Fin da Piccoli anno 4 n. 3 - Centro per la Salute del Bambino

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Fin da Piccoli anno 4 n. 3 - Centro per la Salute del Bambino
FIN DA PICCOLI
Aggiornamenti sulla letteratura in tema di
interventi nei primi anni di vita
settembre_dicembre 2012 - Anno 4 - numero 3 pgg 16-22
FIN DA PICCOLI si propone di diffondere conoscenze sull’importanza e
l’efficacia di interventi effettuati nei primi anni di vita e finalizzati alla salute ed
allo sviluppo dei bambini. Poiché quanto accade all’inizio della vita ha influenze
molto significative sulla qualità della vita dell’adulto, tutto questo ha rilevanza
anche per il futuro delle nuove generazioni.
FIN DA PICCOLI si propone di contribuire a questo fine attraverso la diffusione
di studi e ricerche riportati dalla letteratura internazionale.
FIN DA PICCOLI è diretto primariamente a operatori che a vario titolo si
occupano di infanzia, ma anche a genitori e ad amministratori.
Sommario
Editoriale Nativi digitali: tutto ok?
Editoriale Allarme rosso sui nidi d’infanzia
Sincronia e specificità nel cervello materno e paterno:
relazione con ossitocina e vasopressina
Quando i bambini cominciano a conversare
Avremo mai in Italia una politica per gli adolescenti?
Segnalazioni/Notizie
p. 16
p. 17
p. 18
p. 19
p. 20
p. 22
Comitato editoriale:
Giancarlo Biasini
Francesco Ciotti
Monica Guerra
Giorgio Tamburlini
Hanno collaborato a
questo numero:
Giancarlo Biasini,
Costantino Panza
Monica Guerra,
Giorgio Tamburlini,
Paola Toni
FIN DA PICCOLI esce ogni 4 mesi solo in formato elettronico. Per ricevere la
newsletter regolarmente scrivere a [email protected]
Centro per la Salute del Bambino - ONLUS
Formazione e ricerca per le cure alla Maternità,
all’Infanzia e all’Adolescenza
Progetto grafico di Giulia Richter
Editoriale Nativi digitali: tutto ok?
In tempi di feste e di regali il mercato delle tecnologie digitali (TD) è uno dei pochissimi a non
soffrire della crisi. Bambini di età sempre minore sono al centro del mercato digitale. La pubblicità di nuovi videogiochi e baby tablet a volte è esplicita, spesso si nasconde dietro inchieste sul loro utilizzo, che si concludono immancabilmente con “certo occorre cautela, ma sono
così utili allo sviluppo…”
E’ invece il caso di chiedersi seriamente quanto faccia bene ai nostri nuovi bambini l’uso
sempre più esteso e sempre più precoce delle tecnologie digitali. Il mantra degli esperti recita
più o meno così: le nuove tecnologie aiutano la mente, sviluppano l’intelligenza, ma possono
isolare, rendere dipendenti e sedentari.
Vale la pena di sottoporre ad un vaglio queste affermazioni.
Che le TD “aiutino” la mente, è evidente. Ma la aiutano a restare vigile, a cercare nozioni, a
sviluppare alcune funzioni (il coordinamento visuo-motorio, la prontezza delle reazioni, il multitasking), mentre non sembrano affatto aiutare la memoria, o la capacità di selezionare, criticare, mettere in relazione concetti. In questo senso l’affermazione che le TD “sviluppano
l’intelligenza” pare molto azzardata. Se l’intelligenza è la capacità di risolvere problemi, possiamo dire che dipende dai problemi: al video ci si può addestrare a colpire bene un nemico,
non a concettualizzare e ideare. La neuroscienziata Maryanne Wolf autrice del saggio “Il calamaro e Proust”, dice che “quello che sta succedendo ai digital kids è un’emergenza”, che
“viene ad essere inibita una lettura profonda, vale a dire la possibilità non tanto di comprendere dei codici linguistici ma di mettere in relazione i significati con le nostre vite, le emozioni
di chi ha scritto con le nostre emozioni”. Bambini, quindi, che guadagnano alcune competenze, soprattutto hanno facile accesso ad una quantità di informazioni infinita, ma ne perdono
delle altre: la capacità di comprendere il linguaggio non verbale, la mimica, i gesti, di leggere
in modo ordinato, di scrivere a mano e comprendere (The Emerging, Evolving Reading Brain
in a Digital Culture: Implications for New Readers, Children With Reading Difficulties, and
Children Without Schools Journal of Cognitive Education and Psychology 11: 3, 2012 , pp.
230-240).
