La nostra prima estae

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La nostra prima estae
Proprietà letteraria riservata © 2012 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-­‐88-­‐58-­‐63295-­‐6 Prima edizione digitale 2012 In copertina: elaborazione da una foto di © Take A Pix Media / age fotostock Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Mauro De Toffol / theWorldofDOT Foto dell’autrice: © Laura Rodari www.rizzoli.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. «Posso andare al mare?» esordì Marianna in cucina, con indosso il minuscolo costume da bagno color porpora che avevamo comprato insieme a Milano. «Carino, no?» Fece una piroetta. Poi si fermò con una mano sul fianco, l’anca destra sollevata. Le chiesi: «Te la ricordi la strada, sì?». Era una domanda stupida. Il paese era tanto piccolo che avrebbe trovato la direzione anche bendata. «Dalla pianta di gelsomino all’angolo della via a sinistra. Poi tutto dritto. Discesa. Piazzetta del paese. Scalinate» ripeté a pappagallo le indicazioni che le avevo dato appena qualche ora prima, mentre percorrevamo in automobile il tragitto verso casa. «Brava.» «Allora ti piace o no?» L’acqua scivolava rumorosamente dentro il lavello. Non avevo ancora attivato la caldaia eppure il liquido scorreva tiepido, attraverso le tubature riscaldate dal sole. Guardavo Marianna e continuavo a pulire le stoviglie. Avevo trovato la credenza piena di farfalline, stecchite sui piatti e dentro i bicchieri, simili a fiori secchi da tè. «Magari è un po’ strettino» dissi. Non prestò attenzione al mio commento. Inforcò un paio di infradito nere di plastica, poi si fece passare intorno alla vita un pareo colorato semitrasparente. La fissai. Il reggiseno a triangolo non le copriva neanche la metà del seno già abbondante. La mutandina a vita bassa lasciava scoperto un dito di pelle chiara sul davanti. Mi aveva implorata per settimane: «Fammi fare una lampada, sennò sembro morta». La pancia molle le nascondeva l’ombelico, o meglio: lo trasformava in una fessura orizzontale. «Vai pure» aggiunsi, «però porti giù l’ombrellone.» «E perché io? Neanche lo uso.» Lasciai perdere. Lei anticipò la domanda successiva: «Mi son già spalmata la crema. Posso andare ora?». Era la prima vacanza insieme da quando era morto Luigi. L’estate precedente l’avevo mandata due settimane a Dublino a studiare l’inglese. A giugno le avevo detto che non potevo prendermi più di cinque giorni di ferie dall’ospedale e dunque non sarebbe valsa la pena di andare da nessuna parte, per così poco tempo. Trascorsi due settimane a letto, con il ventilatore sparato a sei contro il volto, il mio ex marito che mi chiamava ogni ora, e io che ogni ora rifiutavo le sue chiamate. Lei invece mi mandava un messaggino al giorno, io rispondevo: «Divertiti», «Fai la brava», «A domani». Quando mi venne incontro, all’aeroporto di Linate, quasi non la riconobbi. Era ingrassata di almeno dieci chili e le erano spuntati dei brufoli su tutta la fronte, sulle guance. Forse non sarebbe mai tornata come prima. Ed era anche colpa mia. Con le mani spostò la zanzariera gialla fissata alla porta. Spaghetti di plastica dal soffitto (avrei dovuto lavare con una spugna pure quelli). «Allora? Che ne dici di questo posto?» domandai mentre varcava la soglia. «È carino» strillò lei uscendo, «però non si vede il mare.» La sentii ciabattare lungo le scale bollenti. «E il giardino è una merda!» gridò una volta giù, sapendo che un mio eventuale rimprovero non l’avrebbe raggiunta. Rimasi qualche istante immobile osservando lo scarico che inghiottiva l’acqua, poi misi tutte le posate su uno straccio, chiusi la stoffa come un fagotto e sfregai con le mani per asciugare. Tolsi dal mucchio due forchette e due coltelli, il resto lo riposi alla rinfusa dentro un cassetto. A quel punto apparecchiai la tavola. Sistemai la cerata con la fantasia di arance e limoni, i piatti, i bicchieri di plastica, che inserii dentro portabicchieri a spirale di metallo colorato, per non farli volare via col vento. Per la stessa ragione misi un tovagliolo e le posate sopra il fondo dei piatti usa e getta. Quindi cercai lo spazio in frigo per l’insalata di riso. Ne avevo preparata talmente tanta che ne sarebbe avanzata più della metà. Due anni dalla morte di Luigi e ancora pensavo le porzioni per tre, le porzioni sbagliate. Lui andava pazzo per la mia insalata di riso. Se la mangiava con foga, aggiungeva la maionese. Chiusi le imposte in camera mia e nella stanza di Marianna. Dopo aver indossato il costume e riempito la borsa, uscii. Incastrai le chiavi di casa sotto la tapparella del soggiorno, che dava su una piccola terrazza. Notai