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Edizioni Artescrittura
Collana
Autori della Community
Teresa Amendolagine
La treccia del latte
a
Narrativa
Edizioni Artescrittura
© 2009
Proprietà letteraria riservata
Edizioni Artescrittura
by Autori Online
www.artescrittura.it
www.autorionline.org
E-mail: [email protected]
A Lelia e Ulisse
che mi hanno dato la vita
a Lelia e Roberto
ai quali ho dato la vita
a Daniele e Margherita
che la proseguono.
PREFAZIONE
di Stanislao Nievo
I sogni e le illusioni sono necessari come l’acqua e
il pane e se non li diamo ai nostri figli con i suddetti alimenti, loro li vanno a cercare altrove. Magari un po’ dopo. Saranno i drammi e le commedie
della vita – se solo teniamo occhi ed orecchi aperti,
non importa dove – ad offrirgli il vestito per rintracciarli, magari in luoghi disdicevoli o consciamente poco afferrabili; ma tant’è, quegli alimenti,
che sono l’infanzia e la “dieta prima”dello spirito
da qualche parte appariranno, Virginia, barbona,
questo ci testimonia.
Virginia è sensibile e un po’, come tutti i nuovi
nati, ignorante. Cioè ignora, non sa, pronta ad
ascoltare chi parla, perché la donna è sensibilissima, intelligente. Fa un errore di generosità, e
forse di pigrizia mentale, attendendo dagli altri
qualcosa che solo il nostro urlo vitale può raggiungere, che solo il richiamo del nostro carattere
può assicurarci. Virginia invece lo cerca attraverso
un libro che non pubblicherà mai, accostando urgenze sociali dirette, comuni nell’ambiente cittadino un po’ anonimo ma non per questo meno
inciso in cui vive.
È una donna incapace di rinunciare – e fa bene –
ma anche di scegliere decisamente – e qui fa meno
bene. Potremmo dare un sottotitolo dai precedenti
illustri: Virginia o delle perplessità.
Virginia è una lottatrice che rilancia le sue oppor9
tunità, anche se ne esamina particolarmente la decisa influenza fisica. Intanto costruisce la sua
fiaba tramutando le possibilità in sogni narrati. Il
libro è sempre a colori. Il cerchio si chiude in attesa di una maternità di cui non vogliamo nella
prefazione narrare la straordinaria levità di pensiero e d’amore.
Tutto può essere trasformato, a cominciare da noi
stessi se sappiamo immaginare ed amare. Allora
la discesa nelle pagine diventa esperienza di verità
ed il calore della scrittura scioglie la solitudine più
intensa, attraverso un’originalità quasi surreale.
C’è un po’ di vittimismo conscio e femminile. Il figlio dapprima inventato, i dettagli romani di questa città sempre pronta ad offrirsi in forma
teatralmente intima e indifferente nella sua grande
accoglienza, hanno la capacità di trascinare il lettore verso la pagina seguente, grande arte dello
scrivere. L’attesa della quotidianità un po’ sfortunata , della poliedricità delle occasioni attuali,
pubbliche e private (mi pare che questo sia il vero
senso della globalità che ci permea tutti). Il perbenismo che militarizza un po’ la protagonista, tra
gatti, computer, case di riposo, arte, uffici e relazioni amorose è materiale in cui l’autrice mostra
una gustosa competenza anche se sfortunata.
Ecco il libro, e se vogliamo rendere l’introduzione
scrupolosa, aleggia nell’analisi anche un po’ di
freddezza voluta, quasi un analgesico della sofferenza, la sottigliezza mimetica della timidezza, l’eccessivo ricominciare delle avventure importanti e
la delusione sempre in agguato. Da leggersi senza
preoccupazione specialmente per chi, in segreto,
pensa di non aver vissuto realmente.
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Teresa Amendolagine che invece ha vissuto e vive,
ci conduce in questa particolarissima esperienza,
e rivela con chiara panoramicità l’affresco dai molti
dettagli, obliqui e pieni di chiaroscuri in una prosa
che scorre, come la vita scorre per una barbona.
Barbona eccellente che è anche – spesso in questa categoria – l’espressione del confine scabroso
della personalità cittadina e borghese in cerca di
individualità diretta, quella che accompagna milioni di noi. Il barbone è l’eremita di oggi, lo scrittore è il trovatore del nostro tempo, a volte ruvido
e un po’ pettegolo, dal canto evidentemente lanciato a narrare le nostre sconfitte sociali, che da
sempre commedia, dramma e tragedia privilegiano. E che fiaba e poesia (forse sono la stessa
cosa in spiriti di età diversa?) correggono a volte
in splendide pagine.
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Virginia, consumato il primo sonno, uscì dai cartoni in cui era avvolta. I botti, sempre più insistenti, l’avvisarono che l’anno stava per finire, ma
soltanto per lei sarebbe entrato il terzo millennio,
nella realtà era il 31 dicembre del 1998.
La fantasia le fece immaginare piazza dei Cinquecento vestita a festa per ricevere il nuovo anno. Le
cime dei lecci e dei pini fiorivano lampadine rosse.
Ghirlande di luci intermittenti scendevano dai
lampioni dando allo spazio circostante la sensazione di pulsare. La povera donna si sentiva al
centro di un enorme cuore in cui i treni e gli autobus irroravano la città di linfa umana.
Mancavano pochi minuti alla mezzanotte e la facciata della Stazione Termini, illuminata da lampadine bianche, dava ospitalità ai diseredati.
La barbona si raccolse nei panni, aggiustò la cartella che portava a tracolla e si stropicciò gli occhi
alzando gli occhiali. Udiva note lontane mentre i
canti del passato si confondevano con quelli del
presente.
“Die fahne hoch”… (*)
“Nais kong mautil ang awit ni inang mathal”… (**)
Le voci venivano verso di lei, modulate da un giovane nordico che camminava insieme ad una piccola donna orientale con in braccio un bimbo
(*) “In alto la bandiera”, canzone tedesca in voga negli
anni del nazismo.
(**) “Voglio ripeterti il canto della mia mamma”, ritornello
di una antica ninna nanna filippina.
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riccioluto e biondo. Un bimbo che non aveva partorito. Lui la spingeva avanti, lei saltellava cantando.
Lo scoppio di un petardo le mise addosso il tremore di quando era bambina, spaventata dal rumore delle sirene e dei carri che a lei giungevano
da lontano. Poi, come in una foto sbiadita, si vide
piccola, con le treccine legate sul capo e la manina
stretta da quella della mamma. Sentì la sua voce
che la invitava a ripetere “Angelo di Dio, che sei il
mio custode illumina, custodisci, reggi e governa
me che ti fui affidata dalla pietà celeste…”
Smarrita si guardò intorno. Ma perché gli angeli
avrebbero dovuto avere pietà di un esserino che
ancora non aveva fatto nulla né di bene né di
male? Era stata una bella bambina, le avevano
detto, sana, obbediente… forse lassù sapevano
quel che sarebbe accaduto… e allora perché affidarla ad un angelo distratto?
“Dove sei?” mormorò muovendo appena le labbra.
“Angelo Custode, non perdermi di vista, vieni, balliamo, finalmente è arrivato il duemila.”
Con cura ripiegò il giaciglio di cartoni, si appoggiò
alla vetrata e vide scendere lento, su palazzo Massimo, l’arazzo della Madonna di Pompei, appeso
un tempo al capezzale del letto dei suoi genitori. I
colori erano forti e lucenti come quelli di un tabellone pubblicitario. Mancavano le scritte.
Ave Maria? Sia lodato Gesù?
Allungò le mani per toccare l’immagine, come
quando da piccola le allungava per toccare i
piedini del bambinello ricamato, e come allora
non riusciva a raggiungerli. Protesa in avanti,
con le braccia alzate, sembrava che avesse rag14
giunto l’estasi della preghiera.
Si guardò le mani rugose e sporche...
“Dio, che vuoi ancora da me?”
La fine del millennio confondeva gli animi e gli
anni. Un garbuglio di credi, illusioni, disperazioni
e speranze. Virginia le sentiva addosso. Le vedeva.
Cercò di pulire il vetro degli occhiali con il bordo
della giacca senza riuscirci.
La società l’aveva portata per mano, come una
mamma. Per entrare nel duemila. Quel duemila
che tutti aspettavano, “Il sabato del villaggio”. Il
suo duemila. Le era sembrato sempre così lontano.
Aveva immaginato quella data scritta in cielo con
i numeri d’oro. Avrebbe voluto toccarla, come
avrebbe voluto toccare i piedi del bambino Gesù.
S’incamminò lasciando la stazione alle spalle. Si
sentiva leggera, signorina. Voleva ballare…
Quando era ragazza non era mai andata a ballare.
Anche alla mamma piaceva ballare, lo capì un
giorno mentre lo diceva al padre, abbassando il
tono della voce, come se si vergognasse.
Con un gesto cacciò il rigurgito della memoria, si
calcò il berretto sulla fronte e il viso largo e grinzoso quasi scomparve. Dietro le lenti sporche le
brillavano gli occhi, ma nessuno se ne accorse.
Il freddo era pungente, la Caritas aveva regalato
indumenti nuovi alla donna e il giubbotto imbottito la riparava bene, rendendola però ancora più
goffa.
Sulla piazza della stazione Termini si muovevano
pochi passanti. Il vagito del primo gennaio era
straniero. Roma, la sua città, vestita a festa più di
quello che meritava, apriva le danze. Accennò un
passo di valzer e quasi fosse sorretta da un ignoto
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cavaliere, si avviò verso piazza della Repubblica
dove la fontana delle Naiadi, sfacciata, allattava il
nuovo millennio.
Mentre il traffico inseguiva il ritmo del capodanno,
Virginia incominciò a ballare.
***
Lorenzo era stato un uomo con molto fascino ed
una forte personalità. Le difficoltà che la vita prescrive comunque, erano state per lui giochi sui
quali impegnare intelligenza e volontà. Aveva conservato i credi affettivi imposti dalla madre, rimasta vedova quando il figlio aveva appena passato
l’adolescenza. Aveva ricercato il fiato caldo della famiglia che sognava senza essere però mai riuscito
a dare quel che una famiglia richiede. La mamma,
una nobile del Galles, gli era stata accanto anche
nella maturità. Due donne Laura e Francesca lo
avevano fatto avvicinare al matrimonio dandogli
ciascuna una figlia, ma a nessuna si era poi legato. In cerca di nuove emozioni aveva chiesto di
sposare Virginia arrivata per ultima e lei aveva
continuato a prendere tempo prima di dargli una
risposta.
***
Non si sarebbe potuto riconoscere nella donna un
po’ curva, imbacuccata in abiti senza forma, la
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compagna di Lorenzo. Eppure Virginia si sentiva
osservata.
Quell’uomo tornava come tornavano i momenti del
passato, appoggiati alle strade, alle piazze, affacciati alle finestre delle case. La barbona ripassava
il sentimento d’amore, voleva riprovare le emozioni
ed i suoni legati al suo rapporto, lì, in piazza di
Torre Argentina aveva abitato e dove per arrivare
dalla stazione Termini ci metteva più di un giorno.
Le gambe le dolevano e quando c’era il sole, per
assorbirlo tutto, si accucciava sui marciapiedi facendosi rincorrere dall’ombra.
Spesso la notte la sorprendeva senza che si accorgesse del suo arrivo. Con lo sguardo in aria, come
fosse incantata, scendeva fra i ruderi del teatro
Pompeo in cerca della terra nuda per sdraiarsi ad
amare. Lontana dalla gente, mescolando fantasie
storiche a vibrazioni erotiche, sentiva Lorenzo,
ombra di pietra tra le pietre, diventare vivo. Lei,
che non era mai stata una donna passionale, ricercava la spinta del ricordo per concludere la voglia d’amore che la turbava ancora.
L’aspetto, imbruttito dalla vita all’addiaccio, nascondeva una fibra forte, vitale, che le faceva desiderare l’uomo come una volta. Per sentirlo vivo. Lo
immaginava allora a fianco, poi sopra e si frugava
fra i panni per stuzzicare i capezzoli come faceva
lui.
“Amooore” ripeteva consumandosi nello sforzo di
una passione lontana, trascinandosi nell’eccitazione che non voleva arrivare . “Ooh si, ooh si” ripeteva come una volta e se ne veniva come lo
avesse in corpo, con le gambe strette e la bocca
aperta che diventava arida.
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L’amplesso fantastico le serviva per allontanare il
freddo, invitava al sonno mentre il rumore del traffico diventava un suono melodioso che riportava
al passato. Povera donna!
La lunga fila di finestre all’ultimo piano del palazzo
di fronte molto spesso era spenta. Quando in
quella casa abitava Lorenzo le luci restavano accese anche se non c‘era nessuno ed a volte, restavano accese persino di notte. Un comportamento
che aveva fatto stizzire prima la madre e poi le figlie, ma che Virginia aveva sopportato sorridendo.
Un vizio pieno di esuberanza, ma anche di inconsce paure. Un’abitudine che aveva fatto dedurre
alla polizia la presenza di altre persone nell’appartamento il giorno in cui era avvenuta la disgrazia.
Una morte sospetta quella di Lorenzo. Una morte
inutile quella di sua figlia Lucia. Due vite spezzate
per non risolvere niente.
***
La targa sulla porta dell’appartamento di largo di
Torre Argentina indicava benessere e onorabilità.
L’ottone, sempre lucido, portava inciso a caratteri
gotici il nome del padre di Lorenzo, “Prof. Ruggero
Jaconis”. L’interno non smentiva la presentazione.
L’ambiente si addiceva perfettamente agli abitanti
anche se la severità dell’arredo aveva contribuito
ad alimentare il desiderio di trasgressione nelle ultime generazioni.
Lorenzo aveva conosciuto Virginia appena andato
in pensione. Era stato un dirigente dell’ENI, so18
cietà per la quale continuava a svolgere collaborazioni saltuarie. “Mi permette di guadagnare qualcosa e mi tiene sveglio con la mente” ripeteva alla
nuova compagna che non capiva la necessità di
dedicare ancora tanto tempo al lavoro quando insieme avrebbero potuto “godersi la vita”.
La buona posizione economica e la voglia di muoversi, che caratterizzava l’uomo, non avevano certo
bisogno di essere stimolati da quel lavoro, inoltre,
una villa a Gaeta lasciatagli in eredità dalla madre
che l’aveva acquistata quando da nordica convinta
si era convertita al calore del sud, lo teneva abbastanza occupato con i continui lavori di riparazione e le migliorie.
Virginia aveva finito per accettare i continui spostamenti del compagno, che andava spesso anche
all’estero per delle consulenze, senza chiedere
troppe spiegazioni. La posizione di donna di casa,
con la responsabilità di una famiglia, anche se
tanto diversa dal tipo di vita fatta in precedenza,
l’appagava e non le dispiaceva stare ad aspettare il
suo compagno presa dagli impegni casalinghi.
Passava il tempo libero mettendo in ordine soprammobili e cassetti, leggendo, affacciandosi
spesso alle finestre che davano sulla piazza attirata dal turbinio della gente, dalle automobili, dal
movimento di una umanità che osservava come se
fosse al cinema. Le piaceva la città, le arricchiva i
pensieri.
Era una donna paziente e anche quando Lorenzo
cambiava itinerario, dimenticando di avvertire, oppure ritardava o anticipava il ritorno, non se la
prendeva. Lui sapeva farsi perdonare. Diventava
gentile e non mancava di chiederle scusa. Era un
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uomo che sapeva controllarsi, nei momenti di
maggiore tensione, il suo nervosismo assumeva le
sembianze della tenerezza, una tenerezza forzata,
imposta dall’educazione che soltanto chi lo conosceva bene sapeva riconoscere come non vera. Con
tutti era sempre cortese, ma gli estranei in realtà
gli erano assolutamente indifferenti, mentre con le
persone con cui aveva rapporti continui come il
giornalaio, la portiera, il barista, si lasciava andare
alla cordialità ricevendone in cambio una forma di
rispettosa deferenza che giovò poi all’inchiesta
sulla sua morte.
Per le figlie aveva un debole. Profondamente orgoglioso del loro esistere ne riportava in positivo ogni
azione. Giovanna continuava a fare fotografie terribilmente anonime, ma per il padre Giovanna
possedeva una innata predisposizione alle inquadrature. Lucia aveva riempito la casa di ceramiche
crude, con la chitarra e con il sassofono si era cimentata in suoni strazianti, da un computer programmato alla Eco traeva poesie d’amore e
appunti privi di grammatica, ma per il padre Lucia
era una ragazza piena di talento.
Le mura di casa Jaconis raccoglievano quanto di
più vario avessero potuto mettere insieme le generazioni passate. Lorenzo le custodiva con la cura
del disordinato e quando cercava un oggetto girava
e rigirava per l’appartamento accarezzando con lo
sguardo tutto ciò che sfiorava, pronto a scoprire
cose nuove tra quelle già esistenti oppure a chiedere di altre che improvvisamente gli tornavano
alla mente. Non aveva fratelli o sorelle e le figlie,
ultime eredi, pareva non provassero alcun interesse verso quei mobili e soprammobili che ave20
vano accompagnato la loro infanzia. Soltanto
quando Virginia andò ad abitare nella loro casa
l’istinto del possesso uscì allo scoperto.
Il padre aveva trattato l’ultimo amore in modo diverso dalle precedenti fiamme. Sulla soglia della
terza età aveva cercato nella compagnia la completezza al sentimento che provava. Volle Virginia
a fianco e la figlia più piccola, che abitava, con lui
dovette accettare.
Il primo incontro con la ragazza fu cordiale, come
furono allegre le uscite per andare al ristorante, al
cinema, a teatro. La convivenza aprì la porta alle
difficoltà. Con Giovanna, la più grande, il rapporto
fu meno complesso. La giovane donna, già sposata
con un promettente dentista, si occupava soltanto
di sé e quando andava a trovare il padre e la sorella, che trattava come una simpatica conoscente
più che come una parente, si rivolgeva alla compagna del padre con estremo distacco accentuato
dalla perfetta educazione.
Virginia, convinta di dover fare parte della famiglia, era entrata nell’appartamento di piazza di
Torre Argentina portando con sé soltanto i ricordi
più cari, un cassettone primo ottocento, una bergère vecchiotta, due litografie di Nicola Simbari e
due piccoli tappeti persiani, ma trovò difficile trovargli posto. Ogni parete era piena, ogni stanza
portava l’impronta di chi vi aveva vissuto. Persino
nei letti la conca impressa dai corpi sui materassi
di lana raccontava di ospiti grassi o troppo vivaci.
Nello studio i libri ammucchiati sugli scaffali lasciavano appena intravedere la carta damascata
che aveva avvolto la lettura di Lorenzo bambino.
Pesanti bacheche di noce custodivano le insegne
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di famiglia, un cappello garibaldino e uno da cavallerizzo, un carnet da ballo e un bastone con il
pomo d’argento insieme ad altre cianfrusaglie più
o meno preziose. Ultime, ma non meno importanti,
una bambola di plastica scura e una casetta costruita con il Lego.
La cucina, immensa rispetto agli angoli cottura
che si andavano affermando, era stata rinnovata
da Scavolini e tra quella formica chiara Virginia
aveva tentato di rendere più confidenziale il rapporto con Lucia. Era lì che mangiavano quando
Lorenzo non c’era. Unico testimone il silenzio interrotto dai “Ne vuoi ancora?” alla fine di ogni portata a cui la ragazza rispondeva soltanto con un
cenno della testa.
Diversi erano i pranzi nella sala dove la figlia non
aveva voluto cedere il posto alla destra del padre.
Tra loro l’intesa sembrava perfetta. Chiacchiere e
risatine escludevano senza volerlo la nuova venuta, ma Virginia cercava di non farci caso. Le allusioni a parenti ed amici, che non conosceva, i
racconti di avvenimenti passati, i nomi di persone
sconosciute la forzavano ad entrare nella nuova famiglia senza riuscire a parteciparvi. A volte si sentiva a disagio, provava imbarazzo, ma l’istinto
materno la portava ad essere comprensiva con
quella ragazzina, figlia viziata e adorata dall’uomo
che amava.
Riuscì ad entrare nelle grazie di Lucia soltanto
quando una brutta polmonite la tenne a letto per
diversi giorni. La gravità della malattia e la debolezza dell’ammalata giocarono in favore della confidenza.
Trascorreva molte ore al suo capezzale. Le leggeva
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le notizie sui rotocalchi, commentando le fotografie più buffe. Dai quotidiani riassumeva gli articoli
e sfogliando i libri che la ragazza lasciava ammucchiati sul comodino, trovava sempre qualche pagina da segnalarle per la lettura. Era eccitata dal
ruolo di madre ed eccedeva in tenerezze e consigli.
Voleva trasmetterle le sue esperienze. Raccontava
le sensazioni che aveva provato quando era giovane adattandole a quello che pensava fosse il
modo di vivere del momento. Insisteva sull’importanza della fedeltà, della lealtà, dell’amore.
“Ma sei fissata…” l’interrompeva Lucia con la spietata sincerità dei giovani e Virginia mortificata azzittiva.
Alla madre, che passava a trovare la figlia quasi
ogni giorno, per pochi minuti perché aveva sempre fretta, la ragazza non rispondeva quasi mai.
Un’alzata di spalle, un girare lo sguardo altrove,
un gesto annoiato di cui la donna sembrava non
accorgersi.
Francesca assumeva l’atteggiamento dell’attrice
che deve seguire un copione. Lontana dalle reali
esigenze della figlia continuava a portarle libri in
prestito o in regalo pur sapendo che non amava
leggere.
“L’ho letto tutto d’un fiato” ci teneva a precisare
ogni volta che ne portava uno.
“È interessante, non metterlo da parte come fai
tu…” ripeteva baciandola sulla fronte prima di
uscire.
La ragazza non li sfogliava nemmeno ed era compito di Virginia metterli a posto. Per la donna un
piacere. Da quando aveva imparato ad apprezzare
i libri, la lettura era stata la sua più grande com23
pagnia, la sua maestra. Ne aveva approfittato per
capire il mondo, quel mondo che ancora la affascinava e nello stesso tempo ancora la spaventava.
Il mucchio diventava sempre più alto e Virginia
non riusciva a leggere i libri con stessa velocità con
cui Francesca li portava. Si era attardata soprattutto su di uno, decisamente usato, nel quale le
vistose sottolineature l’avevano incuriosita al
punto di volerlo leggere dandogli la precedenza su
altri già incominciati.
Le aveva tracciate la madre di Lucia? Francesca,
quella donna di cui non riusciva a capire il comportamento, così distratta… Forse attraverso quei
segni sarebbe riuscita a scoprire l’animo dell’ex
compagna di Lorenzo… L’animo della donna che
era in lei, di un’altra donna…
“Aurora”, il titolo, apriva l’immaginazione ad argomenti celesti. Le parole scorrevano riportandola al
sogno. Riportandola all’immediato passato. La
strada di Terracina, del Circeo, la strada dell’amore. Più giù Gaeta. La casa della madre di Lorenzo. La casa dell’amore. Anche per Francesca
aveva voluto dire qualcosa quella strada e quella
casa? Sentì vibrare in sé le corde della gelosia
mossa dai sensi.
La fantasia dello scrittore, Stanislao Nievo descriveva la vita in un intreccio strano. Reale e astrale
La donna come madre, in assoluto, fra costellazioni e spazio, nel luogo senza luogo. Nel tempo
lontano dal tempo. Una ricerca. Una dea, Mater
Matuta, che appare e scompare, ma c’è.
Tuta… come il nome della tata a cui lei aveva affidato Michele, quel figlio assurdo, voluto per forza.
Coincidenze?
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Seguendo il filo dell’irreale, uscì dallo scritto, entrò
nel vortice della propria mente e di quella di Francesca. Avrebbe voluto cancellare il tratto già tracciato dalla mano di lei per segnare soltanto il suo
passaggio. Avrebbe voluto. Si sentì “aurora”, ormai
prossima ad accendere il fuoco di quella luce che
segue la morte e illumina la nascita. Complice del
nuovo giorno. Madre di figli altrui, quei figli che
aveva cresciuto senza poterli avere. Diventò dea,
Mater Matuta, potenziale generatrice di forze
nuove, inconsce. Sentì sua Lucia, figlia di un’altra, comunque donna, futura madre. Di altre figlie, di altre madri. Fu fragile eppure forte. Di
terracotta, con mille braccia e mille pupi addosso.
Mamma di un sogno, padrona della sera che presto l’avrebbe raggiunta per renderla immortale.
Partecipe.
Con Lucia raddoppiò le cure. Lorenzo felice dell’armonia famigliare raggiunta, si presentò una
sera con un pacco infiocchettato dove aveva fatto
mettere un golfino di cachemire azzurro per la figlia ed uno scialle di angora rosso per la compagna.
Coppa della vittoria.
Ma Lucia, appena guarita, riprese l’abituale distacco. Virginia, insistendo, continuava a cercare
di interessarla ai fatti che avvenivano nel mondo.
Continuava a cercare di leggerle qualche articolo
di giornale. La incitava ad intraprendere un lavoro,
a darsi da fare in qualche attività, a scegliere un
cammino tutto suo. Per partecipare, lei, che conosceva le lingue così bene ed era giovane… tanto
giovane…
La ragazza non reagiva, anzi diventava ostile.
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Provò allora ad esserle amica. Le portava regalini,
l’abbracciava con affetto. Le confidava piccoli segreti come avrebbe fatto se fosse stata una sua
coetanea, ma il silenzio ostinato che riceveva in risposta le fece smettere ogni attenzione.
Tornò ad essere soltanto donna. Donna per il suo
uomo, come all’inizio, quando si incontravano nei
fine settimana, quando andare al cinema o guardare insieme un panorama diventava un modo per
scoprire la vita uno dell’altro attraverso il racconto
dei ricordi, attraverso le allusioni, gli incontri. Si
erano capiti subito e il parlare a volte era diventato superfluo, bastava uno sguardo per comprendersi. Poi la possibilità di vivere insieme aveva
acceso la loro unione di un nuovo entusiasmo.
Tornati giovani, anche se il nido era vecchio, furono felici.
Avevano approfittato delle vacanze di Lucia per il
trasloco.
Innamorati, avevano giocato con le piccole cose di
tutti i giorni. La spesa al mercato di Campo dei
Fiori era diventata per Lorenzo un motivo per offrirle ogni volta una rosa e la fioraia, vecchia conoscenza dell’uomo, “Sempre con un fiore in mano
lei…” scherzava dando lo spunto a Virginia di ingelosirsi del passato.
Cucinavano divertendosi. I risotti alla pesca di lui
erano imbattibili, le insalate miste di lei non finivano mai. Spazzolare i vestiti, spiumacciare i cuscini, rifare il letto, erano azioni che avevano
stimolato gesti d’amore antichi, ancestrali, anche
se quella casa non era la sua.
Il ritorno di Lucia aveva rotto l’incantesimo.
I cibi che piacevano a Virginia non erano graditi
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alla ragazza. Fino a mezzogiorno si doveva camminare in punta di piedi perché dormiva. Non si doveva mai rispondere al telefono prima che
rispondesse lei. Le sue camicette avevano la precedenza su ogni altro indumento da lavare o da
stirare e Maria, la donna che da molti anni faceva
le pulizie in casa, perdeva tempo a chiacchierare
nella sua stanza invece di fare i servizi. Ma andava
bene anche così per la nuova arrivata che sperava
ancora nel futuro.
***
Uscirono insieme padre e figlia la mattina di quel
terribile giorno. In silenzio. Lei con l’aria assonnata
ed i capelli arruffati slegò il motorino appoggiato
al lampione.
“Ciao pà” farfugliò e si sporse per prendere la carezza lunga di lui.
Virginia si rigirava nel letto. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, aveva sentito Lucia alzarsi più
volte e più volte si era alzata anche lei. Una brutta
lite avvenuta la sera prima aveva tenuto tutti svegli. Dopo anni di convivenza in cui la donna non
era mai intervenuta nelle discussioni di famiglia,
inghiottendo a volte pareri e conclusioni che le
gonfiavano il petto, quella sera si era intromessa.
Non aveva sopportato che la ragazza insultasse il
padre come non era mai successo, gli aveva dato
addirittura dell’assassino, e la reazione di Lorenzo
era stata per la prima volta violenta.
Il motivo della lite non avrebbe dovuto portare a
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tanto. Dove erano finite l’educazione e l’amore paterno?
Lucia voleva trasferirsi a Parigi per intraprendere
una professione che a suo dire le avrebbe dato
molte soddisfazioni. Voleva frequentare un corso
di alta cucina per poi aprire un ristorante che
avrebbe avuto sicuramente successo, affermava e
non aveva sorriso alle battute del padre che la dissuadeva elencando gli arrosti bruciati, i dolci
troppo dolci e le pietanze raramente portate a tavola. Le parole erano diventate spade dalle lame
taglienti. Da parte della ragazza le accuse alla società, alla famiglia. Da parte del padre l’ironia più
feroce degli insulti. Virginia aveva preso le difese
del compagno.
“Bugiardi. Ipocriti” urlava infuriata Lucia con gli
occhi pieni di lacrime e rivolta alla donna, “E tu
che stai sempre lì come un’oca in adorazione.”
Un turbinio di voci sempre più alte finché Lorenzo
non pose fine all’alterco dando uno schiaffo alla figlia.
***
La telefonata dei carabinieri arrivò alle 19,05. L’ora
rimase impressa alla donna perché su RAI 3, al telegiornale, commentavano l’approvazione del Senato al Trattato di Maastricht.
C’era stato un incidente.
Il futuro era arrivato troppo tardi.
***
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“Ti voglio bene… scusami per ieri sera…” aveva
detto Virginia la mattina nel salutare Lorenzo che
partiva per Zurigo. L’uomo si era voltato, era tornato indietro e con un sorriso mesto le aveva appoggiato la mano sulla spalla in un gesto pieno di
intenzioni. Lei, chinata la testa da un lato, aveva
sfiorato con la guancia la mano di lui.
Erano rimasti così per un lungo momento. L’ultimo gesto affettuoso. La disgrazia della ragazza
troncò per sempre ogni effusione.
***
Una tragedia la morte di Lucia come può esserlo
una morte giovane senza significato.
O lo aveva?
La ragazza di appena vent’anni era delicata come
un papavero nato sulla roccia. La massa di capelli
fulvi, che davano alla figurina un aspetto fiero e
volitivo, non dicevano il vero. Aveva passato l’infanzia lontana dalla madre occupata dal lavoro e
da un uomo sempre nuovo a fianco, e anche se
negli ultimi anni la donna aveva cercato di incontrarla più spesso, aveva lasciato nella figlia il bisogno della sua presenza, che andava cercando
nell’ottenere dagli altri ciò che più le piaceva. La
nonna paterna l’aveva tenuta con sé nell’appartamento di piazza di Torre Argentina e pur amandola
molto, non era riuscita a dare alla nipotina quell’abbondanza di baci e di carezze che ammorbidiscono il cuore. Alla sua scomparsa Lucia si era
trovata ancora più sola nella grande casa dove il
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padre aveva ripreso a vivere per starle vicino. Il
loro rapporto, fatto di cornetti caldi, di capelli aggiustati con mossa da intenditore maschio, di buffetti affettuosi e baci teneramente appoggiati sulla
nuca, si era così rafforzato.
Lorenzo comperava vestiti da favola che Lucia indossava una volta soltanto per fargli piacere e lei,
sempre per fargli piacere, preparava il cheesecake
alle fragole con l’aggiunta della ricotta, una ricetta
cara alla nonna. Fiera di essergli figlia, gli si buttava addosso ogni volta che si toglieva la giacca
lanciandola sul piolo del attaccapanni con un
gesto talmente ampio da lasciargli le braccia
aperte pronte per accoglierla. Un padre amato. E
se girava per casa a torso nudo, e accadeva non
solo d’estate, lo rincorreva per strusciarsi contro il
suo petto che con gli anni si era riempito di peluria grigia.
Virginia aveva disturbato l’idillio.
Estranee finché non si erano trovate a vivere insieme, le due donne, si erano accanite nello scoprire
attraverso i movimenti una dell’altra l’intensità del
sentimento che le univa allo stesso uomo. Rivalità?