Secondo una ricerca recente svolta in FVG (Gabriele Qualizza, Medico e Bambino, dicembre
2012) tra le attività contratte in gran parte degli utilizzatori di internet c’è quella della lettura. Il
cervello si riempie di nozioni ma forse perde la capacità di ritenerle e soprattutto di collegarle:
“Il PC conserva quello che abbiamo smesso di memorizzare. Così il nostro cervello non si
sforza”, è la conclusione di uno studio scientifico pubblicato su Science da un gruppo di neurologi della Columbia University. Un problema, quindi, c’ è Il nostro cervello si “estende” fuori
di sè con le TD, ma pare perdere la profondità, e la luce dell’inventiva. Probabilmente servirebbero altri studi per sapere con certezza, ma qualche precauzione è da prendere ora.
La stessa ricerca già menzionata, viceversa, sembra smentire l’idea che l’uso delle TD per
connettersi on line, anche quando molto intenso possa sacrificare le relazioni off line: solo il
4,1% (che diventa quasi il 5% tra i più “connessi”) infatti esce con i propri amici meno di prima, mentre il 71,6% mantiene i ritmi precedenti e il 24,3% esce addirittura più di prima. Ma
crescono anche le segnalazioni nei reparti di neuropsichiatria di forme di franca dipendenza
dalle tecnologie (una patologia per la quale è stato richiesto l’inserimento nella nuova classificazione delle malattie mentali), che in altri paesi sono ormai comuni: in Giappone almeno un
ragazzo su venti è recluso in casa (hikikomori) anzi nella sua stanza, anzi, al tavolo. I due
dati mettono a fuoco due facce dello stesso fenomeno. Se la maggioranza non si isola, alcuni
sono portati a farlo: una revisione sull’argomento (Online Social Networking and Addiction: A
Review of the Psychological Literature, di Daria Kuss e Mark Griffiths, pubblicata su International Journal of Environmental Research and Public Health 2011;8(9):3528-52) conferma
che l’effetto del social networking digitale è diverso a seconda dei tratti di carattere. Ad esempio, i ragazzi che hanno una rete di relazione ricca, e una buona autostima, usano Facebook
per il loro ulteriore avanzamento sociale. Al contrario, quanti hanno reti sociali povere e bassa autostima tentano di compensare questo attraverso i social network, ma sono molto vulnerabili al tipo di feedback che ricevono: se è positivo, bene; ma se è negativo (ed è dimostrato che la rete induce disinibizione, quindi sono più frequenti caldi apprezzamenti, ma anche critiche e derisioni feroci) la loro nozione di sé peggiora, fino a conseguenze talora estreme. E si deve tenere anche conto che sulla rete si tende a dare immagini non veritiere di sé,
che poi possono generare disillusioni sia negli altri che in se stessi. Quindi, se per la grande
maggioranza le cose possono andare bene, per alcuni l’effetto della rete può essere devastante sia in termini di possibile dipendenza che di forte caduta della considerazione di sé. Si
tratta, poi, di vedere che tipo di relazioni vengono costruite nella rete: come l’autore della ricerca summenzionata osserva: “il rischio è che nello spazio dei nuovi media l’essere-con (il
“mi piace” di Facebook) tenda a prevalere sul parlare-di, l’affinità e la sintonia sul dialogo,
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l’ansia di essere accolti dal gruppo sulla capacità di esprimere la propria originale individualità”.
E’ inoltre dimostrato che l’esposizione precoce alla violenza su diversi media, inclusi i videogiochi bellicosi, contribuisce a sua volta a fenomeni di aggressività sia mediatica che esercitata nella vita reale. L’American Academy of Paediatrics ha da tempo raccomandato di evitarli.
Esiste, infine, il rischio biologico. Quello possibile, ma talmente severo da richiedere certamente una politica di precauzione (cancerogenicità e disturbi riproduttivi derivanti
dall’esposizione alle onde elettromagnetiche di cellulari smartphones ecc). E quello certo:
esiste una forte correlazione tra l’immobilizzazione davanti allo schermo in ambienti chiusi, la
precoce insorgenza di sovrappeso e obesità nei bambini e la comparsa di disturbi alla colonna. L’eccessiva esposizione allo schermo determina inoltre problemi di vista (Computer
vision syndrome).
Che fare, allora? Se è evidente che le tecnologie digitali e la rete rappresentano delle grandi
opportunità di comunicazione, informazione, apprendimento e svago, esiste il bisogno di una
maggior informazione e consapevolezza della popolazione, soprattutto delle sue fasce più
vulnerabili, bambini e adolescenti, e dei loro genitori e insegnanti.
