Le teorie dello sviluppo economico dal dopoguerra a oggi

Transcript

Le teorie dello sviluppo economico dal dopoguerra a oggi
SCIENZE SOCIALI
Studi e Ricerche
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Charles P. Oman
Ganeshan Wignaraja
LE TEORIE
DELLO SVILUPPO ECONOMICO
DAL DOPOGUERRA A OGGI
Introduzione alla traduzione italiana di
Nicola Boccella
INDICE
Introduzione alla traduzione italiana di Nicola Boccella
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1. Le teorie della crescita (p. 9) – 2. L’approccio dei keynesiani alla
crescita (p. 13) – 2.1. Il modello di Harrod-Domar (p. 13) – 2.2. La
teoria post-keynesiana: il modello di Kaldor (p. 16) – 3. L’approccio neoclassico: il modello di Solow (p. 17) – 3.1. Gli effetti del risparmio sulla crescita (p. 21) – 3.2. La crescita della popolazione
(p. 25) – 3.3. Il ruolo del progresso tecnico nella crescita (p. 27) –
4. Le teorie della crescita endogena (p. 31) – 4.1. Il ruolo delle
esternalità nella produzione. La conoscenza accumulata: il ruolo
di Romer (p. 31) – 4.2. Il modello di Lucas: il ruolo del capitale
umano (p. 33) – 5. I modelli di crescita endogena della famiglia
AK (p. 36) – 5.1. Il modello di Rebelo (p. 37) – 5.2. Il modello di
Pagano (p. 40) – Riferimenti bibliografici (p. 41)
Prefazione
Introduzione
45
49
PARTE I. LE TEORIE ORTODOSSE DELLO SVILUPPO
1.
Accumulazione del capitale e industrializzazione
La visione rostowiana della crescita, dell’industrializzazione e degli
aiuti allo sviluppo (p. 61) – Il modello dei «due divari» (p. 66) –
L’effetto «trickle-down»: risparmio, accumulazione del capitale e distribuzione del reddito (p. 69) – L’attenzione verso le relazioni
inter-industriali (p. 71) – La grande spinta (p. 71) – La crescita
equilibrata (p. 73) – Crescita squilibrata ed effetti di collegamento
(p. 77) – I poli di crescita (p. 80) – La questione dell’industrializzazione a partire dagli anni ’60 (p. 82) – Investimenti diretti esteri
e compagnie multinazionali (p. 84) – Strategie di sostituzione delle importazioni contro strategie di produzione per l’esportazione
(p. 86) – La capacità tecnologica locale (p. 88) – L’integrazione
regionale (p. 89)
59
6
Indice
2.
Dualismo e sviluppo incentrato sull’agricoltura
93
Il dualismo: modelli statici e dinamici (p. 93) – Il modello di Lewis
(p. 95) – Ranis e Fei (p. 98) – L’argomentazione a favore delle riforme istituzionali: la riforma per la redistribuzione della terra (p.
106) – Le conseguenze della riforma agraria (p. 110) – La modernizzazione dell’agricoltura (p. 112) – La rivoluzione verde (p. 116)
– La «seconda rivoluzione verde» e la rinascita dell’agricoltura (p.
121)
127
3.
Lo sviluppo con economia aperta e la rinascita neoclassica
La critica neoclassica dell’ISI (p. 128) – I fondamenti teorici dell’ap-
proccio neoclassico (p. 131) – Gli adattamenti del modello neoclassico: teoria della crescita e analisi costi-benefici (p. 136) – La
valutazione dei progetti (p. 139) – L’approccio «costi-benefici» (p.
140) – Studi empirici (p. 144) – L’incidenza politica della rinascita neoclassica (p. 153) – Il «nuovo pessimismo» verso le esportazioni (p. 156) – La «nuova» teoria degli scambi e le strategie commerciali (p. 158)
4.
163
Il pensiero riformista dello sviluppo
La risposta riformista al problema della povertà: occupazione, redistribuzione con crescita e bisogni fondamentali (p. 167) – L’ILO ed
il tema dell’occupazione: il programma mondiale per l’occupazione (p. 168) – La Banca Mondiale e la redistribuzione con crescita
(p. 171) – La strategia dei bisogni fondamentali (p. 174) – Il NOEI
e la dimensione internazionale del riformismo (p. 184) – Studi empirici (p. 186) – Crescita e disuguaglianza (p. 187) – La misurazione della povertà (p. 188) – Indici alternativi di sviluppo (p. 190) –
Altre critiche all’approccio riformista (p. 191) – L’influenza del
pensiero riformista (p. 200)
209
PARTE II. LA TEORIA ETERODOSSA DELLO SVILUPPO
5.