Gelosia? Per la più anziana soltanto il desiderio di
capire, capire i movimenti della ragazza che le apparivano strani, pieni di curiosità morbosa. Aveva
scoperto che Lucia, acquattata dietro le porte delle
stanze dove lei si trovava con il padre li spiava. Più
volte l’aveva vista scappare dietro gli angoli per non
farsi scoprire. Incredula, ma a sua volta incuriosita,
aveva finito per seguire le mosse della ragazza, entrando nella spirale di un morboso gioco a rimpiattino che, se da un lato la faceva tornare all’infanzia,
dall’altro le metteva addosso un’ansia strana.
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L’assurda competizione cessò quando un giorno si
ritrovarono dietro la porta dello studio di Lorenzo,
dove tutte e due erano state attirate dal comportamento insolito di Antonio Serra, un amico venuto a far visita a Lorenzo senza avvisare. L’uomo
era entrato salutando appena. Virginia, che gli
aveva aperto la porta, lo aveva seguito preoccupata
e notando la reazione insolita del compagno all’inattesa presenza si era fermata ad ascoltare dietro la porta. Al di là dell’uscio parole monche,
alterate, frasi di cui non si capiva il significato. Le
voci si erano fatte alte ed era arrivata Lucia. Ma
che stava succedendo? Lorenzo non alzava mai la
voce. Le due donne si erano guardate complici, ma
nell’istante in cui si sfiorarono toccandosi con le
spalle, Virginia sentì l’impaccio della sua presenza.. Chinò la testa e “smettiamola, andiamo
via” disse come se parlasse a se stessa.
La reazione fu imprevista.
“Antonio è un nostro amico. Uno che ci vuole bene,
capito? E tu non c’entri, non c’entri niente, capito?
Sono anni che frequenta questa casa e tu non hai
il diritto di sapere che cosa dicono, vattene, vattene tu.”
Virginia si era allontana mentre le pareti, i mobili,
i quadri le venivano incontro come se fossero appartenuti ad un museo.
Il rispetto, dettato più dall’educazione che dal carattere di ciascuno, aveva accompagnato fino a
quel momento la convivenza in casa Jaconis, ma
dopo la visita di Antonio Serra l’atteggiamento
cambiò. Lorenzo sempre più distratto, qualche
volta era persino sgarbato. Virginia interveniva in
ogni discorso facendo domande su domande.
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Lucia, nervosa, si offendeva per ogni piccola cosa.
Sembrava che ognuno avesse avuto voglia di litigare, ma anche se la situazione venutasi a creare
portava ad una maggiore confidenza, non si potevano cancellare le esperienze che ognuno di loro
aveva vissuto separatamente e che ne condizionavano il comportamento.
La morte della ragazza aggravò la situazione. Virginia ne fu molto scossa. Un dolore che non aveva
mai provato, di riflesso, ma proprio per questo difficile da gestire. Cercò di alleviare la sofferenza che
Lorenzo nascondeva dietro un contegno e una rigidità eccessiva, ma non riusciva a trovare le parole giuste. I gesti erano insufficienti. Sempre di
più lui si isolava in un mutismo ostinato. Riprese
a viaggiare con maggiore frequenza e quando era
in casa si appartava per ore e ore nello studio.
Usciva e rientrava senza dare spiegazioni, spesso
senza neanche salutare.
Virginia divenne l’ombra che era stata Lucia.
Spiava i movimenti dell’uomo amato e come sua
figlia, rincorreva la fuga delle stanze alla ricerca di
quell’affetto ancora conteso. Fu perdente. A nulla
valse riproporsi giovane. Dormivano nello stesso
letto senza neanche sfiorarsi. Gli anni passati insieme erano stati troppo pochi per concedere l’immortalità al sentimento.
***
Uscire, uscire. Allontanarsi per non disturbare un
dolore che ingigantiva invece di diminuire. Virgi32
nia si inventava impegni che non avevano nessuna
importanza e tracciava percorsi sempre nuovi per
perdere tempo fuori di casa. La strada come salvezza.
Poi Lorenzo era morto.
Il distacco era stato atroce. Pieno di rimorsi anche.
L’aveva trovato Giovanna, che come era solita fare
da quando non c’era più la sorella, entrava senza
bussare con le chiavi che erano state le sue.
Il portiere aveva indicato Virginia alla guardia che
stava nell’androne e la donna, di ritorno da uno
dei suoi giri insulsi, aveva capito che di sopra era
successo qualcosa.
Tutto divenne irreale. Giovanna che raccontava e raccontava e raccontava. E piangeva. Non la smetteva
di piangere. La polizia con le domande. La pistola ai
piedi del cadavere, Virginia sapeva che era conservata nel cassetto? E Giovanna ne era al corrente?
Parlavano di suicidio. Neanche una lettera di addio.
Era così immenso il dolore per la perdita della figlia
da fargli dimenticare l’altra figlia? e la compagna che
viveva con lui non contava proprio più niente?
L’avevano portato via chiuso in un sacco di plastica grigia. La casa si era svuotata a notte inoltrata. Restò per fare compagnia a Virginia soltanto
Laura, la mamma di Giovanna. Non si erano mai
conosciute. Due donne che avevano contato nella
vita di Lorenzo, due donne che lo avevano amato.
Vegliarono la sua memoria parlando di lui, con riserbo, frapponendo alle parole lunghi silenzi. Il
mattino le trovò amiche.
***
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I giornali riportarono la notizia sulla Cronaca di
Roma poi il caso si gonfiò e gli venne riservato uno
spazio in prima pagina. Si sospettava l’omicidio.
Sulla Beretta calibro 22 le impronte non erano
chiare. La traiettoria della pallottola indicava un
cammino diverso. Per Virginia la prova del guanto
di paraffina. L’alibi che non aveva. Interrogatori
che non finivano mai.
Ma perché avrebbero dovuto ucciderlo?
Dalle domande aveva tratto sospetti. Dalle notizie
aveva tratto indicazioni. Nelle notti insonni la comprensione e il rispetto per l’uomo amato si trasformavano in rabbia.
Chi era stato veramente Lorenzo?
Ancora impersonò Lucia e divenne il segugio di
un’ombra. Chissà se lei aveva capito? Le frasi raccolte origliando dietro la porta tornavano alla
mente confuse, come tornava l’assurdità di alcuni
comportamenti.
Possibile?
Un giallo.
Povero Lorenzo, non era riuscito a mettere in pratica quei valori che aveva insegnato alle figlie, che
chiedeva agli altri.
Perché non si era lasciato aiutare?
Le indagini imboccarono due strade. Una indicava Giovanna e il marito come maggiori indiziati. Il testamento, stilato appena pochi giorni
prima, lasciava alla figlia la proprietà dell’appartamento di Roma, della villa di Gaeta, di
azioni e obbligazioni depositate in diverse banche. La lasciava inoltre beneficiaria di una cospicua assicurazione sulla vita. I sospetti erano
avallati dalla precaria situazione economica in
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cui si era venuta a trovare la coppia in seguito
ad alcuni investimenti sbagliati del dentista che
aveva il pallino degli affari. L’altra strada era
stata presa con cautela. Sulle perquisizioni fatte
alla villa di Gaeta, la stampa aveva taciuto, ma si
capiva che avevano portato a qualcosa di interessante.
Alcuni interrogatori scossero il mondo imprenditoriale. Fu ascoltato un ministro e negli ambienti
al potere ogni illazione diventò calunnia. Antonio
Serra, l’amico di Lorenzo, uomo senza una precisa occupazione, era stato fotografo, giornalista,
direttore di una rivista d’arte, ma con amicizie
eccellenti, abilmente riuscì a depistare i sospetti.
Soltanto i giornali continuarono ad accanirsi su
di lui.
Per gli inquirenti Virginia non doveva tenersi più
a disposizione. Poteva andare.
Ma dove?
La casa in cui viveva non le apparteneva…
Doveva fare presto. Far presto.
***
Via dei Giubbonari era sempre piena di gente.
Fruttava bene addossarsi all’angolo del largo dei
Librai. Bastava ammucchiarsi nei goffi panni che
la coprivano e gli spiccioli cadevano sul foglio di
carta stropicciato e sporco che a Virginia serviva
da piattino. Non c’era scritto nulla, ma le prime
due monete le metteva lei per invogliare la gente a
darle l’elemosina.
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La barbona improvvisava la giornata dondolando
sul sedere. Sembrava cantasse una nenia, invece
accompagnava i pensieri che correvano dietro ai
passanti.
C’era una scuola elementare lì vicino e il via vai di
mamme di bambini l’inteneriva, le ricordava i
bimbi che aveva accudito. Li avrebbe voluti abbracciare tutti insieme, poi uno alla volta, come allora…
Il prurito alla schiena la infastidiva e per farlo passare si alzava raggiungendo lentamente lo stipite
di qualche portone e si strusciava con violenza
quasi volesse strappare ogni indumento, poi, soddisfatta, tornava a sedersi nel solito angolo o raggiungeva la piazza di Campo dei Fiori, dove
certamente l’aspettava Lorenzo con una rosa in
mano. La rosa che la fioraia, forse riconoscendola,
ogni volta che la vedeva passare le regalava.
“Fiori in piazza e stelle in cielo… Armi per sparare.
Pace. Guerra.” farfugliava facendo il gesto di allontanare qualcosa da tutt’intorno. “Schegge d’umanità.
Bambini monchi… Cos’è in fondo un assassinio? Un
suicidio d’amore. Qualcuno lo sa e deve parlare.
Troppe rose nel fascio. Via, via le spine.” e cercava di
ripulire il gambo ferendosi le mani.
I piedi strusciavano sui sampietrini, lo sguardo vagava in cerca di lucidità. Virginia cercava gli occhi
di Lorenzo negli occhi dei passanti. Cercava quel
verde che l’aveva incantata. Qualcuno la guardava
accennando un sorriso pietoso, altri passavano
ignorandola. Quel verde così poco goduto, lei, che
si era nutrita di cemento ed aveva conosciuto gli
sprazzi di quel colore soltanto attraverso i buchi
delle tendine ricamate dalla nonna. Foglie, foglie
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di fiori e di frutti al mercato della piazza, da osservare, da mangiare. Chicchi colorati per sognare
attraverso il ricordo. Spicchi di umanità. Opulenza
e rigoglio della passione che ancora palpitava dentro.
Il pensiero correva oltre i suoi passi, raggiungeva
la sera senza che la donna se ne accorgesse e mentre lo scorrere delle ore cambiava la fisionomia dei
passanti che crescevano di età con l’invecchiarsi
del giorno, Virginia si rannicchiava al lato della
chiesa di santa Barbara e continuava a sognare
intrecciando il passato. In mano il cartoccio del
baccalà fritto, quello che solo Marcello sapeva fare
così buono e che da tutte le parti della città la
gente veniva a mangiare all’aperto, in piedi, in
fretta. Bollente che non si poteva tenere in mano.
Quello che il proprietario della bottega le offriva
ogni volta, quando si accorgeva della sua presenza, forse anche lui riconoscendola.
Ecco, Lorenzo è lì a fianco, sorride, le toglie dalle
mani il cartoccio bollente per non farla scottare.
Lorenzo che si ferma davanti al portone della
chiesa e mangia avido il suo baccalà, con un piede
sul secondo scalino.
Lorenzo.
Rotolano sui sampietrini come nel grande letto
della casa di Piazza di Torre Argentina e l’odore del
fritto che esce dal negozio si mescola a quello del
sudore. Ha mangiato troppo. Gli puzza il fiato. Virginia lo allontana. Il baccalà è ancora caldo. È
buono.
***
37
Perdere la casa non sarebbe stata poi la fine del
mondo per Virginia che ne aveva cambiate tante
di case da quando era nata nella stessa città dove
aveva sempre vissuto.
Cresciuta in un nucleo familiare chiuso, ristretto
alla vita semplice dei due genitori, i parenti erano
tutti nei paesi d’origine, da piccola aveva partecipato poco alle effusioni d’affetto contenute dall’educazione rigida del tempo. Il padre, Vito Ferrin
giunto a Roma da Treviso per essere assunto come
archivista al Ministero dei Lavori Pubblici e la
madre, Nunziatina Coppola, di Avellino, non erano
abituati ad esternare le proprie emozioni. Uniti dal
reciproco amore avevano formato una coppia affiatata ma schiva, poco aperta alle amicizie.
La casa di via Montebello aveva visto nascere
l’unica figlia, teneramente chiamata Ginietta, ma
la bambina era ancora molto piccola quando si
erano trasferiti in un altro appartamento. Di quegli anni la barbona non aveva ricordi, mentre della
casa di piazza Dante con il corridoio largo largo e
le stanze ampie, le era rimasto negli occhi il verde
delle foglie dei platani che ornavano la via e che
riempiva gli occhielli del ricamo fatto dalla nonna
sulle tendine appese alla finestra della stanza da
pranzo.
La piccola passava le ore a guardare oltre quei
buchi, oscillando la testa a destra e a sinistra per
vedere entrare e uscire il verde dal ricamo, come se
lampeggiasse, ma il gioco finì quando l’affitto
troppo alto costrinse i Ferrin a cambiare casa ancora una volta. Erano gli anni della guerra. L’incertezza copriva il futuro anche per chi aveva un
lavoro fisso. Nunziatina, Vito e la bambina anda38
rono ad abitare in via Messina, in un appartamento dove le proprietarie, due anziane signorine,
si erano conservate, l’uso del salotto e della cucina, oltre alla propria stanza, lasciando a loro il
bagno padronale, molto ampio. Se la coabitazione
fu difficile per la giovane famiglia, Ginietta non se
ne accorse. Era una bambina tranquilla, che parlava poco e passava il tempo giocando con la fantasia e quelle due anziane signorine che le
regalavano ogni tanto una caramella, bastavano a
distrarla dalla monotonia della vita di tutti i giorni.
Appena arrivati gli alleati a Roma, Nunziatina,
volle dare dignità alla famiglia e cercò nei dintorni
una diversa sistemazione. Trovò un piccolo appartamento in piazza Alessandria. Le finestre affacciavano sul mercato dove si apriva anche il
portone. Virginia dormiva nella stanza da pranzo
in una poltrona letto che di giorno arricchiva l’arredamento. Il frastuono che saliva dalla strada e il
vocio della gente con il rumore dei motori dava il
ritmo ai movimenti della famiglia. Il primo ad
uscire era il padre svegliato dagli ortolani che scaricavano la merce. Scendeva lento le scale accompagnato dalle loro grida. Assonnato e infelice. Il
lavoro non lo aveva mai soddisfatto e la malinconia
che si portava addosso non nascondeva la sua tristezza. Poi usciva Virginia, spronata dai richiami
dei venditori, saltellava sugli scalini contenta di
andare a scuola. Ultima la madre. Faceva la spesa
appena prima che le bancarelle chiudessero,
quando gli ambulanti svendevano la merce per invogliare agli acquisti di fine giornata. Le difficoltà
affrontate durante la guerra ancora spronavano
tutti a fare economie.
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Piazza Alessandria era vicina al Piazzale di Porta
Pia, la famosa porta, detta Pia dal nome del papa,
Pio IV, che nel 1564 l’aveva fatta ricostruire sui ruderi dell’antica porta Nomentana. Lì Ginietta veniva portata a passeggiare, ma nessuno le aveva
raccontato che era stata disegnata da Michelangelo.
La ragazzina era affascinata dal gioco delle automobili che passavano intorno alla Porta come fossero girandole di latta. Le sarebbe piaciuto averne
una tutta per sé, come le sarebbe piaciuto conversare con quel soldato con le piume sul cappello,
che nella posizione della corsa restava immobile al
centro della piazza. Soltanto un monumento per
lei, ma dedicato ad un anonimo bersagliere, in memoria della Presa di Roma di cui lei non conosceva
la storia. Possente e vigoroso, il bronzo aveva accompagnato i sogni della sua prima adolescenza,
ma anche le prime delusioni dell’infanzia quando
passeggiando con la manina in quella del padre
chiedeva insistente “…e perché non suona la
tromba?” e lui le rispondeva sempre la stessa frase
“Perché l’ha già suonata” accennando un sorriso
che era sempre uguale.
Appena le vibrazioni della nascente sessualità incominciarono a farsi sentire, fu quel corpo maschio a ispirare i suoi sogni. Si incantava a
guardarlo sentendosi turbare e più di una volta
era stata sul punto di finire sotto un’automobile
distratta dal sorgere di un giramento di testa accompagnato da uno strano languore.
La Roma di Virginia era quindi una Roma che si viveva e basta. Troppi gli affanni della sopravvivenza
per dare spazio al racconto della storia e dell’arte.
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I monumenti e le fontane facevano soltanto da riferimento ai luoghi dove ci si doveva recare e
quando da bambina li sentiva nominare oppure ne
sentiva parlare con entusiasmo da qualcuno, non
ne capiva l’importanza ma si vergognava a chiedere spiegazioni. Per questo confondeva la fontana
di Trevi con quella dell’Acqua Felice a largo di
Santa Susanna, e passandoci davanti si chiedeva
cosa ci fosse di così bello in quell’enorme statua
con le corna, meravigliandosi che quei leoni senza
grazia che la rifinivano potessero essere oggetto di
tanta ammirazione. Le piaceva e molto, invece, la
graziosa finestra che si apriva a fianco della fontana. Le ricordava le favole e i racconti. Immaginava di vivere dietro quei vetri antichi e di
affacciarsi, con le treccine diventate bionde, pronta
a sorridere all’ignoto bersagliere che dal monumento di Porta Pia le confondeva i sensi.
Adolescenza! Suono di trombe e di organi festivi.
Speranze e sogni. Il bersagliere muto l’avrebbe raggiunta per abbracciarla.
***
Uscì sposa sulla piazza una mattina di aprile e
tutto il mercato si fermò per ammirarla.
Il vestito era una nuvola bianca presa in prestito.
La mamma di Virginia aveva imparato a fare le
iniezioni. Non era diplomata infermiera, ma aveva
una mano così leggera da essere richiesta da molte
persone nel quartiere.
Passava di casa in casa guadagnando quei soldi
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che le assicuravano una vita più confortevole di
quel che il magro stipendio del marito permettesse. Il pensiero del matrimonio della figlia le dava
molta agitazione. Avrebbe voluto una cerimonia
fantastica. Avrebbe voluto quello che lei non aveva
avuto, sposata in fretta, con i genitori contrari alle
nozze ed i suoceri che l’avevano accettata con indifferenza. Iniziò a comperare lenzuola e asciugamani per completare la dote, ma per l’abito da
sposa non sapeva proprio come fare. Fu la contessa Vergano, una delle sue pazienti, che le venne
in aiuto prestandole il vestito della figlia. L’anziana
signora, costretta a letto da una dolorosa artrite
deformante, aveva stabilito con Nunziatina la confidenza che nasce dalla continuità degli incontri.
Aveva seguito attraverso i racconti della donna il
fidanzamento della ragazza per la quale provava la
tenerezza accondiscendente che si nutre verso chi
è più povero o più infelice, una giovanetta timida
che arrossiva in fretta e quel rossore improvviso
che le coloriva il viso lo avrebbe voluto vedere sulle
gote di sua figlia, sicura di sé, audace nei discorsi
e impertinente con i parenti.
L’abito sembrava disegnato apposta per Virginia
anche se la sontuosità che Schubert aveva messo
nel crearlo non si addiceva alla semplicità della cerimonia e del rinfresco offerto a pochi intimi Una
favola! Il giovane marito però non era principe, né
assomigliava al bersagliere di Porta Pia e la fidanzata non aveva poi palpitato così tanto per tenerlo
fra le braccia. La finestra a fianco della brutta fontana non era stata complice dell’amore come non
lo erano state le trecce brune tagliate per far posto
alla permanente. Era stata la mancanza del42
l’ascensore nel palazzo dove abitava Virginia che
aveva sorriso ai giovani e sul ballatoio dove nascevano i rapporti di buon vicinato, quel ragazzo che
andava a fare lezioni private al figlio della signora
che abitava a fianco, aveva incuriosito la ragazza.
Le pareti dell’androne, ancora scrostate dalla miseria della guerra, assorbirono il respiro del sentimento. Lui salendo faceva gli scalini a due a due,
lei scendeva saltellando. Si sorrisero e fecero in
modo di aspettarsi sul portone per uscire insieme.
Il giro della piazza per sfiorarsi la mano. Un saluto
affacciati alla ringhiera per essere felici. Quando
la mamma di Virginia lo invitò ad entrare sentirono suonare tutti i campanelli.
***
L’appartamento dove gli sposi andarono ad abitare, a pianterreno di una palazzina appena costruita, al limite della città, nel quartiere di
Monteverde Nuovo, era stato scelto perché l’affitto,
economico rispetto alla modernità dei servizi, garantiva quel benessere che nella società si incominciava a ricercare. La casa era circondata da un
giardinetto metà pavimentato, metà in attesa delle
piante. Le finestre basse ed il soffitto che quasi si
toccava avrebbero dovuto cullare i vagiti d’amore
della coppia, ma Carlo De Rossi, il marito di Virginia, dell’amore aveva un concetto assai discreto.
Appena assunto come impiegato alla Centrale del
Latte si era voluto sposare spinto dai genitori che
avevano un concetto assai tradizionale della fami43
glia e incitato dalla madre e dal padre della ragazza
che lo trovavano “tanto bravo e con una posizione
così buona…” Il viso, di una bellezza tranquilla,
era illuminato da grandi occhi azzurri e dava al
corpo esile, non alto, un aspetto per bene. La dolcezza e il rispetto che aveva dimostrato nei confronti della ragazza avevano conquistato la sua
fiducia. Era diventato un amico e per lei che di
amiche non ne aveva mai avute, trovare chi l’ascoltava, ma soprattutto chi si interessava ai suoi discorsi, fu motivo d’amore.
Molte notti passarono prima che i modesti approcci di Carlo diventassero appena qualcosa di
più. Molti giorni passarono prima che Virginia si
rendesse conto della verità.
Educata a non prendere in considerazione il sesso,
attenta alle parole della mamma che intercalava i
discorsi con “ eh, gli uomini… ci vuole pazienza…”
e con la scuola che aveva continuato ad insistere
soltanto sul valore delle virtù tipicamente femminili, si era concessa con la sottomissione che le
avevano insegnato. Il diploma di maestra d’asilo
l’aveva aiutata nell’essere comprensiva e non si
rendeva conto di quanto le spettasse come moglie.
Era stata comunque orgogliosa di poter diventare
signora e quando nei negozi la chiamavano signorina, gesticolava con la mano sinistra per far vedere la fede.
“E un figlio non lo fate?” insistevano i parenti.
La domanda coloriva le guance di Virginia. La numerosa famiglia da cui proveniva il marito avrebbe
voluto aggiungere subito un nipotino alla folta
schiera di bambini messa al mondo dai fratelli e
dalle sorelle, tre maschi e tre femmine, tutti più
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grandi di lui. I De Rossi avevano lasciato Bucchianico, nelle Marche, appena finita la guerra, per
stabilirsi a Roma ed ogni figlio che si sposava non
si allontanava molto dalla casa dei genitori, ai limiti di Monteverde Vecchio, per ricreare quel modo
di vivere pieno di complicità, aiuto reciproco e affetto che si sviluppa in un piccolo paese.
Virginia, pur gradendo le loro attenzioni, si comportava in modo schivo, poco abituata all’eccessivo coinvolgimento che spesso unisce e
caratterizza le famiglie numerose.
Fu Vito Ferrin a capire che qualcosa nel matrimonio della figlia non andava. Riuscì a ottenere timide confidenze e consigliò al genero un bravo
medico.
Non furono gli anni che avrebbero dovuto essere.
Non portarono bene alla coppia. La mamma di Virginia si ammalò di un brutto male. Il padre, cagionevole di salute, se ne andò stroncato da un
edema polmonare. Medici e medicine distrassero
la ragazza dai problemi coniugali. Quando si trasferì dalla madre per assisterla, Carlo approvò la
decisione con sollievo.
Le ore passate al capezzale della donna morente
riempivano di tristezza la giovane sposa e quando
la poveretta si addormentava, imbottita di morfina,
restava immobile, attenta ad ogni fruscio, perdendosi nei pensieri. Pensieri di un tempo. Sommessi,
come se fossero tangibili, mentre il soffitto buio si
illuminava di strisce saettanti, lente, che le automobili riflettevano passando ignare di quello che
avveniva nella stanza. Come passava la vita! La sua
era ancora all’inizio e le sembrava già troppa.
Guardava le strisce luminose con lo stesso inte45
resse di quando era bambina e dalle persiane
chiuse lasciava entrare il sogno del bersagliere
muto. Ma muto era l’amore. La luce lentamente attraversava il soffitto lasciandolo poi nudo. Sul riflesso delle automobili faceva scivolare i desideri di
moglie, di madre, di figlia. Luce ed ombra. Ombra
senza luce. Riflessi che come lei erano incapaci di
procurare una qualsiasi reazione. Avrebbe voluto
morire, come stava facendo la madre.
La mancanza del padre non l’aveva turbata. Un
uomo di carattere chiuso, che quando stava in
casa parlava poco… Soltanto dopo che se ne era
andato le tornava alle orecchie la sua voce. “La mia
Genietta… la mia Genietta”. Poche parole per racchiudere i sentimenti che non era riuscito ad
esternare in vita.
Genietta, genio.
Non era ironia la sua, ma affetto. Virginia era stata
una bambina tranquilla, bravina a scuola, senza
però mai essersi distinta in nessun campo. Certo
non era stata un genio, ma il papà si ostinava a
crederlo. “La mia Genietta…” Aveva accontentato i
genitori o li aveva delusi? Non se lo era mai chiesto, non lo sapeva. Loro non le avevano mai fatto
capire ciò che pensavano, sempre pronti a soddisfare le sue richieste che non erano capricci, ma
soltanto desiderio di piccole cose un po’ diverse da
quelle che si avevano intorno o da quelle che si dovevano fare.
Li avrebbe rimpianti?
Di certo si sarebbe sentita più sola.
***
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Il tempo si trascinava nell’appartamento di Monteverde Nuovo senza segnare alcun cambiamento.
Carlo evitava ogni discorso riferito ai rapporti intimi e Virginia passava le giornate in compagnia di
Roca, una bastardina che doveva il suo nome al
modo di abbaiare. Era entrata nel giardinetto
senza essere invitata e quando nacquero sette
buffi cagnolini, delizia dei passanti che si fermavano a scommettere sulla loro razza, Virginia si
sentì viva. Passava le ore osservandoli, puliva il
giardino, la cuccia, riempiva le ciotole di latte improvvisandosi mamma. Attirata dal profumo dell’affetto anche una gatta randagia venne a
partorire nel giardinetto, ma dal lato opposto, per
non essere disturbata. Nacquero cinque micini che
miagolavano in continuazione, chiedevano latte,
tanto latte anche loro.
Latte.
Latte per nutrire i cuccioli affamati. Latte che lei
non poteva avere. Latte da prendere in prestito.
Come il vestito da sposa. Chiese aiuto a Mario, il
cognato, che conduceva un camioncino della Centrale addetto al rifornimento delle latterie nel centro di Roma. Mario voleva molto bene alla coppia,
un bene da fratello maggiore, carico di bonomia e
nello stesso tempo di autorità, era stato lui a fare
assumere Carlo come contabile nella azienda dove
lavorava da anni e tra lo scherzoso e il serio non
mancava occasione per ricordarglielo.
“È fatto così, non lo fa apposta…” lo difendevano i
parenti. Quel comportamento però metteva anche
Virginia in imbarazzo, la faceva sentire come il marito, inferiore, dipendente… ma poi quando suonava il clacson allegramente e appoggiava i cartoni
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pieni di latte sul muretto scherzando sulla quantità di mammelle che aveva dovuto strizzare per
accontentare tutti quei cuccioli, alla cognata veniva voglia di essere allegra.
Mario aveva gli stessi occhi azzurri di Carlo con
una vena di viola che li rendeva più intensi. Lo
stesso sorriso, ma più rapido, pronto ad esplodere.
Il corpo massiccio sprigionava quella vigoria che
Virginia avrebbe voluto trovare nel marito.
Una chiacchiera, un caffè, una battuta con quell’accento marchisciano che distingueva la parlata
di tutta la famiglia e la giornata sembrava poi
meno noiosa da passare. Divenne un gioco fare insieme le consegne. ”La mia lattaia” scherzava lui
sfiorandole con le dita la guancia come si fa con
una bambina. “Il mio autista” rispondeva lei sentendosi avvampare.
Avvenne alla fine dell’estate, oltre le case, su un
prato, a mezzogiorno. Raggiunsero l’ombra di un
leccio. Fu il battesimo dell’amore.
***
Dopo la morte della madre Virginia si era presa
soltanto pochi pezzi del mobilio di famiglia, quelli
a cui era più affezionata e che sarebbero potuti entrare nella sua casa arredata, come voleva la
moda, con mobili svedesi. Le era dispiaciuto dar
via la stanza da letto stile Chippendale, che era
stato il punto di riferimento suo e dei genitori e le
cui venature del legno l’avevano fatta sognare
come se avesse davanti un mappamondo. La vec48
chia poltrona che completava l’arredamento e dove
gli ultimi tempi la signora Nunziatina passava dolorosamente le ore, la lasciò coperta dalla fodera
di cretonne a fiori cucita dalla mamma e la appoggiò in un angolo del saloncino. Al cassettone della
nonna, che l’aveva vista crescere insieme a una
parte del corredo conservato nei cassetti, trovò
posto nella parete di fronte alla porta d’ingresso.
Aveva voluto portare via anche la scrivania regalatale dal padre, ma soltanto perché piaceva a Carlo.
Era un tavolino piccolo, più basso del normale e
lei ci stava rannicchiata davanti sulla sedia di
legno a cui avevano fatto segare un pezzo delle
gambe per abbassarla. Mise la scrivania nella
stanza da letto e buttandoci sopra una tovaglia ricamata ottenne una buffa toilette senza specchio.
Gli altri ricordi di famiglia, erano entrati in una
cassa che aveva appoggiato in cantina. Il resto lo
aveva regalato a una vicina di casa che frequentava la parrocchia e che aveva alzato gridolini di
gioia nel portarsi via, come se fosse in processione,
l’arazzo della Madonna di Pompei, che aveva ornato il capezzale del letto dei genitori. Sposi formali, il passato e il presente si strinsero nel nido
d’amore senza allacciare fiocchi. La casa, priva di
un patriarca, divenne sempre più stretta per la
giovane donna che passava ore e ore seduta sulla
poltrona della madre, alzandosi soltanto per accarezzare il mobile della nonna come se fosse una
persona viva.
Inquietudine. Malinconia.
Turbamento.
Pensieri, pensieri erranti, pensieri d’amore. Di
cuore. Di vitalità che non voleva essere repressa.
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Prigioniera di una adolescenza allungata sentiva il
bisogno di crescere. Un foglio di carta trovato per
caso la spinse a disegnare il percorso dell’anima.
Da prima segni sgarbati, ripetitivi, ossessivi. Poi
parole accatastate senza verbi, infine frasi che non
erano poesie ma potevano esserlo. Comperò un
quaderno. Venne fuori un diario che diario non
era, anche se puntigliosamente annotava il giorno
e l’ora in cui lo riponeva.
Il mobile della nonna le venne in aiuto come nascondiglio e come quando bambina infilava tra gli
asciugamani una caramella da conservare o qualche pezzo di una bambola rotta, così il quaderno
trovò posto tra le tovaglie ricamate. Non seppe mai
come il segreto sgusciò da quel cassetto, ma Carlo
cambiò atteggiamento. La sensibilità che si accentua nei deboli e nei sofferenti lo rese partecipe. A
suo modo cercò di combattere. Di notte la stringeva al petto senza aggiungere altro, al mattino la
salutava con più effusione. Le portò un mazzo di
margherite gialle, tornò con il gelato al pistacchio
che a lei piaceva tanto, una scatola di biscotti, un
vassoio di bignè farciti al cioccolato. Ma Virginia
non volle tornare ragazza. Ricominciò a passare le
ore guardando il soffitto spento. Le saracinesche
non permettevano ai riflessi di giocare con le luci
e lei non voleva più giocare con le ombre. Le si richiuse il cuore. Teneva in grembo gatti e cani come
fossero orfani. Non più latte, ma lacrime e carne
per nutrirli.
La famiglia incombeva. Mario era dovuto uscire
dalla sua vita. Il quaderno impresse sulle pagine
l’alone del dolore. Roca che le scodinzolava intorno, non era festosa.
50
Doveva fare qualcosa.