La “dieta mediatica” va aggiustata fin da piccoli, evitando quindi i videogiochi prima dei tre
anni, il cellulare a 7 anni o l’iscrizione clandestina a Facebook a 9 (non sono, come sapete,
eccezioni), indirizzando bambini e ragazzi a un utilizzo consapevole, che prima di tutto deve
essere guidato anche con l’esempio, da parte dei genitori e poi, nei tempi e negli spazi della
scuola, con la guida degli insegnanti. Ed evitando l’uso eccessivo e prolungato (mai sopra le
due ore almeno fino ai 6-7 anni!). E’ bene inoltre condividere la visione dei video con il bambino, usando le modalità interattive suggerite anche per la condivisione di testi scritti e cioè
facendo domande e commentando insieme al bambino quanto avviene. E’ fondamentale che
soprattutto in famiglia si propongano attività diverse (la diversità è utile di per sé), interattive,
che stimolino la creatività ecc. (lettura, musica, attività ludiche con oggetti di uso comune che
stimolano creatività e ingegno). E forse è proprio quest’ultima la raccomandazione fondamentale. Infatti, se è vero che non tutti i pareri degli esperti sono basati su solide evidenze, e
infatti spesso divergono, il senso comune dovrebbe portarci ad una ragionevole certezza: se,
come molti sostengono, l’accesso alla rete rappresenta o può rappresentare un arricchimento delle potenzialità del bambino, questo deve realizzarsi in aggiunta alle esperienze e opportunità di crescita esistenti e non in loro sostituzione. La raccomandazione di fondo diventa
quindi quella che l’uso delle tecnologie e l’accesso alla rete non vada a scapito di
un’interazione forte con i famigliari, della lettura, della musica, del gioco libero, dello sport e
di tutto quanto può arricchire la vita di bambino e contribuirne alla crescita.
GT
Editoriale Allarme rosso sui nidi d’infanzia
Ci ricordiamo cos’è il nido d’infanzia? E’un luogo educativo, che definisce opportunità e qualità di ambiente educativo a partire dai più piccoli, in collaborazione con le famiglie, e contribuisce fortemente ad aumentare la civiltà di una nazione. La sua gestione è delicata perché il
bambino è piccolo: il personale deve svolgere molte funzioni contemporaneamente,
dall’accudimento ad una buona progettazione pedagogica che garantisca esperienze di gioco, di apprendimento e di autonomia. E’ quindi un servizio che ha bisogno di personale preparato, motivato e appassionato. In considerazione dell’età, il rapporto educatore bambino
oscilla da 1-5 a 1-8/10. Ne consegue che il nido ha dei costi di gestione alti e il personale
incide del 84,4% sui costi complessivi, come calcolato dallo studio del CNEL (Osservazioni e
Proposte “NIDI E SERVIZI EDUCATIVI INTEGRATIVI PER L’INFANZIA - Orientamenti per
lo sviluppo delle politiche a partire dall’analisi dei costi” 20 maggio 2010) insieme
all’indagine sviluppata dal Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia (GNNI), dove si legge anche che
“il personale impiegato in un servizio educativo è insieme il suo maggior costo, ma anche il
principale elemento su cui si fonda la sua qualità; cercare risparmi sui costi del personale
induce instabilità organizzativa e tendenza al turn over, che sono due elementi che insidiano
la qualità”.
I comuni da alcuni anni, per dare risposta ai bisogni delle famiglie e per avvicinarsi alla percentuale di offerta del 33% prevista dal Consiglio europeo di Barcellona del 2002, hanno agevolato la nascita di asili nido privati riservandosi, attraverso percorsi di accreditamento, il
monitoraggio e il controllo della qualità. Nello studio CNEL sopracitato si legge che “il sistema
ha necessità di integrare iniziativa pubblica e privata per espandersi attraverso la forza del
pluralismo dei protagonismi e solo il sostegno pubblico alla copertura dei costi può consentire
all’iniziativa privata di integrarsi pienamente nella rete delle opportunità accessibili ai bambini
e alle famiglie in modo generalizzato ed equo”.
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Il sostegno pubblico si sviluppa su molti livelli: possibilità di utilizzare strutture esistenti, affitti
agevolati, utenze pagate da enti, interventi sulle rette, per citare solo i casi più frequenti. Gli
enti locali più virtuosi (comuni e regioni) hanno strutturato un sistema dove la gestione pubblica e privata si incontrano e non si scontrano, perseguendo l’obiettivo di aumentare una
offerta di qualità. I servizi nido d’infanzia messi a bando e quindi oggetto di gara, sono nella
maggioranza dei casi gestiti da cooperative sociali che “non hanno scopo di lucro”. Con questi costi infatti è difficile anche perseguire il pareggio di bilancio, a meno di non far pagare
rette molto elevate.
Ora, con le successive ondate di tagli ai bilanci comunali, nonostante la legge sancisca che i
nidi d’infanzia sono servizi fondamentali (L 42/2009), la realizzazione del nido come diritto
esigibile per tutti bambini è ancora più lontana dall’essere realizzata.