che, come altre parti dell’edificio, non era stata ultimata. Senza piastrelle, solo il cemento nudo. Da lì partiva una scala a chiocciola bianca, in parte arrugginita a causa della salsedine. La vista dall’alto doveva essere splendida. Salii piano, facendo attenzione a non toccare il metallo corroso, e in cima trovai un cancelletto. Provai a forzarlo senza successo, anche la serratura era ossidata, allora lasciai la borsa sull’ultimo scalino e scavalcai. Non appena poggiai i piedi sul tetto vidi una blatta nascondersi dietro un mattone rosso. Istintivamente mi passai una mano sulla gamba, come per mandare via un altro insetto invisibile. Guardai l’orizzonte, avvicinandomi al parapetto. Il paesino in lontananza, e poi il mare. Avrei voluto mostrarlo subito a Marianna. Si vedevano tutt’intorno alla nostra casetta, giù per la collina, le serre coperte da enormi teloni bianchi e opachi. Soffocanti. Pensai alle diverse forme di vita. Ai pomodori che hanno bisogno del caldo torrido per crescere. Agli ulivi che hanno un’esistenza lunghissima, come unica esigenza la terra buona. Infine pensai a noi uomini, che trascorriamo tutta la vita cercando di scoprire cosa ci serve davvero. Volsi lo sguardo. Dall’altro lato, verso la campagna, c’era invece un orto piuttosto malmesso e un piccolo casolare. Sotto l’ombra di un carrubo alcune galline e una vecchia signora, seduta su una sedia pieghevole da spiaggia. Alzai un braccio per salutare. «Buongiorno!» gridai. Vidi che si sporgeva dalla seggiola. Urlò qualcosa a gran voce, in dialetto forse. Io non la capii. Quando arrivai in spiaggia, dopo aver salutato da lontano Marianna, stesi l’asciugamano ad appena un paio di metri dalla battigia. Qua e là c’erano buche, mucchietti di sabbia, castelli distrutti dall’acqua e dai passanti. Potevo ancora sentire l’odore di crema dei bambini che avevano giocato lì intorno. L’odore di olio solare delle loro mamme, di sicuro già abbronzate da metà giugno almeno. Mi sdraiai. Poggiai la testa sulla borsa e chiusi gli occhi. Era l’ora di pranzo. Il sole aveva mandato a casa i più. In pochi, una decina in tutta la piccola spiaggia, restavamo ammutoliti dal caldo. Di tanto in tanto issavo leggermente il corpo. Senza riuscire a distinguere le figure, le ascoltavo, le osservavo sfocate mentre camminavano avanti indietro per il bagnasciuga. Una volta davanti a me potevo guardarle da vicino. Vidi una coppia di mezza età, poi due ragazzini con dei boxer lunghi fin sotto le ginocchia. Vidi due ragazzi nordafricani scambiarsi alcuni palleggi. Due ragazze sui vent’anni entrare in acqua, accucciarsi come granchi e parlare piano, per non disturbare il frusciare delle minuscole onde. «Mamma!» gridò Marianna correndo verso di me. Anche noi ormai eravamo sempre in due. «Guarda cos’ho trovato!» disse. Poggiò sull’asciugamano una conchiglia grigia. Un colore triste. «Non mi pare tanto bella.» «Se aspetti un attimo…» mi sgridò. Il guscio cominciò a camminare. Una zampetta dietro l’altra, un paguro nascosto. «Figata, no?» Marianna non era ancora sincronizzata col suo corpo. Aveva il seno, i fianchi da donna, ma era ancora la mia bambina. Ero contenta di averla portata in quel paese sperduto. La spiaggia libera senza le cabine, senza le sue coetanee con i cellulari e le riviste che regalano il lucidalabbra. Senza le comitive di ragazzi da spiare, senza la malizia. Annuii. «Lo sai che quando diventano troppo grandi cambiano conchiglia? In pratica si trasferiscono» spiegò. Mi misi a ridere. «Andiamo a mangiare» ordinai, «si sta facendo tardi.» Quando arrivammo a casa la portai su in terrazza e le mostrai la vista sul mare. «Sembra più lontano di quello che è» disse. Si affacciò dall’altro lato e io la seguii. Sulla sedia non c’era più la signora, ma un uomo anziano. Con un coltello affilava una canna, o qualcosa del genere. Intorno a lui stava un’intera famiglia di gatti spelacchiati. Rossastri e neri. Le chiocce a qualche passo beccavano il terreno. «Secondo te abita lì?» domandò Marianna indicando la baracca. «Penso di sì» risposi, «prima ho visto la moglie.» «Sembra sporco» considerò. «Sono contadini. Magari più tardi chiediamo se ti fanno vedere le galline.» Lei scosse la testa. Mi sembrò spaventata alla sola idea e riflettei, non avendo mai visto da vicino un gallo, un maiale, i conigli, le vacche, era normale che ne fosse intimorita. L’uomo raccolse da terra un’oliva e la inserì dentro la canna. Sgonfiò le guance nel tubo e il frutto colpì uno dei mici dritto in testa. Il gatto soffiò eppure rimase fermo. L’uomo allora gli lanciò una ciabatta addosso facendolo scappare. Dal giorno seguente Marianna cominciò ad andare al mare seguendo un’altra