Decise di andare via e con la stessa ostinazione
con cui aveva ripetuto la Tavola Pitagorica che non
voleva entrarle in testa, imparò a stenografare e a
scrivere a macchina. Trovò una famiglia per ogni
cucciolo, e come una madre coraggiosa, ogni volta
che ne consegnava uno, cercava di reagire al dolore sorridendo. Ma alla faccia livida di Carlo che
l’aiutava a salire sul taxi con le valige in mano, non
riuscì a sorridere e si buttò sul sedile affranta,
senza piangere.
***
Aveva 27 anni Virginia e pur sentendosi già vecchia la gioventù che sopiva in lei aveva voglia di
svegliarsi.
La nuova vita le si aprì piena di speranze e nello
steso tempo vuota.
Anche se modesto, l’impiego trovato nello studio
di un notaio la fece sentire importante, capace di
provvedere a se stessa. Finalmente Virginia. E
anche se si presentava ancora con il cognome del
marito capiva di essergli appartenuta soltanto per
quella parte di animo che appagava l’istinto di moglie e di madre.
Carlo si era comportato da signore. Aveva sostenuto le spese legali per la separazione e il milione
e mezzo che il giudice le aveva assegnato in sostituzione dell’assegno mensile, le era sembrato una
somma che non doveva finire mai.
Si era trasferita da Maria Rosa, una studentessa di
51
giurisprudenza, che faceva pratica dal notaio
Roggi dove era stata assunta come dattilografa. La
ragazza le aveva offerto di dividere la stanza a due
letti che abitava ospite pagante di una vedova. La
soluzione non era quella sognata, ma le avrebbe
permesso di spendere poco e di stare in compagnia.
Cambiare quartiere fu come cambiare città. Il palazzo si trovava in via Agrigento, non lontano dall’università. Una zona abitata da professori e
dignitose famiglie che arrotondavano le entrate affittando le camere agli studenti. Virginia percepiva
l’umore delle strade come non le era mai capitato.
Lo sentiva diverso da quello assorbito nei due
quartieri in cui aveva vissuto fino a quel momento.
Da ogni passante, da ogni palazzo acquisiva l’esperienza della novità. Non aveva mai osservato Roma
in quel modo, attenta a ciò che si custodiva nelle
case, a ciò che dietro ogni muro, ogni negozio si
nascondeva. Un modo nuovo per sentirsi viva.
Anche la gente le sembrava diversa, nel vestire e
nei movimenti, come era diversa l’architettura dei
caseggiati, il tracciato delle vie. La giovane donna
si guardava intorno per entrare in ogni cosa, come
se fino a quel momento non fosse stata capace di
farlo, osservava le persone che incontrava per intrecciare pensieri e fantasia. I discorsi sul mangiare, sui soldi, sui vestiti che sentiva nei negozi, la
incuriosivano come dicessero cose a cui non aveva
saputo fare caso. Con gli amici di Maria Rosa si
trovava bene, riempivano gli incontri di scherzi e
risate. I riferimenti alle lezioni appena ascoltate, le
citazioni colte le facevano rimpiangere di non aver
potuto studiare di più, ma la vitalità che usciva dai
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discorsi di quei ragazzi le toglieva ogni malinconia.
Dell’amica era entusiasta. Si era stabilito tra le
due donne quel rapporto intimo che nasce dal parlare di uomini e d’amore e anche se Maria Rosa
aveva meno anni di lei, la spigliatezza che dimostrava nei confronti delle cose della vita, l’affascinava.
Le origine diverse arricchirono l’intesa.
Maria Rosa era di Locri. Ultima figlia di un ricco
proprietario terriero, stava soddisfacendo le ambizioni dei genitori che volevano tutti i figli laureati
e in lei, unica femmina, volevano vedere realizzato
il nascente sogno della parità. Ma la tradizione meridionale era più forte di un padre illuminato e
l’aveva già fidanzata ad un giovane del luogo con
l’avvenire assicurato nella farmacia di uno zio
senza eredi. La studentessa viveva questo contrasto benissimo, amoreggiava al telefono con Vincenzo, il promesso sposo, facendo pagare ai
parenti conti salatissimi e civettava in facoltà facendosi corteggiare anche dai colleghi più timidi.
Lo studio naturalmente ne risentiva come ne risentiva il lavoro, ma al notaio era stata raccomandata da un parente magistrato e lui chiudeva un
occhio.
Virginia tornò ragazza come non lo era stata mai.
Mangiava insieme agli studenti in una trattoria a
buon mercato dove la padrona chiamava tutti per
nome ed i cibi ricordavano i pranzi di famiglia. Il
marito, che serviva a tavola, avrebbe potuto essere
scambiato per uno scienziato pazzo. Aveva pochi
capelli, ricci, troppo lunghi e spettinati per ornare
il cranio di un ristoratore, e se nel modo di vestire
scimmiottava gli intellettuali, nel modo di fare
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scimmiottava i professori. Non segnava mai le ordinazioni, la sua ottima memoria gli consentiva di
ricordare le portate senza fare confusione e si sedeva alla fine dei pasti, al tavolo dei clienti, entrando nei loro discorsi per dare sfogo ad una
cultura acquisita che non ci si sarebbe aspettata
da lui. Virginia lo guardava affascinata, mentre gli
altri si divertivano a farlo cadere in banali errori
per potergli dare alla fine il voto come se fosse
stato uno studente agli esami.
Si tirava a far tardi la sera, ma lei ad una certa ora
era presa da una smania strana e scappava via,
lasciando Maria Rosa con gli amici, e girava per le
strade allungando il cammino fino ad arrivare eccitata e stanca davanti al portone di casa. Saliva le
scale senza prendere l’ascensore, poi in camera,
dove il letto a fianco invocava compagnia, si girava
e rigirava tra le lenzuola e il calore dei ricordi
d’amore avvampava facendole sentire le mani di
Carlo che le accarezzavano il viso mentre quelle di
Mario cercavano il suo corpo.
Nessun uomo era riuscito a interessarla da
quando aveva chiuso la relazione con il cognato e
si era separata dal marito. Gli studenti, tutti più
giovani, la trattavano con bonomia. Qualcuno la
corteggiava, ma era lei a voler stare appartata sentendosi addosso la condizione di donna sposata e
separata come se fosse un infamia. La storia con
Mario aveva ingigantito i suoi sensi di colpa e soltanto con Maria Rosa riusciva a parlarne, ma sempre con molta ritrosia. Convinta di non essere
bella, dava sfogo all’inconscia vanità mettendosi
davanti allo specchio quando nessuno la guardava. Si pettinava i capelli con bizzarre cotonature
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e azzardati chignon, per poi uscire con i capelli
sciolti, naturali come erano, castani, tendenti al
biondo, morbidi e vaporosi. Vestiti ne aveva pochi,
di taglio e fattura semplice. Per fortuna l’ambiente
di lavoro richiedeva serietà, non eleganza, e fuori
gli studenti non facevano caso al suo abbigliamento. L’espressione del volto non esprimeva
gioia. I lineamenti piccoli pur non essendo insignificanti, non erano eccessivamente belli. La
mancanza di trucco la rendeva un po’ scialba. Una
ragazza tranquilla si sarebbe detto, come tante,
che dimostrava meno anni di quelli che aveva, con
una figura un po’ piena, ma fatta bene. Colpiva il
portamento, molto aggraziato, il seno in fuori, le
spalle dritte e il modo di appoggiare i piedi, come
se stesse per spiccare il volo, con le braccia che seguivano i movimenti del corpo staccandosi dal
dorso.
A chi le faceva un complimento ancora rispondeva
arrossendo.
***
Stipule e contratti, passaggi di proprietà e autentiche. Virginia non ne poteva più di battere a macchina sui fogli di carta da bollo. I testi erano
sempre uguali, cambiavano soltanto i nomi.
Che noia!
Una mattina di primavera, di quelle che invitano a
uscire dai portoni, il risveglio della natura si fece
sentire anche per lei. Non riusciva a focalizzare il
pensiero sulla velocità dei tasti della macchina da
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scrivere elettrica, appena comperata e vanto dell’ufficio. Le parole, una dietro l’altra, scappavano
via piene di errori.
“…propone quindi di affidare l’amministrazione
della Società a un Coniglio di Amministrazione”…
Coniglio…
Cercò di cancellare l’errore. Si mise a ridere. Coniglio…
Perché non lasciarlo?
Le venne voglia di giocare e così ogni volta che capitava di scrivere “Consiglio di Amministrazione”
quella seria assemblea descritta sul foglio protocollo si trasformava in un grazioso animaletto.
Le conseguenze furono disastrose.
Il notaio che aveva un carattere autoritario, permaloso e quindi privo di ironia, interpretò il ripetersi dell’errore come una terribile mancanza di
rispetto. Si era accorto del consiglio-coniglio soltanto durante la lettura ufficiale dell’atto e chiamata Virginia, per dimostrare la serietà dello
studio al cliente, l’aveva rimproverata invitandola
a rimanere a casa dove sicuramente le sarebbe
riuscito meglio lavorare a maglia la “calzetta”.
Virginia inghiottì l’amarezza e la risposta e quando
accompagnò alla porta i membri del Consiglio di
Amministrazione appena costituito, il più simpatico dei tre soci, l’unico che aveva sorriso durante
la lettura dell’atto, le mise in mano il suo biglietto
da visita dicendo “Mi venga a trovare… nella tana
naturalmente.”
Elogio dello scherzo. Virginia rimase interdetta, ma
non equivocò l’invito e l’occhiata piena di comprensione e complicità che l’uomo le rivolse, riuscì a rincuorarla.
56
***
Ricominciare. Ancora una volta. Sarebbe stata l’ultima?
La giovane donna decise di concedersi un periodo
di riposo. Le sarebbe servito per capire meglio cosa
avrebbe voluto fare e poi l’idea di passare le giornate come ai tempi del matrimonio, senza far
nulla, se da un lato la spaventava dall’altro l’attirava. Non più gatti, né cani. Non c’era bisogno di
latte. Il coniglio birichino aveva prolificato cuccioli
senza fame. Ironia. Ironia, soltanto ironia spruzzata di latte. Latte colorato dai soldi. Aveva a disposizione ancora tutta la somma di Carlo, poteva
permettersi l’ozio. Volare. Volare con la fantasia
alla ricerca dell’impossibile. Per sentirsi più viva.
Potente. Indistruttibile.
Perché non gettarsi nella mischia?
Fare e ancora fare, qualcosa di diverso, di divertente, di strano… E via con i sogni… Avrebbe potuto
prestare i soldi a strozzo, dicevano che all’università
c’era un certo movimento… ma il suo rapporto con
i conti era pessimo… Avrebbe potuto diventare una
ladra… ma era allenata soltanto a rubare qualche
foglia di insalata dal frigorifero della padrona di
casa… Perché non fare la prostituta? Aveva saputo
di un certo giro di studentesse che prestavano i loro
favori a docenti e professionisti… avrebbe così risolto anche i suoi desideri più nascosti… si, desideri nascosti… fare l’amore… l’amore… ma non era
una studentessa e non aveva poi una grande dimestichezza con gli organi genitali…
Che fare ? di nuovo un triste impiego?
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Un corso di ballo e diventare ballerina? Da piccola
danzava davanti allo specchio e la mamma la lasciava fare… la mamma… che avrebbe detto la
mamma? Aprire un negozio tutto suo… ma di che?
Si accorse di non avere un preciso desiderio. Continuò nell’elencare mestieri e professioni da cui
però non era attratta. Che scialba vita era la sua!
Ed il capire che non sapeva cosa avesse voluto le
accentuò il desiderio di un uomo accanto pronto
ad abbracciarla, a proteggerla, a dirle anche cosa
doveva fare, dove dover andare… Dipendere da
lui… Avrebbe voluto essere un cucciolo. Si un cucciolo. Invece “doveva darsi una mossa” come le ripeteva Maria Rosa e lei si infastidiva nel sentirselo
ripetere. Aveva rifiutato persino l’invito di recarsi
in Calabria con lei, per non discuterci, e rimasta
sola aveva ricominciato a confidarsi con le pagine
bianche del vecchio quaderno. Loro l’avevano
aspettata. Loro non l’incitavano a reagire. Loro
l’accettavano così come era. Loro.
La penna graffiava i fogli ed i sogni li addolcivano.
Voleva tornare fanciulla come era stata, ignara
della vita, per vestirsi di fiori, per volare sopra le
strade della città e chiamare la gente perché ascoltasse i suoi lamenti e la portasse via, nel vortice di
una corsa che non doveva finire mai. Raccontava
ai fogli di cubi e di cilindri che diventavano rettangoli. Raccontava di alberi trinciati dal cemento,
di cuori allineati per farsi scannare. Di pianti e di
grida accorate. E gli animali le andavano incontro
per leccarle le mani e lenire il dolore che diventava
sempre più confuso mentre i bambini le giravano
intorno crescendo più in fretta di lei, lasciandola
indietro, piccina, senza né madre, né padre, né
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alcun parente. Tristezza, non più fantasia.
Le giornate passavano e non succedeva nulla. Si
spostava dalla finestra della sua stanza alla finestra della cucina e la padrona di casa, sempre con
i bigodini in testa, continuava a mischiare le carte
del solitario allineandole poi sul piano del tavolo
come se Virginia non esistesse. La donna non
aveva mai visto di buon occhio “la signora”, come
chiamava l’inquilina, forse perché non pagava un
affitto adeguato allo spazio che occupava, ma non
si azzardava a chiedere aumenti a Maria Rosa che
la teneva buona regalandole parte delle leccornie
che la madre le mandava tutti i mesi insieme a
laute mance che, sempre la madre, le raccomandava di consegnare come un piccolo riconoscimento per le cortesie fatte alla figlia. Giorni e giorni
passati senza scopo finché un annuncio sul giornale, letto svogliatamente, la costrinse a riflettere.
“Signorina diplomata maestra d’asilo cercasi per
assistenza kinderheim”. Lei era diplomata maestra
d’asilo… che fare? La parola straniera la spaventò.
Non ne conosceva il significato. Mise il giornale da
parte. Poi lo riprese e telefonò.
***
Raramente usciva dal cancello di via Adelaide Ristori 24, una piccola strada dei Parioli. Aveva tutto
ciò che le serviva per la sopravvivenza e di altro
non sentiva il bisogno. Il kinderheim, un asilo privato, le aveva aperto la porta. Una fortuna quel
posto. Virginia era piaciuta alla signora che lo ge59
stiva. Tra loro era nata una immediata simpatia e
la donna per venirle incontro le aveva offerto di
trasferirsi nell’appartamento che era grande abbastanza da lasciare una stanza a disposizione dell’assistente appena assunta.
“Non si offende vero? Se c’è lei, con quel che c’è in
giro, almeno l’asilo è sempre controllato … Per il
mangiare poi si può arrangiare con quello che rimane dai bambini, non voglio mica essere pagata
per questo.”
Virginia aveva accettato piena di entusiasmo
anche se lo stipendio non era dei migliori.
I piccoli clienti sarebbero arrivati a ottobre ed un
gruppo di operai stava finendo di ripulire l’interno
rendendolo fresco e vivace. Una fila di pupazzi disneyani correva in girotondo per limitare lo zoccolo
dipinto di azzurro. La cucina era ricoperta di mattonelle bianche. La stanza che avrebbe abitato,
Virginia la volle sfumata di giallo e dato che era
abbastanza grande l’avrebbe riempita con le sue
cose rimaste ancora nella casa di Carlo che le
aveva permesso di lasciarle lì fintanto che non
avesse trovato una sistemazione adeguata.
Non incontrava il marito dal momento della separazione in tribunale. Fu l’occasione per rivederlo.
L’appartamento dove aveva vissuto da sposa aveva
assunto l’aria appannata che viene a formarsi nei
luoghi poco frequentati. La scrivania regalatele dal
padre, spogliata del drappo ricamato, era carica di
fogli. La sedia, con sopra un cuscino schiacciato,
sembrava ancora più bassa. Una grande tenerezza
invase Virginia per quel piccolo tavolino e per quel
piccolo uomo che certamente rincorreva l’infanzia
rannicchiandosi davanti ad un mobile che non era
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stato mai suo. Chi lo aveva reso così fragile? Così
indifeso? Presa dall’ingenuità dell’ignoranza non
se lo era mai chiesto, eppure quell’uomo l’aveva
amata a suo modo. E molto. Le venne voglia di abbracciarlo, di chiedergli scusa e invece “la puoi tenere” disse “tanto a me questa scrivania non
serve” e si sentì stupida.
Cattiva.
Carlo la seguiva con imbarazzo mentre lei continuava a spostarsi per la casa. Quando uscì, richiuse la porta alle spalle di Virginia senza fare
rumore.
L’odore che aveva sentito entrando accompagnò la
donna nel viaggio di ritorno. Le cose da trasportare erano poche e per l’occasione aveva affittato
uno di quei camioncini vecchi e traballanti, a tre
ruote, che non costano molto. Era salita a fianco
dell’autista per indicargli la strada. La giornata,
carica di vento, usciva da un cielo limpido come
non mai. L’aria era fredda e mano a mano che la
velocità aumentava, entrava nella fodera della poltrona della mamma, rendendola simile ad una
mongolfiera nelle cui frange, sporcate dal tempo,
passava l’aria trasformandosi in danza. Il cassettone della nonna era avvolto da una coperta lisa
che svolazzava scappando dalla corda. Anche all’autista la tramontana imponeva le sue folate.
Correva a balzelloni intrufolandosi nel traffico
come se accompagnasse il movimento del vento.
Virginia sobbalzava a ogni buca e lo fissava con lo
sguardo tipico di chi ha paura.
“Nun se preoccupi signò, c’è nn’angelo che ll’arregge…” ripeteva a intervalli l’uomo mentre cambiava le marce.
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Il cassettone della nonna si sbilanciò inginocchiandosi all’ultima frenata, la fodera della poltrona della mamma si afflosciò davanti al cancello
del kinderheim. Virginia scese frastornata con ancora l’odore della casa di Carlo nelle narici. Nelle
orecchie il silenzio della porta che si chiudeva delicatamente alle sue spalle.
Andrea, Elisabetta, Giusy Daniele, Marco, sarebbero stati i nuovi cuccioli da allattare. Per loro
avrebbe scritto storie fantastiche, li avrebbe abbracciati, accarezzati, avrebbe ricevuto in cambio
moine ed affetto.
Le sarebbe bastato?
Sedette rigida nella poltrona della mamma senza
cantare. La notte non riuscì a dormire. Lo sgomento che si prova quando intorno tutto è nuovo
e soltanto qualche oggetto riporta al passato, la disturbava. Il vento esasperava i rumori. Come una
sonnambula prese a spostarsi alla ricerca del futuro. Aveva chiuso una porta, aveva fermato una
persiana che sbatteva, aveva aperto le valige e alla
cassa dei ricordi si era appoggiata per concludere
la nostalgia. Continuò il giro. Le piccole sedie e i
tavolini bassi non le fecero provare la tenerezza
che avrebbe voluto. Si era assopita non appena il
silenzio aveva vinto il rumore del vento, ma il
sonno era stato breve. Fissava la lampadina accesa e nuda per sentire dolore negli occhi, per capire che era viva e quando l’abbaglio le aveva
riempito di troppi colori la vista, era stato il cinguettio di un uccellino a darle coraggio.
Il kinderheim aprì le porte un lunedì. Nel giardino
che correva intorno alle stanze c’era ancora qualche fiore. Gli alberi facevano capolino dalle ville a
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fianco, ma avevano già indossato i colori dell’autunno.
Virginia si vestì di lana.
Gli uccellini continuarono a svegliarla poi furono
azzittiti dall’inverno. Al mattino la casa era fredda
e il latte caldo, bruciandole la gola, diventava il
buongiorno della sua solitudine..
La camera che occupava era situata nella parte
dei servizi e Virginia andava con la mente alle
donne che l’avevano abitata prima di lei. Cameriere certo. Sentiva la loro fatica, i sacrifici, la
stanchezza, ma non riusciva a sentire le loro speranze, se le avevano avute… Era grande abbastanza da contenere comodamente una rete con il
materasso, il cassettone della nonna e la cassa dei
ricordi, ma la poltrona della mamma a stento era
entrata nell’angolo. Alla finestra aveva voluto mettere le tendine che portavano ricamati i ricordi
dell’infanzia per intravedere ancora, dagli spazi lasciati vuoti dall’ago della nonna, il verde delle foglie che entrava e usciva insieme ai sogni. Tornò
bambina con i bambini, giocò con loro, ma dormiva con le persiane aperte per dare la possibilità
ai lampioni di illuminare l’insonnia. Riprese carta
e penna. Inventò favole. Storie di animali e principi, ma il finale raccontato di giorno non rispettava mai quello scritto di notte. Si mise a
osservare le persone che le capitavano davanti
come fosse allo zoo, con curiosità ed anche simpatia, però quando qualche mamma dimenticava
di passare a riprendere il figlio all’orario di chiusura, e succedeva spesso, la spavalderia con cui
poi si scusava quasi ostentando l’importanza dei
propri impegni o la propria distrazione, lasciava
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Virginia addolorata e perplessa. Lei, che s’incantava nell’immaginare Marco, Elisabetta, Andrea
come fossero suoi figli, si sentiva vittima di una
grande ingiustizia.
Mise nel lavoro l’impegno che richiedeva, divenne
un’assistente talmente brava da essere chiamata
dai genitori dei bimbi, anche nelle ore in cui l’asilo
era chiuso. Entrava in quegli appartamenti di
lusso, così lontani dal suo modo di vivere, dove
ogni comodità aveva il suo spazio, dove i giocattoli
imperavano, dove l’eleganza dell’arredo le metteva
soggezione e assorbiva l’umore dalle mura mentre
dalla gente assorbiva il riflesso dell’esempio.
Soltanto con Maria Rosa riusciva a sentirsi a suo
agio. La vivacità che l’amica metteva nel condurre
la propria vita la riversava anche negli affetti e con
Virginia era particolarmente generosa. Quando si
incontravano, i discorsi certamente influenzati
dall’ambiente, finivano per girare intorno all’amore, alla famiglia, ai figli e ne facevano un gran
sognare. Orgia di maternità. Non si meravigliò,
quindi, alla notizia che l’amica aspettasse un bambino. Volle sapere cosa provava, come si sentiva e
cercò di scacciare quel leggero senso di invidia che
le appesantiva il cuore.
Maria Rosa si era sposata in fretta e non con Vincenzo che l’aveva aspettata a Locri, ma con Lucio
che l’aveva amata nei giardini dell’università.
Virginia volle farle un regalo originale, un regalo
che accontentasse il suo spirito fantasioso e trasportasse l’amica nel sogno. Si ricordò che Maria
Rosa aveva il pallino dell’astrologia e spesso alludeva nei discorsi alle stelle e ai personaggi della
mitologia. Volle affidare l’ispirazione al cielo e ini64
ziò a scrivere il racconto di una stella, una piccola
stella cadente che dall’infinito era voluta scendere
sulla terra non si sapeva bene il perché. Dei e costellazioni resero il compito difficile in quanto la
trama sempre di più si aggrovigliava in un discorso
pieno di simbologie che intuiva, ma non conosceva. Ricorse alle biblioteche anche se non le
aveva mai frequentate e il primo contatto l’intimidì
e la confuse al punto da non riuscire a capire più
cosa doveva cercare. Andò nelle librerie per acquistare qualcosa, ma anche lì non sapeva bene cosa
comprare. Dal giornalaio trovò l’Enciclopedia Economica Garzanti appena uscita in edicola. La comprò per correre alla scoperta del significato delle
parole che le tornavano in mente e che quasi da
sole le uscivano nel momento in cui erano necessarie. Giove. Mercurio. Minerva. Che mondo fantastico! Da un riferimento passava ad un altro,
mai soddisfatta. Provò l’ebbrezza della ricerca il cui
risultato, se da una parte riusciva a migliorare il
contenuto di ciò che scriveva, dall’altra le faceva
capire quante cose non sapesse. Si sentiva comunque una vera scrittrice, ma della scrittrice
aveva soltanto il cestino della carta straccia colmo
di fogli appallottolati.
Numi e dei imposero la loro presenza. Virginia impose il suo incerto stile pieno di fantasia. Fece
scendere la piccola stella al centro di una piazza
che aveva come ornamento soltanto un cipresso
contornato da tanti ciuffi di palme nane. Danze di
dei diventati umani. Avventure piene di ingenuità.
Lesse e rilesse la sua opera gonfiandosi di orgoglio.
Aveva persino acquistato una Olivetti portatile, per
presentare al meglio il racconto. Mai si era sentita
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così soddisfatta. Felice. Fece rilegare le pagine con
un filo d’argento e le coprì con una copertina d’oro.
Comprò una stella di cristallo da Venini, in via
Condotti e la incartò insieme al dattiloscritto sperando che brillasse. Gli sposi però, troppo presi
dalla loro passione ed i genitori, troppo impegnati
nel fargliela concludere, sorrisero ignorando l’originalità del dono e Virginia, delusa dal loro silenzio, non chiese mai se avessero letto il suo
incantato racconto.
Tornata dal viaggio di nozze Maria Rosa, con il
pancione sempre più grosso, preparava gli esami
in casa, dove Lucio preferiva che rimanesse. La cerimonia nuziale si era svolta nella più stretta intimità Il marito si era laureato qualche mese dopo e
la professione di avvocato gli era stata aperta dal
padre titolare di uno studio in Prati.
Il bambino venne al mondo la notte di San Lorenzo. Lo chiamarono Alberto. Le stelle impazzivano nel cielo. Le cime dei cipressi cambiavano
colore. Era bruttino e aveva i capelli lisci e neri.
Due mamme lo avevano aspettato, una vera e l’altra da inventare.
***
Da quando non aveva fissa dimora Virginia passava l’estate ai Parioli. Un paesaggio che la riportava agli anni in cui, svelta nel passo, non
inciampava nelle radici degli alberi che facevano
esplodere i marciapiedi. Le cime fiorite donavano
frescura e alla donna piaceva sentirsi intorno il
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fiato raccolto dalla signorilità passata. Il quartiere,
il più esclusivo di Roma, aveva cambiato volto.
Pochi gli abitanti, i portoni serrati mostravano targhe di uffici importanti. Vestita con panni invernali, la barbona si rimboccava continuamente le
maniche in un gesto che non allontanava il caldo.
Borbottava camminando e a chi l’avesse ascoltata
sarebbe apparsa un po’ stramba.
“Vattene, e vattene non voglio pensarti, non voglio.
Resta dove sei, non venirmi in mente continuamente, qui poi, che è un posto dove tu non c’entri.
Basta. Basta.”
L’ultima memoria che apparteneva a Lorenzo,
come un livido sulla pelle di un vecchio, stentava
a scolorirsi. Quel rimboccarsi le maniche continuo
era un gesto di affronto e di rabbia verso l’impronta del sentimento che ancora imprimeva alla
sua mente il dolore. I pochi passanti la ignoravano, e anche se la cartella di Vuitton che portava
a tracolla poteva indicare che era stata una di loro,
non si giravano quando alzava la voce o stringeva
i pugni agitandoli in aria.
Arrivava dalla Stazione Termini come se avesse
compiuto un lungo viaggio. Giorni di cammino nel
tracciato del tempo per sovrapporre i ricordi più
antichi ai più recenti. Passava la notte in una
strada piccola e corta dove i pini si spingevano
oltre i confini dei palazzi in cerca del sole. Quegli
alberi e quei villini le facevano sentire il rumore del
mare. Rincorreva le poche villeggiature, le passeggiate serali e in via Adelaide Ristori, dove gli uffici
della Simpton & C. avevano occupato i locali del
kinderheim, vedeva Marco, Elisabetta, Luca, diventati adulti, entrare e uscire dal cancello su cui
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una targa in plexilgas portava inciso un nome
straniero. Continuava allora a vaneggiare sommessa, come se parlasse ai bambini, e soltanto Erlinda, una filippina di mezza età che al suo paese
aveva lasciato la famiglia, le dava ascolto e le si rivolgeva in un italiano stentato infarcito di parole
straniere. Spesso le camminava a fianco e quando
rientrava nella casa in cui era a servizio, non la salutava perché sapeva che la povera donna andava
a sedersi sotto le finestre della stanza del bambino
per ascoltare il suo canto, mentre lo cullava, prima
che si addormentasse. Un bimbo riccioluto e
biondo che dal passeggino guardava Virginia attento ed anche un po’ preoccupato. La ninna
nanna era una melodia di parole orientali fuse da
note antiche nel canto della sofferenza di una
madre che richiama la madre e la madre della
madre per donare al neonato tutto quello che forse
non avrebbe avuto mai. “Nais kong mautil ang
awit ni inang mathal…” e la barbona rannicchiata
contro il muro aspettava che la voce di Erlinda,
come una nave che fugge dal porto e piano piano
scompare, raggiungesse il silenzio della lontananza.
Silenzio di strade troppo nobili per urlare.
Silenzio contenuto, educato, imposto.
La barbona si alzava faticosamente, scendeva dal
marciapiede e orinava. In piedi, allargando le
gambe, sporgendo in avanti la testa per poter seguire con lo sguardo il rigagnolo scuro che andava
incontro alla fogna.
***
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Il caldo allungava le giornate oltre la cena. L’asilo
aveva chiuso i battenti e Virginia era rimasta a vegliare l’appartamento vuoto. I pasti consumati insieme ai bambini le avevano dato la possibilità di
mettere da parte quasi tutto lo stipendio. Voleva
comperare un’automobile. Le avevano proposto
una Seicento usata. Avrebbe approfittato di quei
mesi estivi per prendere la patente. Le lezioni di
guida si svolgevano nel tardo pomeriggio e le
ombre che i raggi del sole allungava prima di
scomparire, le mettevano addosso la voglia di saltellare. Le piaceva sentire sotto i piedi il calore accumulato dalla strada durante il giorno, e mentre
l’impronta dei tacchi trattenuti dall’asfalto lasciava
il segno del suo passaggio, guardava il pavimento
sorridendo. Avrebbe voluto togliersi le scarpe, per
partecipare al caldo che andava rinfrescando. I
mesi appena passati, erano stati importanti per lei
e non per la quantità di sederini che aveva dovuto
lavare, ma per le cose intorno alle quali aveva prestato attenzione e da cui traeva le più svariate conclusioni. Famiglie ricche, piene di personaggi
originali, famiglie scomposte, divise, dove l’invadenza dei soldi faceva da padrona. Il sapere nascosto di chi veramente sa e non si vanta, ma
anche l’indifferenza di chi ha occhi per vedere e invece non guarda. Le signore piene di trucco, snob,
e quelle affermate nel lavoro, indaffarate.
Donne come lei, lontane da lei.
Virginia aveva acquistato disinvoltura, il gusto
estetico le era migliorato, riusciva persino a non
arrossire se le facevano un complimento. Era cresciuta.
Estate, la prima estate con le ferie pagate le
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avrebbe portato fortuna, ma era sola, troppo sola
e mentre passeggiava strappava dai cespugli le foglie per sentire tra le dita compagnia. Attenta a
poggiare i piedi al centro dei lastroni, qualche volta
giocava a campana, senza badare ai passanti che
si voltavano per osservarla. Quando incontrava i
tombini su cui era impresso SPQR, il marchio imperiale che aveva studiato a scuola di cui però non
ricordava il vero significato, ma soltanto quello che
le compagne di classe le avevano detto ridendo
“Sono Porci Questi Romani” e che in quei momenti
euforici e solitari riusciva a comporre come “Sono
Povera Quanto Ricca”, e si sentiva una cittadina
felice.
Non era vero. Le mancava un uomo. Lo desiderava. Avrebbe voluto averlo a fianco.
Ma gli uomini dove erano?
Francesco, il padre di Luca… Giuseppe, lo zio di
Andrea. Vico, che la riaccompagnava a casa scherzando… era simpatico come il figlio… e quella sera
che aveva allungato una mano sotto la gonna sussurrando “fammi entrare nel nido e ti darò tutti i
bambini che vuoi” lei gli aveva risposto “Il nido a
quest’ora è chiuso.”
Perché? perché negarsi ciò che desiderava?
Girava allora senza meta condotta dall’inconscio.
Ogni frase scritta sui manifesti, ogni nome che leggeva sulle insegne dei portoni la riportava al sesso
e inventava frasi a cui poi cercava di dare un seguito o un senso compiuto. L’inconscio le ribolliva
dentro e la conduceva sempre e soltanto verso
concetti azzardati, parole che non avrebbe avuto il
coraggio di pronunciare ad alta voce, violente,
cupe, oscene, unite da avverbi che sintetizzavano
70
soltanto per lei l’intensità del pensiero. Passava
dall’allegria all’angoscia seguendo la luce e l’ombra che la giornata imponeva. Turbamento. Perché, perché non lasciarsi andare al rigurgito del
passato? Mario. Un altro Mario… No, no, avrebbe
dovuto interessarsi di più all’educazione dei bambini, leggere, studiare. Comperare altri libri.