E’ infatti indecoroso che:
• sia difficile trovare luoghi e tempi, con alcune eccezioni sul territorio nazionale, sempre
più a rischio, dove fare concretamente una cultura dell’infanzia, nei suoi tanti significati:
cura, continuità, apprendimenti, autonomia, senso degli altri, collaborazione, crescita,
futuro, per indicarne solo alcuni. Si dice che “dove sta bene un bambino stanno bene
tutti” ma manca da anni un Piano Infanzia a livello nazionale che preveda fondi adeguati
e le leggi regionali latitano;
• esista una disparità enorme tra le varie Regioni rispetto all’emanazione di leggi sui servizi educativi e il Sud continua ad essere quello più carente e dove anche l’occupazione
femminile raggiunge una percentuale bassa;
• non si sia affermata la cultura della governance che dovrebbe tenere uniti, in una logica
di qualità, di efficienza ed efficacia il servizio pubblico e quello privato e garantire pluralità dei soggetti gestori.
Quest’anno educativo è iniziato con il mancato stanziamento di fondi per l’avvio delle sezioni
primavera in tutta Italia, ed il mancato riparto per l’assegnazione dei fondi europei a 4 regioni
meridionali, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, per il superamento del divario nord/sud
nell’offerta di servizi 0-6 anni. I comuni, pur chiedendolo, non sono riusciti a togliere dal patto
di stabilità, gli oneri del personale per i servizi educativi e si assiste ad un proliferare di servizi
domiciliari, baby parking , nidi parrocchiali affidati a volontari che spesso non soddisfano criteri di professionalità e adeguatezza educativa.
Altrove si investe sull’infanzia per investire sul capitale umano. Lo farà il nuovo governo? Misureremo le proposte di chi si candida a governare anche su questo.
PT
Clicca http://www.csbonlus.org/inc/ALLEGATI/Doc_Nidi_Inf_dic_2012.pdf
Clicca http://www.csbonlus.org/inc/ALLEGATI/Corriere_sera_14_12_2012.pdf
SINCRONIA E SPECIFICITA’ NEL CERVELLO MATERNO E PATERNO: RELAZIONE
CON OSSITOCINA E VASOPRESSINA
S. Atzil, T. Hendler, O. Zagoory-Sharon, Y. Winetraub and R. Feldman
Synchrony and Specificity in the Maternal and Paternal Brain: Relations to Oxytocin
and Vasopressin. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2012;51(8):798-811
Uno studio molto interessante su un argomento, il padre, dibattuto da antropologi, sociologi,
psicologi e affrontato dalla scienza con molta difficoltà. Il merito di questi ricercatori israeliani
è proprio quello di misurare la biologia della paternità confrontandola con la maternità.
Tra i mammiferi poche specie praticano la monogamia e pochissime (al massimo un 3-5%)
quelle che presentano una figura paterna che, cooperando con la madre, nutre e cresce il
proprio cucciolo. La specie umana pratica prevalentemente la monogamia non come istinto
ma come cultura, anche se alcuni popoli preferiscono la poligamia: poliginia o, più raramente,
poliandria. Dal punto di vista antropologico, inoltre, è accreditata la teoria secondo cui, nello
scenario evolutivo umano, l’allevamento dei figli è stato appannaggio della madre per centinaia di migliaia di anni con l’aiuto di altre donne, soprattutto la nonna materna in quanto avvantaggiata dal fatto di avere un precoce declino della propria capacità riproduttiva causata
da una brusca involuzione dell’ovaio, fatto biologico che favoriva l’investimento delle energie
verso la prole della propria figlia. Anche altre donne, parenti o no, appartenenti alla stessa
tribù partecipavano alla crescita del bambino, chiamate così “allomadri” dagli antropologi
(Hrdy SB. “Mothers and Others: The Evolutionary Origins of Mutual Understanding” Belknap
Press, Harvard University Press, Cambridge USA).
Ruth Feldman e collaboratori, invece, in questo studio indica chiaramente che il padre non
solo ha una predisposizione biologica ad occuparsi del figlio ma è anche in sintonia con la
madre nelle fasi di accudimento del figlio: madre e padre coordinano le loro risposte cerebrali, legate alle aree corticali coinvolte nella costituzione dell’empatia, agli stimoli del proprio
figlio; inoltre, le differenti attivazioni corticali per mezzo dei diversi neuropeptidi (ossitocine e
vasopressina) sono una prova a supporto della costruzione di un legame biologico genitoriale
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sia nel maschio che nella femmina. Le aree corticali interessate (insula, corteccia prefrontale
dorso laterale, giro frontale inferiore) sono correlate alle competenze sociali, come l’empatia
e la teoria della mente, ed indicano che entrambi i genitori possono comprendere in un accordo intuitivo ed in tempo reale i segnali e lo stato del loro bimbo. I ricercatori hanno anche
osservato alcune differenze nelle aree cerebrali coinvolte: nelle madri sono spiccatamente
interessate le aree libiche (amigdala, corteccia cingolata ventrale anteriore, nucleo accumbens) legate probabilmente ad un’antica filogenesi che sostiene motivazione e appagamento
nell’essere madre; mentre nei padri sono le aree corticali legate all’intelligenza cognitiva e
sociale (corteccia prefrontale mediale, corteccia parietale inferiore, giro precentrale) le zone
cerebrali più attive, il che fa supporre un ruolo più culturale della paternità.
