Prime pagine - Codice Edizioni

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Prime pagine - Codice Edizioni
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JOHN GRIBBIN
GALASSIE
TRADUZIONE DI MARIA ROMANAZZO
EDIZIONI
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John Gribbin
Galassie
Progetto grafico: studiofluo srl
Impaginazione:
Maria Beatrice Zampieri
Redazione:Alessandra Papa
Coordinamento produttivo:
Enrico Casadei
John Gribbin
Galaxies.A Very Short Introduction
© John and Mary Gribbin 2008
Galaxies.A Very Short Introduction
was originally published in English
in 2008.This translation is published
by arrangement with Oxford
University Press.
Galaxies.A Very Short Introduction
è stato pubblicato in inglese nel 2008.
Questa traduzione è pubblicata
in accordo con la Oxford
University Press.
© 2008 Codice edizioni,Torino
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-7578-118-7
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A mio fratello,
che mi ha suggerito di scriverlo
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Indice
IX
Introduzione
Capitolo 1
3
Il Grande Dibattito
Capitolo 2
15
A un passo dall’Universo
Capitolo 3
27
La nostra isola
Capitolo 4
45
Interludio: mediocrità galattica
Capitolo 5
51
L’universo in espansione
Capitolo 6
73
Il mondo materiale
Capitolo 7
95
L’origine delle galassie
Capitolo 8
115
Il destino delle galassie
129
131
133
Glossario
Bibliografia
Indice analitico
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Introduzione
La ricerca scientifica sulle galassie cominciò poco più di “sette, otto decenni” fa, come direbbe la Bibbia, poiché ebbe inizio negli anni Venti, quando per la prima volta si stabilì che
buona parte di quelle macchie sfuocate di luce che si vedevano con il telescopio erano isole nello spazio, ognuna costituita
da una miriade di stelle e situata ben oltre i confini della nostra isola e galassia: la Via Lattea. Senza i telescopi non avremmo mai potuto esplorare l’Universo che si trova oltre la Via
Lattea, né indagare la natura delle galassie, eppure ci sono voluti quasi quattrocento anni prima di riuscire a costruirne uno
in grado di farlo.
Per quanto ne sappiamo, il primo a scrutare il cielo notturno con un telescopio fu Leonard Digges, un matematico e
topografo che studiò a Oxford e che intorno al 1551 inventò
il teodolite. Uno strumento usato in topografia per rilevare
gli angoli, di grande importanza nel suo lavoro; ma che nessuno fino a quel momento aveva usato come telescopio, ovvero
rivolto verso l’alto. Scrisse in lingua inglese un testo, che oggi
definiremmo di scienza, tra i primi nel suo genere a godere di
buona fama. L’opera comprendeva una descrizione del modello tolemaico, con la Terra al centro dell’Universo. Leonard
morì nel 1559 ma il figlio Thomas ne seguì le orme. Nato negli anni Quaranta del Cinquecento,Thomas Digges divenne
anch’egli matematico e nel 1571 curò la pubblicazione postuma di un lavoro del padre nel quale, per la prima volta in
un’opera a stampa, si descriveva un telescopio.Thomas si de-
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dicò alle osservazioni astronomiche e nel 1576 pubblicò
un’edizione ampliata e corretta del primo libro del padre, includendovi la prima trattazione in lingua inglese del modello
copernicano, con il Sole al centro dell’Universo.
In questo testo, intitolato Prognostication everlasting, il giovane Digges afferma che l’Universo è infinito e in un’illustrazione, contenuta al suo interno, il Sole compare circondato
dalle orbite dei pianeti, al centro di una serie di stelle che si
estendono all’infinito in tutte le direzioni. Sappiamo che Digges possedeva almeno un telescopio, ragion per cui è lecito
supporre che l’abbia utilizzato per osservare la striscia di luce
che taglia il cielo di notte, la Via Lattea, e abbia così scoperto
che è formata da una innumerevole quantità di stelle.
La storia di Leonard e Thomas Digges potrà forse sorprendere perché solitamente si riconosce a Galileo Galilei,
all’inizio del XVII secolo, il merito di aver utilizzato il primo
telescopio, nonché di aver scoperto che la Via Lattea è costituita da stelle. In realtà, molte furono le invenzioni di modelli di telescopio nell’Europa nord-occidentale, tutte indipendenti una dall’altra; la notizia era giunta in Italia, attraverso i
Paesi Bassi, solo nel 1609. Galileo, servendosi soltanto della
descrizione dello strumento, ne costruì uno tutto suo – il
primo di una lunga serie – e lo indirizzò al cielo. Nel 1610 le
sue scoperte furono pubblicate nel Sidereus nuncius, l’opera
che lo rese famoso e che contribuì a creare la leggenda di
Galileo come primo astronomo ad aver utilizzato un telescopio. D’altra parte, esattamente come Digges prima di lui, Galileo notò davvero che la Via Lattea era formata da una miriade di stelle.