Una targa chiassosa, evidente “Nuova Grafica”
portava ad una rima volgare, Virginia la rigirava
nella testa insieme al verso che le era scaturito
d’impulso. Quel nome però le diceva qualcosa,
qualcosa di diverso… qualcosa… Siii, dal notaio…
Il Coniglio di Amministrazione… Nuova Grafica, la
società che era stata causa del suo licenziamento.
Giorgio Prandi, Anselmo Attieri, Nicola De Gennaro, le vennero in mente come fossero i nomi dei
parenti più stretti. Pensava di averli dimenticati
appena uscita da quel maledetto ufficio, e invece…
lavoravano lì i tre soci ai quali un grazioso coniglietto avrebbe dovuto amministrare i beni. Cercò
di mettere a fuoco i volti, ma riuscì soltanto a ricomporre la figura di Roggi, l’odioso notaio.
Fece una smorfia.
“Mi venga a trovare…”
Chi dei tre l’aveva detto? Chi le aveva dato il biglietto da visita?
Chissà dove era finito…
Ricordi. Ricordi vivi, spiacevoli. Non era stato un
buon lavoro quello… chissà… un altro lavoro… Un
lavoro nuovo? Sull’elenco del telefono l’indirizzo
appariva scritto in grassetto. La mattina seguente
chiamò senza sapere di chi dovesse chiedere. Rispose Giorgio Prandi, era stato lui ad offrirle la
tana. Il coniglio fece il resto.
71
***
La cosa che affascinò di più Virginia fu l’importanza data ai colori. Quando Prandi la condusse
in giro per i locali dove veniva svolta l’attività, non
poté fare a meno di notare la vivacità che sprigionava dal disordine delle stanze. Il locale dove disegnavano i grafici con la radio sempre accesa, in
fondo ad un corridoio, sembrava essere il centro
dello studio. Che differenza dall’austero ufficio del
notaio! La Nuova Grafica le era sembrato un asilo
per bambini grandi e lei non aveva indugiato nell’indossare il grembiulino a quadretti. Una fortuna
l’offerta di Prandi che le aveva proposto di lavorare
nello studio dopo l’orario di chiusura del kinderheim. Un genere nuovo di impegno, così lontano
da quelle che erano state le sue esperienze. Impiegò tutta la buona volontà per imparare, capire,
sapere che cosa si facesse e quali fossero i ruoli
che ognuno impersonava. Non fu difficile entrare
nel meccanismo. Anselmo Attieri, il grafico, non disdegnava di diventare procacciatore di clienti, contabile o segretario. La pazienza che metteva nel
trasferire le lettere dai fogli di Letraset sui disegni,
la metteva anche negli altri incarichi, e questo sua
meticolosità si scontrava con la fantasia di Giorgio Prandi, caotico e irriverente, sempre pronto a
rimettere in discussione quello che aveva appena
affermato. Nicola De Gennaro, terzo socio, in realtà conduceva una attività completamente diversa all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni dove
la grafica era espressa soltanto nei moduli. Le continue allusioni ai soldi fecero capire a Virginia che
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il ricco della situazione fosse lui, ma non era la verità anche se era stato l’unico ad avere investito
nello studio una parte del denaro risparmiato dalla
madre felice di aver potuto assecondare le ambizioni dell’unico figlio. Gli altri avevano investito
nella società l’esperienza e l’impegno nel lavoro.
Alba, una ragazza spigliata e abbastanza carina,
ufficialmente doveva svolgere funzioni di segretaria, in realtà cercava di dare sfogo allo spirito creativo, lasciando indietro fatture e lettere che si
ammucchiavano sulla scrivania e che fu contenta
di affidare alla nuova venuta.
Virginia, riconsegnato l’ultimo bambino, correva al
nuovo lavoro senza provare stanchezza. Arrivava
quando gli altri stavano per andare via e si tratteneva tutto il tempo necessario per sbrigare quel
che le avevano lasciato da fare. Le ore passate in
solitudine divennero per lei il momento più bello.
Girava per le stanze dello studio, apriva ogni cassetto, sfogliava i libri, accarezzava i bozzetti. Assorbiva il significato dell’attività. Cominciava ad
entrare nel meccanismo della comunicazione
senza capirlo completamente, ma le piaceva.
Un’orgia di disegni e di idee, arte per lei, e la tentazione di trafugare pennarelli e fogli dalle tinte vivaci le veniva sempre più forte. Voleva fare suoi
quei colori per usare il giallo come gioia, il nero
come urlo, il rosso come amore, e la fantasia che
si era espressa all’asilo colorando con i pastelli fiorellini ed alberi, si trasferiva sugli oggetti da pubblicizzare che cercava di trasformare in disegni che
poi stracciava.
Con Prandi e Attieri la confidenza aumentava rapidamente e Virginia prese a dire la sua su ogni
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cosa, buttando le frasi lì così come le venivano soprattutto durante quelle riunioni confuse e allegre
che in America venivano chiamate brain-storming
e altro non erano che una girandola di idee in libertà che faceva sentire tutti più leggeri.
La pubblicità andava affermandosi sempre di più.
Le grandi industrie spingevano verso nuovi tipi di
prodotti e in quell’anno si faceva un gran chiasso
intorno all’olio di semi, toccasana per la salute e le
tasche degli italiani, mentre l’olio d’oliva sembrava
dovesse subire la condanna dell’ostracismo. Un
importante produttore toscano si era rivolto allo
studio per tenere alto sul mercato il suo olio extravergine notoriamente migliore degli altri. La
Nuova Grafica si immedesimò talmente nel prodotto da diventare un fantomatico uliveto. I piccoli
frutti rotolavano sui tavoli formando bottiglie immaginarie rivestite di eccentriche etichette. L’olio
si mescolava al latte. Per lubrificare il cervello. Per
eccitare i sensi. Olio, soltanto olio, privo di latte.
Per affermarsi, per sentirsi appagata. Piena... La
fantasia di Virginia generò “mangiar bene, mangiar sano con il balsamo toscano”
La frase fu approvata dal cliente e apparve a caratteri cubitali sui manifesti affissi nelle principali
piazze d’Italia. I risultati della campagna furono
positivi, ma la Nuova Grafica stava andando in
pezzi. Anselmo rivendicava diritti sui proventi della
Meoni, una casa farmaceutica che lui aveva portato come cliente e che garantiva la sopravvivenza
allo studio. Giorgio affermava il valore della sua
abilità nel concludere i contratti e nel trarre il
maggiore profitto dai rapporti con i fornitori. Nicola lamentava l’inesistenza di un effettivo guada74
gno e ogni volta che si discuteva sui rimborsi, sui
compensi, sulle spese da sostenere, le parole diventavano sempre più pesanti.
La situazione peggiorò quando Alba lasciò capire
di aspettare un bambino grazie al diretto intervento di Giorgio, notoriamente facile al rapporto
sessuale. Sposato, con una moglie che non si capiva quanto fosse paziente o quanto fosse ignara,
l’uomo non aveva nessuna intenzione di riconoscere il fatto. La ragazza oscillava tra il voler
abortire e il voler portare avanti la gravidanza e
nei momenti di allegria, sempre più rari, si inneggiava a “olivino” con qualche scherzoso disegnino.
Virginia tornò a desiderare il latte.
Attraverso le discussioni sempre più accese si accorse di rancori mai sopiti tra Anselmo e Giorgio.
C’era stata di mezzo anche una donna e quel che
prima aveva scambiato per un affettuoso modo di
comportarsi, provocatorio e ironico, si rivelava invece come l’espressione di una vecchia rivalità.
Vittime della stessa voglia di dominare, non avrebbero potuto fare altro che combattere separati.
Attieri, forte del lavoro che la casa farmaceutica gli
assicurava, decise di riprendersi il cliente e aprire
una nuova società. Prandi rimase con i resti della
“Nuova grafica” e Virginia, che aveva complicazioni
al kinderheim, in quanto i controlli eseguiti dal Comune avevano accertato la mancanze delle necessarie licenze, si era trovata a dover scegliere tra
l’incertezza di un impiego da cercare e la stabilità
che le avrebbe procurato l’acquisto del venti per
cento delle quote della nascente “Attieri S.r l.” che
le erano state offerte da Anselmo.
75
***
Ancora l’estate vide la giovane donna camminare
pensosa lungo le strade umide dei Parioli, ancora
l’estate le lasciò nel pugno le foglie strappate per
tenersi compagnia. Virginia aveva stretto l’ultimo
bambino al petto cercando di ricacciare le lacrime.
Si era fatta un gran pianto la sera e non aveva voluto spegnere la lampadina rimasta senza lampadario. I colori dell’abbaglio si confusero con quelli
della grafica. Era presente e sola. Un altro cambiamento di vita. Dove sarebbe andata?
Il kinderheim chiudeva e anche se la titolare le
aveva permesso di restare fino a che non avesse
trovato un nuovo alloggio e il lavoro alla Attieri
S.r.l. era assicurato, si sentiva sperduta. A Milano
le agenzie pubblicitarie avevano un grande sviluppo. Roma aveva ancora molto da imparare.
Avrebbe imparato con la sua città. Carosello non
l’aveva neanche sfiorata. Era andata sposa nel
1954, l’anno in cui l’Italia aveva celebrato le nozze
con la televisione, ma per i coniugi De Rossi l’apparecchio magico era rimasto un progetto, e in
quel momento l’impegno economico sostenuto per
acquistare le quote della Attieri S.r.l. non le permetteva certo di acquistare il magico apparecchio.
Aveva fatto carriera, ma troppe cose le mancavano
ancora per sentirsi inserita in quella società che
incominciava ad assaporare sentendosi protagonista.
***
76
Virginia entrò con entusiasmo nella casa di Via
Giorgio Scalia e non per le persone che abitavano
il palazzo, sconosciuti che a stento salutavano nell’ascensore, ma per ciò che quella casa rappresentava, la prima casa veramente sua.
Sul campanello volle scrivere soltanto il cognome
da ragazza. Due stanze, una cucina e un bagno
con le porte di mogano e i pavimenti a marmittoni
di colore diverso. In cucina maioliche di ceramica
verdina. Il mobilio si era arricchito di un letto e di
un lume e quando aveva fatto il trasloco, chiamando il trasportatore con il camioncino traballante, pioveva e la poltrona della mamma, con la
fodera bagnata sembrava che piangesse, e il cassettone della nonna ricoperto da uno straccio sbiadito non riuscirono a scalfire la sua allegria. Le
valige erano aumentate, la cassa dei ricordi era
sempre quella. Aveva lasciate appese alla finestra
della stanza del kinderheim le vecchie tendine
nelle quali gli occhielli formati dal ricamo della
nonna erano diventati strappi.
La strada, delimitata da palazzi molto alti, indicava
una periferia moderna. Le costruzioni confortevoli
accontentavano le aspettative del nascente ceto
medio. Appoggiate alle falde di Monte Mario, dove
le belle case panoramiche inorgoglivano i più abbienti, ingrandivano il quartiere Trionfale, popoloso e vivace, padrone di un grande mercato noto
per la varietà dei prodotti e i buoni prezzi.
Piazzale degli Eroi era il punto di congiunzione tra
il vecchio e il nuovo, e una anonima quanto avveniristica fontana, per venire incontro all’economia
idrica della città, zampillava acqua a giorni alterni.
L’appartamento di Virginia era al settimo piano e
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quando l’ascensore non funzionava, e capitava
spesso, le sembrava di salire in soffitta. Dalle finestre, sporgendosi, da una parte si poteva allungare
lo sguardo verso la campagna che si intravedeva a
perdita d’occhio, dall’altra una lunga fila di piccoli
balconi si allineavano come soldatini sull’attenti.
L’unica persona che si accorse della nuova inquilina fu la signora Erminia che le abitava a fianco e
ogni volta che sentiva un rumore apriva la porta
facendo finta di lucidare le maniglie di ottone.
“Sa, non sono n’impicciona, signorina, è che ero
abituata ai Chiodaroli dove ci conoscevamo tutti e
si conosceva persino se uno aveva mangiato l’aglio
la mattina…” aveva detto scusandosi un giorno,
tanto per attaccare discorso e aveva continuato
raccontando di come i figli, appena sposati, avevano insistito perché si trasferissero, lei e il marito
ormai rimasti soli, in quel condominio moderno
dove le maioliche in cucina, la vasca da bagno e
l’acqua calda, avrebbero assicurato loro il conforto
della vecchiaia.
Virginia da principio scambiò per invadenza le
chiacchiere della signora Ersilia e, anche se i ricordi della sua vita erano pieni di scale e pianerottoli, non riusciva a provare le stesse emozioni
di allora. Si sentiva diversa, ormai troppo “moderna” e soltanto la sua grande cortesia vinse la
reticenza.
Il marito di Erminia, Giulio, taciturno e bonario,
sempre con i pantaloni arricciati dalla cinta stretta
sotto la pancia, aveva avuto un negozio di alimentari a due strade di distanza dal vicolo dove abitava, ma quando nel centro della città la vendita
dei vestiti aveva cominciato a rendere più di quella
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del pane, era stato costretto a chiudere bottega. Il
mestiere non lo aveva dimenticato e continuava a
occuparsi del cibo portando a casa quantità
enormi di cose da mangiare che la signora Erminia
passava alla vicina quasi scusandosi.
Virginia arrotondava l’umore e le forme. Ma non
era soltanto il cibo che migliorava l’aspetto della
“signorina”, come la chiamavano loro. Gli atteggiamenti delle persone con cui veniva a contatto, professionisti, industriali, donne inserite nel lavoro,
con il loro modo di fare e la pratica eleganza, la invogliarono a comperarsi un abito in più, un gioiello
di bigiotteria. A recarsi più spesso dal parrucchiere. Al nido era pagata per farsi ciancicare i vestiti dalle manine appiccicose dei bambini, alla
Nuova Grafica si divertivano a chiamarla “sempliciotta”, alla Attieri S.r.l. Anselmo teneva moltissimo
all’estetica. “Vendiamo immagine e l’immagine migliore la dobbiamo dare di noi” ripeteva continuamente, bravissimo nel dare di sé l’immagine che gli
altri volevano.
***
La barbona era stanca di stare in ospedale. L’avevano ricoverata al Policlinico senza conoscenza e
sentendosi meglio insisteva per andare via. Le avevano fatto il bagno e una infermiera le aveva tagliato i capelli. La glicemia era scesa a valori più
accettabili, ma la pressione rimaneva alta. L’avrebbero comunque dimessa presto, fagotti come lei
occupavano i letti e non erano ben visti. La povera
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donna non ricordava quel che le era successo, ma
aveva gradito la fragranza delle lenzuola pulite e il
tepore della stanza, restando però comunque in
quello stato fisico tutto suo che la rendeva indifferente.
Soltanto quando entrava Colombo si ravvivava e
non faceva caso alle compagne di corsia che lo
guardavano con compassione, mentre qualche parente in visita se ne andava via.
L’impermeabile dell’uomo, che era stato bianco,
portava i segni della strada. La giacca, indossata
in precedenza da altri, era stata tessuta in Inghilterra troppi anni prima. Un maglione dal colore indefinito lasciava uscire il collo sporco e raggrinzito.
I capelli arruffati e il vezzo di chinare la testa pensoso, come il gesto di portare la mano alla fronte
per aggiustarsi il ciuffo, lo facevano somigliare al
tenente Colombo. Mettersi nei panni del divo della
tivù era stato un vanto per quel pover’uomo di cui
nessuno conosceva il vero nome. Le sue più belle
esperienze le aveva vissute soltanto da barbone.
Non lo avevano voluto neanche a fare il militare,
eppure non era gracile, ma il sorriso eternamente
disegnato sul volto, indicava che dentro aveva
troppo o troppo poco. Le suore del brefotrofio, dove
era cresciuto da bambino, avevano considerato la
sua espressione come segno di poca intelligenza e
lui non si era dato la pena di smentirle. Aveva imparato a leggere e scrivere con fatica, ma una volta
appreso il meccanismo, le lettere dell’alfabeto
erano rimaste il suo maggiore passatempo, il gioco
preferito. Quando la maestra per far divertire gli
orfanelli insisteva con infiniti girotondi di carta ritagliati dai vecchi giornali, lui paziente ritagliava e
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ritagliava senza mai riuscire a mantenere unite
quelle strane figurine che la suora imponeva. I pupazzetti si stracciavano nelle sue mani come biscotti sfatti, non obbedivano ai gesti e per non farsi
sgridare, si infilava in tasca la carta stropicciata
sentendosi in colpa. Poi, quando nessuno gli prestava attenzione, tirava fuori i pezzetti di carta e li
faceva vivere in un gioco che era affascinante soltanto per lui. Leggeva sottovoce gli stralci delle parole troncate dalle forbici e sillabava le lettere delle
parole monche. Dava ad ogni vocale un significato,
ad ogni consonante una interpretazione. “a” diventava “addio”, “r” gli faceva sentire “rumore”, “m”
indicava “mamma”, e quando crescendo aveva voluto mettere più impegno nel divertimento, inventava intere frasi, prendendo spunto dalle parole
tronche, per creare un discorso che all’apparenza
sembrava insulso, ma che in realtà voleva dire
molto di più. “ci sono an” , “nei giorni di fe”, “indano”, “la lu”, si univano in “ci sono animali nei
giorni di festa che brindano alla luna” e andava ripetendo e ripetendo sottovoce la frase orgoglioso
di averla pensata.
Da adulto le pagine intere dei giornali avevano sostituito i ritagli delle bamboline tagliate. Le raccoglieva dappertutto. In parrocchia, dove era stato
ospite di un sacerdote, da commesso di bottega,
dopo aver consegnato il pane e la pasta ai clienti
che gli conservavano i quotidiani del giorno prima.
Ma troppo spesso si lasciava andare alla lettura
dimenticando l’impegno del lavoro. Il tempo era infinito per lui e prima di buttare le pagine stampate,
tornava a ritagliare ghirlande di pupazzi in festa
per fare il girotondo con loro.
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Conobbe Virginia davanti ad una delle edicole
della Stazione Termini dove un giornalaio regalava
ai barboni un quotidiano ogni mattina. La donna,
nuova della comunità, pretendeva di sfogliarlo per
prima, ma il privilegio spettava a Colombo, conosciuto ormai da tutti, che poi passava i fogli agli
altri disgraziati come lui. Quella signora vestita
bene, che si era intrufolata con tanta prepotenza,
aveva urtato il sistema nervoso dell’uomo che
strappandole il giornale dalle mani le aveva urlato
frasi sgarbate facendola scappare via. Quando si
erano incontrati ancora avevano evitato di guardarsi, ma con il passare dei mesi, appena Virginia
aveva assunto l’aspetto inconfondibile dei suoi
compagni, Colombo le aveva regalato L’Espresso e
Panorama e la loro conoscenza si era nutrita di
commenti che si scambiavano usando pochissime
parole.
Il barbone andava spesso a trovare l’amica in
ospedale e il giorno che apparve brandendo come
un trofeo di caccia una cartella di tela blu nuova
fiammante, la donna istintivamente strinse al
petto la sua Vuitton, logora e sporca, da cui non si
era voluta separare neanche dopo le insistenze dei
medici. L’uomo aveva capito quanto Virginia fosse
affezionata al contenuto della borsa che portava
sempre a tracolla, ma non conosceva cosa ci fosse
dentro. Aveva quindi pensato di farle un regalo per
il suo onomastico portandogliene una nuova dove
avrebbe potuto custodire meglio quel prezioso tesoro che non abbandonava mai.
La reazione della donna lo deluse. Continuava impaurita a stringere al petto la vecchia cartella mentre Colombo insisteva nel tenere ferma quella
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nuova, appoggiata sul letto, che Virginia scalciando cercava di buttare via. Poi, con pazienza,
aveva sollevato il regalo alzandolo sopra la propria
testa e “Auguri” aveva detto dolcemente “oggi è il
16 aprile, santa Virginia”, e mostrando una sicurezza che non ci si sarebbe aspettata da lui,
“dammi quell’altra” aveva aggiunto alzando la
voce.
Virginia si era fermata a guardarlo interdetta,
pronta a ribellarsi, ma l’espressione che vide sul
volto dell’uomo le strappò un sorriso e, remissiva,
lasciò che Colombo prendesse la Vuitton per sostituirla con quella blu che aveva portato..
“È festa è festa è festa” si mise allora a ripetere eccitato il barbone. “Santa, santa, santa Virginia.” e
rincorse l’infanzia quando i nomi dei santi lo accompagnavano nei sogni come le lettere stampate
sui pupazzetti ritagliati dai giornali. Quei nomi li
aveva imparati in chiesa, dalle suore che ogni
giorno invocavano il protettore del giorno affinché
quei poveri bimbi senza casa, affidati a loro, diventassero sempre più buoni.
I santi Colombo li conosceva tutti e a ciascuno
aveva dato una immagine viva, che aveva un significato solo per lui. Il 5 giugno aspettava il padre,
San Bonifacio che oltre al calore dell’estate, portava le vacanze e qualche volta un soggiorno nelle
colonie estive. Il 23 gennaio Santa Emerenziana,
la madre, festeggiava l’onomastico infilandosi nel
suo letto per stargli vicino e lui riusciva a sentire
sul fianco il suo calore. Simeone il 18 febbraio, Rodrigo il 13 marzo e Zita il 27 aprile, erano i fratellini con cui giocare nei momenti più noiosi.
Fantasie d’affetto e di famiglia. Con loro parlava e
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a loro chiedeva giochi e favori che non arrivavano
mai. Dimesso dall’istituto, aveva fatto uso del calendario per ingraziarsi la gente. Domandava il
nome alle persone che incontrava, che gli erano
simpatiche o di cui aveva bisogno e anticipava gli
auguri per il loro onomastico indicandogli la data
giusta e ricevendone sempre in cambio qualcosa
All’amica non era ancora riuscito a fare gli auguri.
La donna non gli aveva mai dato molta confidenza.
Era perciò felice quel giorno in ospedale fosse riuscito a farlo.
Virginia, ormai rasserenata, aveva incominciato a
togliere dalla Vuitton quello che c’era dentro e lo
faceva con molta lentezza quasi volesse spingere
l’uomo a chiederle spiegazioni.
Colombo la osservava in silenzio.
“Mi piaceva scrivere… mi piaceva tanto… mi piaceva tanto” si mise a ripetere la barbona accarezzando i fogli che estraeva dalla borsa, alcuni
spillati altri raccolti con una costina di plastica
nera che sembrava essere stata esposta al sole per
molto tempo.
“Guarda” disse a Colombo fermandosi, e indicò
una copertina azzurra dove era scritto con un pennarello nero “Forse tu…” e aprì le pagine con orgoglio “L’ho scritto per Michele, mio figlio” e lo
ripose nell’altra borsa con la stessa delicatezza che
avrebbe messo una madre nell’appoggiare un
bambino nella culla. Poi, sistemata la cartella
nuova sotto il cuscino, scivolò fra le lenzuola fino
a coprirsi il mento e rivolta a se stessa più che all’uomo “Un giorno te lo farò leggere, te lo farò leggere…” promise.
Colombo uscì dall’ospedale con la vecchia e logora
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Vuitton di Virginia a tracolla. Estrasse dalle tasche
gonfie qualche pagina di giornale e nei cassonetti
che incontrava cercò ancora altri giornali. Strappava i fogli meno sporchi per infilarli nella cartella
e quando ne fu piena, si sistemò in un angolo vicino ad un muretto. Ghirlande festose stracciate
con le mani nude ripresero la danza dei poveri. Pupazzi inventati dalle gambe irriverenti cantarono
la fantasia dell’amore e “l’aiu” che allungava le
gambe della bambolina, “dell’as” che le allargava
la testa, “risce” e “nsé” che chiudevano i piedi, divennero soltanto per lui un canto che diceva
“l’aiuola dell’asfalto fiorisce una pansé”.
***
Maria Rosa fece visita a Virginia appena questa si
fu sistemata nella casa di via Giorgio Scalia e se
per sistemazione si intende una cucina solo con il
lavandino e il fornello a gas, il bagno solo con i sanitari, la stanza da letto con un letto striminzito e
una pila di libri per comodino, nel minuscolo ingresso un vecchio cassettone e nel salotto una poltrona sdrucita, la casa poteva dirsi a posto. Un
ospite esigente avrebbe notato tutto questo e
Maria Rosa lo era. Per di più l’ascensore quel
giorno non funzionava e lei, che aspettava il secondo figlio, per poco non partorì in cima alle
scale. Abituata al suo appartamento che occupava
il piano nobile di una ridente palazzina ai Parioli,
non riusciva proprio a capire come l’amica avesse
potuto trovare bello quel posto con la strada an85
cora da asfaltare e con tutte quelle scale da salire.
Dopo il matrimonio Maria Rosa, ormai realizzata
nella famiglia, aveva assunto il ruolo di sorella
maggiore e si era convinta che Virginia avrebbe dovuto pensare prima di tutto a trovarsi un uomo, a
risposarsi… Una donna così materna, così dolce…
era proprio sprecata senza un figlio…
Anche Virginia in cuor suo la pensava così, ma
non lo ammetteva neanche con se stessa ed evitava di confidarsi con Maria Rosa che ormai sentiva diversa. Anzi, ostentava i piaceri e le
soddisfazioni che gli impegni di lavoro le davano
insistendo sulle garanzie che dava un guadagno
sicuro e sulla soddisfazione di una vita indipendente.
La nuova gravidanza dell’amica, protesa nel civettuolo abitino premaman, però la imbarazzava.
Si prepararono un te.
Maria Rosa raccoglieva avidamente le briciole dei
biscotti portandole con le mani alla bocca. Virginia appoggiava la tazza alle labbra quasi senza
bere. Avrebbe voluto avere lei quel corpo gonfio.
Un corpo che conteneva un altro corpo. Per esprimersi. Per realizzarsi nella soddisfazione che traspariva dal comportamento appagato della donna
incinta. Cercò di distogliere gli occhi dalla pancia
dell’amica, accarezzata goffamente dalle manine di
Alberto che cercava il battito del cuore del fratellino.
Quelle manine avrebbe voluto averle addosso lei.
Chiamò il bambino per distoglierlo. Si alzò per
prenderlo, ma lui si scansò annoiato. Insistette
rincorrendolo e il rifiuto divenne gioco. Giravano
intorno alla poltrona senza raggiungersi. Anche
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Maria Rosa fece finta di acchiappare il bambino.
Si sfiorarono. Quel contatto la turbò, troppa la voglia di essere gravida. Gonfia di desiderio era piena
di nulla. Raggiunse Alberto, lo strinse troppo forte
e lui si divincolò piagnucolando. Sentiva il ventre
dolente, tirato e dentro, i battiti sordi del cuore
spingevano come fossero i calci di un feto. Turbata
accelerò i saluti e appena andata via l’amica si
gettò sul letto. Voleva piangere. Non ci riusciva. Si
accarezzava la pancia con rabbia mentre i pensieri
si arruffavano nella mente. Perché? Perché non a
lei?
Si alzò. Prese carta e penna, e come nelle lunghe
giornate di insonnia al kinderheim scrisse la favola più importante della sua fantasia. Per dare
consistenza a un figlio, a quel grumo del suo corpo
che non voleva crescere.
“Di che colore avrai gli occhi? e la pelle? e i capelli?
porterai in te la dolcezza del sorriso o l’infelicità del
pianto?
La tua mamma, che ti vuole a tutti i costi, potrà dirti
chi sei. Soltanto lei. Ma soltanto tu potrai darle l’affetto che ella vuole. Soltanto tu. E proprio tu, piccolo
essere ancora senza nome, nel suo ventre dovrai
fare rumore, tanto rumore, per avvertirla che ci sei,
per dirle che sei suo, soltanto suo, perché non hai
padre e non lo avrai mai. La sua vagina si aprirà
per lasciarti andare nel mondo, quel mondo che gira
senza fermarsi, che la prende e la esclude.
Quanta incertezza, piccolo essere ancora da formare…
Ti vorrà tenere con sé?
Ti vorrà dar via?
Quando il primo vagito uscirà dalla tua bocca sa87
prai il tuo destino. Saprai se la donna casta nell’animo e pura da vedere, sarà capace di migliorare
in te quel che di lei hai ereditato, quel che di lei vorrai sviluppare, tu, ancora bisognoso di cibo e di calore, eppure già così grande. Così fiero di esserle
figlio.
Vorrei che dal suo seno succhiassi la libertà che
spazia nel pensiero e si risolve nell’amore, tu che
sei la speranza di oggi, la certezza del futuro. Le tue
manine dovranno tirare i fili della felicità di tua
madre e della tua felicità. Che responsabilità bambino mio!
Saprai farlo?
Sento che scriverai poesie e disegnerai fiori e se
maschio non andrai alla guerra e se femmina ti
aprirai per generare ancora.
Cresci piccino e accompagna la mamma nel cammino che l’attende, la nostra società più fortunata di
altre, ti aiuterà.”
Così scrisse Virginia e continuò tutta la notte imprimendo sui tasti la forza dell’infelicità. Per giorni
e giorni lo gestì col cuore, lo nutrì d’inchiostro e
una sera di luna piena mise al mondo Michele. Per
distrarsi da Virginia, per insegnare a lui quello che
non avevano insegnato a lei, per riversare sul neonato fantasma le angosce del presente, le speranze
del poi.
***
Se avesse dovuto dare una nonna a Michele, Virginia avrebbe scelto la signora Erminia. Soltanto
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la vicina di casa avrebbe potuto condurlo per
mano e raccontargli le cose della vita.
Erminia era quel che comunemente si definisce
una brava donna, ma dietro l’aspetto modesto nascondeva la forza e la saggezza che caratterizzano
le persone del popolo avvezze a superare ogni difficoltà. Si era stabilita tra loro una intesa simile al
rapporto che si stabilisce tra una madre di larghe
vedute e una figlia indipendente. Nella giovane
donna, la matura casalinga ravvisava quegli impulsi che lei avrebbe voluto avere, ma che ai suoi
tempi non si usava esprimere. La confidenza era
subentrata a poco a poco. Un saluto più lungo per
le scale, una chiacchierata in ascensore, la richiesta di una tazza di latte o di un pizzico di sale che
non servivano, ma che giustificavano il gesto di
bussare alla porta a fianco come uno stratagemma
a cui ricorrere nei momenti di solitudine. Un bisogno di affetto per tutte e due.
Era stata la signora Erminia a forzare le confidenze di Virginia e con la sensibilità di una madre,
quando lo riteneva opportuno, rientrava nel suo
appartamento uscendone poco dopo con una pietanza che aveva appena cucinato e che “Giulio
tanto non mangia” diceva insistendo per fargliela
accettare.
Il pianerottolo ancora una volta creava atmosfere
magiche e quando dall’interno la voce del marito
chiamava “Ermiiinia… dove sei?” le donne, unite
dal sentimento di consuetudini antiche, rientravano ognuna nella propria casa sorridendo con
complicità.
Nella signora alle soglie della vecchiaia c’era più
vitalità di quanta ne avesse addosso la donna più
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giovane. Virginia era affascinata dalla forza di Erminia che dopo aver speso l’esistenza nel far quadrare i conti, nell’accudire marito, suoceri, genitori
e figli, continuava ad interessarsi degli altri, di ciò
che avveniva nel mondo, come se fossero tutti vicini di casa. I discorsi sul pianerottolo giravano intorno ai pettegolezzi sulle vedove Kennedy, ma la
donna si preoccupava anche delle conseguenze
che la morte prematura dei due fratelli avrebbero
recato all’equilibrio politico delle altre nazioni. Erminia tifava per la contestazione, ma sperava che
gli studenti “non rovinassero le scuole già tanto rovinate.” Non le piaceva Paolo VI “troppo freddo e
diplomatico” affermava, e quando era stato seppellito Don Milani, aveva detto sconsolata “avrei
voluto che fossero i miei figli a buttare una manciata di terra su quella bara.”