Il confronto tra le attività cerebrali di ogni coppia di genitori, effettuata attraverso la Risonanza
magnetico funzionale (fRMI) indica una vera e propria sintonizzazione affettiva tra i due genitori, base necessaria per il processo di mentalizzazione del bambino, ossia alla costruzione
di un proprio Sé. In questo senso, una alterazione di questa delicata rete di “accordamenti”
affettivi in questa nuova triade (padre – madre – figlio) potrebbe influire su possibili sindromi
di disfunzione sociale o forme di autismo.
Conclusioni
I ricercatori hanno dimostrato che i legami di attaccamento sono formati attraverso processi
di sincronia biologico comportamentale. Mamma e papà sincronizzano la loro attività cerebrale in risposta a stimoli provenienti dal bambino in aree implicate nella cognizione sociale,
teoria della mente ed empatia. Questa sincronia cerebrale può aiutare i genitori a leggere
congiuntamente i segnali comunicativi non verbali del bambino favorendo una migliore comprensione e adeguando le più corrette e coordinate risposte genitoriali.
Per chi è il messaggio
Per i pediatri: il padre, anche se spesso assente nei nostri ambulatori, ha una importanza ed
un riconoscimento biologico fondamentale nell’accudimento del bambino.
Per le famiglie: la sincronia, o meglio l’”accordamento”, la sintonia tra mamma e papà è un
fatto biologico oltre che essere un pensiero psicoanalitico. La coordinazione tra i due genitori
(verificata in questo studio attraverso i processi neurobiologici) è parte integrante del processo di attaccamento che avviene all’interno della famiglia.
Per i ricercatori: questa è la prima dimostrazione delle basi biologiche della paternità e del
coparenting. Sono necessari ulteriori studi per valicare questi risultati e per ampliare le conoscenze biologiche sulla figura del padre.
CP
Clicca http://www.csbonlus.org/inc/ALLEGATI/Clicca_qui_Atzil_2012_3.pdf per un sunto dell’articolo
QUANDO I BAMBINI COMINCIANO A CONVERSARE
S. Bonifacio, L. Girolametto, M. Bruno Come conversano i bambini a 12,18,24 mesi?
Quaderni acp 2012;19:200
Nel rapporto di comunicazione fra il bambino e l’adulto esiste un percorso che va dai gesti
alle parole. I due eventi si chiamano “assertività” e “responsività”. La prima riguarda
l’iniziativa spontanea del bambino che fa domande o richieste all’adulto con i gesti o le parole: domande di aiuto, di fare cose, di attenzione per un oggetto o per un evento. La seconda
riguarda l’iniziativa dell’adulto mediante parole di cui il bambino deve intendere il senso per
prendere a sua volta il turno per una o più volte. In ambedue i casi comunque il bambino fa
richieste con gesti o con parole o risponde a richieste o a domande dell’adulto. Si ha quindi
un certo grado di scambio di informazioni fra gli interlocutori con il coinvolgimento attivo dei
due partner che si sviluppa nel tempo fra i 12 e i 24 mesi.
La ricerca che recensiamo si propone di valutare come questi scambi incrementano nel tempo, a 12, 18, 24 mesi, se c’è differenza nel percorso in relazione al sesso dei bambini e al
livello di studio delle madri. Lo strumento con cui la ricerca è stata condotta riguarda due
questionari , validati per questo scopo, consegnati ai genitori di 202 famiglie di Nord, Centro
e Sud nelle età indicate dai loro pediatri di famiglia. I questionari utili per la elaborazione sono
stati 178 e provenivano da bambini con normale sviluppo. I genitori dovevano osservare e
rilevare il comportamento dei bambini e segnalarlo nei questionari.
Molti sono i dati emersi dalla ricerca, ma i più interessanti per i nostri lettori riguardano le percentuali di bambini che hanno raggiunto un punteggio definibile come “ben sviluppato” nelle
diverse scale di “assertività” e “responsività”.
Per l’”assertività” possiamo riassumere così. Fa richieste il 9% dei bambini a 12 mesi, il
28% a 18 mesi, il 41% a 24 mesi. In genere i bambini esprimono richieste per oggetti desiderati o per richiedere aiuto.
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Fa domande il 26% dei bambini a 24 mesi; prima dei 24 mesi non ci sono percentuali rilevanti in questo settore. Questo rilievo è evidentemente in relazione allo sviluppo delle possibilità linguistiche.