Strutturalismo e dipendenza
Lo strutturalismo: il periodo iniziale (p. 210) – Il paradigma centro-periferia (p. 212) – La disoccupazione (p. 213) – Il deficit esterno (p. 214) – Ragioni di scambio centro-periferia (p. 215) – Programmazione industriale e protezione delle importazioni (p. 217)
– La critica ortodossa (p. 220) – Ulteriori proposte di azione della
CEPAL (p. 223) – Il dibattito sull’inflazione tra strutturalisti e
monetaristi (p. 225) – La CEPAL e le tesi della «stagnazione» degli
anni ’60 (p. 228) – Le «strozzature» nella disponibilità di valuta
estera (p. 229) – Gli ostacoli interni (p. 231) – I cambiamenti nella
7
Indice
politica economica della CEPAL negli anni ’60 (p. 233) – La scuola
della dipendenza (p. 237) – Furtado e Sunkel (p. 239) – Frank e la
teoria dello sviluppo del sottosviluppo (p. 244) – Cardoso e Faletto
(p. 250) – La critica della teoria della dipendenza (p. 253) – La
critica marxista (p. 254) – La critica non-marxista (p. 256) – La teoria della dipendenza al di fuori dell’America Latina (p. 258) – Lo
scambio ineguale (p. 258) – La teoria della dipendenza in Africa
(p. 261) – Lewis, «l’industrializzazione su invito» e l’eredità delle
economie delle piccole piantagioni: l’esperienza della Giamaica
(p. 271) – La dipendenza in Asia (p. 275) – Le conseguenze del
pensiero della dipendenza in America Latina (p. 276)
6.
283
Il marxismo
I fondamenti storici (p. 286) – Marx (p. 286) – Il pensiero di Lenin
sullo sviluppo del capitalismo in Russia (p. 290) – L’imperialismo:
la concezione «classica» (p. 292) – La prima svolta nella teoria dello sviluppo disuguale: la scuola del sottosviluppo (p. 297) – Il dibattito postbellico (p. 298) – Baran e Sweezy: l’estorsione del surplus (p. 298) – La seconda svolta nella teoria dello sviluppo ineguale (p. 303) – L’economia politica agraria e la controversia sui
«modi di produzione» (p. 308) – Lo Stato (p. 316) – La transizione
verso il socialismo (p. 322) – Il capitale monopolistico nelle economie sottosviluppate (p. 325) – Una terza svolta nella teoria dello
sviluppo ineguale? (p. 325)
Bibliografia
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INTRODUZIONE
ALLA TRADUZIONE ITALIANA
di Nicola Boccella
1. LE TEORIE DELLA CRESCITA
Gli studi sull’economia dello sviluppo si snodano seguendo un percorso che si potrebbe definire canonico, presentando le tematiche relative alla crescita da tre distinti angoli di visuale, fra loro strettamente
complementari: i fatti, le teorie, le politiche. Con i fatti si analizzano i
dati e le dinamiche dello sviluppo economico, con l’obiettivo di descrivere i processi che lo favoriscono e individuare le categorie che
riescono a misurare i diversi livelli di sviluppo.
Le teorie cercano di fornire una spiegazione coerente del processo di sviluppo, con l’obiettivo di fornire il quadro teorico di riferimento indispensabile per le misure di politica economica che devono essere adottate per favorire lo sviluppo e ridurre i divari che si registrano fra i diversi paesi. Il terzo campo d’indagine è relativo all’analisi
degli obiettivi e degli strumenti delle politiche di intervento finalizzate sia a favorire lo sviluppo delle aree in ritardo di sviluppo sia a ridurre i divari interni alle aree più sviluppate.
Il volume di Charles Oman e Ganeshan Wignaraja è relativo alla
seconda area tematica delle tre su richiamate, fornendo una rassegna
completa sulle teorie dello sviluppo. Come si è detto, le teorie dello
sviluppo economico hanno per obiettivo sia l’individuazione dei fattori sia l’interpretazione dei relativi nessi causali che determinano lo
sviluppo economico, inteso come processo di crescita della produzione e del reddito.