I figli erano diversi dalla madre. Indifferenti alle
questioni sociali, lustravano l’automobile nei momenti liberi e correvano a mangiar fuori la domenica. Delle due nuore soltanto una si trovava
qualche volta d’accordo con la suocera, l’altra preferiva tacere. Quando i giornali pornografici si affacciarono nelle edicole si scandalizzò, ma nello
stesso tempo si chiese se una maggiore libertà dei
costumi potesse aiutare le donne a uscire dall’arretratezza in cui si trovavano. Le piaceva molto leggere ma ai libri, ai quali non era stata abituata,
preferiva i giornali “dicono le cose con più velocità”
sosteneva quasi avesse fretta di recuperare il
tempo perduto e spendeva i risparmi non soltanto
nei rotocalchi femminili, ma in un qualsiasi quotidiano che il giornalaio le conservava ogni giorno
anche se passava a ritirarlo la sera.
90
Quando il signor Giulio si allettò dopo una trombosi, cominciò il declino. Lo accudiva come una infermiera, era diventata persino brava nel correre
da un ufficio all’altro per difendere quei diritti di
cittadina con un malato a carico, che andavano affermandosi. Ma la situazione sanitaria lasciava ancora molto a desiderare e la donna si sfogava con
Virginia raccontando di file lunghissime, di impiegati sgarbati, di medici frettolosi, di ospedali disorganizzati. L’entusiasmo che aveva sempre
avuto per la vita incominciava a diminuire. Era
stanca. I figli, quando l’andavano a trovare, continuavano a parlare di calcio e di automobili, e
anche se ripetevano “Mamma non ti affaticare,
chiamaci se hai bisogno.” sapevano bene che la
madre avrebbe continuato a fare tutto da sola
come aveva sempre fatto.
Virginia, distratta dall’attività che svolgeva e dall’aprirsi di quei nuovi orizzonti sociali che comunque coinvolgevano chiunque avesse un po’ di
sensibilità, non riusciva più a dare alla vicina di
casa le attenzioni di cui avrebbe avuto bisogno e la
voce sempre più debole del signor Giulio che ripeteva in continuazione “Ermiiinia… dove sei?” lasciava sul pianerottolo un’eco di dolore inascoltato
mentre le due donne continuavano a trascinare le
chiacchiere fuori degli usci. Parlavano di quello
che avveniva intorno. Erminia era delusa, Virginia
incredula.
Raramente si era discusso in casa Ferrin di politica e quando succedeva, Genietta non aveva prestato eccessiva attenzione ai discorsi dei grandi,
presa come era dalle fantasie infantili e dal sogno
dell’amore. Una famiglia la sua, in cui alla lettura
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si dava poco interesse. Soltanto la domenica il
padre comperava Il Messaggero, né in casa De
Rossi c’era stato un miglioramento. Carlo acquistava tutti i giorni Il Tempo, ma lo lasciava in ufficio. Virginia aveva letto i rotocalchi soltanto dal
parrucchiere ed era stata Maria Rosa ad invogliarla ai libri, glieli prestava o le raccontava la
trama di quelli che leggeva e, appena usciti in edicola, le aveva regalato alcuni degli Oscar Mondadori che Virginia aveva letto con avidità. Quando
nacque il Manifesto, divenne un’abitudine sfogliarlo in ufficio dove Attieri lo portava ogni giorno.
Continuava a non capire molto di politica anche
se era consapevole di vivere in un momento storico importante.
Contestazione. Ideali, ideologie.
Parole grosse dal significato astratto, parole che
l’attiravano. Osservava ciò che succedeva per
trarre conclusioni. Da sola, istintivamente. Non
era mai stata una ribelle, non se la sentiva di urlare, eppure qualcosa le suggeriva di adeguarsi.
Donna negli anni ‘70.
Le altre che facevano? che avevano fatto?
Le ricche signore dei Parioli… Erminia… Sua
madre morta portandosi nella tomba ciò che pensava. Sua nonna, così lontana… avvolta in abiti
neri mai smessi, simbolo di una vedovanza che ad
ogni costo doveva renderla triste. Ed Alba che pericolosamente non aveva potuto diventare madre?
Le assistenti del kinderheim licenziate senza liquidazione, e le dattilografe dal notaio che lavoravano
a cottimo…
Insegnò a Michele a camminare ma anche a cucire.
Al parco quando lo vide tornare piangendo perché
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gli altri bambini non gli volevano far recitare la parte
della mamma dato che non era una femmina, lo
consolò, ma messi i suoi compagni in cerchio spiegò
loro il significato dei ruoli imposti, l’uguaglianza sociale, la parità dei diritti. Come pensava che dovesse
essere, che fosse… Gli raccontò di un padre che
aveva voluto essere soltanto maschio. Si espose
come madre libera e indipendente. Si prese la responsabilità di crescerlo da sola e con lui crebbe
anche lei. Non aveva voluto battezzare quel figlio
frutto di una masturbazione mentale, non volle neanche fargli fare la prima comunione, ma alle domande su Dio e sul perché si vive non seppe dare
risposte. Sentiva l’entità divina come una cosa che
non le apparteneva. La religione a cui era stata educata, non le aveva posto grosse limitazioni, ma non
le aveva dato neanche grandi aspirazioni. Si doveva
credere e basta. I precetti festivi erano un motivo
per vestirsi bene, uscire e andare in chiesa. La Madonna e i Santi erano benefattori a cui chiedere
aiuto, Gesù era la rappresentazione del dolore. Il
bene era Dio, il resto era Diavolo e se si disubbidiva
a regole di buona condotta si finiva all’Inferno. Le
preghiere imposte dalla madre le uscivano dalle labbra, non dal cuore, eppure a Michele aveva voluto
insegnare l’Angelo di Dio e come una favola ogni
sera glielo ripeteva, qualche volta canticchiando.
***
Virginia, “direttore commerciale” alla Attieri S.r.l.,
aveva un ruolo importante nella società, scritto
93
nell’atto costitutivo, ma in realtà aveva dovuto
svolgere ogni incombenza fosse stata necessaria al
buon andamento dell’ufficio, compreso il pulire il
bagno. Come giocolieri, lei Anselmo e Dodo, il grafico appena assunto, si erano rubati la scena facendo acrobazie fra scrivanie e telefoni per
impersonare dipendenti che non c’erano, incarichi
che non avevano. Ma i primi mesi di vita dello studio pubblicitario furono sorretti dall’entusiasmo
della novità. L’ottimismo era grande anche se avevano un unico cliente, la casa farmaceutica Meoni,
che Attieri si era portato dietro e che dava da fare
per dieci. Il corpo umano con le medicine per curarlo, imperava ovunque. Gambe, braccia, intestini e teste, diventati compagni di avventura,
mostravano spudoratamente la complessità delle
loro fibre. Disegni a non finire, didascalie e informazioni da stampare sui dépliant e sui foglietti illustrativi. Un’orgia di parole difficili. Bisticci visivi
e ortografici che stimolavano giochi di frasi e di immagini. La serietà dell’impegno era alleggerita
dallo scherzo e quando arrivò un industriale che
voleva fare pubblicità ad un complesso sistema di
valvole meccaniche per l’idraulica, non si riuscì a
progettare altro che una pagina illustrata in cui,
incastrato tra lucidi tubi di rame, un succoso
cuore umano riusciva a pompare ogni genere di liquidi senza intasarsi.
L’America dettava legge nel campo della comunicazione e Anselmo, desideroso di gestire la persuasione occulta, pur parlando male degli
americani, voleva recarsi negli Stati Uniti per assorbire quel modo di promuovere cose e fatti che
avrebbe assunto, a suo dire, un’importanza capi94
tale sia nel commercio che nella politica e intanto,
aspettando l’occasione giusta, si dava un gran da
fare per acquisire nuovi clienti. Gli piaceva la vita
di società e spesso cercava rapporti di affari nei salotti o al tavolo di un ristorante.
Figlio di un noto chirurgo, aveva seguito le orme
del padre soltanto nel disegnare gli organi umani,
ma la gioventù passata tra gente che conta e le
buone disponibilità economiche, lo avevano aiutato. La professione scelta, insolita per i parenti
abituati alla laurea e alle carriere di prestigio, non
era ben vista dalla famiglia, che comunque aveva
accettato le sue decisioni lasciandogliele fare senza
aiutarlo economicamente.
L’agenzia pubblicitaria cominciò ad affermarsi. Il
via vai di ragazzi estrosi che venivano a offrire le
loro idee e tutta quella gente che voleva ingegnarsi
in mestieri nuovi, pronta a inventarsi occasioni e
a creare avvenimenti utili alla realizzazione di un
progetto originale o avveniristico, portavano all’esaltazione di ciò che si stava facendo. C’era nell’aria l’eccitazione del benessere da sfruttare.
Fegato e milza non bastavano più all’ambizione
dell’amministratore unico della società. Anselmo
lasciò a Virginia l’incombenza di coordinare il lavoro all’interno dello studio e Dodo, aiutato da un
altro grafico, non sentì più il bisogno di ricorrere
all’aiuto del “capo”, come affettuosamente veniva
chiamato Attieri o alla disponibilità della “direttora”, come aveva soprannominato la collega, per
esibirsi in azzardate strategie d’immagine.
Fu assunta Anna Maria, gracile segretaria dagli
occhioni blu che rimasero la sua maggiore qualità.
Virginia, pur non amando la vita mondana, veniva
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convinta da Anselmo a seguirlo negli incontri serali che a suo dire avrebbero reso più contatti con
lei al fianco. All’apparenza disinvolta, la giovane
donna non lo era affatto. Non riusciva a dire tutte
quelle cose importanti nei contatti di società che
si dovrebbero dire per dare maggiore importanza
alle persone. Diceva solo nome cognome nelle presentazioni e veniva per questo rimproverata da Attieri che, invece, era maestro nell’attirare
l’attenzione sul ruolo o sul grado di appartenenza
di chi doveva essere messo in evidenza. “La signora Ferrin De Rossi direttore commerciale della
società” sillabava ogni volta presentando Virginia
che però continuava a sentirsi Virginia e basta.
Il parrucchiere le aveva rischiarato i capelli che
portava raccolti morbidamente sulla nuca, la profumiera le aveva consigliato Chanel numero 5 e
Madame D, la proprietaria della boutique vicino all’ufficio, aveva insistito per farle acquistare un
abito di Mila Shone. Non sfigurava affatto al fianco
dell’Amministratore Unico della Attieri S.r.l., elegante, magro, alto quel tanto da non apparire
basso, con le tempie leggermente spruzzate di
bianco, che mostrava l’aria vissuta negli inchini
alle signore o nel perfetto baciamano.
Anselmo non era sposato, ma da quel che si diceva
l’amore non lo aveva benedetto. Si era trovato
coinvolto sempre in storie volute dalle donne, storie complicate che lo portavano a consumare la
passione in telefonate nevrotiche e amplessi problematici. Stefania, l’ultima fidanzata, ancora lo
chiamava al telefono per piagnucolare sui problemi da affrontare o chiedere consigli sul come
comportarsi con l’uomo del momento che non vo96
leva sposarla. Attieri, da cui la ragazza aveva preso
le distanze per lo stesso motivo, non aveva il coraggio di mandarla a quel paese e le lagne di lei,
che lo tenevano per ore all’apparecchio, lo irritavano al punto da fargli scaricare ogni nervosismo
sulla sciarpe che indossava. Ne aveva tante, più
d’una per ogni stagione, correva voce che le indossasse anche di notte e di giorno gli servivano oltre
che per dargli un’aria da artista, per rovesciare
sulle frange il proprio nervosismo. Nei momenti
più tesi afferrava con una sola mano gli orli della
sciarpa allontanandola con violenza dal torace
mentre lo strappo, procurandogli un contraccolpo
alla nuca, gli faceva oscillare la testa in avanti e
indietro con un movimento che ricordava il beccare della gallina. Tirava il collo come per sgranchirsi e riprendeva i bordi della sciarpa che aveva
mollato, incominciando a sfogliarne le frange come
fossero petali di margherite. Ne sceglieva accuratamente una, non si sa bene con quale criterio,
sempre la stessa, per arrotolarla e srotolarla intorno all’indice ripetute volte fino a strapparla con
un colpo secco. Dopo di che infilava il pezzo in
tasca e diventava un gioco per i colleghi scommettere sul numero di frange che avrebbe raccolto alla
fine della giornata.
Il rapporto tra Virginia e Anselmo era fatto di stima,
fiducia e complicità sul lavoro. La confidenza, caratteristica dell’ambiente in cui si muovevano, non
era riuscita a stabilirsi completamente fra loro,
sembrava che una lastra di vetro li separasse anche
nei momenti più cordiali. Quando uscivano insieme
per rappresentare la società, il comportamento
estremamente formale non avrebbe dovuto destare
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sospetti, ma erano in molti a pensare che fossero
amanti. Il pettegolezzo si sentiva nell’aria e solo
qualche volta una strana euforia li coinvolgeva
portandoli a scherzare come se realmente lo fossero. I gesti ormai erano diventati un rituale. Uscivano insieme dall’ufficio e mentre Virginia si
assicurava che la sua vecchia Seicento fosse posteggiata dove l’aveva lasciata e non avesse multe,
Anselmo la raggiungeva con la sua Lancia fuoriserie, di cui era molto orgoglioso e sulla quale, insieme, si recavano dove dovevano andare. Durante
il percorso stabilivano la tattica di comportamento
e al ritorno si scambiavano preziose informazioni.
Si davano un bacio formale prima di lasciarsi e
una volta soltanto nel salutarla lui le aveva trattenuto la mano mormorando “che serate sbagliate” e
lei era scesa senza sapere cosa rispondere.
La Attieri S.r.l. cominciava ad essere un nome. Anselmo era riuscito ad andare negli Stati Uniti ed era
tornato carico di manuali e di idee. Virginia dovette
aggiornarsi con un corso di inglese per pronunciare
bene tutti quei termini che stavano invadendo il
lessico della comunicazione. Fornitori e collaboratori si moltiplicavano, la confusione era tanta, ma
il cliente rimaneva sovrano. Con lui “ci si doveva fidanzare” sosteneva Attieri e come fidanzate esigenti si comportavano nei loro riguardi le aziende,
obbligandoli ad appuntamenti impossibili in orari
impossibili, chiedendo sempre nuove proposte,
nuovi preventivi, nuove idee. La signora Ferrin De
Rossi non aveva tempo per pensare ad altro.
***
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Mino Trere un uomo pieno di brio, sempre allegro
anche quando non aveva motivo per esserlo, riempiva lo spazio accentrando l’attenzione su di sé e
non perché fosse bello, né perché possedesse quel
fascino immediato che a volte anche i brutti sprigionano, ma per il suo simpatico modo di fare.
Abilissimo nel comprendere al volo quello che
stava per dire la persona a cui si rivolgeva, aveva
sempre la meglio nelle conversazioni e quando si
trovava in difficoltà era altrettanto abile nello spostare l’attenzione su un argomento diverso riuscendo a tenere viva l’attenzione su di sé. La
professione lo aiutava o forse aveva scelto di fare il
giornalista proprio per le caratteristiche che possedeva. Era attirato dalla politica di cui parlava
con competente disinvoltura, ma scriveva per la
pagina sportiva de Il Messaggero. Erano appena
passate le Olimpiadi di Monaco quando Dodo lo
introdusse alla Attieri S.r.l. dove Anselmo gli diede
l’incarico di scrivere i testi per la campagna pubblicitaria di una nota casa di articoli sportivi. L’attentato terroristico avvenuto durante le gare,
aveva dato maggiore notorietà ai suoi servizi e lui,
con malcelato orgoglio, non si asteneva dal ripeterne il racconto quasi che il merito della conclusione fosse suo. Scrivere per far comperare
magliette e calzoncini lo divertiva e l’allegra spensieratezza che metteva nel provare frasi e battute
era contagiosa, ma la sua esuberanza si manifestava soprattutto nell’appassionarsi agli intrighi di
potere che gli davano lo spunto per trasformare in
gioco la realtà. Bravissimo nel commentare alla
Enrico Ameri le partite di calcio, faceva scendere in
campo gli uomini di governo così come le chiac99
chiere di corridoio gli suggerivano. Giulio Andreotti era il suo personaggio preferito e assecondando la situazione del momento, lo lasciava in
panchina o lo faceva giocare nei ruoli più diversi.
Era uno spasso sentirlo. Anche Virginia, che capiva poco di politica e tantomeno di sport, si divertiva. Ma quando Mino volle ridicolizzare le
ultime Olimpiadi mimando una partita tra palestinesi e israeliani, la donna sentendosi addosso la
tragedia degli undici morti, lasciò la stanza con
evidente disappunto.
Quel giorno, prima di andare via, Trere nel salutarla, “meglio ridere”, le aveva detto con insolita
gravità .
***
La telefonata l’aveva colta di sorpresa e non era
riuscita rispondere come avrebbe voluto. Non
avrebbe mai accettato l’invito di Mino come non
aveva mai accettato inviti che le venivano fatti
dalle persone che frequentavano l’ufficio. A casa
erano in pochi a chiamarla. Chi gli aveva dato il
numero? E perché proprio di sabato? Per andare a
colazione poi… Si era subito pentita di avere accettato, ma la velocità e la precisione con cui lui le
aveva indicato l’ora e il luogo dell’appuntamento
non lasciavano spazio al rifiuto.
Meglio lavarsi subito i capelli, dal parrucchiere
non avrebbe fatto in tempo ad andare. La doccia le
diede energia e asciugandosi la testa con il phon
decise di lasciarli sciolti. Insistette col trucco, ma
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rimase incerta sull’abito da indossare.
Alla fine di via Giorgio Scalia, dove i palazzi lasciavano spazio alla sterpaglia, seduto al volante di
una Giulietta bianca, il giornalista vide arrivare
una giovane donna vestita di azzurro. Le gambe
affusolate sui tacchi alti uscivano dalla gonna
corta ma non cortissima. Era bella come pensava.
Uscì per aprirle lo sportello e in mano aveva una
orchidea bianca screziata di rosa.
Il pranzo si allungò fino alla domenica.
Virginia rientrò a casa ubriaca di baci e di parole.
Difficile fu raccontare a Michele quello che le stava
capitando, difficile fu non far pesare su di lui la
sua disattenzione. Continuava a scrivere con la
forza dell’euforia, ma a quel bambino immaginario, divenuto improvvisamente adolescente non
poteva nascondere l’amore.
***
Alla Attieri pareva non si fossero accorti di nulla.
Virginia e Mino cercarono di tenere nascosta la verità sul loro amore, altre persone non ne frequentavano e la loro storia sembrava scorresse liscia
come l’olio. Soltanto quando capitava di incontrare
insieme le conoscenze di Mino, lui assumeva nei
riguardi della compagna l’aria distaccata e riverente che si usa in compagnia di una persona di
grandi qualità ed a cui si deve rispetto e se quel
comportamento lusingava la donna, le lasciava
però una grande incertezza. Avrebbe preferito essere presentata con più confidenza, come una
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compagna, la sua compagna, ma il rapporto era
stato impostato chiaramente, ognuno avrebbe dovuto continuare la propria vita, l’amore era qualcosa in più. E poi perché pensare ad un rapporto
ufficializzato se già tutti e due avevano un matrimonio fallito alle spalle? Perché infilarsi ancora in
una istituzione superata che andava corretta? Virginia era stata una delle prime a usufruire della
legge sul divorzio, Mino invece pur volendo concludere il precedente vincolo rimandava gli incontri con l’avvocato che ogni volta, purtroppo,
coincidevano con improvvisi e inderogabili suoi
impegni di lavoro.
Per Virginia fu un sentimento nuovo, inebriante.
Quante cose le faceva conoscere Mino, del sesso e
della vita. A chiudere un amplesso c’era spesso
una battuta. Sapeva parlare di ogni argomento e
diceva la sua su tutto. La portava a mangiare in
quei locali caratteristici dove il cibo esaltava l’incontro, la portava in quei paesini vicino Roma,
pieni di storia e di ruderi facili da illustrare e che
lui sapeva così bene arricchire di fantasia e in città
le raccontava di strade coperte di fiori e di velluto.
La professione però lo impegnava molto. Questi
impegni, spesso improvvisi, diventavano un motivo per incontrarsi soltanto nel momento che lui
riteneva più opportuno e allora Virginia, che piena
d’amore accettava ogni sua decisione, lo rincorreva
con il pensiero, cercando ogni spunto per sentirlo
vicino. Allungava il tragitto per potere percorrere
vie e piazze che facevano parte degli itinerari consueti di lui, Mino, il suo uomo e camminava dove
non era solita passare, per ascoltare dal riflesso
dei muri e dall’ombra degli alberi il racconto dei
102
suoi passi, per immaginare l’essenza del suo pensiero. Viale dello Stadio Olimpico la riportava al
clamore delle partite e lo vedeva in piedi, pronto a
sporgersi, per urlare contro un goal sbagliato.
Guardava tutte le Giuliette bianche sperando che
dentro ci fosse lui. Camminava lungo via del Tritone rincorrendo i suoi passi, con la speranza di
incontrarlo, e davanti al pomposo palazzo de Il
Messaggero si fermava annusando l’aria come per
respirare l’odore del piombo che lui, nel racconto
della sua giornata, le descriveva esaltandosi come
un giornalista dell’ottocento.
Coriandoli di sentimento sull’asfalto. Per una
donna sola. Una donna innamorata.
La signora Erminia si era accorta del cambiamento
della vicina di casa, il fatto che bussasse meno alla
sua porta l’aveva insospettita. La confidenza era
poi giunta spontanea. Un lampo di vitalità nuova
per la anziana signora che ormai era completamente dedita all’accudire il marito. Insistette per
conoscere Mino, e per Virginia non fu facile convincere l’uomo a recarsi nell’appartamento di via
Giorgio Scalia dove era riuscito a non a non mettere mai piede “Per mantenere la tua buona reputazione” ripeteva “ per non farti affaticare a
preparare la cena… e poi è più divertente fuori” aggiungeva ridendo. Infatti era bravissimo nel trovare spazi nascosti o alberghetti disposti a offrire
l’intimità che una coppia provvisoria richiede.
Il compleanno di Virginia fu l’occasione giusta per
accontentare Erminia. Mino non riuscì a non accettare l’invito e quando al settimo piano aprì la
porta dell’ascensore con in mano un gran mazzo
di rose c’era ad aspettarlo, come se avesse chia103
mato lei l’ascensore, la signora Erminia che lo
guardò da capo a piedi e sorrise prima di sparire
nella cabina.
L’uomo capì. Ma la festa finì senza l’amore. Non
volle farlo e quando andò via, poco prima di mezzanotte, Virginia si sentì stupida e cercò di scherzare chiamandolo “Cenerentolo”.
A Maria Rosa invece non raccontò subito le sue
emozioni. Capitò per caso al telefono, ma dopo parecchio tempo. A volte non si vedevano o sentivano
per mesi e nessuna delle due si preoccupava eccessivamente, consapevoli che la vita diversa e le
distanze della città rendevano difficili gli incontri.
Maria Rosa aveva realizzato i sogni del passato trasformandoli in impegni per mandare avanti la casa
e crescere Alberto e Monica, che ormai rappresentavano il suo maggiore interesse o almeno così credeva. Lucio le dava la sicurezza di un rapporto
chiaro e pur sentendosi complice del comportamento senza legami che Virginia e Mino tenevano,
non riuscì ad approvare completamente il comportamento dell’amica.
Virginia era diventata più bella e l’avevano notato
in molti. Non metteva maggiore cura nel vestirsi e
continuava a truccarsi poco, ma l’espressione del
viso era raggiante e l’umore anche. La gioventù sopita fino a quel momento le accendeva lo sguardo
di strani bagliori. Si sentiva diversa e si comportava in modo diverso. Con il panettiere ironizzava
sul doppio senso a cui poteva dare adito lo sfilatino, si informava della salute del figlio della sorella
del cognato della fruttivendola di cui non le era mai
importato nulla e sorrideva agli sconosciuti a volte
attaccando discorso. Magia dell’amore.
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In ufficio canticchiava mettendo in ordine i fogli e
Anna Maria, meravigliata, le sgranava addosso i
grandi occhi blu. Dodo nel parlarle aveva aggiunto
quell’interesse che gli uomini mettono nel guardare le donne di cui vogliono scoprire la sensualità
che altri hanno appena scoperto. Anselmo invece
sembrava non accorgersi di nulla e se qualcuno in
sua presenza stuzzicava la collega con qualche
frase allusiva, mentre a lei saliva un leggero rossore, lui neanche sorrideva.
Voglia di ritrovare nei colori il senso della propria
immagine. Lettere e figure ancora si animarono
per Virginia e aprirono i libri per aggiungere alle
parole già scritte le frasi dell’amore. Stava godendo
di una relazione in cui la spensieratezza cedeva il
posto all’impegno del futuro. Provava il piacere del
presente come non lo aveva mai provato. Perché
preoccuparsi? La società cambiava le abitudini superandole con l’apertura al ragionamento ispirato
dai tempi. Era una donna libera, riuscita, solo ogni
tanto incominciava a sentire il desiderio di avere
Mino anche in casa, la sera, per dormirci a fianco.
Potergli telefonare ogni volta che ne aveva voglia…
troppo spesso restava sola.
Ricominciò a camminare per le strade alla ricerca
di qualcosa che non sapeva bene cosa fosse. Ricominciò a stringere in pugno le foglie che strappava
ai cespugli per sentire compagnia.
Prese Michele per mano e parlandogli dolcemente
scoprì la città guardandola con i suoi occhi. Gli
occhi dell’innocenza. Si addentrò nei meandri del
potere cominciando dai luoghi. Palazzo Madama, il
Quirinale, Montecitorio… Oltre alla storia delle
mura cercava il significato delle istituzioni. A Mino
105
poi chiedeva conferma delle sue osservazioni e lui
sempre mimando partite di calcio, dava una personale interpretazione della società.
Portò Michele a San Pietro e non per pregare. Si
incuriosì alle ambasciate e mentre quella degli
Stati Uniti a Via Veneto la impressionò per la prestigiosa imponenza, Villa Abamelek, sede della
rappresentanza dell’Unione Sovietica, la spaventò
per le mura massicce e l’impossibilità di spiarci
dentro.
Meglio passeggiare a piazza Navona, e da Rosati
prendere un aperitivo.
Nella fontana di Trevi scoperta troppo tardi, volle
immergere Michele e lo scroscio dell’acqua fu musica.
Sempre più avida di conoscere, di sapere, acquistava libri e leggeva di notte. I giornali erano pane
quotidiano per l’agenzia e sfogliarli non le bastava
più. Pasolini l’aveva avvicinata a un mondo intellettuale che non capiva e anche se “Ragazzi di vita”
l’aveva introdotta in una realtà da cui era stata per
fortuna lontana, non riusciva a comprendere
l’uomo, e il parlare che si faceva intorno all’artista
la lasciava perplessa. Benediceva Michele e i suoi
capricci. Amava Mino e le sue battute. Era Virginia
che incominciava a preoccuparla.
Giorni in cui l’Inferno e il Paradiso la chiamavano
mentre su di lei si increspava il Limbo del presente. Mamma di carta.
Quel figlio inventato la inquietava. Studente al Mamiani, riempiva i quaderni di punti esclamativi. Gli
interrogativi rimanevano per aria e quando rientrava dai cortei scalmanato e stanco, non le restava
che accarezzargli il volto contenta che fosse tornato.
106
Dodo le prestò “Un’arancia a orologeria”, di Burgess. Se ne era accanitamente discusso in ufficio.
Virginia non dormì finché non l’ebbe finito. Stimolata dal linguaggio provocatorio, immersa nella
violenza che non voleva leggere, ma dalla quale era
attratta, entrò nella rivoluzione senza accorgersene per ritrovarsi turbata e nello stesso tempo appagata di qualcosa che sentiva dentro e non
riusciva a esprimere.
“L’ho loccato fratello” disse riconsegnando il libro
“è molto piccolopoco cinebrivido” e Dodo le battè
un pugno sulla spalla rispondendo con i gesti al
gergo della ribellione.
La contestazione la trascinava e lei si lasciava condurre, ma la corsa si faceva sempre più affannosa.
Avrebbe voluto superare Mino per voltarsi e fargli
uno sberleffo. I loro incontri si erano diradati, i
loro discorsi si erano svuotati di significato. Lui
non le insegnava più come riuscire a ridere e lei
non gli chiedeva più cosa pensasse della vita.
L’estate stava finendo.
Sentendosi addosso il torpore dell’inverno Virginia
volle reagire. A Mino, che le proponeva di incontrarsi al solito posto, propose invece di salire a
prenderla in ufficio. Alle otto non ci sarebbe stato
di sicuro più nessuno e avrebbero potuto fare
l’amore in un modo diverso. Il suono del campanello la colse mentre si rinfrescava il trucco. Aprì
la porta sciogliendosi i capelli. Festosa lo condusse
a vedere gli ultimi bozzetti. I colori furono ancora
artefici di fantasia. Uno sguardo al giallo e abbracciò il compagno, un’occhiata al rosso e lo condusse nel bagno. Lì, come una vergine spudorata,
incominciò a slacciargli la lampo dei jeans.
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L’uomo più che coinvolto era divertito.
Le mani diventate abili scendevano nell’intimità
che prendeva consistenza. Il bacio profondo che li
unì schiacciati tra il water e il lavandino di appassionato aveva soltanto l’apparenza. Le mani di
Mino frugavano nella scollatura di Virginia che scivolò via dall’incastro spingendo Mino sul bordo
della vasca. Dolcemente lo fece sedere. Era completamente esposto al suo sguardo.
Per terra il pizzo delle mutandine sembrava danzasse.
Volse la schiena alle voglie dell’uomo e pronta a
chinarsi assaporò l’amplesso che voleva godere
così.
Il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva li
fece sobbalzare. Un attimo e mentre Mino cercava
di ricomporsi, Virginia lo chiuse dentro e con spavalderia passò di stanza in stanza per vedere se
era entrato qualcuno. Sulla scrivania di Anselmo
gli occhiali da sole e l’agenda, che prima non
c’erano, fecero capire alla donna che Attieri era
passato per prendere qualcosa. Si era accorto di
loro?
In silenzio scesero le scale, in silenzio salirono in
macchina e la pizza che mangiarono non aveva il
sapore di sempre. Inutili le battute di spirito, inutili le carezze per dissipare l’imbarazzo. Salita in
macchina Virginia salutò il compagno con un sorriso vuoto. Lui le prese la mano “…e poi sei stata
tu che hai insistito per farmi salire, io non ero venuto nel tuo ufficio per scopare.”
La donna accese il motore sperando che scoppiasse. La macchina scappò con un balzo. La
strada offuscata dalle lacrime sfumava i palazzi.
108
Non se la sentiva di guidare. Accostò e scese. Seguì
i passi che la conducevano senza che lo volesse.
Rare le automobili, nessun passante. Avrebbe potuto succederle di tutto e lei avrebbe voluto che accadesse qualcosa.
Le strade, come i pensieri, seguivano direzioni che
non aveva scelto, direzioni vecchie, nel quartiere
che l’aveva accettata senza accoglierla. Riconobbe
gli alberi con i fiori appassiti, i villini, le targhe sui
portoni. Non riconobbe la maestra d’asilo che era
stata. Ordinò ai piedi il cammino da percorrere, ordinò ai pensieri la strada da seguire. Era una persona adulta ormai, poteva fare quello che voleva e
l’ufficio in parte era anche suo, Attieri non avrebbe
dovuto comportarsi in quel modo… entrare come
un ladro… per poi far capire che aveva visto…
Che stupido!
Piombò nel sonno come se l’avessero tramortita,
ma la sveglia segnava le quattro quando finì di
dormire. Dal comodino prese “Porci con le ali” il
libro rimasto aperto dalla sera prima. Rilesse la
pagina che aveva già letto.
“In due in piedi in un cesso dopo il clic della chiave
girata nella toppa, con odori di borotalco e lucido da
scarpe e il ricordo di quando Laura gli ha preso in
mano il pisello e leccato i peletti eccetera eccetera
nell’intervallo della coppa Wimbledon.”
Antonia con Rocco, protagonisti di una rivoluzione
che aveva coinvolto anche lei, alle soglie dei quarant’anni.
Ancora…
Che adolescenza diversa la sua… quei particolari
fisici e sensuali che allora nessuno diceva… lei che
aveva visto l’angelo custode tramutarsi nel bersa109
gliere del monumento di porta Pia, e quando le
strette al basso ventre le avevano fatto lamentare
la colite, nessuno era stato capace di spiegarle la
naturalezza della gioventù.
Ancora…
Antonia con i desideri di affermazione tramutati in
orgasmi, Virginia con i desideri d’amore tramutati
in allegria. L’impegno politico per sostituire la famiglia nella ragazza, l’affermazione nel lavoro per
sostituire i figli nella donna. Chissà cosa avrebbe
fatto Antonia alla sua età. Lei era rimasta ragazza.
