appoggiarsi al piovente, mentre gli arnesi gli cadevano di mano. Il
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martello pesandogli su un piede lo rassicurava, pur durante quella vertigine, d’esser fermo e anco ra sul solido.
‘Son stanco’ pensò, ‘mi passerà’, e per non soffrire l’attrazione del vuoto, né la repugnanza del
tetto liscio, si mise a guardar lontano, più alto degli alberi.
La vertigine fu così vinta, ma non tornò la fiducia: con le palme delle mani incollate alla fug gente superficie d’ardesia il muratore esplorava in basso per ritrovare l’antica sicurezza. Vedeva a
sinistra il laghetto, argenteo nel mezzo e oscuro d’acqua nera sotto le rive ombrose. Da un piccolo golfo nascosto uscirono i cigni. Tre, candidi e in fila. Andavano lisci per l’acqua oscura rompendo col petto barriere galleggianti di foglie e parevano aver mete lontanissime. Con ironia egli
misurò i confini del laghetto. Ogni tanto gli uccelli aprivano l’ali a invelarsi come barche e mano vravano i colli lunghi per mutar direzione.
Vennero nel mezzo del lago ove si fecero grigi e quasi invisibili sotto un riflesso d’argento.
Egli dimenticò attratto da un altro spettacolo.
In un recinto del parco un puledro sciolto galoppava inquieto. S’udivano nel silenzio i colpi di
zoccolo sul prato: s’udivano più vicini quando l’animale rimaneva nascosto dagli alberi per riapparire in corsa, bruno e veloce su l’erba verde.
Improvvisamente cominciò a piovere.
Fu guardando il puledro che il muratore riuscì a tornare al comignolo senza soffrir del vuoto,
però ansava come scampato da un pericolo.
Si ricordò che poco lontano di lì, passato l’angolo, l’edificio nobile era giunto con un’ala laterale dal tetto piano facile a percorrere fino a un abbaino o a un lucernario.
Accecato dalla pioggia sferzante si buttò carponi sul camminamento per strisciare entro una
guida sicura. Sentiva le grondaie gorgogliare; dalla parete di ardesia l’acqua colava a veli ora opachi, ora lucenti.
Giunse così al tetto piano, di qualche palmo più basso del camminamento: vi scese e, trovandosi in salvo, si cacciò a riparo sotto l’orlo sporgente del primo tetto.
I cigni non navigavano più il lago. Stavano accosti alla riva e aprivano e richiudevano l’ali, non
mai contenti di come avevano ricomposto le penne bagnate dall’alto.
Il puledro, invisibile ora, non galoppava più. Scalpitava da fermo e annitriva così stridulo da
credere che soffrisse, prigioniero nel chiuso tutto fumido di pioggia.
Tra brontolii di tuono spiovve.
Il muratore usci di sotto l’orlo protettivo con l’ansia di verificare se quanto aveva intravisto era
vero. Mancavano sul tetto piano abbaini e lucernari. C’erano, a distanze uguali, grandi lastre di veIN PIMPIRIMPANA N. 7 DEL GENNAIO 2013
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tro trasparenti l’ossame a croce dei ferri che le sostenevano. Dalla casa saliva contro la faccia interna del vetro una luce grigia e densa come un gas, e tutto il peso del tetto pareva a fatica conte nerne l’esalazione.
L’unica via era far ritorno, ma il muratore si sentiva stanco e sfiduciato delle proprie forze
come uno uscito appena di malattia. Rimase su quell’ala dell’edificio donde gli si scopriva di sbieco la facciata posteriore e si sedette in attesa. Immaginava che a parlar con qualcuno, a riveder suo
figlio, quel malessere se ne sarebbe andato: per questo fissava ora gli sbocchi del parco nel piazzale, ora la facciata dalle tante finestre nella speranza di un servo che ne aprisse una.