strada. Passava dal retro del nostro giardino abbandonato e attraversava un sentiero in mezzo ai campi secchi che sbucava in piazza. Prese a salutare i due contadini e a indossare pantaloncini e canottiera al posto del pareo trasparente. Lontano da Milano non contavano più certe frivolezze. Io continuavo a preferire la strada asfaltata. A volte addirittura prendevo la macchina. L’idea di risalire a piedi dalla spiaggia, col sole a picco, mi toglieva ogni voglia di muovermi. Lasciavo che Marianna fosse indipendente, che passeggiasse in paese, che stesse al mare fino al tramonto. Quel posto faceva bene a entrambe. Mi sembrava di offrirle un regalo, o di renderle un favore. Di restituirle il tempo, l’ultima infanzia. Questo pensiero mi tranquillizzava e dopo cena rimanevo spesso in terrazza a leggere, serena. Mi ero portata un romanzo russo, Oblomov. Libri così si leggono solo durante le vacanze, quando si hanno molte ore a disposizione. A settembre avrei ripreso il tran tran frenetico di ogni giorno. Marianna si sarebbe iscritta alle superiori. Non ci sarebbe stato più tempo. Le falene sbattevano contro le lampadine. Le cicale frinivano intorno. I due contadini, il mattino seguente, urlavano a gran voce parole che non riuscivo a decifrare. «Mamma vieni!» strillò Marianna rientrando in casa, «i vicini hanno bisogno di aiuto.» Lasciò cadere a terra l’ombrellone, un cilindro di sabbia, uscendo dal tubo, si sgretolò sul pavimento. Io indossai al volo un copricostume di cotone e le Superga. Raggiungemmo di corsa l’abitazione dei due contadini. «Voi siete dottoressa» disse la donna alla porta. Calzava un paio di sandali da scoglio di gomma trasparente. Le unghie erano gialle, i piedi e le caviglie rosse di terra. Era magrissima e il volto era talmente segnato dal tempo che per un momento mi sembrò una maschera, quel luogo una finzione. «Sono un’infermiera» risposi, «qualcuno sta male?» Mi afferrò un braccio e mi accompagnò dentro la casupola. Dentro, l’uomo era seduto su uno sgabello, accarezzava il pelo color polvere di un piccolo mulo. L’animale era piegato sulle ginocchia e le palpebre erano chiuse sugli occhi, grandi come palline da pingpong. In tutta la stanza le mosche giravano impazzite. Non c’erano che un letto matrimoniale, ben rassettato, un catino di fianco alla porta. «Non sono un veterinario» spiegai subito. Marianna entrò e si portò una mano al volto, a coprire bocca e naso per difendersi dall’odore acre di sudore, di uomo e di bestia. «Vammi a prendere la borsa e le chiavi dell’auto» le ordinai. Fu difficile comunicare con l’anziano contadino. Parlò per qualche secondo in dialetto stretto, io intesi solo che l’animale era vecchio, che soffriva. «Vuole che lo sopprima?» chiesi. L’uomo parve non capire. «Lo abbatto» ripetei a voce più alta, temendo che fosse sordo, «non sentirà nulla. Vuole che lo uccida?» domandai un’altra volta. Lui abbassò la testa e mi fece cenno di sì. Spiegai che avrebbero dovuto portare fuori il mulo. I due annuirono. Marianna tornò pochi istanti dopo con il mazzo di chiavi, insieme ci allontanammo veloci verso la macchina. Ritornammo un’ora più tardi, dovemmo raggiungere Modica prima di trovare una farmacia che avesse la sostanza giusta. I contadini ci aspettavano sull’uscio. «Dov’è?» Mi riportarono dentro la casa. «Volete che lo faccia qui?» Una volta iniettato il medicinale, il mulo si accasciò su un fianco. Ragliò un’ultima volta, un’esalazione. La mattina seguente di fronte alla nostra porta c’era una cassetta di pomodori. Erano rossi, maturi. Volevo ringraziare i vicini ma casa loro era sbarrata. Le galline in gabbia e la sedia di tela ripiegata contro una delle pareti. Mi chiesi che fine avesse fatto il mulo, come fossero riusciti a trascinarlo fuori dal casolare. Mi ricordai di Luigi, rigido e freddo dentro la bara, con l’abito elegante della cresima. E prima, di mio marito in ospedale che cercava di portarsi alla guancia la mano di nostro figlio, senza riuscirci, e di Marianna che non aveva pianto. Per molti giorni non riuscii a togliermi di mente l’idea che il contadino avesse dovuto tagliare l’animale a pezzi, per farlo passare dalla porta. Quel pomeriggio io e Marianna andammo agli scogli. Il mare era particolarmente calmo e mia figlia insistette perché le comprassi una maschera. Rimase in acqua molto tempo, si immergeva tentando di raccogliere una manciata di sabbia dal fondo. Riemergeva con il pugno chiuso e mi diceva: «Guarda, sono arrivata fino a giù» ma quando stendeva le dita si rendeva conto che la sabbia le si era come sciolta tra le mani durante la risalita. Non le restava più nulla da mostrarmi, io però sapevo che ce l’avevamo fatta.