***
Alla Attieri S.r.l. sembrava che non fosse successo
assolutamente nulla. Anselmo si comportava come
sempre. Soltanto dopo qualche giorno, durante
uno dei soliti ricevimenti in cui erano andati insieme, Virginia alla fine della serata lo aveva trovato su una poltrona che beveva attaccato alla
bottiglia e non doveva essere il primo sorso. Con
un comportamento insolito per lui l’aveva tirata
per un braccio e “dai bevi che fa bene” aveva detto
agitando la bottiglia sguaiato.
Nei giorni che seguirono non scese come sempre a
mangiare un panino con gli altri e impose a Virginia di rimanere anche lei in ufficio nell’ora di
pranzo adducendo lavori improvvisi da terminare.
L’atteggiamento insolito non sfuggì ai colleghi e
tanto meno sfuggì a Virginia che tentò di ribellarsi
chiedendo spiegazioni, ma lui meravigliato negò
ogni comportamento anomalo e divenne gentile in
110
modo esagerato. Una sera le propose persino di
andare al cinema. Lei rifiutò. Non era mai successo che l’invitasse per qualcosa di diverso dai
doveri di ufficio. Continuò con la proposta di una
cena a due. Le propose un teatro. Virginia trovò
una scusa. Gli inviti cessarono, ma le sciarpe che
indossava al mattino, la sera avevano perso quasi
tutte le frange.
Mino quando la incontrava, e succedeva sempre
meno, l’amava e rideva, ammiccando ogni volta
che in un locale doveva recarsi in bagno.
***
Quante volte Michele si era chiuso nel cesso per
provare la potenza della sua mascolinità?
Era poi così importante che lei lo sapesse?
Michele Michele Michele, ragazzo verde diverso
dagli altri perché germoglio della sua fantasia. Michele azzurro rosso viola. Michele tazebao, Michele
col fazzoletto sulla bocca. Michele con la pistola in
pugno, fortunato perché non ha una famiglia.
Michele Rocco con la sua Antonia che lo fa soffrire
e lei mamma che non vuole vedere.
Michele non deve crescere. Michele resta così! Ragazzo pieno di sogni e di certezze.
Non uomo.
Un uomo.
Il suo uomo. Il compagno.
È’ compagno chi ha le stesse idee politiche. È compagno chi scopa con una donna tante volte per un
tempo abbastanza considerevole.
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Mino è un compagno lungo. Anni di appuntamenti
e di scopate.
Che bel compagno!
Anche Virginia è una brava compagna, gli ha dato
subito il “tu” ed anche il resto… È sempre pronta
ad ascoltare, ma anche a controbattere quel tanto
che basta per accendere la discussione fino a farsi
convincere che quello che dice lui è vero. Inneggia
all’uguaglianza sociale e ai diritti delle donne e
ogni volta che le era capitato di credere di essere
incinta aveva inneggiato all’aborto.
Questa volta no.
Il ritardo del ciclo ha raggiunto il mese e le analisi
dicono che a Michele sarebbe nato un fratellino.
È il momento di mettere su famiglia. Virginia una
casa ce l’ha, un lavoro pure e c’è anche un vero
papà. Mino. Avrebbe potuto trasferirsi da lei e riconoscere quel figlio che disturbava la libertà di
entrambi, ma completava l’amore. Avrebbero potuto vivere felici e contenti per formare quella generazione futura in cui credevano di credere.
“Fratello sono incinta” sussurrò Virginia a Dodo
nell’intervallo del pranzo “e tu sai chi è il padre.
Hai loccato abbastanza per avere capito chi è il
mio compagno.”
“Urg urg urg” fece lui “Dammi un pugno.” E lei
glielo diede. “ Accidenti… e ora che fai?”
“Me lo tengo anche se lui fa lo stronzo”
Ecco, la parola che ormai pronunciavano tutti
senza pudore e che lei per atavico pudore si era
sempre rifiutata di pronunciare esprimeva pienamente il concetto.
Dodo sapeva e non lo aveva detto. Mino a Cotignola aveva già una famiglia. Non era separato
112
dalla moglie e quando diceva di recarsi a trovare i
genitori, andava soprattutto per vedere Ghesde la
figlia, una adolescente con gli occhi di fuoco, che
della nonna paterna aveva ereditato il nome.
Ma andava anche per adempiere ai suoi doveri di
marito affettuoso.
Dodo non aveva voluto turbare Virginia finché
l’aveva vista felice. La donna però non era più felice e la storia si faceva seria. Meglio essere sinceri.
Tracciando ghirigori col pennarello nero su di un
foglio immacolato, disse tutto quel che sapeva e
alla reazione di lei non poté fare altro che unire al
pentimento per non aver parlato prima, la comprensione dell’amicizia.
Nel frattempo aveva preso a frequentare l’agenzia
Tiziana, una ragazza poco simpatica ma nell’aspetto “assai booona”, come diceva Dodo. Era la
figlia del proprietario di una industria chimica che
produceva insetticidi, Anselmo l’aveva conosciuta
durante una delle serate mondane a cui partecipava e per ingraziarsi il padre, che gli aveva promesso di affidargli la pubblicità della sua ditta, le
aveva offerto di dare una mano in ufficio senza sapere bene che cosa farle fare. Dodo aveva proposto
una campagna pubblicitaria contro gli insetti nocivi, Virginia avrebbe voluto sterminarli. Il piccolo
essere che portava dentro voleva attenzioni e la situazione intorno stava prendendo un andazzo che
non le piaceva affatto.
Com’era stata diversa la gravidanza di Michele!
Il corpo cresceva, la mente non sapeva più cosa
pensare. Sete. Sete di latte. Latte per nutrire di futuro i cuccioli d’uomo. Latte sterilizzato, scremato,
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a lunga conservazione. Comunque latte, per non
uccidere il sogno. Per non uccidere la realtà.
L’emorragia la portò in ospedale mentre era in ufficio. Successe di pomeriggio, dopo aver mangiato
il solito panino, quando ci si siede un po’ sonnacchiosi al proprio tavolo senza avere voglia di lavorare. Virginia quel giorno non si sentiva molto
bene. La sera prima c’era stata una grande litigata
con Mino. Un chiarimento. Non avrebbe mai lasciato la moglie che non amava, ma era un’ottima
madre. Non voleva procurare traumi alla figlia.
Continuava a chiederle scusa. “Se ti avessi detto la
verità ti avrei perso” ripeteva sconsolato senza
però indicare altra soluzione se non quella di proseguire il rapporto nella stessa maniera, e insisteva “Lascia perdere, non sai in che situazione ti
vai a infilare con questo figlio. Sei una donna libera, affermata, cosa vuoi di più? E poi hai me…
non ti basto?”
Sentendosi svuotare, Virginia aveva chiamato
Anna Maria con la paura negli occhi, ma la ragazza visto il sangue sulla sedia si era messa a gridare.
Che vergogna!
Dodo l’aveva accompagnata al Pronto Soccorso.
Qualche giorno e sarebbe guarita.
Mino era contento. Tutto si era risolto per il meglio. Ma Virginia non si riprese in fretta, ci volle
più di un mese prima che guarisse. Lui continuava
a telefonarle, eppure a lei sembrava sempre più
lontano. Per fortuna c’era Erminia che le portava il
latte caldo e la bistecca al sangue.
La mattina che tornò in ufficio Dodo l’abbracciò
stretta stretta, Anna Maria era imbarazzata men114
tre Tiziana, continuava a stare seduta alla scrivania, che era stata di Virginia, con ostentata indifferenza. L’aveva riempita di penne e pupazzetti che
chiaramente indicavano l’intenzione di volerci rimanere anche dopo il ritorno della legittima proprietaria. La donna espresse il suo disappunto, ma
la ragazza restò seduta e si scusò svogliata “Sai
qui c’era più luce… adesso vado via…” e lentamente, molto lentamente, cominciò a raccogliere
le sue cose.
L’ufficio nel frattempo era cambiato, persino i colori sembrava che avessero raffreddato ogni riflesso. La musica non usciva più dalla stanza dei
grafici. Anna Maria non si allontanava dalla macchina da scrivere, Tiziana, invece, si spostava da
un tavolo all’altro riempiendo l’aria di discorsi insulsi e di risatine sciocche.
Le due donne si osservavano senza darlo a vedere.
Entrambe femmine. Adescare e procreare. Le
mosse di sempre.
Quando Virginia incontrò Attieri era passato qualche giorno. Si abbracciarono, ma anche lui ormai
era andato lontano, troppo lontano. C’era un continuo parlottare dietro le spalle di ognuno e mancava a tutti il coraggio di dire “Su, piantiamola,
cosa c’è che non va?”.
Tiziana era diventata il braccio destro di Anselmo.
Era chiaro che i due stavano insieme. Arrivavano
persino a lanciarsi bacini dalla porta e lui portava
al collo le sciarpe con le frange intatte. La moda
dell’usato aiutava la prosperosa ragazza a farsi notare. Gli abiti, indossati precedentemente da
donne di due taglie inferiori, evidenziavano la rotondità delle forme. Virginia invece sembrava fosse
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diventata più piccola. Gironzolava per l’ufficio con
aria affranta e passava le ore alla scrivania con i
giornali aperti facendo finta di leggere o facendo
finta di lavorare, ma in realtà erano molto poche le
cose che Anselmo le dava da fare.
Donna inutile. Inutile donna.
La situazione si risolse quando Attieri le disse di
avere l’intenzione di aumentare il capitale sociale
e di fare entrare come socia Tiziana che avrebbe
acquistato il 25% delle quote. Si scusò educato dicendo che era indispensabile prendere in considerazione lo sviluppo dell’attività, impegnandosi in
investimenti più redditizi, per cui si rendeva necessario l’acquisto di una tipografia, proposto dal
padre della nuova socia, che avrebbe portato ulteriori opportunità di lavoro e maggiori guadagni.
Naturalmente Virginia poteva rimanere, anche per
lei si sarebbero aperte altre possibilità di affermazione, bastava adeguarsi agli impegni.
Stronzo stronzo stronzo stronzo stronzo.
Evviva le parolacce.
Ma che credeva che fosse proprio un’imbecille. La
proposta era un chiaro modo per metterla alla
porta.
Pianse di rabbia.
50% Attieri, 25% Tiziana, 20% la signora Ferrin.
Nella società avrebbe contato un cazzo.
E i soldi per l’aumento del capitale sociale dove li
avrebbe presi?
La “zeccona”, così la chiamava Dodo per via del
padre insetticida, aveva vinto.
Le dimissioni, apparvero a tutti la cosa più opportuna. Virginia aveva ostentato indifferenza e perfino allegria, ma dentro, lo stomaco si ribellava.
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Volle andarsene senza cerimonie. Dodo l’accompagnò alla porta cercando di farla ridere. Anselmo
quel giorno non si presentò in ufficio.
A casa le giornate non passavano mai e se prima
il trillo del telefono si faceva sentire poco, ormai
sembrava che l’apparecchio si fosse guastato.
Il silenzio pesava come un macigno.
Il rimpianto della voce di Mino che scherzava ogni
volta che la sentiva un po’ arrabbiata, le stringeva
il cuore.
“Spicchio ti sei guardata allo specchio?”
“Guardati… sei bellissima!” le ripeteva allegro.
Parole stupide, care… Quanto le mancavano… Parole che riempivano il tempo tra un incontro e l’altro, parole che nutrivano le vene, che sostituivano
gli abbracci, che facevano venire voglia di abbracci.
Soltanto parole, eppure...
Avrebbe voluto ancora sentirsi parte di quel tutto
che era lui. Mino.
Lo aveva amato per più di quattro anni… pronta a
vederlo soltanto quando lui poteva... Un rapporto
alla pari, dicevano…
Lei ci aveva creduto.
Via il bambino, via Mino.
Eppure lo amava ancora e ancora avrebbe voluto
che il telefono squillasse per sentirsi spicchio. Uno
spicchio da inghiottire… Ma quanti altri spicchi
avrebbe dovuto offrire Eva per ricomporre la costola ad Adamo? Per annullare quel giorno di distanza che separa la donna dall’uomo? Uno
spicchio di tempo nel tempo per sopprimere
l’Eden, per ingannare l’amore.
Camminava su e giù nel corridoio con Erminia che
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ripeteva “non fare così.” mentre il passato le tornava in mente.
Quanti pianti!
Maria Rosa l’aveva strapazzata “Hai fatto sempre
quello che hai voluto… potevi rimanere con Carlo,
ti facevi un amante, magari anche un figlio, facevi
in modo che pensasse che fosse suo e non dovevi
sbatterti come hai fatto… Hai capito ora com’è la
vita? Vedi di cambiare.”
Ma poi l’aveva abbracciata “Sei forte Ginia, cerca
di reagire. Troverai un altro lavoro e un altro
uomo. Starai meglio vedrai….” e masticando un biscotto al cioccolato “Dai che sei tutte noi. Non mollare” poi infilandogliene più d’uno in bocca come si
fa con i bambini, l’aveva invitata a inghiottire insieme ai biscotti anche le lacrime per ridere della
vita e degli uomini, lasciando che le briciole cadessero dalle labbra troppo tirate.
***
Sembrava che anche le piccole cose che stavano
intorno volessero creare problemi a Virginia. La
tazza di plastica, ricordo del kinderheim, si ruppe,
la televisione prese a trasmettere righe anziché figure, lo sciacquone del gabinetto si mise a fare
scorrere acqua senza interruzione, mentre un fornelletto della cucina a gas rifiutava di accendersi.
Il giorno in cui il proprietario dell’appartamento
avvisò l’inquilina che non avrebbe potuto rinnovarle il contratto, in quanto la casa serviva alla figlia che si sposava, la donna pensò proprio che
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non ce l’avrebbe fatta a sopportare più nulla. Attieri tardava nel versarle il rimborso delle quote e
senza quei soldi era impossibile pensare di affrontare un nuovo contratto d’affitto e le spese per il
trasloco, inoltre anche il fisico dava segni di insofferenza. Continue coliche la facevano torcere dai
dolori e i racconti della signora Erminia sulla sanità e gli uffici pubblici che le erano sembrati esagerati, divennero una realtà da affrontare.
Esasperata dalle lunghe attese era diventata irascibile, rimproverava infermiere e medici. Rivendicava diritti, istigava ai doveri con il risultato di
essere additata come una rompipalle e trattata con
quell’aria di sufficiente condiscendenza che si ha
verso chi non è nessuno. Ma lo stare veramente
male la costrinse a diventare umile, ad accettare
tempi e modi prescritti dai medici che le avevano
trovato i calcoli alla cistifellea e le avevano consigliato di ricoverarsi per l’operazione.
Entrò in ospedale portando insieme al pigiama,
tanta paura. Si attaccò al conforto che il numero
del letto, 13, le avrebbe portato fortuna. Maria
Rosa era al mare con i bambini, la signora Erminia aveva il marito moribondo, soltanto Michele
avrebbe potuto pensare a sua madre e la sua fantasia le fu di aiuto. Attendeva l’immagine fantasiosa del figlio senza rimproverargli i ritardi.
Partecipava ai suoi entusiasmi, divideva le sue delusioni. Per strada i giovani pieni di ideali venivano
ammazzati e gli adulti gambizzati, eppure lui trovava il tempo per correre da lei per raccontare la
ribellione di un movimento che non voleva essere
rivoluzione. Le spiegava i meravigliosi ideali, rispondeva ai dubbi, e usciva dalla porta alzando il
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pugno. Virginia si rammaricava soltanto di non
poter presentare quel figlio tutto suo alle vicine di
letto che a turno scendevano a comperarle La Repubblica e Il Manifesto su cui leggeva la cronaca di
ciò che avveniva nelle piazze d’Italia e che lei trasformava nel coinvolgimento del ragazzo. “Io sono
mia” si ripeteva con malinconico orgoglio, ma capiva di essere sempre più sola. Firmò per tornare
a casa in anticipo e sul pianerottolo incontrò Erminia rientrata dal cimitero dove aveva appena accompagnato il marito. Si abbracciarono e piansero
ciascuna le proprie lacrime di donna. Riuscirono a
trovare nella solidarietà l’impegno per continuare
a vivere. Insieme uscivano, insieme si univano ai
cortei che incontravano o che andavano cercando
per capire meglio il senso della propria femminilità. Per essere inserite nel momento storico che
stavano attraversando, per partecipare. Non indossarono mai gli zoccoli e la gonna a fiori, ma
dentro nutrivano un gran fascio di mimose. Tornavano stanche e fiere. Un saluto sulla porta e il
ricordo della voce di Giulio che chiamava “Ermiiinia… dove sei?” riportava ad ognuna la nostalgia
degli antichi doveri.
***
Oltre la Portuense, nei quartieri nuovi, Virginia era
andata a visitare appartamenti che le rammentavano quello dove aveva abitato con il marito, e
sulla Circonvallazione Ostiense, a Centocelle,
verso la Casilina o la Tuscolana, i palazzoni popo120
lari non la entusiasmarono. Le aveva girate tutte le
case a prezzo contenuto, ma la Roma elegante che
abitava ai confini della Cassia, della Trionfale, su,
oltre villa Ada, aveva prezzi inaccessibili. Il nord
della città, come il nord di gran parte del mondo,
era più curato, più attento all’estetica dell’insieme,
pensava avvilita la donna convinta di non riuscire
mai più ad abitare in una zona dove le sarebbe
piaciuto vivere. Lei, che era nata dall’unione di un
uomo del nord e una donna del sud, non si riconosceva nelle case che andava visitando, le case
dalla parte più calda di quella che sarebbe diventata una metropoli, dove la periferia metteva in evidenza con strapazzato orgoglio le proprie miserie,
i panni stesi e i terrazzini pieni di cose appoggiate
alla rinfusa, simili nell’insieme al cortile dove si affacciavano le finestre della casa di piazza Alessandria, dove la mamma aveva ricavato un ripostiglio.
Balconi addobbati di ristrettezze. Balconi come
bandiere.
Allontanarsi da allora, come aveva fatto allora o
tornare nella Roma Umbertina che aveva accolto i
genitori? In quella Capitale ambita che aveva rappresentato per loro un punto di arrivo. Nord e sud
uniti dalla speranza di un miglioramento per lei,
creatura amalgamata dal cauto amore familiare,
entrata poi in un qualcosa di troppo grande, con i
palazzi addosso, pesanti e interessanti insieme, di
cui non capiva più il senso dell’abitabilità. Roma
che tutti lascia entrare e tutti ignora, si era allargata in ogni direzione, ma non confondeva i ceti
sociali nell’abbraccio dell’uguaglianza.
Virginia avvolta dall’intrigo dei pensieri non si decideva a concludere nessun contratto d’affitto.
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Forse Michele avrebbe potuto scegliere per lei un
appartamento con un balcone pieno soltanto di
fiori e le finestre spalancate.
Michele.
Che faceva per sua madre? Riempiva fogli e fogli
di frasi contestate. Era cresciuto in fretta come avviene nei libri dove il tempo non è mai quello reale.
Stava finendo l’università. Voleva conoscere paesi
lontani, società diverse. Roma non gli bastava più.
Trovò lavoro all’Alitalia, un posto sicuro, con lo stipendio a fine mese e la possibilità di fare un viaggio gratis all’anno per vedere il mondo, quel mondo
che la madre non conosceva ma immaginava incastonato nella sua città.
La penna lo aveva portato altrove e lei, Virginia,
madre contestatrice avrebbe voluto che avesse
preferito trasferirsi a Cuba.
***
Dodo era veramente un amico. Preoccupato per la
collega l’invitava spesso a casa dove la compagna,
che pur non essendo sposata divideva con lui e
due bellissimi gemelli un appartamento a Monte
Sacro, l’accoglieva con molto affetto. Lavorava in
banca e nel resto del tempo, benché impegnata
con i bambini, non mancava mai di preparare
qualche cibo speciale. Era l’immagine dell’amore
inteso nel senso più ampio della parola. Sorridente
anche nei momenti più difficili aveva creato intorno a sé un giro di parenti e soprattutto amici
che si prodigavano come bambinaie, ma anche
122
come idraulici, falegnami, pittori e compagni di allegre mangiate. Virginia, che non era abituata alla
confusione della confidenza, spesso declinava gli
inviti sentendosi fuori posto e la sua ritrosia veniva accettata con la stessa disinvoltura con cui i
padroni di casa accettavano l’invadenza degli altri.
Soltanto i gemelli la facevano sentire a proprio agio
e per loro tornava a essere la maestra d’asilo che
era stata. Riccioluti e biondi i piccoli erano identici, e la gioia dei loro volti diventava un’unica
grande gioia per la donna che se li stringeva al
petto insieme e nel sentimento che provava si illanguidiva. Avrebbe voluto allattarli. Per farli crescere sani. Per bagnargli con il latte il piccolo
sesso, segnargli la fronte, schizzargli gocce di latte
sul viso. Latte, latte… Latte di lupa disperata. Romolo e Remo. A loro avrebbe chiesto le chiavi della
città, il senso della città. A loro avrebbe chiesto
dove andare ad abitare. E gli parlava e raccontava
la storia di Roma e i piccoli ascoltavano e ridevano,
ridevano senza capire.
L’occasione capitò per caso. Uno dei tanti amici di
Dodo, un fotografo di Rio de Janeiro, doveva assentarsi per diversi mesi e non volendo pagare le
utenze a vuoto, cercava una persona di fiducia che
potesse sostituirlo nell’appartamento ed avere la
certezza di poterci rientrare al suo ritorno. Virginia
non era convinta. Una casa da prendere in prestito, come l’abito da sposa. E poi non conosceva
Via Tito Speri, in Prati. Nord? Sud? Il quartiere
Prati era ormai considerato centro e poi la strada
ospitava un mercato rionale. Già, come il mercato
di piazza Alessandria…
Andò a vederla. Si entrava da un cancello nasco123
sto dalle bancarelle… un attimo ed il vocio si trasformò in applauso… Il cortile, assai curato, aveva
al centro una palma. Virginia raggiunse il portone
come se fosse ubriaca e nel prendere l’ascensore si
rese conto di non essere più sposa. Le porte che si
affacciavano sul pianerottolo erano di noce, eleganti, avevano pomi di ottone per maniglie. Erminia li avrebbe lucidati ogni mattina pensò, lei
invece avrebbe lasciato al tempo il compito di rivestirli di opacità.
La casa era abbondantemente arredata e non
avrebbe potuto portare nulla di suo se non la biancheria e i vestiti. Ogni parete, ogni angolo era completamente ingombro. Di tradizionale c’era
soltanto il letto, a due piazze, sorretto dall’intelaiatura di ferro battuto con le spalliere dipinte dove
danzavano amorini scoloriti dalle ombre del passato. I volti rosei e paffuti erano scrostati come se
una mano nervosa avesse voluto nasconderne la
vera identità.
Somigliavano ai gemelli di Dodo.
Riccioluti e biondi.
Le si accese lo sguardo.
Che l’America Latina fosse stata la patria del fotografo si capiva dai colori sgargianti intrisi di sole.
Gialle erano le pareti della cucina, verde il soffitto
del soggiorno e nel bagno l’azzurro riproponeva le
onde dell’Atlantico. L’ingresso non aveva altri mobili che un grande tavolo, un baule cileno e una
branda aperta carica di cuscini dai disegni vivaci.
La stanza da letto, con l’armadio a muro che prendeva una intera parete, allargava lo spazio dalle
ante rivestite di specchi. Una piccola panca di
legno grossolanamente intagliato e un tavolino in
124
ferro laccato di rosso servivano da comodini. Lumi
dovunque mentre erano stati aboliti i lampadari.
Virginia non sapeva se essere divertita o spaventata, comunque riuscì a stabilire il giorno del trasloco.
Affacciata alla ringhiera delle scale di via Giorgio
Scalia, con la signora Erminia a fianco, seguì con
lo sguardo il cassettone della nonna portato a
spalla da due amici di Dodo. Il tavolo e le sedie ancora con il lucido netto del mobilio nuovo, entrarono nell’ascensore. Appoggiava le sue cose nella
cantina che gentilmente la vicina di casa le prestava. La poltrona della mamma fu l’ultima ad
uscire, anche lei portata a spalla, e come un feretro caro ebbe Virginia al seguito. La donna scendeva la lunga fila di scalini inseguendo la
memoria. In alto aveva lasciato il dilatarsi della
gioventù, in basso avrebbe depositato le spoglie del
passato. Erminia aspettò che le ombre sparissero
per chiudere la porta piangendo.
***
In primavera i viali geometrici, larghi e pieni di alberi emanavano il profumo del bene. Bene infatti
stava la gente che viveva in Prati, e si vedeva. La
barbona non ricordava con lucidità quei viali e
quelle piazza, ma l’istinto la portava ancora a percorrerli, facendoglieli inserire nel programma del
suo peregrinare. Sembrava che le signore agghindate con i canoni di una eleganza statica, portassero riflessa negli abiti la signorilità austera delle
125
loro case. Persino il mercato risentiva della raffinata ricchezza degli abitanti. Le donne meno sguaiate nell’offrire i frutti, gli uomini più attenti nel
decantare pesci e carni. Un quartiere dove alla
gente non piaceva camminare per strada, poche le
persone e quelle poche si salutavano con estrema
educazione mentre la conversazione assumeva i
toni della formalità.
Virginia tornava volentieri in via Tito Speri e la memoria del mercato le riportava alle orecchie il rumore dell’adolescenza. Tornava per cercare di
sentirsi ancora donna, come lo era stata allora e
non era raro trovarla di notte, di fronte al cancello
che si apriva sul mercato, accucciata per terra,
con gli occhi aperti senza pupille, che si agitava in
cerca di quel piacere fisico che neanche il ricordo
le faceva più provare.
Dedicava a quel quartiere il mese di maggio. Cominciava a spostarsi ad aprile, lentamente, anche
se lungo la strada non trovava buoni posti per dormire. Appena giunta gironzolava fra i banchi ripetendo i gesti del passato quando per reagire alla
malinconia usciva dal cancello della casa presa in
prestito ed il colore delle arance ed il profumo delle
spezie la eccitavano. Ricordi sovrapposti ai ricordi.
Il richiamo dei venditori si confondeva all’applauso
delle nozze, sposa con il vestito di un’altra, bambina senza pomi da offrire, vecchia costretta a rubare pomi che era ormai inutile dividere a spicchi.
Adamo aveva preso la rincorsa e lei era rimasta indietro. Ancora con la voglia di esistere, di guardare
la propria immagine riflessa nelle vetrine dimentica dei goffi panni e del modo di muovere i passi
appesantito dalla miseria. Prendeva in prestito
126
Piazza Mazzini, piazza Bainsizza, via Settembrini,
per godere l’ampiezza delle strade che allontanavano dallo sguardo la tristezza del cemento. La sua
città. Altre non ne aveva viste. Non era stata abituata a viaggiare, ai suoi tempi era considerato un
lusso, e poi perché avrebbe dovuto farlo se Roma
le aveva offerto tutto ciò che aveva voluto sapere?
Annusare gli odori, ascoltare le voci, misurare l’intensità dei silenzi le era servito per capire l’identità
dei popoli. Vie e piazze per sognare, occhi negli
occhi dei passanti per capire e poi su, a scrutare
oltre i balconi, le tende, i soffitti, per vedere gli arredamenti che si intravedevano dalle finestre illuminate. La sua città, preziosa antologia di tante
piccole città, cucite insieme dal filo della storia che
compone il tappeto su cui si appoggia il futuro.
Come un turista spinto dalla curiosità, si spostava
tra i palazzi immaginando di essere a Houston, a
Parigi o in Cappadocia, e dal mercato prendeva in
prestito l’umanità per vedere la gente trasformata
in popoli lontani. La donna volava con la fantasia
mentre i mattoni immobili aspettavano di essere
scaldati dal sole per poter dare ristoro alle sue
stanche ossa.
***
A Virginia venne spontaneo annodarsi il fazzoletto
pervinca sulla testa e allargare un gran fiocco sulla
fronte. Si sentiva brasiliana… o argentina? Però
poteva anche essere del Perù… Quanto poco sapeva di quei popoli lontani!
127
Intorno la casa sorrideva e cercava di coinvolgere
la nuova inquilina. Con una mano sul ventre ed
una sul sedere, muovendosi al ritmo di una ipotetica samba, girò intorno al letto rimirandosi negli
specchi. Alzò le braccia con passione. Voleva che
la musica si impossessasse di lei. Continuava a
camminare ballando mentre cercava di portare in
equilibrio camicette e maglioni, lenzuola e scarpe.
Wanda Osiris non faceva così? e le donne brune
che nelle pubblicità invitavano ai viaggi? No, era
Joséphine Baker che portava mango e banane
sulla testa… Provò a tenere in equilibrio una mela.
Si sentì preda di Robin Hood…
I vetri spalancati, che affacciavano sui disegni Liberty del palazzo di fronte, aprivano orizzonti artificiali dove la mano di un ignoto artista aveva
riempito i muri di foglie polpose dai colori autunnali. La facciata, interrotta dalle colonne delle finestre sporgenti, riproponeva l’architettura
nordica protesa ad assorbire meglio il sole. Intorno, intrecci di foglie e di fiori senza figure
umane, una foresta immaginaria in cui Robin
Hood avrebbe potuto nascondersi… Ancora lui…
Che strano effetto quei disegni Liberty, non facevano venire voglia di guardare di sotto ed il cielo
sempre più scuro aggiungeva mistero. Sentì
freddo, ma non chiuse i vetri. Incantata aspettò
che la notte lasciasse ai palazzi soltanto la sagoma
delle pareti e l’ombra che allungava la fuga dei cortili mettesse in evidenza il profilo delle palme, tutte
uguali, tutte al centro dei giardinetti. Poteva essere un borgo quel agglomerato di costruzioni…
Un’altra Roma da scoprire, come da scoprire era
quella casa in cui l’impronta della persona che
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l’aveva abitata tentava di allontanare la personalità della nuova venuta.
Virginia non si accorse che il tempo passava e le
palme fra i palazzi incominciavano ad agitarsi
mosse dal vento. Chissà quanti anni avevano?
Palme del primo novecento, con poche foglie in
cima e il tronco secco secco che sembrava impossibile potesse rimanere dritto. Sembrava che si
fossero staccate dai disegni del muro del palazzo di
fronte.
Forse avevano la sua età.
Quarant’anni.
Ma lei a che epoca apparteneva?
Chiuse le persiane con i capelli schiacciati dal foulard che si era appena tolto. Chiuse gli occhi. Non
aveva più voglia di sognare.
***
Alberto e Monica, con i loro perché l’invitavano alla
meditazione. Curiosi come lo sono i bambini, non
staccavano gli occhi dalle numerose fotografie appese al muro. Le guardavano in silenzio e poi i “chi
è?” si accavallavano a “…e che faceva?” senza lasciare a Virginia il tempo d’inventare qualcosa da
rispondere.
Maria Rosa spiegava il Che rivoluzionario, Virginia
descriveva l’eroe. “Ma è buono o cattivo?” insisteva
la piccola mentre la mamma si distraeva sul tessuto Maya dei cuscini che trovava bellissimi.
La maggior parte delle foto riportavano immagini
di povertà dove la forza addormentata dal calore si
129
esprimeva nei volti cotti dal sole. I sorrisi sdentati,
le rughe profonde, l’intensità degli sguardi che
spesso era domanda e disperazione, raccontavano
una vita diversa, lontana. Le difficoltà del vivere
quotidiano trasparivano dalle case arrangiate,
dalle baracche addossate ai grattacieli, dalla polvere ovunque. Campesinos, desaparecidos, parole
straniere per Virginia e nelle orecchie il canto della
rivolta. Anche a Roma la violenza raccontata a
pennarelli rossi imbracciava la morte e i cortei si
moltiplicavano, ma Virginia ormai era assente.
Soltanto l’atroce silenzio sulla cattura di Moro, la
riportò a fianco di Erminia, che l’aspettava paziente negli spazi di tempo sempre più rari. “Quel
poveretto” diceva “che colpe ha?” Nella gente la
paura. La revolution non cantava più “El Pueblo,
unito…”
Chito Pachete, il fotografo che le aveva prestato la
casa tornò prima del previsto “per un mese” disse
e poi sarebbe ripartito. Aveva telefonato dall’aeroporto per chiedere a Virginia se poteva ospitarlo
soltanto per una notte, l’indomani avrebbe cercato
con calma un albergo. Lei acconsentì senza imbarazzo, l’appartamento d’altronde era suo.