La comprensione di quale fosse il nostro posto nell’Universo non era tuttavia completa. Il passo successivo fu compiuto, a metà del XVIII secolo, da Thomas Wright, costruttore
di strumenti e filosofo inglese. Purtroppo, come accadde a
Leonard e Thomas Digges, il suo contributo venne pressoché
Introduzione
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dimenticato. Come ormai sappiamo, la Via Lattea è quella
striscia di luce che di notte attraversa il cielo;Wright, nella sua
opera An original theory or new hypothesis of the universe, pubblicato nel 1750, suggerì che si potesse trattare di una sorta di lastra di stelle, la cui forma paragonò alla macina di un mulino.
E non è tutto, in modo incredibile intuì che il Sole non era
posto al centro di quella lastra circolare bensì a lato. Inoltre,
ipotizzò che le macchie sfuocate di luce che si vedevano con
il telescopio, note con il termine di nebulose per la loro somiglianza con le nuvole, si potessero trovare al di fuori della
Via Lattea.Tuttavia, non compì quel salto mentale necessario
a ipotizzare che le nebulose, alla stregua della Via Lattea, fossero a loro volta sistemi stellari. Fu Immanuel Kant, un altro filosofo e scienziato, a raccogliere l’eredità di Wright e a compiere quell’ultimo passo, giungendo alla conclusione che le
nebulose fossero con tutta probabilità universi-isola come la
Via Lattea. Ma questa ipotesi non fu presa sul serio.
Con il progressivo perfezionamento dei telescopi venne
scoperta e catalogata una quantità sempre maggiore di nebulose. Uno dei motivi per cui la catalogazione fu condotta in
maniera così accurata era dovuto al fatto che gli astronomi
che operarono tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo
erano ansiosi di trovare comete, e a prima vista, tra la macchia
sfuocata di una nebulosa e quella di una cometa non c’era
molta differenza. Ecco perché Charles Messier, nel 1780 circa,
e William Herschel, che completò un catalogo nel 1802, cercarono di identificare la posizione delle nebulose in modo
tale da evitare ogni confusione. Il catalogo di Herschel comprendeva ben 2500 nebulose, la maggior parte delle quali ormai sappiamo essere galassie. Nel ventennio successivo, Herschel tentò di scoprire di che cosa fossero fatte le nebulose,
eppure neanche il suo telescopio più grande, con uno specchio di 1,2 metri di diametro, gli permise di capire che quelle
chiazze sfuocate non erano altro che stelle. Herschel morì nel
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1822 convinto che le nebulose fossero davvero nubi di materia sparse per la Via Lattea.
Il passo successivo nel campo delle osservazioni lo dobbiamo a William Parsons, terzo conte di Rosse, che intorno al
1840 costruì un telescopio enorme il cui specchio aveva un
diametro di 1,8 metri. Con questo strumento scoprì che le
nebulose avevano una struttura a spirale, simile al motivo che
compare quando si mescola la panna nel caffè. Nei decenni
successivi, alcune nebulose vennero identificate e descritte,
con certezza, come nubi di gas luccicanti all’interno della Via
Lattea, mentre in altre si riconobbero agglomerati di stelle, di
dimensioni estremamente inferiori rispetto alla Via Lattea ma
comunque a quella collegati. Le nebulose spirali, tuttavia, non
rientravano in nessuna di quelle categorie. Nella seconda
metà del XIX secolo, lo sviluppo della fotografia astronomica
ne facilitò lo studio, ma le fotografie così ottenute non avevano una qualità sufficiente a rivelarne la vera natura.
Agli inizi del XX secolo, la stragrande maggioranza degli
astronomi concordava sull’ipotesi che le nebulose spirali fossero nubi di materia che si sviluppavano intorno a una stella in
via di formazione, esattamente come il tipo di nube da cui si
riteneva si fosse originato il sistema solare. Ma nei due decenni successivi, l’ipotesi degli universi-isola tornò alla ribalta e
convinse la US National Academy of Science a promuovere un
dibattito sull’argomento.Vi parteciparono Harlow Shapley – al
tempo impegnato presso l’osservatorio del monte Wilson in
California, come portavoce di quella che era la posizione prevalente in ambito scientifico, ovvero il rifiuto della teoria degli
universi-isola – e Heber Curtis, dell’osservatorio Lick, sempre
in California, come portavoce di coloro che invece la sostenevano. Il dibattito si tenne il 26 aprile 1920 e passò alla storia
come il “Grande Dibattito”. Non riuscì a risolvere la diatriba
ma segnò l’inizio di un approccio scientifico moderno allo
studio delle galassie.