Dove le tende eran tirate da parte intravedeva l’interno delle stanze, i mobili, le cornici dorate
e ciascuno di quegli oggetti lo riposava del vuoto e dell’altezza nemici del cuore, addormentando
in lui la coscienza del rischio mortale a volerli raggiungere con un prematuro tentativo.
Tra le nubi sgonfiate nacque un po’ di sole falso che rese innaturali la foresta, la radura, il par co. Infatti tutto pareva staccato dal suolo e sospeso in movimento; l’aria, quieta sulle vette, sfiorava il volto per quel moto ondulante. Ogni cosa era vicina e facile da toccare. Un passo, un lancio,
un salto dovevano portare a volo l’uomo sulle cuspidi del tetto, sulle vette degli alberi accoglienti,
nella radura, accanto al puledro in riposo.
L’illusione di potersi buttare a volo divenne al muratore così insidiosa che a sforzo dovette
vincerla. Quando del peso e dell’altezza delle cose ebbe ripreso coscienza, un rammarico restava
in lui come per una fortuna non saputa afferrare.
Pensò di chiamare, ma il silenzio, l’aria tranquilla, la maestà dell’edificio lo trattenevano. Rassegnato, si raggomitolò con le mani sui ginocchi, gli occhi fissi all’orizzonte.
L’aria dorata lo disegnava in solitudine anche per se stesso. Le mani avevano un alone d’oro, la
stoffa bagnata e dura lo chiudeva in una linea luminosa per la quale aveva sgomento a muoversi
come entro un abito nuovo e ricco, non suo. In quel contorno luminoso si sentiva solo e condan nato all’immobilità. Immaginò che di lontano doveva parer un ammasso di vecchie pietre, un comignolo diroccato, e se ne disperò come un meschino tradito da un cattivo mago.
Il rumore di una finestra aperta lo sorprese e gli fece volgere lo sguardo alla facciata.
Era apparsa nell’inquadratura una donna tutta nuda. Pareva venuta al davanzale per respirare
l’aria nuova lasciata dalla pioggia. Intorno a lei un fumo caldo usciva per la finestra. La donna aveva il viso sereno e si asciugava il petto con un gesto distratto e leggero, perduta a guardar la campagna. Sparì per un poco, tornò con un pettine bianco tra i capelli neri, e il gesto di ravviarli all’indietro gonfiava la sua nudità rigogliosa.
Il muratore tratteneva il fiato e abbassava le palpebre sugli occhi per tema che il suo sguardo
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assetato e pesante potesse esser sentito; la donna si mirava in un piccolo specchio, poi lo deponeva sul davanzale per annodare i capelli. Lo spostarsi di una nube fece scoppiare in cielo un lago
infocato di sole. Parve al muratore che la donna incantata non potesse più muoversi di lì, premio
al suo male e alla sua pazienza. Contento rise, e il sole gli entrò in bocca più letificante dell’ossige no; poi sentendo la propria guancia illuminata come uno specchio che poteva rivelarlo abbassò il
capo a nasconderlo tra le braccia. Con lo sguardo vagò giù oltre la ghiaia del piazzale e le casse
verdi dei limoni. Piantato sull’erba del prato, immobile come un alberino coperto di cenci grigi,
stava suo figlio e guardava la donna nuda. Del volto ipocritamente tenuto basso si vedevano puntati in su gli occhi bianchi.
Allora il muratore provò ira e rancore. La sua mano accennò al ragazzo che non lo vedeva:
‘Va’ via, va’ via!’ poi gli occhi tornarono inquieti alla donna. Ella aveva lo sguardo tanto più alto
da non accorgersi dell’ombra nuova sul prato, ma il muratore non poteva più goderla come prima
per la vergogna intimissima di spartir lo spettacolo con suo figlio. Gl’invidiava quella ricchissima
visione donata ai sogni di adolescenza, mentre per lui la nudità della donna era già priva d’ogni
miracolo rubatogli dal ragazzo. Con una confusa tristezza sentiva che questi era colpevole di qualcosa per cui non lo poteva punire e tuttavia prevedeva la brutalità con la quale l’a vrebbe buttato
tra le braccia della madre cenciosa e il rimprovero nella domanda di lei: ‘Cos’ha fatto?’. Preferì distogliere lo sguardo e posarlo altrove in un punto qualunque del parco. Vide nel lago i cigni avan zar con gli indugi di un coro che si dispone a cantare, e nel suo chiuso il puledro giacer stanco e
greve sull’erba, ma queste immagini non lo riposavano dalla voglia di spiare ancora il figlio.