Preparò svelta il letto nell’ingresso ammucchiando
per terra i cuscini.
Aveva visto Chito poche volte e sempre molto in
fretta. Un giovane di carnagione scura dagli occhi
vellutati, non facile al sorriso, che dimostrava più
anni di quelli che aveva. Ne aveva sentito parlare
assai bene da Dodo e l’immagine che si era fatta di
lui, attraverso l’arredamento della casa, la stimolava
ad approfondirne la conoscenza. Gli avrebbe chiesto
di raccontare la sua terra, di spiegargli quei popoli.
130
Era mezzanotte passata quando Chito arrivò.
Aveva aperto la porta con le chiavi, senza prima
bussare e questo sorprese Virginia. L’abbracciò
come se fosse un’amica che non vedeva da molto
tempo, poi allontanandola con un gesto galante
osservò ogni centimetro quadrato della sua persona lasciandola alquanto interdetta. La strinse
ancora tra le braccia e sembrò commuoversi. Virginia imbarazzata non sapeva che fare. Gli chiese
se avesse cenato. Lui rispose di si.
Il fotografo, anche se aveva disegnata sul volto
molta stanchezza, lasciava trasparire l’entusiasmo
di un ragazzo. “Ma che casa ordinata” continuava
a ripetere guardandosi intorno “non sembra più la
mia”. Virginia gli diede la buona notte e chiuse la
porta.
Stentava ad addormentarsi tesa ad ascoltare ogni
rumore, ma sembrava che nella casa non ci fosse
nessuno, poi sprofondò in un sonno agitato e
quando allungando un piede ne incontrò un altro
che non era il suo si rigirò pensando di sognare. La
sensazione di calore che proveniva dal fianco la illanguidiva. Il desiderio di essere abbracciata l’invase senza svegliarla. Si strinse nel cuscino,
gemette ed il cuscino diventò un corpo. Percepì la
voglia del maschio. Divenne femmina. Senza aprire
gli occhi rispose alla passione.
Il sole già alto allungò un raggio tra le fessure della
saracinesca per stringere ancora Chito e Virginia
in un appassionato abbraccio.
Un sogno che durò un mese. Stupendo. In cui l’ardore della donna condotto dalla spavalderia del ragazzo argentino uscì allo scoperto. Visse in quei
giorni soltanto per lui cercando di carpirgli anche
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l’anima, ma non ci riuscì. Era completamente suo
soltanto a letto. Gli altri momenti della giornata
apparteneva all’America Latina. Gli telefonavano
molte persone e lui mescolava veloce e a scatti lo
spagnolo, l’inglese e rapide esclamazioni in italiano. Lei rimaneva esclusa. Chito non voleva parlare della sua terra, con lei voleva soltanto godere
e quando Virginia insisteva nel farsi spiegare le vicende di quei popoli “Tu no puede capire nostro
travaglio, tu vivi in un’altra realtà. Tu donna fortunata” e l’azzittiva con un bacio. Era vero. Mai
come in quel momento si era sentita così bene.
Aveva allontanato le ansie del lavoro che non cercava più e della sopravvivenza futura di cui non
voleva occuparsi. Stirava camicie e magliette,
riempiva le ore girando per il mercato in cerca di
primizie, pulendo fagiolini, lavando la verdura,
crogiolandosi nel pensiero di lui, di ciò che poteva
piacergli, di ciò che insieme avrebbero potuto fare.
Aspettava il suo ritorno come una moglie devota.
“…le era venuta una gran placidezza. L’uscio
chiuso e il tranquillo compagno le davano un agio,
un calore che non aveva mai provati, né sola né in
compagnia…” Così pensava Artemisia nel libro di
Anna Banti che aveva appena finito di leggere.
Così Virginia emulava nelle sensazioni la grande
pittrice, e si sentiva appagata.
Ancora la spinta ad un comportamento data da un
libro. Essere un’altra. L’altra. Le altre. Ma l’io di
cui tanto si discuteva intorno, dove era finito?
Freud sviava la storia. Impossibile essere un’altra
anche se le circostanze erano simili. Artemisia
agiva, lei aspettava.
Chito partì all’alba, insonnolito e sazio. Dopo un
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mese le arrivò una cartolina da Barranquilla, in
Colombia. Soltanto la firma “Chicco” come lei lo
chiamava ripiena di lui. Chicco, più intenso di uno
Spicchio. Chicco, più piccolo di uno Spicchio. Soltanto un Chicco, enorme per lei.
Passò i giorni sprofondata tra i cuscini della
branda mai usata, li accarezzava come fossero
Chito. Ma Chito non c’era. E allora parlava al ragazzo con la sapienza dell’adulto e gli raccomandava la prudenza e lo chiamava Michele. Ma
Michele girava il mondo seduto su una comoda
poltrona d’aereo e Chito a Cuba c’era stato davvero.
Con lo sguardo perso, Virginia, immobile davanti
alla finestra, non piegava più calzini e maglioni, né
si accorgeva del tempo che guidava il suo umore
affidandolo alle ombre. Sentiva accanto l’energia
del maschio e se ne veniva convulsa eccitandosi
alla vista dei fiori grassi dipinti sul palazzo di
fronte.
“Mi piace questa casa perché è una casa che mi ricorda casa mia… Una casa del nord costruita al
sud. Come me che ho imparato a crescere nell’altra parte del mondo. Qui potrei essere a Londra o
a Parigi, è lo stesso. Vedi quei disegni? hanno
l’opulenza dei frutti che mangiavo da piccolo, ma
le tinte non hanno resistito al sole che non è il mio
sole. La luce qui sbiadisce i colori come i sentimenti… voglio invecchiare sotto il sole senza sbiadire.”
Così diceva Chito.
Chitomichele.
Opulenza della fantasia.
Virginia riprese in mano i suoi scritti, riordinò le
133
pagine. Corresse, riscrisse. Inserì note di vigore
giovanile che prima non aveva conosciuto. Venne
fuori un vero libro e si convinse che era il più bello
che avesse mai letto. Quello che avrebbe portato
sempre con sé, per non sbiadire, e da ogni finestre
lo avrebbe letto alle stelle che non volevano cadere.
***
Colombo si avvolse meglio nell’impermeabile
chiaro sempre più stazzonato, la Vuitton a tracolla
lasciava uscire dalle cuciture sdrucite pezzetti di
giornali ciondolanti. Andò incontro a Virginia. Lei
sembrava non lo avesse visto invece lo aveva notato, ma la figura dell’uomo non le aveva dato conforto. Tornava da uno di quegli spostamenti tra i
quartieri della città che l’impegnavano per giorni,
a volte per mesi come se l’Australia si fosse trovata
all’EUR e l’Asia a Campo Marzio. Aveva l’aria ancora più stanca e la cartella blu rendeva inconfondibile la sua figura. Riavvicinarsi ai treni era come
rientrare nella propria casa. La donna camminava
lungo il margine dei binari fino ad arrivare dove
sapeva di trovare il suo conforto. Raggiunto uno
dei tanti vagoni in deposito, immaginando il rullio
del movimento, viaggiava come aveva viaggiato
nella vita, con la fantasia. Le figure, i panorami impressi dalle foto e dalla televisione nell’iride ormai
non più congestionata dal riso e dal pianto, le si riproponevano rivestiti di bello e di buono.
La luce assai fioca rischiarava una squallida visione di binari infiniti sui quali Virginia si lasciava
134
condurre. Realtà virtuale. I finestrini diventavano
schermi. Videogames sui quali non aveva fatto in
tempo a giocare ed allora, lei, giocava il gioco dei
ricordi manovrando comandi nascosti nel guanto
dell’illusione. Le andavano incontro uomini in
jeans con la testa carica di lustrini come il Mago
Zurlì e le donne, bambine coi capelli bianchi, portavano cesti azzurri pieni di chicchi e di spicchi.
Chi cantava e chi bofonchiava. Davanti non era
più notte, dietro, la morte, con la falce in mano,
avanzava lanciando lampi di elettricità, mentre il
sonno che arrivava danzando le appoggiava accanto la gioventù.
Colombo, che l’aveva seguita, si accomodava discretamente qualche posto più in là e la mattina,
appena l’alba si confondeva al chiarore dei lampioni, anticipava i movimenti dell’amica che nello
scendere dal treno quasi rotolava sul predellino.
Lei gli concedeva attenzione senza parlare. Insieme
si recavano ai bagni pubblici, insieme cercavano
di fare colazione gironzolando fra i bar appena
aperti della stazione e quando l’uomo tirava fuori
dalla tasca qualche leccornia che aveva rimediato
la sera prima, diventava un gioco contendersela.
“Oggi è il 19 settembre” disse Colombo la mattina
di San Michele “È la festa di tuo figlio. Mi devi far
leggere il libro, me l’hai promesso.” e senza aspettare risposta fece la mossa di sfilarle la cartella
dalla spalla.
Virginia non si oppose, ma trattenendo la borsa
con tutte e due le mani sorrise e con un cenno
della testa gli indicò di seguirla. Lo condusse nel
sottosuolo della stazione dove la luce non si spegne mai. Fece sedere l’amico per terra con le
135
gambe allungate e gli si pose accanto nella stessa
posizione, aprì la borsa e appoggiò sulle ginocchia
il sogno. “Forse tu…” diceva la copertina. Forse
soltanto tu, pensava la donna.
Passarono le ore, la notte diminuì il movimento, i
due barboni erano sempre lì, ma mentre non si capiva se lei dormisse lui ancora leggeva. Poi Colombo le aveva ridato i fogli e Virginia li aveva
riposti nella cartella facendogli segno di tacere. Nel
viso dell’uomo aveva visto ciò che le bastava. La
storia di Michele lo aveva turbato. Dove era finito
quel ragazzo che ormai doveva essere un uomo?
“Voglio un quotidiano” disse al giornalaio che gli
stava porgendo “Gente” al posto del solito quotidiano. Quel giorno non voleva essere disturbato
dalle fotografie. Michele gli era entrato dentro e la
mamma… o la mamma. Per lei voleva comporre
ghirlande di bamboline stampate. Voleva far parlare il cuore.
Con “Il Tempo” in mano l’uomo uscì sul piazzale e
appoggiato alla vetrata si accomodò con le gambe
incrociate pregustando il piacere di giocare. L’abilità con cui usava le dita era sorprendente, le muoveva come fossero forbici appuntite e i pupazzetti
di carta prendevano forme sempre più precise, ma
quel giorno li girava e rigirava tra le mani senza
riuscire a trovare il nesso logico che cercava nelle
parole tronche, quasi che le lettere si divertissero
a imbrogliargli le idee. Finalmente “don”, di chissà
quale parola che riempiva la caviglia di una ballerina e “bro” che le si troncava sulla testa gli fecero
gridare “Donnalibro! Donnalibro!” e come se in
corpo gli si fossero accesi mille razzi scappò in
cerca di Virginia. Ma la donna era andata in chissà
136
quale altra parte del mondo e quando tornò, molti
giorni dopo, non si accorse che nei sotterranei
della Stazione Termini gli altri barboni la indicavano chiamandola così.
***
“Artepiù” era tracciato con la scrittura incerta di
un bambino. Stava scritto sulla porta a vetri della
galleria dove aveva trovato lavoro Virginia. Lo status symbol del momento voleva il ceto medio arricchito anche dalla cultura, e nelle case
abbondavano enciclopedie e quadri alle pareti. La
grafica si vendeva bene. Torquato Lunetti, era
stato uno dei primi a capire il business che poteva
girare intorno ai fogli numerati e firmati dagli autori. Ci fu il boom delle litografie e delle incisioni e
lui aveva pensato di organizzarne la vendita oltre
che nel grazioso negozio di via Laurina, a due
passi da via Margutta, anche attraverso una rete
di venditori che si recavano nelle case e negli uffici
sul modello delle vendite porta a porta della Stanhome. Virginia era capitata al momento giusto proprio quando il gallerista non riusciva più a gestire
da solo il movimento che si era creato intorno all’iniziativa. Lunetti, cliente di Lucio, il marito di
Maria Rosa, dava garanzie di serietà e l’amica
aveva tanto insistito perché accettasse l’incarico.
“Dai… è un lavoro adatto a te. Entri in un ambiente diverso, fantasioso come piace a te e non si
mai… t’innamori di un artista, tu che cerchi sempre qualcosa di strano…”
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Il gallerista non era un uomo antipatico e oltretutto prometteva grossi guadagni, ma soltanto in
seguito Virginia si accorse di quanto era difficile
mantenere un buon rapporto con lui. Bravissimo
nel vendere i quadri e nel proporre l’acquisto come
fosse un affare, era dotato di un intuito veloce che
lo faceva agire tempestivamente e sempre a proprio favore. Aveva capito che l’esperienza maturata
nell’agenzia pubblicitaria dalla signora appena conosciuta, gli sarebbe stata molto utile, ma ostentava indifferenza per rendere più preziosa la sua
proposta.
All’inizio sembrò a Virginia di aver trovato il posto
giusto al momento giusto. L’odore dell’arte l’inebriava. Purificato, Maccari, Monachesi, Cagli, Perilli, Turcato da nomi diventarono colori. Forme di
volti e linee di malia. In ogni foglio un invito per ritrovare nei tratti originali di ognuno il senso di
tutti. Si entusiasmò alla scelta della grafica e alla
vendita, ma presto si accorse che ogni suo suggerimento veniva accantonato per essere riproposto
poi da Torquato Lunetti come una idea avuta in
precedenza da lui. Avvilita si adattò alla situazione
e cercò di fare finta di essere scema. Lunetti conosceva però l’importanza del riconoscere ai collaboratori la loro bravura e onestà e lo faceva al
momento più utile per lui, in presenza dei clienti.
Era una astuzia che migliorava l’immagine della
galleria, ma a Virginia, che d’immagine se ne intendeva, quelle lodi non davano la soddisfazione
che procuravano agli altri. Consapevole di essere
una dipendente indispensabile, non si rifiutava di
spolverare i quadri, pulire la moquette, aprire e
chiudere la pesante saracinesca garantendo una
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graziosa presenza nel locale e una preziosa collaborazione nel lavoro. Aveva dovuto sottostare alla
diminuzione di qualifica per essere iscritta all’INPS
solamente come commessa e aveva dovuto accettare che la percentuale sulle vendite, non denunciata ma promessa come integrazione al basso
stipendio, le venisse conteggiata a discrezione del
datore di lavoro. Nella galleria l’abitudine a procrastinare le spese aveva la precedenza anche sull’acquisto della carta igienica e delle saponette.
Sembrava che l’arte fosse sempre pulita. Si viveva
un’atmosfera surreale in cui pareva che tutto galleggiasse al di sopra delle necessità di ognuno,
vuoi perché i discorsi giravano soprattutto sul significato intrinseco ed estrinseco delle opere esposte, vuoi perché ogni altra questione conduceva
alla drammatizzazione delle situazioni contingenti
in rapporto all’incomprensione della società rispetto all’interiorità dei singoli individui. Varcare
la soglia di Artepiù significava entrare in un tempio dove le preghiere erano opere d’arte e il parlare
assumeva un tono da confessionale. Se fosse stato
possibile scegliere i disegni al buio si sarebbero
spente le luci e la grafica alle pareti, che non eccedeva per calore, accentuava l’irrealtà. Veniva
spontaneo stare al gioco e ognuno assumeva toni
bassi in modo da non alzare mai la voce, neanche
quando si trattava di controbattere le prevaricazioni che Torquato Lunetti era portato ad imporre.
Non era facile piazzare alcuni autori dal segno inesistente e se la corrente di mercato aveva privilegiato l’informale, il gallerista insisteva convinto che
“l’astrattismo è come l’architettura, racconta qualcosa che piace per la sua armonia, i suoi spazi, le
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sue forme” e raccomandava ai collaboratori di ripetere la frase ai clienti più sprovveduti come se
fosse un passo della Sacra Scrittura.
Virginia prediligeva il tratto realistico delle figure
anche se si era commossa davanti ad un Burri.
Aveva voglia di conoscere e non perdeva un numero di Bolaffiarte per cercare di capire cosa ruotasse intorno alle opere di cui sentiva parlare.
Addetta soprattutto alle questioni pratiche della
galleria voleva entrare sempre di più nell’espressione dello spirito concretizzato dal colore. Vendere una serigrafia o una incisione non era poi così
difficile. Aveva imparato da Lunetti le tecniche
della persuasione che però riusciva a mettere in
pratica soltanto per i pezzi in cui credeva. Gli altri
venditori erano sicuramente più bravi di lei ed il
fatto che fossero introdotti negli ambienti giusti
aumentava il loro prestigio. Oscillavano intorno
alla decina, per lo più signore appartenenti alla
buona borghesia che cercavano la realizzazione
nella cultura e nel guadagno. Qualche ragazzo o
ragazza al primo lavoro non dava risultati soddisfacenti. La più brava era Ornella, una giovane
donna con due figlie, romana, di origini popolari,
coraggiosa e prudente nell’aver abbandonato il
marito assai ricco che l’apprezzava al punto da
farla gustare anche agli amici. Le aveva intestato,
come regalo per le prestazioni straordinarie, un
appartamento a corso Trieste dove lei si era rifugiata con le figlie, ma l’assegno stabilito dal giudice per il mantenimento delle bambine non
arrivava mai e la donna faceva acrobazie per pagare le bollette. Ornella metteva nel lavoro la praticità dell’organizzazione famigliare unita alla
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spregiudicatezza degli incontri coniugali. Aveva un
fisico minuto che la faceva sembrare bambina e
questa sua aria disarmata invogliava i clienti a intrattenersi con lei. Non si capì mai fino a che
punto giocasse in favore delle vendite la speranza
di una conoscenza più intima o la convinzione dell’acquisto, ma i risultati erano ottimi. Aveva iniziato rivolgendosi ad amici e parenti, poi, accortasi
che questi le comperavano soltanto qualche pezzo
per compassione si era rivolta ai grossi enti che acquistavano tirature complete come regali aziendali. La fantasia non le mancava e ai dirigenti
proponeva variazioni pittoriche a volte talmente ingenue da sembrare azzardate. Soltanto l’entità cospicua dei contratti convinceva Torquato Lunetti e
di conseguenza gli artisti, a sottostare alle bizzarre
richieste di Ornella che cercava di soddisfare i bisogni estetici, ma molto poco artistici, dei clienti.
Battaglie infinite. Per giorni e giorni il gallerista
provava a spiegare la necessità assoluta dell’autore di esprimere ciò che sente al di fuori di ogni
imposizione. Per giorni e giorni, in separata sede,
insisteva con gli artisti per fargli eseguire le forme
e i disegni adatti alle industrie che li avrebbero acquistati. Non metteva mai in contatto i venditori
con i pittori, né i clienti con i pittori, un’accortezza
che oltre a dare maggiore importanza al suo ruolo,
evitava accordi che potevano andare a suo danno.
Ornella, invece, lontana dalle astuzie di Lunetti,
con una punta di ingenua presunzione, era certa
di riuscire a convincere chi tracciava soltanto
linee, a colorare evidenti figure, oppure il contrario, e insisteva nel voler parlare direttamente con
gli artisti. Le discussioni non finivano mai e i due
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continuavano a opporre i propri ragionamenti fino
all’esasperazione. L’uomo ricorreva al paradosso
pur di convincere chi gli stava di fronte e con Ornella lo faceva ancora di più. Cercava l’orgasmo
nella penetrazione del cervello e come dopo un amplesso violato pretendeva la resa del corpo sfatto.
Con la sua venditrice più brava non sempre ci riusciva anche se dagli scambi verbali la giovane
donna usciva disfatta.
Gli scontri avevano finito per eccitare l’attrazione.
Ne furono coinvolti.
Ornella aveva dell’amore un concetto primitivo,
parte integrante della sua natura generosa che la
portava ad essere soddisfatta nel soddisfare i bisogni di chi li richiedeva o di chi era in difficoltà.
Ricercava nel sesso la molla del cuore per aprirsi
al sentimento. Si aspettava dagli altri la stessa intensità che metteva lei nell’amare e la facilità con
cui riusciva a risolvere rapidamente ogni cosa concreta la rendeva irascibile verso chi non riusciva a
uniformarsi al suo modo di essere. Si sfogava allora con un linguaggio talmente schietto, aggressivo, da sembrare volgare.
“Ma se tu me voi scopà e su e giu e su giu e vedi
che io non me movo, cazzo, accorgetene. Fai qualcosa. No. E io li a sospirare, a fare la carina, a dirti
come sei bravo.” si confidava con Virginia.
Aveva bisogno di confrontare se stessa con i sogni
che da fanciulla rincorreva e che la vita condotta
nel lusso matrimoniale aveva esaltato e poi deluso.
Voleva migliorare il rapporto più vecchio del
mondo. Chiedeva partecipazione, parità e si appoggiava alle tendenze politiche del momento per
sentirsi appagata anche nella contestazione.
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La storia con Lunetti divenne evidente soprattutto
per l’atteggiamento di lei che non sapeva trattenersi dal riempirlo di attenzioni a volte troppo infantili. Naturalmente per gli altri diventò puttana.
Intanto il fatturato aumentava grazie anche al desiderio della donna di compiacere sempre di più il
suo amore. L’uomo ben contento accettava, ma
continuava a discutere sul modo sbagliato di vendere l’arte “come se fosse pizza farcita”.
***
La malattia fu grave e rapida. Un tumore ai polmoni già in avanzato stato lo portò in ospedale soltanto per pochi giorni. Ornella riuscì a salutarlo
recandosi a fargli visita insieme ai colleghi, poi la
famiglia si unì in un cordone di affetto che non
permise ad alcuno di incontrarlo.
I funerali si svolsero nella cattedrale di Anagni
dove Torquato Lunetti era nato e dove con la moglie e i figli continuava ad andare nei week-end
ospiti della grande casa dei genitori. Non era riuscito a convincere il buon Dio o chi per lui a lasciarlo in vita.
Lo sgomento aveva preso il sopravvento sul dolore.
Virginia era affranta, non si sapeva cosa fare
anche se ognuno cercava di mandare avanti gli impegni presi come se il gallerista fosse partito per
uno dei soliti viaggi. Ornella fermò ogni appuntamento e sconsolata, ma dignitosa, si chiuse nel
pianto e nessuno la vide salutare il morto. Dopo
una quindicina di giorni dalle esequie quando la
143
galleria trascinava ancora il lavoro in attesa di una
decisione da parte dei familiari, si presentò con un
mazzolino di violette in mano, abbracciò Virginia e
depose i fiori sulla sedia che Torquato era solito
cavalcare al contrario quando voleva rafforzare con
un gesto di spregiudicatezza le sue imposizioni.
***
La terrazza non si affacciava su niente, aveva soltanto un muro davanti, di quelli alti senza finestre
che tagliano i palazzi. Oltre il parapetto non si riusciva a vedere la strada. Era l’appendice dell’appartamento ricavato tra due costruzioni al quarto
piano di un complesso senza balconi, venuto su
negli anni cinquanta per ospitare le case popolari,
e che la metamorfosi del quartiere aveva rese appetibili alle persone più abbienti.
L’aspetto triste della facciata rispecchiava l’umore
del momento in cui Virginia aveva scelto di abitarci. La casa si trovava in viale Eritrea, una
grande strada commerciale lontana dalle zone
della città dove avrebbe preferito vivere, ma era
stata proprio la terrazza a convincerla ad affittare
l’unico locale che componeva l’appartamento. Uno
spazio triste che quando il sole sgusciava dai palazzi, si illuminava del riflesso. Lei l’avrebbe reso
accogliente. Piante e fiori l’avrebbero reso un giardino, le poltrone di vimini gli avrebbe donato
l’aspetto di un salotto, i cuscini colorati e gonfi
avrebbero ammorbidito il colore grigio del pavimento consumato.
144
Appena ripresi i mobili dalla cantina di Erminia,
Virginia si era accorta che la fantasia era andata
oltre. Se entrava il letto non entrava il tavolo.
Quattro sedie erano troppe. La lavatrice e il frigorifero si erano arrugginiti. Soltanto i pensili della
cucina potevano essere appesi con riguardo. Lasciò in via Scalia tutto quello che non entrava in
casa e sullo stesso camioncino che le fece gli altri
traslochi, presero posto il cassettone della nonna,
ricoperto di muffa e la poltrona della mamma, con
la fodera trinciata dall’umidità.
Il vento questa volta non volle giocare e il freddo
congelò i ricordi. L’autista aveva un sorriso mesto
nell’aiutarla a scaricare i mobili.
Comperò un divano letto che volle austero, da un
falegname si fece montare mensole bianche alle
pareti e le due litografie di Simbari, pagate con le
provvigioni sulle vendite dei quadri, sembrava che
mostrassero le ansie anziché il piacere degli
amanti di Parigi. Pose le piccole preghiere persiane
regalatele da Mino, davanti alla portafinestra che
dava sul terrazzo, ma non si inginocchiò a pregare.
La poltrona regina del conforto, tolta la fodera cucita dalla madre, esponeva il damasco d’oro del
tessuto originale. Il cassettone, re dell’arredamento, divenne capo di una monarchia senza sudditi e lei, principessa stanca, leniva la malinconia
accoccolandosi tra le gore dorate della vecchia bergère che l’avvolgeva con l’intensità del sogno. Fuori
un tenace rampicante senza più foglie allungava i
rami secchi come braccia stecchite. Non aveva
avuto tempo per abbellire il terrazzo, Artepiù le occupava l’intera giornata e la sera guardava la televisione senza riuscire a vedere un programma fino
145
alla fine. Mai si era trovata presa dalla mancanza
di gioia come in quei momenti. Il palazzo era alto,
non aveva voluto contare i piani e il pianerottolo
con la luce a comando non le faceva riconoscere
chi abitava di fronte. La città la inghiottiva con la
stessa sciatteria del portiere raramente al suo
posto, con la stessa velocità dell’ascensore quasi
sempre occupato, con la stessa indifferenza degli
inquilini. La scomparsa di Lunetti l’aveva riempita
di smarrimento. La galleria non avrebbe sopravvissuto a lui. La moglie insegnava matematica in
un liceo, i figli erano ancora troppo giovani e non
volevano una gestione estranea. Virginia non poteva più perdersi nelle speranze. Davanti aveva un
muro da superare. Un muro di cemento per sbattere la rabbia e vederla rimbalzare. Cemento, per
imprigionare quello che sentiva dentro. Sampietrini sconnessi per camminarci sopra. La città
sembrava respingerla. Con la mente in subbuglio
sfogliava le pagine del libro appoggiato sulle ginocchia e il desiderio di entrare nel racconto si imponeva su ogni altro pensiero, come le capitava
ogni volta che la lettura si avvicinava al suo stato
d’animo. Urlare, urlare, battere la sua ribellione
per farsi udire dal mondo. Rullio di tamburi per
avvisare che c’era, come l’Oskar pazzo di Gunter
Grass. Voleva anche lei il “Tamburo di latta”. Voleva sulla testa le quattro sottane della nonna per
nascondersi, e sotto ognuna ritrovare le pieghe dei
sentimenti.
Neanche il pensiero di Michele la dava conforto.
Non aveva avuto il coraggio di mandare il manoscritto alle case editrici. Non era più convinta che
fosse un capolavoro.
146
“Che fai copi?” le aveva detto Maria Rosa dopo
averlo letto. “Lettera a un bambino mai nato, la
Fallaci l’ha già scritto.”
Invece Michele era stato concepito prima, molto
prima e poi lei lo aveva portato alla vita il suo bambino, e lo aveva cresciuto, accompagnato, lasciato
andare dove voleva…
“È troppo interiorizzato e poi manca quel pizzico
di suspense che ti fa venire voglia di arrivare alla
fine. Forse dovresti lavorarci ancora, mi sembra
troppo retorico, anche se c’è qualche pagina
bella…”
Erminia invece lo aveva letto in fretta e per affetto
se ne era entusiasmata. “Che bell’anima che hai.
Se Dio ti avesse dato un figlio… Io non me ne intendo, ma scrivi, scrivi, continua a farlo, prova a
pubblicarlo. Insisti, vedrai che prima o poi qualcuno si accorgerà di te.”
Le amiche.
***
Anche se l’Italia aveva ingranato la quinta la signora Ferrin stentava a mettere la marcia giusta.
Tripudio di tecnologie e servizi. Soldi che passavano di tasca in tasca lasciando polvere di benessere. Roma gonfia di potere sempre più lo usava
per gli interessi di pochi che poi erano tanti. Virginia non aveva voluto appartenere ad alcun partito,
né ad associazioni o religioni, non sentiva di seguire ideali o ideologie che non conosceva bene e di
cui non era sicura di condividere in pieno il modo
147
di metterle in pratica, e questo non le era di aiuto.
I mezzi di comunicazione di massa sempre di più
amplificavano il pensiero degli altri e anche su di
lei ottenevano gli effetti desiderati. Parole e immagini. Immagini e parole. Il clamore arrivava comunque e non si poteva fare a meno di sentirlo. Il
futuro, dicevano, sarebbe stato sicuramente migliore. Il terziario avanzava a grandi passi e in quel
campo Virginia doveva muoversi, anche se lo spirito la indirizzava verso emozioni dettate dall’astratto. I telex, le telescriventi, le segreterie
telefoniche avevano cercato di indurla alla soddisfazione telematica. Del computer già parlava Anselmo Attieri sempre pronto a farsi trainare dalle
spinte d’oltreoceano, “Sostituirà la mano e il cervello” diceva, ma Virginia non ne era mai stata
molto convinta. Fu Ornella, la generosa Ornella, a
introdurla al software e all’hardware. Lei, che cercava di cambiare il mondo con il sistema più vecchio del mondo, le presentò Giacomo Leopardi, un
signore di mezza età titolare dell’Informatica Center una società che vendeva computer. L’uomo cercava una collaboratrice seria e dinamica. Virginia
entrò nel futuro.
Del nuovo datore di lavoro, neanche lontano parente del grande poeta, l’impiegata non si innamorò malgrado lui mettesse grande impegno nel
cercare di conquistarla. Spiegava le possibilità infinite dei computer farcendole di ammiccamenti e
doppi sensi.
“L’hard disc e i floppy disc, sono moderne pergamene su cui incidere versi e non hanno bisogno di
cultura per essere capite, ma devono essere stimolate con sapienza e nei punti giusti” diceva mo148
dulando mellifluo la voce. Aveva persino coniato
un versetto “Copia, incolla, salva, / sorelle indipendenti / non fanno prendere accidenti / come
bacia, abbraccia, guarda, / sul sofà dell’amore /
non portano al dottore.” Ma Virginia ignorava la
sensualità dei tasti e con lo sguardo incantato cercava significati occulti soltanto nelle figurine disegnate sulla barra che indicavano infantilmente le
azioni da fare.
La spiegazione dell’uso del mouse portò altre istruzioni. “Vede” sussurrava suadente Giacomo Leopardi accompagnandole dolcemente la mano “lo
deve accarezzare come fosse un fiore, il fiore della
vita… Scorre come la penna che scrive versi appassionati…” e se dal sommo poeta l’uomo non
aveva certo ripreso la profondità dei concetti, né la
sofferenza sul volto, era convinto di averne ereditato la vena.
“Se le istruzioni ti fanno impazzire / vuol dir che la
ragion non sai seguire / con la pazienza devi giocare / per divertirti ad imparare” ma malgrado sorridesse compiaciuto nel ripetere i versi, non si
poteva dire che avesse l’aria allegra. Era un anonimo signore di mezza età, quasi calvo, con gli
occhi un po’ sporgenti. Ricco, sembrava che avesse
tanti soldi, almeno così sosteneva Ornella.
“È buono, mi fa tenerezza” aveva confidato a Virginia “…me lo ha chiesto con tanta dolcezza... ha
una moglie mignotta che gliene mette tante… è
così infelice…”
Una volta soltanto però le si era sciolto il cuore,
poi lo aveva aiutato in altro modo, mettendolo in
contatto con le società a cui aveva venduto la grafica nel precedente lavoro, facendogli concludere
149
buoni affari. La generosa Ornella.
Leopardi pensava che anche Virginia fosse
d’animo aperto come l’amica e ogni mattina la salutava puntando lo sguardo sul seno come se quel
rigonfio naturale potesse rispondere un buongiorno nudo.
L’età aveva arrotondato la donna nei punti giusti e
il portamento che conservava eretto le faceva portare il petto in fuori anche senza volerlo. Nei pochi
mesi che rimase alla Informatica Center si costrinse a rinchiudere il torace nelle spalle e solo
quando si licenziò riprese a respirare ampio.