Per la “responsività” possiamo riassumere così. Risponde a richieste: il 9% dei bambini a
12 mesi, il 36% a 18 mesi, il 63% a 24 mesi. La risposta è quindi discretamente presente a
18 mesi. Risponde a domande: il 2% dei bambini a 12 mesi, il 23% a 18 mesi, il 60% a 24
mesi.
L’onda
dello
sviluppo
inizia
quindi
a
18
mesi.
Per la “responsività” c’è ancora un parametro valutabile chiamato Mantenere la contingenza
cioè rimanere in argomento per uno o più scambi conversazionali. Il risultato è quello indicato
sotto. Mantiene la contingenza: il 2% a 12 mesi, il 13% a18 mesi, il 39% a 24 mesi.
Le abilità socio-conversazionali verbali e non verbali testate dall’indagine, non si differenziano in maniera statisticamente significativa per il sesso dei bambini e per il titolo di studio delle
madri.
Conclusioni
Nelle attività socio- conversazionali dei bambini si hanno tempi diversi di acquisizione di tappe maturative, ma sempre all’interno di un normale sviluppo. Quanto le tappe differiscano per
i livelli di attività pragmatiche, per esempio nel settore fare richieste, o per la varietà di atti
comunicativi di cui è ricco o povero l’ambiente in cui vive il bambino sono considerazioni al di
fuori degli obbiettivi della ricerca, ma che forse vanno tenute presenti nella valutazione sul
campo.
Per chi è il messaggio
I dati che abbiamo riassunto sono solo una parte di quelli riportati nella ricerca. Possono dare
ai pediatri, agli educatori, ma anche agli insegnanti degli asili nido uno strumento per una
valutazione delle abilità socio-conversazionali dei bambini e del loro sviluppo.
GB
AVREMO MAI IN ITALIA UNA POLITICA PER GLI ADOLESCENTI?
Nel 2012 molte riviste internazionali hanno trattato il problema dell’adolescenza. Scorriamo i
risultati di alcune di queste.
Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Youth risk behavior surveillance.
United States, 2011.MMWR. 2012 Jun 8;61:1-162
Si tratta di una indagine “schoolbased”, condotta in USA, che monitorizza la salute degli adolescenti e giovani adulti (10-24 anni) concentrandosi sulle maggiori cause di morbilità e mortalità. I dati sono relativi al periodo settembre 2010 - dicembre 2011. Sono stati controllati con
questionari validati e usati comunemente alcuni comportamenti: l’uso di tabacco, di alcool e
altre droghe, le diete non salutari, la presenza di attività fisica e i comportamenti sessuali che
portano a gravidanze indesiderate e a malattie trasmesse sessualmente. Dalla indagine è
risultato che durante i 30 gg prima dell’indagine il 38.7% dei testati ha bevuto alcool, il 23.1%
ha fumato marijuana, il 20% ha avuto comportamenti da “bullo”, il 7.8% ha tentato il suicidio.
Durante i 12 gg precedenti l’indagine il 20% ha avuto comportamenti da “bullo”, il 47% ha
avuto attività sessuale (e il 15% con 4 o più partner), il 60% usando preservativi, il 18% ha
usato tabacco, il 4.8% non ha mangiato frutta e il 5.7% verdura; il 31% ha passato 43 o più
ore davanti al computer. Confrontando questi con i dati della medesima indagine del 1991 gli
autori si consolano: la prevalenza di questi comportamenti non salutari è diminuita. I dati
variano molto fra gli stati americani. La conclusione è che, nonostante la riduzione, la loro
persistenza deve destare allarme. Perciò la raccolta dei dati non deve avere un significato
puramente euristico per la valutazione del trend, ma per progettare gli interventi da attuare a
livello nazionale, statale e locale con programmi sempre più efficaci, necessari a ridurre i rischi e ad aumentare gli outcome salutari.
Schuster MA et al. Racial and Ethnic Health disparities among Fifth-Graders in Three
Cities. N Engl J Med 2012; 367:735-45
Anche questa ricerca è stato condotta in USA. Raccoglie i dati di 5147 studenti di aree
metropolitane in una classe corrispondente alla nostra quinta elementare cioè verso i 10 anni
di vita. E’ stata portata a termine mediante un’intervista al bambino e a un genitore. Sono
stati identificati e misurati una serie di indicatori: avere visto una scena di violenza fisica condotta con armi o senza; essere stati oggetto di bullismo da parte di coetanei; avere subito
una aggressione fisica o una dura aggressione verbale; avere fumato tabacco e/o bevuto
bevande alcoliche; utilizzare di normale cinture di sicurezza in auto e il casco in bici; avere
avuto esperienza di discriminazione; essere preoccupati per eventi terroristici; essere obeso;
entità dell’esercizio fisico praticato; condizioni di salute valutate soggettivamente.