10
Introduzione alla traduzione italiana
Una distinzione che si deve a L. Reynolds individua due distinti
processi di crescita: il primo, denominato sviluppo estensivo, si realizza quando il livello della produzione cresce ad un ritmo identico a
quello della popolazione; il secondo, definito sviluppo intensivo, si
registra quando la produzione si incrementa ad un ritmo superiore a
quello della popolazione.
La differenza centrale fra i due tipi di sviluppo economico su richiamati può essere individuata nel fatto che lo sviluppo di tipo
estensivo presuppone che rimanga costante la produttività del lavoro,
mentre lo sviluppo di tipo intensivo è basato su un aumento della
produttività del lavoro.
La nostra attenzione viene concentrata sulle teorie dello sviluppo
economico che cercano di spiegare i processi attraverso i quali avviene la crescita che rientra nella seconda delle due tipologie su indicate,
ossia in uno sviluppo di tipo intensivo.
A partire dagli anni Trenta si registra un interesse crescente sui
temi della crescita, che hanno portato alla definizione delle teorie e
modelli sulla crescita. in questa materia ed utilizzati come base per gli
studi degli anni successivi.
Come è noto, e come illustrano Oman e Wignaraja nell’excursus
sulle teorie dello sviluppo, le teorie della crescita economica in senso
stretto sono riconducibili agli studi degli anni 1940-50 di Roy F. Harrod, Ragnar Nurkse, Robert M. Solow, che fondavano le proprie radici
nelle analisi degli economisti classici della rivoluzione industriale.
Negli anni successivi, gli studi sulla crescita sono stati concentrati
sulle relazioni tra crescita e sistema economico. In particolare costituiscono punti di riferimento indispensabili per lo studio della crescita le analisi dell’interrelazione tra investimento in capitale fisico e
progresso tecnico sviluppate da Nicholas Kaldor e da Kennet J. Arrow
e gli studi sull’interazione tra produttività e capitale umano e sugli investimenti in capitale umano sviluppati da Albert O. Hirshman e da
Robert Lucas.
Nella letteratura economica si è consolidata una netta distinzione
fra crescita e sviluppo. Per crescita si intende il miglioramento delle
condizioni di benessere economico in paesi che hanno sostanzialmente risolto problemi di carattere istituzionale e sociale. In altri termini la crescita si riferisce alla quantità di beni e servizi prodotti. La
teoria della crescita esamina il sentiero attraverso il quale un sistema
Le teorie della crescita
11
economico raggiunge livelli di produzione via via più elevati. Per sviluppo si intende un processo evolutivo che interessa quelle realtà
dove le questioni riguardanti la governance, gli assetti sociali, l’organizzazione economica, non sono ancora risolte e riguardano, quindi,
elementi di qualità della vita di natura sociale, culturale e politica. Lo
sviluppo economico interessa in modo prevalente quei sistemi che
presentano livelli di prodotto pro capite relativamente più bassi.
In questa introduzione la nostra attenzione viene incentrata sui
modelli di crescita.
L’evoluzione delle teorie sulla crescita ha portato alla definizione
della nuova teoria della crescita (NTC) o della crescita endogena che
a differenza dei precedenti modelli cerca di endogenizzare il tasso di
crescita dell’economia, con l’obiettivo di fornire spiegazioni più
esaustive sui fenomeni che caratterizzano lo sviluppo.
Nei modelli della NTC sono inserite quelle variabili indispensabili
per poter cogliere le specificità dei processi di sviluppo, con una
maggiore attenzione alle componenti extra-economiche di formazione, diffusione e accumulazione:
a. della conoscenza;
b. dell’innovazione tecnologica;
c. del ‘capitale’ umano.