Era sempre ritto sull’erba oscura, piccolo e informe, bianco di gesso qua e là come dentro una
scorza variegata. La donna volgendo attorno il suo sguardo felice poteva incontrarlo. Ma ella, pur
guardando in basso ora, pareva cercar tra gli alberi che facevan riparo lo scalpitar del puledro.
Sgomento, il ragazzo era senza occhi e tremava tutto.
Il muratore trovò una specie di soddisfazione a vederlo già un po’ punito, ma il paterno istinto
di proteggerlo gli ridette la tenerezza scandita dal rancore per esser stato distratto dalla sua felice
scoperta: misurava lo sguardo della donna, ne spiava l’inclinazione dimenticando ch’ella era bella
e nuda.
Rompendo il lungo indugio, la donna si ritirò e chiuse la finestra. Un’ombra rosea rimase a far
giuochi dietro le tende di mussola. Il ragazzo era ancor fermo come se aspettasse un ritorno della
visione. Allora il muratore cacciò un grido iroso, inconsciamente: il ragazzo n’ebbe un così improvviso terrore che fuggì verso gli alberi stridendo di pianto. Liberato, il muratore seguì la nudità
dietro le tende con desiderio d’uomo che completa e ingigantisce l’immagine. Le ombre nella
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stanza erano complici, ma i lini bianchi che la donna volteggiava per indossarli gonfiavano zone
luminose che ricadevano, si smorzavano sul suo corpo, nascondendolo. Infine ella sparì nel fondo
buio della stanza: egli rimase a fissar la finestra finché un sussulto di luce grigia dal fondo non gli
fece capire che una porta era stata aperta e richiusa. Si volse intorno, senza gioia e gli tornò pen siero del figlio insieme con una strana angoscia. Rapido e sicuro balzò sul tetto alto, raggiunse il
comignolo, corse all’abbaino aperto. Fatte le scale a precipizio e spalancata la porta a vetri dell’atrio si trovò nel piazzale. Là prese a chiamare il figlio, correndo verso gli alberi. Quel suo grido
dal tetto gli rimordeva, adesso, e immaginava una disgrazia nella fuga del ragazzo credutosi sco perto da qualcuno di casa.
Giunse alla riva del lago senza aver udito risposta. I cigni scivolavano abbriviati sull’acqua
nera, limpida e gialla là ov’era una macchia di sole. Al suo grido rinnovato si sparpagliarono per
riunirsi in un golfo tranquillo sotto la riva intricata di radiche nodose. Egli si allontanò con una
più forte angoscia venutagli dagli occhi tondi e cattivi degli uccelli bianchi. Tra gli alberi non riuscì
a mantener la direzione: vagava illuso da voci e suoni creati solo dal suo desiderio di udirli realmente. Si ritrovò alle sbarre del recinto verde dove il puledro si raddrizzò imbizzito, temendo la
cavezza del domatore.
Durando in disperati richiami, il muratore prese per un sentiero che menava nel folto. Una
forma, qualcosa di grigio a pie’ di un albero lo fermò.
Gli occhi impauriti del ragazzo non parevano più quelli che avevano mirato la bella femmina;
pur quando egli, levandosi verso il padre, fece:
“I cigni, babbo, i cigni! credo d’averne ammazzato uno con un sasso” questi si scoprì rasse gnato ad ascoltar la pudica menzogna di un altr’uomo come lui.
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