Noi donne e la vita dopo il tumore

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Noi donne e la vita dopo il tumore
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la Repubblica VENERDÌ 29 MAGGIO 2015
CRONACA
La ricerca
“Noi donne e la vita
dopo il tumore”
E ora arriva il casco
che salva i capelli
La novità per la chemio presentata allo Ieo di Veronesi
dove ieri 800 pazienti hanno raccontato le loro storie
N CASCHETTO che
congela i bulbi
capillari, e permette
così alle donne curate con la
chemioterapia di non
perdere i capelli. È la novità
presenta ieri all’Istituto
europeo per l’oncologia
(IEO) fondato da Umberto
Veronesi, che lo ha
sperimentato su 30 donne
ottenendo il successo
nell’85% dei casi. “Il freddo
diminuisce la perfusione
del sangue e il metabolismo
— ha spiegato Paolo
Veronesi, direttore della
senologia chirurgica —
frenando localmente
l’attività “distruttiva” dei
chemioterapici”. E mentre
l’esperimento si allarga ad
altre pazienti, ottocento
donne malate o guarite dal
cancro si sono riunite
nell’ospedale milanese, per
la prima volta dopo o
durante il loro viaggio,
raccontando anche che cosa
succede quando il male è
“tecnicamente” superato
grazie a operazioni, chemio
e radioterapia, ma la paura
e la difficoltà psicologica
possono restare fortissime.
Con un video-messaggio di
Emma Bonino che ha
spiegato i suoi “sette segreti
contro il cancro”, e la
presentazione di Daria
Bignardi e Monica
Guerritore, le pazienti
hanno raccontato la propria
esperienza e l’importanza
di nominare il tumore.
L’idea di una terapia
personalizzata, basata sul
profilo del Dna, è la nuova
scommessa del centro, dove
si mira a guarire sia il danno
fisico sia quello psicologico
per affrontare la malattia
con speranza e serenità.
Così, la “paziente” non sarà
più una persona passiva.
Come nelle storie di sei
donne che hanno affrontato
un tumore al seno.
U
EMMA BONINO
Alla giornata
milanese “Ieo
per le donne”
Emma Bonino,
reduce da una
chemioterapia,
in un
videomessaggio
ha parlato
di sette aiuti
per combattere
il cancro: “Il più
importante
è continuare
a progettare,
guardare
sempre avanti”
DARIA UBALDESCHI, 44 ANNI
DANIELA TURI, 62 ANNI
ELISABETTA CIRILLO, 28 ANNI
“Oggi aiuto le altre pazienti “L’alleanza con il medico “La malattia fa paura
a vincere le loro angosce” ti dà forza nei momenti bui” ecco perché parlarne”
«L
«H
«M
A MIA è una storia un po’ speciale, perché
sono allo stesso tempo una paziente e una
psicoterapeuta. Diciamo meglio: prima
di tutto una psicoterapeuta». Daria Ubaldeschi ha
44 anni e vive a Novi Ligure, nel sud del Piemonte. Ha superato i cinque anni dalla sua malattia e
dalle cure e da poco ha creato nell’Asl dove lavora
un gruppo di donne operate al seno che lavora insieme come forma di terapia. «Il punto centrale —
racconta — è ciò che significa essere state malate, con le cicatrici non solo fisiche ma interiori
che questo comporta. Dopo le
cure, c’è un “momento di risacca” per le pazienti, che è molto
difficile da superare, perché
questa è una malattia che coinvolge anche la testa. Amici e parenti ti dicono “stai bene, di che
cosa ti lamenti?”, ma tu puoi
sentirti malissimo, perché il tumore non c’è più e ora devi riflettere sulla nuova persona che
Dopo gli
sei diventata. Che è una donna
interventi
diversa da quella di prima».
la sensazione
Per Daria, la malattia deve acdella tua
quistare un significato, «altrimortalità
menti è solo un nemico contro il
è sempre
quale si combatte». Per questo
dietro
nel gruppo intervengono anche
l’angolo
un ginecologo e un chirurgo plastico. «Le donne che lavorano
con me sanno che anch’io sono
stata malata, anche se non si parla di me ma di loro». «Io — aggiunge — ho sofferto molto di più
quando il grosso degli interventi e delle cure è finito. Mentre ti stai curando, la sensazione di agire per proteggersi è fortissima e ti salva da molte
angosce. Dopo, arriva il momento più difficile, nel
quale la cura psicologica è spesso urgente». E il
pensiero della morte resta in sottofondo: «Lavoriamo con pazienti diverse, qualcuna ha già avuto delle recidive. La sensazione della propria mortalità è sempre dietro l’angolo e non può essere rimossa, ma trattata con grande delicatezza».