I temi della crescita e dello sviluppo economico hanno ritrovato
un crescente interesse da parte della letteratura economica in relazione al fenomeno della globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia mondiale. Non va trascurato, infine, il ruolo delle cosiddette
Information and Communication Technologies (ICT) che rappresentano il progresso tecnico di ultima generazione, alimentando una
globalizzazione dell’economia che introduce profonde novità nel
processo di sviluppo. Già dai primi modelli fondati sull’aumento della
produttività e sul contributo quantitativo dei vari input produttivi, è
stata riconosciuta una funzione importante ai processi in grado di garantire maggiori e migliori livelli di output, ossia al ruolo della conoscenza scientifica e tecnologica, della formazione e accumulazione di
capitale umano nello sviluppo di nuove tecnologie. La relazione osservata a livello aggregato tra i tassi di crescita dello stock di capitale
fisico e delle unità di lavoro con quello del prodotto, infatti, ha portato all’attribuzione di buona parte di quest’ultimo al cosiddetto progresso tecnologico.
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Introduzione alla traduzione italiana
Solow (1956) dà una spiegazione a tale fenomeno, affermando
che i tassi di crescita dello stock di capitale e delle unità lavorative, in
assenza di crescita demografica, contribuiscono solo in proporzione
alle quote di reddito spettanti ai relativi fattori. La componente residua, che è la quota preponderante, sarebbe dovuta al progresso tecnologico, ovvero all’aumento della produttività totale dei fattori non
riconducibile in modo specifico al lavoro ed al capitale. Empiricamente, però, tale modello non sembra dare una risposta attendibile
quando il livello dei tassi di crescita del prodotto, in termini di variazione di capitale e lavoro, risultano troppo elevati per poter essere
attribuiti solo al cambiamento tecnologico, anche se considerato
esogeno. L’approfondimento delle argomentazioni sulla crescita ha
fatto nascere negli anni successivi numerosi lavori di Abramowitz
(1956-1989), Kendrick (1961, 1976), Denison (1962, 1967, 1985), e
Jorgenson Gollop e Fraumenti (1987) che hanno portato ad una diversa definizione del capitale. Soprattutto Kendrick, che distingue il
capitale in tangibile e non tangibile, umano e non umano. Secondo
questa interpretazione il capitale fisico viene, quindi, definito come
capitale tangibile non umano. Abramowitz nel 1989 studiando la contabilità della crescita ha dimostrato che il progresso tecnologico non
può essere ascritto unicamente ai fattori produttivi e che bisogna considerare le interazioni che si stabiliscono tra questi ed il progresso
tecnologico.Va evidenziato che rispetto al convenzionale modello
neoclassico, la NTC ne accetta le ipotesi di base, ma giunge ad una
spiegazione del tutto innovativa del motore della crescita con importanti implicazioni sul versante delle politiche economiche. La NTC
considera il progresso tecnico endogeno e legato in particolare alla
valorizzazione del capitale umano a seguito delle esternalità create
dal processo produttivo, ossia a seguito degli effetti esterni al processo produttivo, non intenzionali e non apprezzati dal mercato. I tassi di
crescita possono divergere da paese a paese e il risparmio è indipendente dal prodotto e legato solo alla crescita della popolazione.
L’approccio proposto da Romer, che esaminiamo in dettaglio nel
prosieguo dell’esposizione, è basato sulla constatazione che la crescita endogena è alimentata dall’accumulazione di conoscenza, quindi
idee e metodi di produzione, che si accompagna agli investimenti in
capitale fisico effettuati dalle imprese. Tale modello utilizza il concetto di acquisizione di conoscenze mediante l’esperienza (learning by
L’approccio dei keynesiani alla crescita
13
doing), sottolineando soprattutto la generazione di esternalità positive connesse. Infine, come vedremo, il modello proposto da Lucas
(1988) aggiunge, analogamente a quanto fatto da Romer, elementi
interni di spinta alla crescita. Tuttavia, rispetto a Romer, Lucas considera esplicitamente, tra i fattori della produzione, il capitale umano
che è rappresentato dall’insieme delle conoscenze, delle abilità e delle capacità possedute dal complesso dei lavoratori.
Studi successivi hanno consentito l’elaborazione di una classe di
modelli denominati AK, fra i quali si segnalano i contributi di Rebelo
(1991) e di Pagano (1993), che saranno esaminati nel corso di questa
introduzione.