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Qualità della vita fisica e psicologica. I risultati hanno dimostrato differenze significative tra
bambini bianchi rispetto a quelli afro- e latino-americani. Rispetto ai bianchi, i bambini
“colorati” avevano assistito più spesso a violenza fisica con o senza armi ( p<0.001, p<0.05),
non usano cinture di sicurezza o casco da bicicletta (p<0.05, p<0.001), hanno subito discriminazioni (p<0.01), sono obesi (p<0.01) e praticano scarsa attività fisica (p0.05). I bambini
latino-americani rispetto ai bianchi presentano più spesso elevata vittimizzazione (p<0.05),
esperienze di bullismo ( p<0.01), obesità (p<0.001) e riferiscono cattive condizioni di salute
(p<0.01). Esiste una significativa correlazione con lo stato socioeconomico e il livello di scolarità della famiglia. Rispetto allo studio recensito sopra (che si riferisce a bambini e giovani
di età 10-24 anni) questa ricerca dimostra che la situazione non salutare comincia presto (al
10° anno è già presente). I comportamenti che la p ossono generare iniziano nella fanciullezza e suggeriscono interventi precoci rivolti a genitori e scuola. Le evidenti diseguaglianze
suggeriscono di privilegiare bambini poveri e di famiglie scarsamente scolarizzate. Che è una
conferma e non una novità. Gli autori si chiedono e chiedono cosa possa fare per questi obiettivi la scuola e i genitori.
Editorial. Putting adolescents at the centre of health and development. Lancet
2012;379:1561
Un editoriale di The Lancet dell’aprile scorso e una serie di articoli nello stesso numero (da
pg 1630 a 1665) afferma che ai problemi degli adolescenti si dedica in realtà una riflessione
assai modesta nonostante che si sia registrato un aumento di problemi di comportamento,
violenza, uso di sostanze, obesità e nonostante si sappia molto bene che tutto questo si
ripercuoterà inevitabilmente sulla salute dell’adulto con conseguenze assistenziali ed
economiche molto rilevanti per lo stato. La domanda su come affrontarlo vale per tutti i paesi
del mondo, ma soprattutto per i paesi sviluppati che hanno in qualche misura affrontato con
successo i problemi della salute fisica nell’infanzia, ma che tardano ad affrontare quelli del
decennio successivo. Le sedi di possibile intervento sui fattori di rischio che vengono concordemente individuate sono la famiglia, la scuola, i pari. Un articolo della serie (pg 1653-64) è
dedicato a “Worlwide application of prevention science in adolescent health” e contiene una
ampia rassegna di 25 programmi testati per la loro efficacia compresa la resa economica
degli interventi stessi. Uno dei programmi di maggiore efficacia è il “Life Skill Training”(LST)
che viene applicato dalla fine della scuola elementare e applicato per tre anni. L’efficacia del
LST nell’indurre stili di vita salutari è stata provata con più TCR e il programma è attualmente esteso negli USA a migliaia di ragazzi di diverse etnie. Esiste poi un buon numero di
interventi più settoriali, anche questi testati per efficacia, che riguardano servizi educativi
“enhanced” per bambini poveri tesi a migliorare le abilità cognitive, il linguaggio, i legami
famigliari, le capacità genitoriali, la comunicazione genitori- figli e le relazioni affettive. Alcuni
sono strettamente legati all’età adolescenziale, altri iniziano nelle età precedenti per persone
a particolare rischio di povertà o a rischio sociale. I target riguardano l’abuso e la violenza
intrafamigliare, l’alcool e altre sostanze, la depressione, i rapporti con la legge, le difficoltà e
l’abbandono scolastico, i comportamenti sessuali a rischio, le gravidanze indesiderate.
Hanno insomma per oggetto i problemi rilevati nei due articoli recensiti sopra. Le sedi di
maggiore efficacia sono i gruppi sociali (specie i pari), la comunità, le scuole. La durata
dell’effetto è misurata da 1 fino a 15 anni. Anche il valore economico (rapporto fra investimento e resa economica) è tenuto sotto controllo: il beneficio per dollaro investito varia da
2.11 a 42.13 $. Una analisi economica più dettagliata di alcuni programmi si trova in Fin da
piccoli (2008:1:2). Negli USA il 43% delle scuole implementa programmi efficaci e già
questo è ritenuto un valore troppo basso. E’ possibile che la diminuzione dei comportamenti
a rischio di cui si riferisce nel primo articolo recensito sia dovuta all’utilizzo di questi programmi.
Conclusioni
Dagli USA torniamo in Italia che, nonostante non abbia ricerche paragonabili per complessità
e profondità a quelle recensite, non può pensare di non avere gli stessi problemi. Da noi cosa si fa? Nella ricerca di Schuster et al ci si chiede cosa possano fare i genitori e la scuola.