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Capitolo 1
Il Grande Dibattito
Due furono i temi che caratterizzarono il Grande Dibattito
astronomico che ebbe luogo il 26 aprile 1920: le dimensioni
della Via Lattea e la natura delle nebulose con struttura a spirale. Non si trattò di un vero e proprio dibattito, per la verità, i
due relatori parlarono per 40 minuti ciascuno presentando
ognuno la propria relazione, ne seguì poi una discussione pubblica sull’argomento. Il tema del convegno, che si tenne allo US
National Museum, l’attuale Smithsonian National Museum of
Natural History, riguardava “Le dimensioni dell’Universo”.
Shapley e Curtis avevano idee piuttosto differenti in merito,
l’anno successivo sarebbero state elaborate e poi raccolte in
due pubblicazioni scientifiche. In breve, Shapley era convinto
che la Via Lattea rappresentasse tutto l’Universo, o quantomeno la parte più importante, ed era interessato a misurarne le
dimensioni; Curtis, invece, riteneva che le nebulose spirali fossero galassie a tutti gli effetti, come la nostra, e intendeva quindi misurare anche il resto, ovvero ciò che andava ben oltre i
confini della Via Lattea.
Non è un caso che questo dibattito avesse luogo proprio
in quell’epoca: gli astronomi avevano infatti sviluppato da
poco alcune tecniche per misurare le distanze da un punto all’altro della Via Lattea. Le distanze dalle stelle più vicine, infatti, si possono calcolare utilizzando le stesse tecniche di rilevazione topografica che Leonard Digges avrebbe trovato di
certo familiari, a cominciare dalla triangolazione. Se si osserva
una stella vicina una notte ogni sei mesi, ovvero ogniqualvol-
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ta la Terra raggiunge l’estremo opposto della sua orbita intorno al Sole, la stella in questione sembrerà spostarsi leggermente rispetto alle stelle più lontane. Questo effetto parallasse è molto simile a quello che si crea quando si fissa un dito
chiudendo gli occhi alternativamente. A un certo punto, il
dito sembra cambiare posizione rispetto allo sfondo, e più il
dito è vicino agli occhi maggiore è l’effetto parallasse. Per misurare quindi quanto dista una stella dalla Terra non occorre
altro che conoscere spostamento della stella e diametro dell’orbita terrestre (che a sua volta si ottiene grazie alla triangolazione all’interno del sistema solare).
Purtroppo la maggior parte delle stelle è troppo lontana
perché sia possibile misurare tale effetto. Persino la più vicina,
Alpha Centauri, è in realtà così lontana dal Sole che la luce ci
impiega 4,29 anni ad arrivare (vale a dire, è lontana 4,29 anni
luce). Nel 1908 era stato ricavato con questo metodo solo un
centinaio di distanze stellari. Grazie ad altre tecniche geometriche, basate sulle osservazioni del modo in cui le stelle degli
ammassi vicini si muovono attraverso lo spazio, si possono
misurare distanze fino a circa 100 anni luce o, come preferiscono dire gli astronomi, fino a circa 30 parsec (un parsec
equivale quasi esattamente a 3,25 anni luce). Si trattava comunque di tecniche sufficienti a permettere agli studiosi del
tempo di mettere a punto l’indicatore di distanza più importante in campo astronomico.
Per meglio comprendere quanto fosse importante avere a
disposizione un nuovo indicatore di distanza basta guardare le
stime migliori relative alle dimensioni della Via Lattea prodotte nei primissimi anni del XX secolo. L’astronomo olandese
Jacobus Kapteyn contò quante stelle si potevano vedere in
porzioni di cielo tra loro equivalenti e da punti di osservazione diversi; di alcune stimò addirittura le distanze dalla Terra,
basandosi sulle tecniche appena descritte e in parte su quanto
le stelle apparissero deboli alla vista. Ipotizzò quindi che la Via
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Lattea avesse la forma di un disco, ampio 2000 parsec (2 kiloparsec) al centro e con 10 kiloparsec di diametro, con il Sole
posto più o meno nel mezzo. Ormai lo sappiamo, si trattò di
una stima molto bassa, dovuta principalmente al fatto, ignoto
a Kapteyn, che tra le stelle esiste una grande quantità di polvere, una sorta di nebbia che limita la nostra possibilità di osservazione attraverso la Via Lattea, fenomeno chiamato “estinzione interstellare”. Un po’ come accade a un viaggiatore
che, perso nella nebbia, si sente l’unico essere al centro del
suo piccolo mondo, così anche Kapteyn, perso nella nebbia
della Via Lattea, credeva di trovarsi al centro del suo piccolo
universo. Meno di cent’anni fa, la maggior parte degli astronomi era convinta che quel disco di stelle chiamato Via Lattea
in definitiva rappresentasse l’intero Universo.