INTRODUZIONE
La teoria e la pratica dello sviluppo si trovano in uno stato di cambiamento. Ci sono ovviamente differenze fondamentali fra diverse scuole del pensiero dello sviluppo. Queste differenze possono essere il
salutare risultato di un dibattito informato ed un importante contributo ad esso. Una questione più preoccupante è quanto ben informata
sia la prassi dello sviluppo su questo dibattito – e quanto ben informato sia il dibattito stesso. Le relazioni fra le diverse correnti della
teoria dello sviluppo emerse nel periodo successivo alla Seconda
Guerra Mondiale sono spesso non comprese, mal interpretate e perse
in una letteratura che si concentra solo su una o due correnti. Come
conseguenza, sembra essersi creata una distanza sempre maggiore fra
la prassi e la teoria dello sviluppo, fra la politica dello sviluppo e la
ricerca, fra il dibattito attuale e l’esperienza passata.
L’intento di questo studio è di offrire una rassegna dell’evoluzione
della teoria, e della prassi, dello sviluppo nel periodo postbellico, in
modo da mettere ordine. Il suo obiettivo non è quello di soffermarsi
sui dettagli di una particolare corrente, ma di illustrare le relazioni fra
le correnti principali e come queste interagiscano più in generale con
la politica e la prassi dello sviluppo.
La nostra analisi è divisa in due parti. La Parte I si occupa delle
teorie ortodosse dello sviluppo. Comprende quattro capitoli, ognuno
relativo a un tema particolare: l’accumulazione di capitale e l’industrializzazione; il dualismo, lo sviluppo incentrato sull’agricoltura e la
rivoluzione verde; lo sviluppo in economia aperta e la rinascita
neoclassica; e il pensiero economico riformista. La Parte II, sulle teo-
50
Introduzione
rie eterodosse dello sviluppo, è divisa in due capitoli: uno sullo strutturalismo in America Latina e sulle scuole della dipendenza; l’altro
sulle scuole marxiste dello sviluppo.
Il nostro interesse per il periodo postbellico riflette il fatto che
solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ricercatori e policy makers si
sono occupati in modo approfondito ed esplicito delle cause e delle
barriere alla crescita ed allo sviluppo nelle aree «arretrate», successivamente indicate come paesi «sottosviluppati», «meno sviluppati» o del
«Terzo Mondo» ed attualmente dette «in via di sviluppo». È comunque
importante ricordare che diversi eventi nel corso della prima metà del
secolo e nell’immediato dopoguerra hanno contribuito al grande interesse verso i paesi del Terzo Mondo emerso dopo la guerra.
Uno di questi è stato lo sconvolgimento del commercio internazionale durante la Grande Depressione e gli anni della guerra, fra il
1914 ed il 1945, che portò ad uno spostamento verso quella che fu
chiamata la crescita orientata all’interno e l’industrializzazione con
sostituzione delle importazioni, in particolare in America Latina. Una
conseguenza di rilievo fu l’emergere di un nuovo gruppo di élites locali i cui interessi materiali risultavano direttamente legati alla produzione locale di manufatti per il mercato locale e che, quindi, sostenevano politiche in favore della modernizzazione e dello sviluppo delle
loro economie nazionali molto più attivamente di quanto non avessero fatto i proprietari terrieri e i mercanti-capitalisti loro predecessori.
Due esempio di ciò sono dati dal peronismo in Argentina e dal periodo di Cardenas in Messico.
Un altro fattore fu la ricompattazione dell’alleanza fra paesi industrializzati e la creazione di organizzazioni internazionali nel periodo
successivo alla guerra. Le Forze Alleate dichiararono esplicitamente la
loro adesione – nella prima dichiarazione Alleata del 1941 – al principio che la sola base sicura della pace fosse il godimento da parte di
popoli liberi della sicurezza economica e sociale, e si impegnarono a
stabilire un ordine mondiale in cui essi avrebbero perseguito questo
obiettivo una volta terminata la guerra. Importante risultato fu allora
la creazione delle Nazioni Unite durante la Conferenza di San Francisco del 1945, il cui l’obiettivo era creare un ordine mondiale a favore dello sviluppo economico e sociale. È interessante notare che dei
51 paesi partecipanti alla Conferenza, solo 10-12 erano paesi avanzati, mentre la maggioranza degli altri erano paesi latino-americani.
Introduzione
51
Un altro fattore da ricordare fu il processo di decolonizzazione e
la proclamazione dell’indipendenza di gran parte dell’Africa e dell’Asia. Mentre il processo di decolonizzazione avanzava e le élites locali nei paesi di nuova indipendenza si insediavano al potere o combattevano le une contro le altre per il controllo del paese, venivano
fatte promesse di prosperità economica per mobilitare il supporto locale e sconfiggere le fazioni rivali. Il bisogno di strategie di sviluppo
economico e sociale tali da affiancare l’indipendenza politica emerse
come preoccupazione principale in gran parte dell’Africa e dell’Asia
negli anni ’50 e ’60.
