Ossessione
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Ossessione
Ossessione di Luchino Visconti Più che nel cinema, dove pure il suo talento è indiscutibile, la valentia di Luchino Visconti ha raggiunto gli esiti artistici più alti nella regia di opere teatrali e in particolare nella messinscena di melodrammi. Il cinema di Visconti, è quasi superfluo richiamarlo, è percorso dal soffio potente del melos, di un canto che si fa in-canto, rapimento, sortilegio, irresistibile, ma anche pericolosa, seduzione. La prima opera cinematografica di Visconti è, fin dal titolo, un chiaro tributo al melodramma, segnatamente al melodramma verdiano: i grandi personaggi di Verdi non sono forse degli ossessi, non sono forse assediati, come rivela l’etimologia della parola (ob-sídere), da passioni a cui non riescono opporsi? Violetta, la zingara Azucena e Rigoletto – per limitare il discorso solo alla «trilogia popolare», anche se forse è La forza del destino l’opera verdiana a cui Ossessione maggiormente ammicca – non sono forse posseduti da un demone che li isola dal resto dell’umanità? La solitudine e la lotta impotente contro una moira – un destino, appunto – che tutto travolge, non sono forse la loro cifra esistenziale? Al di là di queste considerazioni, peraltro banali, l’impianto melodrammatico di Ossessione risulta di palmare evidenza nell’uso del canto all’interno del film. La vicenda di ossessione e morte narrata da Visconti principia proprio da un canto, quello intonato da Giovanna nel retrobottega dello spaccio di cui è titolare insieme al marito Giuseppe. Non importa se quel motivetto – è il ritornello della canzone di Alfredo Clerici Fiorin fiorello, popolarissima a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso – non possiede la raffinatezza di un’aria o di una cabaletta, perché comune, dal punto di vista mitopoietico, è l’effetto che essa provoca, quello, appunto, di sedurre. Nella voce di Giovanna risuonano l’invito del serpente edenico a cogliere il frutto dall’albero della conoscenza, le blandizie impudiche di don Giovanni a Donna Anna, le seduzioni di Kundry nel giardino di Klingsor: insomma, il canto «meligeryn» delle sirene. Negli esempi richiamati il canto acquista un’indiscutibile valenza morale, giacché esso segna un punto di non ritorno. Chi lo ascolta è chiamato a operare una scelta: o resiste alle sue lusinghe e salva la vita; oppure se ne lascia sedurre, ma così facendo, a fronte di una superiore conoscenza («ta pleiona» promettevano le sirene agli incauti marinai, come racconta Omero nell’Odissea), andrà incontro a sicura rovina. Sulle soglie delle case, nei crocicchi, lungo le strade, sugli scogli stanno in agguato le incantatrici e da lì, con il loro canto, cercano di traviare i viaggiatori, di porli, letteralmente, al di fuori (trans) della retta via. Se l’analisi fin qui condotta coglie nel segno, del tutto attinente all’assunto ‘melodrammatico’ del film è l’Aria Di Provenza il mare, il suol tratta dalla Traviata di Verdi, che il marito di Giovanna canticchia in apertura del film. Come Violetta è tra-viata dal canto di Alfredo (si ascolti il sublime Finale del primo atto, dove le resistenze di Violetta all’amore sono vinte dal canto di Alfredo: «È strano! … In core / scolpiti ho quegli accenti! … / Sarìa per me sventura un serio amore?»), così il vagabondo Gino Costa: dopo aver udito il canto di Giovanna, questi abbandona la via che stava percorrendo – una via, come si può vedere nel film, che procede rettilinea, dunque via ‘retta’ a tutti gli effetti – ed entra in terra di perdizione. Dal canto di Giovanna, Gino apprende, certo, «ta pleiona», un sapere maggiore sulle cose della vita, ma da esso è pure fatalmente traviato, se-dotto, e sospinto verso altri territori, dove la vile prosa di questo mondo è trasfigura in dolce poesia. Il pericolo del canto delle sirene consiste anche nella sua a-temporalità: la musica, soprattutto quando è mossa dall’amore, annulla in un nunc stans passato, presente e futuro, porta fuori – ancora una volta seduce – l’anima dal tempo e dal mondo delle cose soggette a corruttela, prospettandole una felicità che, però, è solo un vile surrogato. Chi dimentica questo, lasciandosi rapire, incantare, fascinare, ammaliare dal canto, cade nella colpa, la quale recherà con sé tanta più sofferenza quanto più lusinghiere erano le promesse. Tutti i personaggi di Ossessione soffrono proprio perché si accorgono dello scarto irriducibile che corre tra la realtà del mondo e il loro desiderio di felicità. Essi, infatti, sono ossessionati dalla felicità: lo è Gino, che rimpiange le montagne dove appena un anno prima aveva trovato lavoro in una cava; lo è Giovanna, costretta a sposare un uomo che non ama solo per non patire più la fame; lo è Giuseppe, che desidera tanto un figlio; lo è lo ‘Spagnolo, prigioniero di una morale inappuntabile, a prima vista, ma timoroso di sporcarsi le mani con l’amore (i consigli che dà a Gino sono, sì, ragionevoli, ma in realtà invitano l’amico a non compromettersi con l’amore e, quindi, con la vita); e da ultimo lo è Anita, la prostituta-ballerina, forse il personaggio più struggente del film, la quale, per riprendere le parole di Agostino, «amando d’amare, cerca un oggetto d’amare». Indubbiamente colpevoli sono i protagonisti del film, con questa necessaria precisazione, tuttavia: è il dolore, è la consapevolezza che mai i loro desideri troveranno soddisfazione a precipitarli nella colpa; un’idea questa che, ripresa dalla sapienza greca, trova in Leopardi un suo attento esegeta: «[…] non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalla loro calamità» (Storia del genere umano). Il merito maggiore che deve essere riconosciuto al film è quello di mostrare lo scarto, autenticamente tragico, tra il mondo com’è e come, invece, dovrebbe essere; nel mezzo stanno gli uomini, che vivono questo scarto, e lo patiscono. Ma pathos, in greco, non è la semplice sofferenza; è sciagura, è l’evento imponderabile che colpisce quando meno lo si aspetta. In questo senso, provenendo dal fuori (ci colpisce solo qualcosa che è esterno a noi ), il pathos è sempre immeritato. A chi imputare, dunque, le sofferenze di Gino e di Giovanna e di tutti gli altri personaggi? È quasi feroce l’evidenza con cui Visconti mostra l’inesistenza di Dio sulla scena di questo mondo: persino la promessa di un vita futura – il bambino che Giovanna porta in grembo – è calpestata. Cosa resta agli uomini se persino la speranza – e simbolo di speranza per eccellenza è il bambino, perché questi è la vita che prosegue nel momento stesso in cui oltrepassa quella degli adulti – è loro sottratta? Le lacrime di Gino, su cui, alla fine del film, indugia la macchina da presa, offrono una possibile risposta: la pietà, la pietà per se stessi e per i nostri miserabili compagni di afflizione. Sul volto di Gino appare la nuda vita, ma questa è vinta proprio dalle sue lacrime, dalla sua pietà. E in questa semplice pietà è racchiusa tutta la grandezza della condizione umana. Andrea Panzavolta