Lo scenario cominciò a mutare dopo il 1910. Mentre lavorava all’osservatorio di Harvard, Henrietta Swan Leavitt scoprì che una famiglia di stelle, note come cefeidi, poteva essere
utilizzata come indicatore di distanza grazie al modo in cui
variava la propria luminosità. Le cefeidi brillano e si affievoliscono in maniera regolare e ciclica, sempre nello stesso modo.
Alcune completano il ciclo in meno di un giorno, altre ne
impiegano cento. La stella Polare, per esempio, è una cefeide
il cui periodo dura circa quattro giorni, anche se in questo
caso i mutamenti della luminosità sono così piccoli che diventano pressoché impercettibili a occhio nudo. Più luminose sono queste stelle, più tempo impiegano per completare il
proprio ciclo: fu questa la grande scoperta di Leavitt.Anzi, vi
è una relazione precisa tra il periodo di una cefeide e la sua
luminosità: una cefeide che impiega cinque giorni a completare il proprio ciclo, per esempio, è dieci volte più luminosa
di una cefeide che impiega undici ore.
Leavitt giunse a queste conclusioni studiando la luce che
proveniva dalle centinaia di stelle che formano la Piccola Nube di Magellano (SMC – Small Magellanic Cloud), un sistema
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stellare associato alla Via Lattea. Non conosceva la distanza della Piccola Nube, ma questo non era un particolare rilevante
perché le stelle che vi erano comprese si trovavano più o
meno tutte alla medesima distanza dalla Terra, era possibile
quindi confrontare la luminosità relativa delle varie stelle senza
preoccuparsi di capire se quelle più deboli erano tali perché
più distanti.
Nel 1913, il danese Ejnar Hertzprung misurò la distanza di
13 cefeidi vicine grazie alle tecniche di tipo geometrico e in
un secondo momento utilizzò le sue osservazioni e i dati raccolti da Leavitt per ricavare la vera luminosità di una ipotetica
cefeide campione con un periodo di un giorno.A quel punto
fu possibile ottenere la distanza di una qualsiasi cefeide semplicemente ricavandone la luminosità vera grazie alla scala tarata
da Hertzprung e al periodo, confrontando poi i dati ottenuti
con il grado di luminosità che la stella mostrava in cielo: quanto più debole, tanto più lontana, e lo si poteva misurare in maniera precisa. Inoltre, utilizzando la scala di Hertzprung per
misurare la distanza delle cefeidi, la SMC risultò lontana di almeno 10 kiloparsec. Una stima poi riconsiderata alla luce di
osservazioni migliori e della comprensione del fenomeno dell’estinzione interstellare, ma nel 1913 rappresentò un punto di
svolta. Ipotizzare che la SMC fosse così lontana significava che,
rispetto alla stima di Kapteyn, le dimensioni della Via Lattea
(ovvero dell’intero Universo!) erano aumentate in maniera
esorbitante.
Fu Harlow Shapley a ricavare a sua volta una scala di luminosità relativa alle cefeidi e a utilizzare quel metodo per rilevare forma e dimensioni della Via Lattea. Il suo contributo al
Grande Dibattito fu infatti basato proprio su questo.
La stima di Shapley della Via Lattea deve la propria chiave
di lettura al fatto che fosse in grado, grazie alle stelle variabili,
di misurare le distanze dai sistemi stellari noti come ammassi
globulari. Come suggerisce il nome, gli ammassi globulari
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sono sistemi stellari di forma sferica. Possono contenere centinaia di migliaia di singole stelle e raggruppare al centro dell’ammasso fino a mille stelle in un solo parsec cubo; una situazione ben diversa da quella che si ritrova nella nostra regione della Galassia, dove non esiste neanche una stella che
sia vicina al Sole di almeno 1 parsec. Si rilevano ammassi globulari sia al di sopra sia al di sotto del piano individuato dalla
Via Lattea. Shapley riuscì a misurare quanto fossero distanti e
scoprì che occupavano una porzione di spazio sferica, il cui
centro era situato in un qualche punto in direzione della costellazione del Sagittario, ma comunque a migliaia di parsec
di distanza dal sistema solare, vale a dire circa a metà della striscia di luce chiamata Via Lattea.
L’implicazione che ne derivò fu che quel punto rappresentava il centro della nostra Galassia e di conseguenza il sistema
solare risultava collocato pressoché ai margini. Nel 1920 Shapley arrivò a stimare il diametro nella nostra Galassia a circa
300 000 anni luce (quasi 100 kpc) e la distanza del Sole dal
centro della Galassia a circa 60 000 anni luce (quasi 20 kpc).
Sole
1. La distribuzione degli ammassi globulari (i pallini in figura) su un’unica parte
della volta celeste prova che il Sole è distante dal centro della Via Lattea.
© Jonathan Gribbin.