Il periodo di decolonizzazione postbellico fu anche caratterizzato
da un aumento nelle tensioni fra paesi capitalisti e paesi socialisti. La
«guerra fredda» e le preoccupazioni da parte dei paesi capitalisti che le
condizioni di sottosviluppo sociale ed economico rendessero i paesi
pronti ad accettare una rivoluzione comunista – preoccupazione esacerbata dalla «perdita» della Cina nel 1949 e di Cuba nel 1959 – contribuì ad accentuare l’attenzione dei paesi avanzati verso i problemi del
Terzo Mondo. Questa preoccupazione fu in parte riflessa, a livello
politico, nel «Punto IV» del programma di politica estera della Amministrazione Truman del 1949, nel «Piano Colombo» della Gran Bretagna del 1950 e, un decennio più tardi, nella «Alliance for Progress»
dell’Amministrazione Kennedy per l’America Latina. Essa fu anche riflessa dalla creazione del Comitato di Assistenza per lo Sviluppo dell’OCSE nel 1960/61, e due anni più tardi del Centro per lo Sviluppo
dell’OCSE, così come dal ri-orientamento della politica della Banca
Mondiale verso il Terzo Mondo, e da numerosi programmi tecnici e
finanziari multilaterali portati avanti sotto gli auspici delle Nazioni
Unite.
Mentre la riabilitazione postbellica dell’Europa e del Giappone
andava avanti e il commercio internazionale conosceva nuovo vigore,
molte organizzazioni private nei paesi dell’OCSE cominciarono a interessarsi ai problemi ed alle possibilità dei paesi in via di sviluppo.
L’incredibile crescita delle economie dell’OCSE nel secondo dopoguerra fu accompagnata dalla nascita di numerose imprese multinazionali che svolsero un ruolo sempre maggiore nell’espansione dei
flussi commerciali e dei movimenti di capitale non solo fra paesi
avanzati ma anche fra questi ultimi ed i paesi del Terzo Mondo. Molte
imprese guardavano a tale regione non solo come una fonte di mate-
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Introduzione
rie prime ma anche come mercato per i loro prodotti (beni capitali,
inclusa la tecnologia, così come beni intermedi, beni di consumo ed
armamenti) ed, in alcuni casi, come base per investimenti in industrie
locali di sostituzione delle importazioni. Possibilità e barriere alla crescita ed allo sviluppo del Terzo Mondo venivano così ad attirare l’interesse del settore privato per via dei loro potenziali mercati, ma anche a causa di un crescente interesse nella stabilità politica locale e
nella assenza di conflitti operai (nella produzione dei beni primari
come dei beni manufatti per il mercato locale).
Infine, altro fattore che senza dubbio contribuì alla crescita dell’interesse mondiale per il problema della povertà e della sofferenza
umana nei paesi del Terzo Mondo fu la disponibilità di informazioni
sulla povertà mondiale. Responsabile di ciò fu da un lato la rivoluzione nelle tecniche di comunicazione e, dall’altro, il lavoro di varie organizzazioni multilaterali ed internazionali che per la prima volta iniziarono a raccogliere dati sistematici sulle condizioni economiche del
Terzo Mondo all’indomani della guerra. Discuteremo parte di questi
lavori nella Parte I e, più precisamente, nel capitolo sul pensiero
riformista.
PARTE I
LE TEORIE ORTODOSSE
DELLO SVILUPPO
La nostra rassegna delle teorie ortodosse dello sviluppo è divisa in
quattro capitoli. Il primo è dedicato alle teorie dell’accumulazione del
capitale e dell’industrializzazione che hanno rappresentato la corrente principale del pensiero ortodosso sullo sviluppo nel periodo che
va dall’immediato dopoguerra agli inizi degli anni ’70. Diversi autori e
policy-makers ritenevano allora che la crescita nell’accumulazione del
capitale e l’industrializzazione fossero stati ciò che aveva consentito
ai paesi industrializzati di ottenere, nel corso della loro storia, una
crescita e uno sviluppo sostenuti. Si pensava, quindi, che anche i paesi meno sviluppati avrebbero dovuto percorrere questa strada per
raggiungere lo sviluppo. In effetti, gli stessi modelli di «economia
dualistica» degli anni ’50 e ’60 se, da un lato, ponevano l’accento sulla
coesistenza, all’interno dei paesi sottosviluppati, di un settore industriale capitalista «moderno» e di un settore rurale di sussistenza «tradizionale», dall’altro ritenevano anch’essi che l’accumulazione del capitale e l’industrializzazione fossero la via verso lo sviluppo – laddove il
settore rurale avrebbe fornito l’eccesso di manodopera ed una parte
del capitale richiesti per l’industrializzazione.