O 62 anni, sono ammalata da dieci, vivo a Roma e faccio la giornalista». Daniela Turi riassume così la sua storia di
paziente, una storia che ha alle origini la stessa
mutazione genetica di Angelina Jolie. «Allo Ieo —
racconta — il rapporto tra chi è curata e i medici
è così buono che ti sembra di non poterne più fare a meno. Io non mi sono mai fatta divorare dal
tumore, lo ritengo un piccolo clandestino pericoloso, ma lui non è me». «Per affrontare il tumore al seno da paziente non occorre una particolare forza, ma moltissimo amore, l’alleanza che si crea con i
medici e l’appoggio degli amici,
dei colleghi, di mio marito, che
non mi ha mai lasciata da sola in
questa lotta, e che essendo psichiatra sa che anche la sofferenza va tenuta sotto controllo
come la malattia. In dieci anni,
passi in sala d’aspetto molte
ore, ognuna con un interrogatiPassi in sala
vo cruciale. Hai le metastasi, opd’aspetto ore,
ognuna con un pure non le hai. E intanto cambi, e cerchi di diventare anche
interrogativo
meglio. Ti affidi totalmente ai
diverso. E
medici, e quando esci dallo Ieo
cambi, cerchi
trovi intorno a te una grandissidi diventare
ma disorganizzazione, una
migliore
frammentazione incredibile.
Qui a Roma non c’è neppure un
unico centro dove sia possibile
fare tutto, dagli esami come la Pet all’operazione
e alla chemioterapia, ed è molto angoscioso doversi rivolgere continuamente a persone che non
ti conoscono. Invece è proprio la relazione con i
“tuoi” oncologi a darti la forza, anche quando, come è successo a me, dopo cinque anni la malattia
ti ritorna. E tu torni da loro, e sai che la loro presenza è inestimabile, e che della loro formazione
fa parte anche la capacità di allearsi con la paziente. A Milano tutto questo esiste, in un sistema privilegiatissimo. Nel resto d’Italia no, e il rischio di sentirsi abbandonati è molto forte».
ENTRE fai le cure, ti svegli durante la notte e sei terrorizzata. E ti giustifichi: sono
malata, sto facendo la chemioterapia, è
normale. Quando non le fai più, ti svegli nello stesso modo, e non sai spiegarti il perché. Questo è l’aspetto psicologico che ti fa sentire più sola quando
le terapie sono finite». Elisabetta Cirillo ha 28 anni,
vive a Brescia, è a metà delle cure per una recidiva
ed è stata tra le prime pazienti a sperimentare il caschetto che può evitare la caduta
dei capelli, che su di lei ha funzionato nel modo migliore. «Li avevo molto lunghi, ora è solo un
carré castano, li ho tagliati perché così c’erano più possibilità di
tenerli. Ed è andata bene, contano tante cose, compreso il modo
in cui è fatta la tua testa. Non è
una questione di bellezza, non mi
importa di sventolare la chioma
o di far vedere a tutti come sono
folti i miei capelli. È una questione di identità, perché alla calvizie
Non ho perso
la mia chioma: le persone associano l’immagine
di malata di cancro, e in questo
per godersi
modo non riesci neppure a gole giornate
derti le giornate buone che hai
buone bisogna tra una chemio e l’altra. In Italia
mantenere
questo è un grande tabù, costrinla propria
ge le persone a pensare alla moridentità
te, anche alla loro, e questo non è
vero, perché molte malate guariscono. La malattia spaventa le
persone. Mi piacerebbe che diventassimo un po’
più simili agli americani, loro raccontano molto, forse troppo, noi quasi nulla». «La prima volta che mi
sono ammalata avevo l’incoscienza della gioventù,
mi stavo laureando — dice Elisabetta — Ora invece
sono un po’ più grande. Ma non voglio diventare il
mio cancro al seno, io sono un’altra persona. Ho
aperto uno studio di yoga, e appena posso torno lì a
praticare. La mia famiglia, il mio compagno mi hanno aiutato moltissimo. Ora la cosa che mi piacerebbe è che anche gli altri capissero che cos’è questa
malattia, e la guardassero con occhi diversi».
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Repubblica Nazionale 2015-05-29