Dato che noi abbiamo un Servizio Sanitario Universale dobbiamo aggiungervi “cosa fa la
sanità”. Nella scuola si attuano certamente programmi di prevenzione. Talora da parte degli
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insegnanti, talora da parte di associazioni private che offrono i loro servigi nei più diversi campi.
Si sono fatti calcoli di quanto costano, allo stato, alla comunità o ai privati? Si è verificata
l’efficacia? Si è valutato il training professionale di coloro che li attuano? Si sono preparati gli
insegnati a conosce l’entità dei problemi e ad affrontarli? I genitori, e in genere l’opinione pubblica, hanno alte aspettative per la salute fisica dei figli. Ma gli uni e gli atri non sono informati,
o vogliono essere ciechi, sulla esistenza di strategie efficaci nel campo della salute globale,
fisica, mentale e psicologica, degli adolescenti che non può essere garantita solo dalle prestazioni sanitarie dei pediatri di famiglia ai quali i genitori in genere si rivolgono, ma da un complesso assistenziale solo sanitario. In sanità l’attenzione ai problemi degli adolescenti è del
tutto trascurata. Il secondo decennio della vita è percepito, dai manager della sanità, come il
periodo di maggiore salute individuale per la scarsa frequenza dei ragazzi negli ambulatori e
per il loro scarso peso assistenziale. Che bellezza, non chiedono visite, non consumano farmaci né richiedono esami! Coloro che, nelle ASL, progettano interventi di prevenzione sono attenti agli indicatori di salute fisica e di consumo di risorse. Sono quasi sempre inadeguati a comprendere che comportamenti e condizioni apparentemente non legati alla salute influiscono
negativamente o positivamente su questa.
Per chi è il messaggio
Il messaggio è per tutti coloro che incontrano i giovani di questa età. Nessuno può tirarsi indietro.
La scuola dovrebbe imparare non solo a fare, ma a valutare quello che fa per questi ragazzi. E
se necessario ad andare contro corrente contro le mode che i ragazzi portano a scuola dalla società dei consumi. I familiari dei ragazzi dovrebbero sapere che il tempo delle deleghe è finito che
quella della salute dei ragazzi è una battaglia complessa che si perde o si vince insieme.
La sanità deve aprire gli occhi sulla esistenza di questi cittadini dato che si calcola che il 70%
delle morti premature degli adulti, con i conseguenti danni economici e sociali (ed etici) per gli
Stati, riflettano comportamenti iniziati o rinforzati durante l’adolescenza. Qualche volta viene da
chiedersi: ma lo sanno? Gli amministratori della cosa pubblica devono imparare ad ascoltare anche quelli che non hanno voce prima che al posto della voce utilizzino altre armi come succede
in altri paesi e come è successo anni fa anche in questo.
GB
Nuove tecnologie e bambini: due iniziative innovative
La Regione Friuli Venezia Giulia che, tramite l’Ufficio del Garante per i Minori e l’Assessorato
all’Istruzione, con il supporto tecnico-scientifico del Centro per la Salute del Bambino, ha lanciato una
campagna, con protagonisti ragazzi, famiglie ma soprattutto la scuola, su “Responsabile e corretto utilizzo delle tecnologie digitali” il cui motto è “usale non farti usare” (www.csbonlus.org e
www.regione.fvg.it). La campagna non è certo a senso unico: si inserisce in un programma di “scuola
digitale”, volto a un utilizzo competente della rete e delle enormi opportunità che offre.
Il 10 dicembre è partita Radio Magica, il primo portale italiano dedicato ai “nativi digitali”, pensato come
ambiente di intrattenimento per il loro tempo libero, ma anche come fonte di crescita umana, sociale e
culturale. Radio Magica comprende una web radio, con programmi di narrativa, musica, arte, scienze
ecc. realizzati per (e con) i bambini, di ogni età, e una biblioteca on line degli stessi materiali scaricabili
in ogni momento e, soprattutto, accessibili a bambini portatori di bisogni speciali, tramite il ricorso al
linguaggio dei segni, font per i dislessici e gli ipovedenti e il linguaggio dei simboli (http://
www.radiomagica.org/#page-1)
Nati per Leggere
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Al via alla quarta edizione del Premio Nazionale Nati per Leggere.
I documenti si scaricano alla pagina: http://www.natiperleggere.it/index.php?id=29
Le candidature dovranno pervenire entro il 31 gennaio 2013 e in versione cartacea alla Segreteria organizzativa del Premio nazionale Nati per Leggere
c/o Fondazione per il Libro, la Musica la Cultura—Via Santa Teresa 15 - 10121 Torino
Tel. 011 5184268 e via mail al seguente indirizzo <[email protected]>
Varie
Convegno internazionale Prepare for Life! - Raising Awareness for Early Literacy Education" Lipsia dal 12 al 14 marzo 2013.https://www.readingworldwide.com/index.php?id=51519
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