Fu alla fine degli anni ’60 e, soprattutto, durante gli anni ’70 che
l’accento quasi esclusivo posto sull’industrializzazione venne parzialmente abbandonato e l’attenzione si rivolse all’agricoltura e alla necessità di sviluppare il settore rurale in quanto tale, teoria che esamineremo nel secondo capitolo. Una delle ragioni di questo cambiamento d’interesse fu la crescente delusione verso le strategie e le politiche d’industrializzazione basate sulla sostituzione delle importa-
56
Parte I. Le teorie ortodosse dello sviluppo
zioni con i prodotti nazionali, allorché molti paesi stavano raggiungendo i limiti della fase «facile» del processo di sostituzione e vedevano la propria crescita rallentare a causa di gravi inefficienze nell’industria, della dipendenza dalle importazioni di prodotti alimentari e dei
disavanzi nella bilancia dei pagamenti. Altra ragione del cambiamento fu la comparsa delle tecniche di produzione della cosiddetta «rivoluzione verde», e il loro possibile, anche se controverso, utilizzo da
parte dei piccoli agricoltori.
La rinascita della teoria neoclassica, argomento del terzo capitolo,
è da ricollegarsi allo sviluppo della teoria marginalista dominante e,
soprattutto, della teoria del commercio internazionale e del vantaggio
comparato. Alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 prendono
piede le critiche alle strategie d’industrializzazione basate sulla sostituzione delle importazioni formulate dagli economisti neoclassici, e
favorevoli ad una maggiore apertura dell’economia. È comunque durante gli anni ’80 che l’accento posto dai neoclassici sulle forze di
mercato e sulla necessità di «aggiustare il livello dei prezzi» si impone
come tesi dominante nei dibattiti sullo sviluppo. Questa rinascita della teoria neoclassica fu rafforzata dalla critica alle politiche keynesiane e dallo spostamento verso le teorie dell’offerta nei principali centri
decisionali dell’area dell’OCSE. Essa coincise anche con la crisi del
debito e con gli sforzi compiuti dal FMI e dalla Banca Mondiale per
promuovere politiche di «aggiustamento strutturale» in gran parte dell’America Latina e dell’Africa, in un momento in cui il successo delle
strategie d’industrializzazione centrate sulle esportazioni, adottate da
alcuni paesi del Sud-Est asiatico, raggiungeva proporzioni eccezionali.
Gli ultimi anni ’60 e gli anni ’70 furono anche caratterizzati dalla
nascita di quello che può esser chiamato l’approccio riformista, trattato nel quarto capitolo. Partendo dalla critica all’eccessiva importanza
rivolta alla crescita e all’industrializzazione nel corso degli anni ’50 e
degli anni ’60 ed all’approccio neoclassico dello sviluppo, la corrente
riformista della teoria ortodossa cercò di mettere in luce i grandi problemi posti dalla povertà, dalla disuguaglianza crescente della distribuzione dei redditi e dal soddisfacimento dei «bisogni essenziali» dell’uomo. Tuttavia, le strategie di sviluppo riformiste incontrarono, già
al momento della loro nascita, l’opposizione sia dei donatori d’aiuto
sia dei governi di diversi paesi in via di sviluppo. Agli inizi degli anni
Parte I. Le teorie ortodosse dello sviluppo
57
’80, l’approccio riformista dello sviluppo fu via via oscurato non solo
dalla rinascita della teoria neoclassica ma anche dai sostenitori di uno
sviluppo basato sull’agricoltura.
Infine, più recentemente, l’approccio neoclassico è stato a sua
volta sottoposto a critiche sempre più accese da parte della stessa teoria ortodossa. L’aumento delle pressioni protezionistiche nei paesi
dell’OCSE e la persistenza della crisi del debito soprattutto in America
Latina (con le sue conseguenze sociali, politiche ed economiche), il
protrarsi della crisi alimentare in Africa (in un contesto in cui le eccedenze mondiali di prodotti alimentari sono ugualmente un problema)
e l’obbligo per alcuni paesi dell’Asia, la cui crescita negli anni ’70 e ’80
era stata guidata dalle esportazioni, di rivedere le loro strategie (di
fronte al protezionismo crescente dei paesi dell’OCSE), sono stati tutti
fattori che hanno contribuito al riemergere delle politiche di sviluppo
dell’industria-agricoltura. Una rinnovata attenzione è stata rivolta anche ai mercati domestici, cercando di evitare le insidie delle strategie
«orientate all’interno» degli anni ’50 e degli anni ’60.
PARTE II
LA TEORIA ETERODOSSA
DELLO SVILUPPO
La nostra distinzione tra approccio ortodosso ed eterodosso dello sviluppo è chiaramente di natura soggettiva. Essa deriva fondamentalmente dalla distinzione tra gli autori e i policy-makers che descrivono
l’economia mondiale come composta da un «centro» costituito da paesi capitalistici industrializzati e da una «periferia» di paesi sottosviluppati (classifichiamo questi autori come eterodossi), e gli autori che rifiutano categoricamente il paradigma del centro e della periferia. Gli
economisti eterodossi tendono a spingersi oltre rispetto a quelli ortodossi, mettendo in discussione e criticando il funzionamento del capitalismo sia all’interno dei paesi, sia sul piano globale.
Vi sono tuttavia differenze sostanziali nell’ambito di ciascuno di
questi gruppi non solo nei metodi utilizzati, ma anche nelle politiche
suggerite. Alcuni autori che abbiamo classificato come ortodossi possono aver criticato l’ordine stabilito più di quelli classificati come eterodossi. Allo stesso modo, nell’ambito del gruppo classificato come
eterodosso, alcuni autori tentano, chiaramente, di fare funzionare il
sistema capitalistico mentre altri cercano di superarlo. Infine, all’altro
estremo, un piccolo numero di economisti come Deepak Lal (cfr. Capitolo 3) considerano tutta l’economia dello sviluppo come eterodossa.
La nostra analisi dell’approccio eterodosso dello sviluppo è divisa
in due capitoli. Il Capitolo 5 traccia l’evoluzione della teoria «strutturalista» partendo dalla nascita del paradigma del centro e della periferia
in America Latina fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, attraverso la separazione tra il developmentalism (secondo l’espressio-
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Parte II. La teoria eterodossa dello sviluppo
ne utilizzata dai suoi critici più radicali) e la nuova scuola della «dipendenza» apparsa alla metà degli anni ’60, e finendo con la critica
marxista alla tesi della dipendenza negli anni ’70 e la nascita del «neostrutturalismo» negli anni ’80. Il Capitolo 5 affronta brevemente anche
l’influenza esercitata dallo strutturalismo e dalla teoria della dipendenza sulle politiche dei paesi in via di sviluppo al di fuori dell’America Latina.
Il Capitolo 6 esamina i principali cambiamenti di opinione che si
sono avuti nella teoria marxista riguardo all’impatto dello sviluppo
del capitalismo sulla periferia. Mentre la visione marxista-leninista
classica riteneva che il capitalismo e l’imperialismo capitalistico avessero un impatto progressivo sui paesi sottosviluppati, tale visione fu
rovesciata durante gli anni ’20. La posizione dominante tra gli autori
marxisti e neo-marxisti («strutturalisti radicali») negli anni ’50 e ’60 vedeva piuttosto il capitalismo e l’imperialismo come le cause principali
del sottosviluppo della periferia. Tuttavia, questa visione «stagnazionista» è stata a sua volta fortemente criticata e sostanzialmente ribaltata nel corso degli anni ’70.
Il Capitolo 6 passa in rassegna anche l’abbondante letteratura dedicata alla struttura delle classi sociali ed all’economia politica agraria
(la controversia sui «modi di produzione»). Si conclude infine con un
breve esame delle ripercussioni del processo di concentrazione e di
centralizzazione del capitale sullo sviluppo economico negli anni ’90.