Parole e cifre danzavano sui piccoli schermi affascinando coloro che volevano risparmiare insieme
al tempo, l’impegno ed il denaro. Virginia si convinse dell’importanza che avrebbe avuto il computer e fece tesoro dell’esperienza fatta. Ne aveva
parlato con Dodo ed era andata a ripescare Giorgio Prandi che dopo essersi separato da Attieri,
aveva svolto varie attività nel campo pubblicitario
e al momento si occupava della vendita di spazi
sui giornali per conto della SEAT. L’incontro assai
cordiale, la riportò al buon umore degli anni passati e le comunicò ottimismo, lo stesso che aveva
provato all’inizio della carriera. Lasciò a Giacomo
Leopardi il rimpianto di un busto da scoprire,
mentre a lei restò l’impegno degli assegni da coprire. Si era portata via un IBM completo di stampante che mise nell’unica stanza dove viveva e che
avrebbe adibito a studio con molto orgoglio ed eccessive speranze.
***
150
Voleva riportare nello spazio del terrazzo l’atmosfera della casa da sposa che non era riuscita a
mantenere pura. Là aveva curato cuccioli di cane
e di gatti, qui curava le piante come fossero bambini. Le innaffiava a orario aggiungendo latte, convinta che alla loro crescita facesse bene.
Controllava ogni foglia novella come un dentino
appena nato, e se al kinderheim riordinava seggioloni e banchetti, su quel piccolo spazio all’aperto spostava continuamente sedie e cuscini
convinta di riuscire a nascondere le mattonelle
scrostate. Parlava ai fiori e la risposta che le davano i colori la nutriva. Guardava di traverso il
cielo e la vista, anche se limitata, l’appagava. All’interno il computer, dall’opacità dell’incarnato,
chiedeva latte. Latte futuro. Elettrico. Informatizzato.
Virginia lo trattava con rispetto, gli aveva assegnato un ruolo, “tecnico della comunicazione”, gli
aveva dato anche un nome, Girolamo, che le riportava alla mente giri di vite ed ami per pescare.
Compendio di meccanismi nascosti dietro il volto
schermato dalla scienza. Computer. Per lei ancora
un oggetto misterioso anche se i versetti di Giacomo Leopardi le avevano aperto nuovi orizzonti e
non solo elettronici. Lo usava con riguardo. Il libro
delle istruzioni, scritto in inglese, aveva ritardato
la comprensione, ma quando riuscì a comporre
sullo schermo le prime frasi, le sillabe, che si accendevano di verde, diventarono fili di prato e tornarono vivi gli alberi che disegnava all’asilo,
mentre le parole che si illuminavano di minuscole
luci al neon divennero bandiere della voce. Portare
le lettere ad obbedire fu più difficile che chiedere ai
151
bambini di fare un girotondo ordinato. Aveva l’impressione che si divertissero a sgusciare dal loro
posto per sparire giocando a nascondino. Rientri e
spaziature, apice, pedice, tabulazione, formattazione, erano comandi che apparivano nelle finestre
sovrapposte non meno misteriosi delle impronte
lasciate dagli artisti più avanzati sui quadri esposti ad Artepiù, ma le ore passate davanti al piccolo
schermo correvano veloci scacciando ogni altro
pensiero.
Riuscì in breve tempo ad acquistare dimestichezza
con i tasti ed il mouse. Poi, lentamente, si insinuò
tra lei e Girolamo un rapporto d’amore illegale. Lui
come un signore che aspetta l’amante per far bella
mostra di sé, lei disposta ad assecondarlo per soddisfare l’astuzia di piegarlo alle sue richieste.
Quattro pezzi di plastica che senza una spina elettrica innescata formavano un oggetto brutto ed ingombrante. Una follia dargli tanta importanza.
Eppure… Cercò di ignorarlo per qualche giorno e
quando riprese a scrivere lo aveva vinto. Era soltanto uno strumento per ottenere risposte meccaniche. Soddisfatta usciva allora sul terrazzo ed ai
fiori raccontava l’animo che non poteva raccontare
a lui ed il verde delle foglie si accendeva di aria e
non aveva bisogno della spinta di un tasto per rimanere acceso.
Il primo lavoro che Virginia riuscì a trovare fu
quello di inserire centinaia di dati riguardanti i
contributi INPS dovuti ai dipendenti di una società
di assicurazioni. Un incarico avuto da uno studio
che elaborava programmi informatici. Dopo tre
mesi di impegno, sostituì gli assicuratori nella memoria del computer con un interminabile numero
152
di probabili lettori di libri da acquistare a rate. Girolamo però non era ancora bene allenato e mal
sopportava di stampare oltre le venti etichette,
dopo di che si inceppava emettendo strani mugolii o ripetendo l’ultimo indirizzo fino all’esasperazione. Neanche il tecnico riuscì a fermarlo. Virginia
gli parlò, ci ragionò. Accarezzava il mouse come le
aveva insegnato Leopardi, senza riuscire a ricondurlo alla ragione. Non le rimase che diventare
complice dei suoi capricci e stampare le etichette
venti per volta allungando il lavoro anche di notte.
Con la meticolosità che era abituata a mettere in
ogni cosa fece l’elenco delle persone a cui rivolgersi
per cercare altro lavoro. Imprese ed enti per proporre i suoi servizi, per inserirsi nel mercato romano. Forte degli insegnamenti di Attieri sapeva
presentarsi con eleganza e giuste parole. A Lunetti
doveva l’insistenza del ragionamento, a Ornella la
civetteria della femminilità, a Mino l’opportunità
di una battuta sagace. Ma che fatica! Esplicita e
sincera nell’esprimere ciò che pensava, Virginia
qualche volta si lasciava sopraffare dal temperamento e bastava una frase non studiata, un sorriso mancato per annullare tutto quello che aveva
detto prima. I consigli di Maria Rosa la spingevano
verso la vita di società “per entrare negli ambienti
giusti e diventare amica dei personaggi che contano” insisteva. Si lasciò convincere. Invitò a cena
in un ristorante alla moda sei persone e poi ancora
otto e ancora sei e ancora otto, tutti inseriti nel
mondo del lavoro Si appoggiò alla coppia amica
ponendo la loro posizione sociale come garanzia
della sua non ancora affermata, era una donna
sola e questo rendeva più complesso ogni contatto.
153
Cercava di ingigantire le mansioni svolte in passato per apparire importante e bene inserita. Attenta alle tendenze politiche di ognuno evitava
incontri polemici. Si concesse l’ottimismo dell’affetto soltanto con Dodo e la sua compagna. Li invitò insieme a Maria Rosa e Lucio, ma le idee
politiche diverse per poco non sfociarono in un litigio lasciando agli amici decisamente di sinistra,
e agli altri tendenti a destra, la delusione dell’incontro e il desiderio di continuare a frequentare
solamente lei. Azzardò una cena in terrazza. Cucinò i migliori manicaretti, aggiunse fiori alle
piante. Gli ospiti si complimentarono, ma la presenza del computer nell’unica stanza dichiarò la
situazione.
Pochissimi gli inviti di rimando, nessun contratto
di lavoro. Alla resa dei conti l’investimento mondano non era stato valido. Cambiò modo di proporsi. Finì i risparmi comperando una cartella di
Vuitton, un tailleur blù dalle sorelle Fontana e i
mocassini da Gucci. Così vestita affrontò nuove
ditte cercate sulle Pagine Gialle. Lasciò decine di
biglietti da visita. Cercò di apparire rigorosa ed efficiente, ne ricavò un piccolo incarico. Rise con
Giorgio Prandi, pianse sulla spalla di Dodo e soltanto mettendo avanti il loro nome riuscì a farsi
un piccolo nome.
***
Erminia, la dolce e forte Erminia era crollata.
Anche se Virginia ci parlava al telefono non era più
154
capace di distrarla. I reumatismi, le vene varicose
e tanti altri acciacchi si accanivano su di lei costringendola a stare in casa. Aveva tentato di coinvolgerla in qualche manifestazione di piazza, ma
ormai l’effimero spostava le folle soltanto di sera.
Quando andava a trovare l’amica, la mestizia con
cui accettava la conclusione della vita, riaccendeva
nell’ancor giovane donna la ribellione degli anni
passati, ma poi i problemi della quotidianità scacciavano ogni voglia di reagire.
I mesi corsero senza farsene accorgere e non appena Virginia si era accorta che era passato molto
tempo dall’ultima visita, chiamò l’amica senza ricevere risposta. Preoccupata chiamò uno dei figli
che imbarazzato le diede l’indirizzo della casa di riposo dove l’avevano portata. Un villino ai limiti
della città, sulla via Trionfale con tanto verde intorno.
Tutto era estremamente pulito. La sala di riunione, dove la televisione sempre accesa trasmetteva la vita, era piena di comode poltrone in cui
sprofondavano i corpi inerti delle persone anziane
più pigre, le altre si alzavano e sedevano in una
lenta pantomima che ripeteva ogni volta gli stessi
gesti impacciati. Erminia passava la maggior parte
del tempo a letto e quando Virginia aprì la porta
della sua camera, il gelo delle mattonelle che ricopriva le pareti fino a metà, la stanza evidentemente
era stata una cucina, le fermò il cuore. La donna
aveva perso la lucentezza degli occhi e anche se la
riconobbe subito, stentò a pronunciare il suo
nome.
Passarono un’ora tenendosi per mano e Virginia
parlò e parlò per raccontare tutto quello che Er155
minia non avrebbe più avuto da raccontare. Promise di tornare presto e sul pianerottolo le sembrò
di udire la voce del signor Giulio che ripeteva insistente “Ermiiinia… dove sei?” e la moglie era là,
che aspettava di raggiungerlo.
Pretombe. La conquista della longevità, vanto del
secolo, aveva bisogno di loro.
A casa fece la doccia, ma continuava a sentire
l’odore dolciastro di detersivo e scorie umane che
le era entrato dentro.
***
L’appartamento dove da qualche anno viveva
Maria Rosa, poteva considerarsi di gran lusso. Era
adatto alle nuove necessità della famiglia, attico e
superattico a Vigna Clara con terrazza sfiorata
dalle cime dei pini. Oltre il giardino condominiale,
con piscina e cespugli fioriti, lo sguardo spaziava
su Roma dalla parte di San Pietro dove la cupola
diventava un punto di riferimento del panorama.
Virginia e l’amica si erano sedute sotto l’ombrellone quadrato lasciando al sole il compito di scaldare la rigogliosa bouganvillea che copriva
l’angolo. L’ospite aveva adagiato sul palmo della
mano un fiore appena caduto, non voleva farlo volare via, scosso così come era dalla brezza che invece avrebbe voluto vederlo saltellare sul
pavimento. Il fucsia dei petali cominciava già a
scolorirsi e Maria Rosa aveva sussurrato mesta
“Come la mia vita…”
La donna dopo il matrimonio si era dedicata ai figli
156
impegnando nella loro educazione gran parte dell’esuberante energia che la caratterizzava. Al marito aveva concesso il resto, aiutandolo soprattutto
nei rapporti sociali in cui era diventata maestra.
L’aspetto, decisamente meridionale, le donava
quella calda femminilità che sapeva mettere in evidenza indossando vestiti attillati e trucco marcato
con sapiente maestria. Gli abiti più belli erano firmati da sartorie importanti, ma li portava con la
stessa noncuranza che metteva nell’indossare i vestiti comperati sulle bancarelle. Una donna piacente, e la civetteria di provocare l’attenzione degli
uomini era rimasta un’abitudine che non preoccupava più Lucio.
Alberto e Monica si erano fatti grandi e dell’adolescenza che portavano addosso non volevano dare
segno, si atteggiavano perciò a giovani sicuri,
senza inibizioni. Il motorino era l’argomento dominante. Ne avevano uno ciascuno e la madre era in
continua angoscia per loro. Quando uscirono sul
terrazzo per salutare Virginia, la donna abbracciandoli si gonfiò di orgoglio come se li avesse fatti
lei. La ragazza assai graziosa, aveva ripreso la sottigliezza del padre che la faceva apparire un giunco
ed il ragazzo, robusto nel corpo, esprimeva precocità. La consideravano una simpatica zia e lei ricambiava l’affetto scherzando volentieri con loro,
ma quel giorno Maria Rosa, presa dai suoi problemi, li mandò via in fretta. La storia che voleva
raccontare all’amica era stata troppo importante
per lasciare spazio ai figli.
Una storia d’amore, “come tante…” pensò sarcastica Virginia, il solito trio, ma per la protagonista
non era stato così. Lui, amico di famiglia, che di157
ceva di non provare più nulla per la moglie, brava
donna, carina, intelligente, ma poco attenta ai suoi
bisogni, aveva acceso la comprensione di Maria
Rosa e quindi lo scatenarsi della passione. L’incontrarsi all’insaputa dei rispettivi coniugi aveva
portato gli amanti a quei tipici giochi di incastro
che li avevano fatti rincorrere nelle ore più impensate per fare l’amore in macchina o per concedersi
l’eccitazione di un bacio rubato mentre i congiunti
chiacchieravano nell’altra stanza. Parenti e amici
forse se ne erano accorti, ma ognuno aveva cercato di non approfondire i sospetti per lasciare integro e quindi felice quel paradiso di cene, cinema,
viaggi, fatti sempre in comune.
La relazione era finita di nascosto come era cominciata. La notizia della gravidanza della moglie
di lui aveva preso a girare prima dell’annuncio ufficiale. Gli incontri avevano assunto l’isterismo del
complotto. Maria Rosa non voleva crederci e continuava a proporre ricevimenti per studiare gli atteggiamenti della coppia amica. Quel che prima
era stato piacere diventò sofferenza. I giochi d’incastro per incontrarsi divennero giochi di gelosia
per spiarsi. Finita la storia la donna si chiuse in
un mutismo pieno di ombre che non giovava a
nessuno.
Non ne aveva voluto parlare all’amica fino a quel
momento per pudore, ma anche per non turbare
l’immagine di brava signora che si era costruita e
che le piaceva avere addosso. Nel dolore ritrovò
l’umiltà della sconfitta, la speranza della comprensione, ma Virginia non riusciva a capacitarsi
del tradimento. Lucio, anche se un po’ vanesio, era
un uomo dedito alla famiglia e al lavoro, alla mo158
glie voleva quel bene assuefatto, miscuglio di regali costosi, di sfoghi intimi, di sesso sicuro. Era
meravigliata, aveva invidiato la complicità della
coppia che, anche se venata da qualche recriminazione o rimprovero, dimostrava la sicurezza dell’essere parte di un tutto in cui ciascuno sembrava
necessario all’altro. Aveva esaltato in cuor suo
quello scambio di parole e gesti che avviene tra
marito e moglie, aveva invidiato il loro dividere le
piccole cose banali di tutti i giorni. L’intimità della
convivenza. Un modo di vivere che portava ad
esempio.
Come era potuto accadere?
Rimase lontana dalla partecipazione affettiva che
l’amica si aspettava e con la lucidità di una estranea continuava a snocciolare soluzioni
“Distraiti, concediti del tempo tutto per te. Iscriviti
a un corso di ceramica, oppure aiuta tuo marito
in studio. Hai una laurea, falla fruttare… e poi ci
sono i ragazzi, pensa a loro, hanno bisogno della
tua serenità.” e più parlava più il volto di Maria
Rosa diventava affilato e triste.
“Non mi basta, Ginia, non mi basta.” implorava
Maria Rosa senza trovare nell’abbraccio di Virginia il calore che cercava.
***
Le difficoltà erano tante. Il commercialista pretendeva ordine nei conti e ricevute per tutto. La bolla
di accompagno divenne un incubo, doveva o non
doveva riempirla per consegnare i tabulati? Quale
159
era il codice di attività da inserire sulla dichiarazione dei redditi, visto che il suo genere di lavoro
non era ancora ben definito? IVA, ritenuta d’acconto, IRPEF, ILOR, e quando fece un contratto
con un ente pubblico tanti documenti in più per il
controllo antimafia. Che complicazione! L’identità
personale di Virginia si confondeva con quella
aziendale. Perdeva più tempo dietro la burocrazia
che dietro il lavoro vero e proprio.
Per tenersi buoni i clienti spesso completava le
prestazioni con l’impegno manuale che la vedeva
piegare fogli, incollare buste e francobolli in un
crescendo di direct marketing che sempre di più
avrebbe dovuto convincere i fruitori della pubblicità a fare quel che gli veniva proposto. Accettava
di copiare e rendere graficamente accattivante
qualsiasi testo con le piccole agenzie di servizi che
incominciavano ad essere sempre più numerose e
che non potendo permettersi la spesa del computer, chiedevano il suo intervento per migliorare
l’immagine, per apparire più importanti di quello
che erano. Follia del comunicare.
La professionalità imponeva di non lasciarsi andare in chiacchiere perditempo e meno che meno
in confidenze. I contatti con le persone divennero
soltanto contatti di lavoro. Per fare sempre più
cose, sempre più in fretta usava l’automobile al
posto dei piedi e non scendeva dalla macchina che
per la spesa, nei negozi che incontrava strada facendo.
Donnanumero. Componente la società del progresso. Nel portafoglio il cartoncino con il codice
fiscale l’avrebbe fatta riconoscere in caso di incidente. Lei non si riconosceva più.
160
***
Il dottor Antonio Vieri era in anticipo. Il treno per
Firenze sarebbe partito soltanto dopo venti minuti,
avrebbe fatto in tempo a prendersi un caffè. Affidò
la borsa all’attenzione di una suora che si era già
sistemata sul sedile di fronte e si avviò verso il bar.
Nello scendere dal vagone urtò contro un carrello
abbandonato e nel voltarsi imprecando notò una
barbona che dondolava un altro carrello come
fosse una culla. Oscillava il corpo a destra e a sinistra e quel movimento gli rammentò qualcosa.
Un attimo, e sostituì l’immagine sospesa con la
confusione del marciapiede.
Al ritorno la barbona era ancora là. Gli camminava
davanti spingendo il carrello come se dentro, al
posto di una sporca cartella di tela, dormisse un
bimbo, ma la nenia che modulava con le labbra
era un motivo strano che non ricordava le ninne
nanne della nonna. La superò girandosi per osservarla e di nuovo ebbe l’impressione di avere già
visto la scena. Ma dove?
Forse un figlio perduto…
Poveretta.
Il ritmo del treno invitava al sonno. Nel vagone lui
e la suora leggevano. A fianco un uomo non troppo
anziano dormiva con la bocca aperta. Entrò una
ragazza giovane, truccata bene. Si sorrisero. Prese
posto a fianco della suora. Il libro che la religiosa
teneva in mano aveva la copertina nera. La ragazza
sfogliava una rivista patinata. Il dottor Vieri appoggiò il giornale e perse lo sguardo sul viso chino
della religiosa intenta a leggere il breviario. Il volto
161
si sovrappose a quello della ragazza, si incorniciò
di capelli vaporosi mentre la copertina nera entrava nel rotocalco colorato. Una fuga di ricordi dimenticati lo rincorsero.
Virginia… Virginia…
Somigliava alla suora, somigliava alla ragazza…
L’aveva incontrata al pronto soccorso dell’ospedale
Santo Spirito… era stato colpito dalla dolcezza con
cui cullava il passeggino dove un pupotto, figlio
della donna che aveva accompagnato, si guardava
intorno spaventato.
“Lei è una parente?” le aveva chiesto e al suo “no”
aveva cercato di allontanarla dall’ambulatorio
senza riuscirci.
Possibile che fosse la stessa persona? Allora stava
bene, lavorava… un lavoro di grandi prospettive
diceva… Possibile che fosse finita così? Quanti
anni erano passati? Ma no, forse non era lei…
Cullato dal treno entrò nel sonno. Quando riaprì
gli occhi la ragazza non c’era e la suora stava cercando qualcosa nella cartella. Una cartella di tela
blu. Come quella che cullava la barbona… Il dottor Vieri cambiò posizione e si mise a guardare
fuori del finestrino. Il pensiero tornò a Virginia…
Virginia. L’aveva amata? Anche allora non aveva
saputo rispondere. Forse più che amarla si era incuriosito. Una donna strana. Dopo aver soccorso
per strada la giovane madre, con ostinazione aveva
continuato a seguirne i movimenti anche quando
lui aveva cercato di dissuaderla ben conoscendo le
reazioni della donna che dava evidenti segni di
squilibrio. Le aveva consigliato di lasciar perdere,
casi del genere ne vedeva spesso e già sapeva come
andavano a finire, ma Virginia lo aveva inseguito
162
con le telefonate, aveva insistito per avere il suo
aiuto… Era brava a parlare, con la risposta svelta,
capace di ribaltare ogni discorso a suo favore. Ce
l’aveva col maschio, ce l’aveva col mondo intero.
Insoddisfatta, delusa. Non si era realizzata. Imprecava contro quel lavoro che le faceva passare
ore e ore davanti a un computer, ma diceva che
era il futuro. Cocciuta. Testarda. Quando fu evidente che la giovane madre la sfruttava chiedendo
sempre più soldi, tagliò ogni contatto con la giovane donna assistita… come poi fece con lui.
Generosa e tirchia…
Virginia…
Che scenata la sera in cui inneggiando alla parità
le fece pagare la cena… Blaterava sui diritti delle
donne e gli rimproverava di non aprirle mai lo
sportello della macchina…
Aveva tanto insistito perché lasciasse la moglie…
già… e per fortuna non le aveva dato retta.
Però lo aveva attirato quel suo modo di affrontare
la vita, di prendere le cose di petto, ribelle e tenera… Dolcissima soltanto quando le garbava…
Scoppi improvvisi di rabbia, senza ragione e dopo
faceva l’amore trasformando la disperazione in
passione… No, non era il sesso che li aveva legati,
ne aveva conosciute di migliori.
Virginia.
***
Forse aveva sbagliato a mettersi in proprio. Neanche il guadagno era un gran che. Virginia ragio163
nava e ragionava come se la sua vita appartenesse
a un’altra.
Appoggiarsi a un uomo?
Per concedere il suo buco in cambio di qualcosa?
Certo era possibile in una società che malgrado il
progresso concepiva ancora le donne soltanto
come buco.
Ma a che prezzo?
Donna oggetto, non più angelo del focolare. Donnabuco.
“Non voltarti mai indietro” si sentiva ripetere. Infatti era meglio non farlo.
Si era realizzata? Si, se per realizzazione si intende
provare a fare cose diverse da quelle in cui si credeva prima, oppure si era soltanto lasciata trasportare dalla corrente, mescolando l’istinto al
raziocinio, sostituendo il rispetto per gli altri all’appagamento della propria personalità? Un amalgama di vorrei ma non devo, devo ma non vorrei,
che l’avevano circuita per lasciarla confusa, per
porgerle nuovi desideri, per riportarla ad antichi
impulsi come era successo quella volta che i buoni
sentimenti l’avevano spinta a soccorrere una povera donna che si era sentita male mentre spingeva un passeggino con un pupotto moccioloso e
sporco. Ma contemporaneamente la femminilità
sopita l’aveva spinta a corteggiare quel “fico” di
medico trovato al pronto soccorso, che tra l’altro
aveva la fede all’anulare sinistro.
Il dottor Antonio Vieri.
Accidenti quanto era bello! Assomigliava a Marco
Pannella, il leader del Partito Radicale. Gli occhi
però non avevano la sua magia. A letto le piaceva
più guardarlo che accontentarlo. Lo aveva irretito
164
usando le vecchie armi della seduzione unite alla
spregiudicatezza della libertà. Una casa sempre a
disposizione non era poco, si poteva risparmiare
sugli alberghi e spesso si gustava un pasto gratis
arricchito dalle moine dell’amore.
Aveva provato a gestire Antonio come gestiva Girolamo e se il computer accettava gli ordini, l’uomo
non accettava imposizioni. Virginia amante consolatrice. Un buco dove infilare ogni lagnanza… lamentele… accidenti alla moglie… l’aveva sposata
perché era incinta. Nella casa sporcizia e disordine
e i soldi, oh i soldi che scorrevano a fiumi… Una
disgrazia.… Virginia gli aveva consigliato di separarsi, di chiedere il divorzio e lui rispondeva che
si, l’avrebbe fatto e subito, ma quando gli propose
di trasferirsi da lei, lui non accettò.
Perché fermarsi?
Con Enrico fu diverso. Si ricordò di lui una sera di
malinconica noia. L’interesse dimostrato quando
si erano conosciuti, l’aveva lusingata. Raffinato,
esuberante, era un funzionario di banca pronto a
divertirsi senza complicazioni. Si erano scambiati
i numeri di telefono sapendo entrambi che se si
fossero chiamati non lo avrebbero fatto per sola
amicizia. Lui aveva provato a invitarla un paio di
volte, ma lei allora non si sentiva ancora pronta
per quel tipo di libertà. Quando lo chiamò fu per
concludere a letto una simpatia che le ricordava
l’amore. Si videro qualche volta con piena soddisfazione e senza impegno. Poi gli altri. Ignazio Lodoli Ceretti Corti, raffinato nobiluomo pretendeva
prestazioni allo champagne, ma quelle condite con
il peperoncino di cui era ghiotto furono troppo accese. Oreste, revisore di conti, conteggiava i giorni
165
fecondi e quelli sterili preferendo sottolinearli in
rosso. Paolo andava da Virginia dopo la messa. La
paragonava a un angelo ma chiedeva riti diabolici.
Aurelio, militare in carriera riusciva a fare l’amore
soltanto al suono di una marcia. Luciano si eccitava nelle piazze affollate. Si lasciarono per strada.
Louis confermò che quel che si diceva sulla passionalità dei francesi era vero. Peccato che tornò
in patria.
Chiese scusa a Girolamo che aveva assistito ad
ogni intemperanza e le piccole lettere verdi ripresero la danza della solitudine cantando versi di
altri. Spogliata dei tabù Virginia aveva indossato
gli abiti del maschio, ma era rimasta integra nell’intimità. L’euforia di sentirsi femmina aveva accentuato l’orgoglio di sentirsi madre. Per
accogliere, per lenire le angosce degli uomini tramutate in orgasmi. Surrogati di sentimento. Delusione, amarezza. Voleva illudersi che almeno
Michele, oltre a spruzzare sperma, fosse capace di
domandare sincero “Come stai?”. Certo si era divertita, aveva anche provato piacere e l’ebbrezza
dei complimenti la rimpiangeva ancora, ma non le
bastava. Pretendeva dall’accoglienza del ventre
pulsioni separate dagli organi restanti e non poteva chiamarsi amore ciò che aveva provato.
Virginia soltanto buco. Perciò aveva smesso.
Li contò, erano dodici quelli che aveva inghiottito.
Girolamo, il tredicesimo, li accolse come un fratello, e vederli scritti in ordine alfabetico sullo
schermo procurò alla donna un moto di ilarità.
Ordinò i nomi nel rispetto dei tempi, in grassetto:
Carlo, Mario, Mino, Chito, Antonio, Enrico,
Ignazio, Oreste, Paolo, Aurelio, Luciano, Louis
166
poi riordinò i cognomi valutando l’intensità dei
sensi, li mise in ordine alfabetico, confuse le iniziali, intrecciò le consonanti con le vocali in un
gioco infinito finché non venne fuori “Palma come
Chito”.
Chito. Chissà dove si trovava?
Dove il sole splende o dove il sole scolorisce i disegni? Dove le palme andavano troppo in alto e dove
la passione le aveva fatto alzare l’orlo della gonna?
Cliccò sul cestino e Girolamo ci buttò gli amanti,
accarezzò il tasto dell’invio e lui espulse i suoi bit.
***
Colombo da quando era stato dimesso dagli istituti, aveva vagato per la città senza mai uscirne.
La vita priva di un impegno fisso gli aveva reso difficile trovare una sistemazione dignitosa e allora si
prendeva in prestito le piazze che diventavano saloni di un palazzo tutto per lui. Le scale, che intravedeva dai portoni, servivano per raggiungere il
cielo, l’asfalto per camminare sul velluto. Non ce
l’aveva col mondo, non ce l’aveva con Dio e neanche con le donne che aveva visto come erano fatte
troppi anni prima, quando ancora metteva la
giacca per apparire bello, e usava le tasche soltanto per i fazzoletti. Luana era stato il suo grande
amore. Era la più giovane di un bordello che lui
frequentava e con lei aveva festeggiato più di un
Natale di Roma, il 21 aprile, in sostituzione del suo
onomastico che non esisteva. La ragazza in quella
ricorrenza tirava fuori da sotto il materasso una
167
bottiglia di vino marsalato e i gianduiotti per condire le grazie che non si faceva pagare. Poi di
donne non ne aveva avute più e soltanto la strada
era stato il suo passato.
Il luogo dove si era trovato meglio si trovava nei
giardini di piazza Cavour dove le palme d’estate facevano da tetto e i gabinetti pubblici, d’inverno, da
riparo. Il letto era l’ultima panchina a destra, sempre quella, e il materasso, ricolmo di stelle, raggiungeva in fretta la notte. Di giorno era il sole che
conduceva le sue mosse e nel sole Colombo trovava ogni risorsa. Quando aveva voglia di aggiustarsi il colletto della giacca o i capelli arruffati
proiettava la sua ombra sul tronco delle palme che
accoglievano la sagoma del suo corpo come uno
specchio. Con il rasoio asciutto si faceva la barba
seguendo i contorni del viso anche loro diventati
ombra, con un pezzo di pettine si rimetteva a posto
i capelli e soltanto quando la sagoma gli appariva
in ordine, si allontanava dal tronco della palma per
affrontare la giornata. Poi abbandonò la piazza e
cercò di specchiarsi sugli alberi intorno alla Stazione Termini, ma i tronchi dei lecci erano troppo
sottili e così rinunciò alle pulizie mattutine pilotate
dal sole. Fu dopo che Virginia gli fece leggere il romanzo che in un impeto di affetto le chiese di accompagnarlo a rivedere la sua vecchia casa, piazza
Cavour, per riprovare insieme a lei le emozioni del
passato, per spiegarle come viveva e quanto caro
gli fosse quel luogo. Un viaggio che li condusse per
la prima volta affiancati fino ad attraversare il Tevere dove gli angeli, a guardia del ponte che porta
al Castello, li lasciarono passare poveri e diseredati. Lui trascinava i piedi nelle scarpe senza lacci,
168
lei li portava gonfi. Raggiunsero il colonnato di San
Pietro in anticipo sul giubileo. Fu il suono delle
campane che usciva dal Vaticano che li svegliò al
mattino, vicini, raggomitolati e infreddoliti. Raggiunsero piazza Cavour seguiti dal sole. Si lavarono il viso alla fontanella e si spruzzarono l’acqua
come due bambini. Aspettarono che il sole fosse in
posizione giusta per proiettare le loro ombre sul
tronco di una vecchia palma mentre i colombi svolazzavano intorno. Ma le due teste affiancate non
riuscirono a vedersi insieme e allora divenne uno
scherzo alternare le ombre creando il gioco magico
della vita. Colombo si passava la mano tra i capelli
arruffati, Virginia si metteva di profilo. Gesticolarono goffi come mimi alla recita dei principianti e
quando lui trasse il rasoio dalla tasca per radersi,
lei si allontanò senza avvisarlo.
***
La kenzia era diventata bellissima. Le cure a base
di latte le avevano fatto bene. Era cresciuta molto
da quando Erminia gliela aveva regalata.
“Prendila tu, anche se è una palma d’appartamento sono sicura che sul tuo terrazzo starà meglio. La metti in un vaso più grande e poi se
sboccia un germoglio, lo metti in un vaso più piccolo e me lo porti.”, ma la nuova gemma non era
ancora nata.
Le altre piante sentivano l’inverno che si annunciava umido. Le foglie sembrava si stringessero intorno ai tronchi mentre Virginia piangeva. Aveva
169
telefonato per avere notizie di Erminia e le avevano
risposto che il funerale si era svolto la settimana
prima. I figli avevano preferito salutarla nell’intimità della famiglia.
Ancora una volta inutile donna. Vegetale scosso
dal vento che sguscia fra i palazzi trascinando soltanto sporcizia e polvere. Anche lei palma. Palma
d’appartamento, destinata a nutrirsi di aria rarefatta.
Lasciò al freddo l’incarico di occuparsi della terrazza. Chiuse i vetri alle spalle senza fermare i battenti, mentre sul video del computer entrava e
usciva ossessivo il messaggio dell’attesa. Si rannicchiò nella poltrona della mamma e il sonno la
raggiunse per portarla altrove.
Accompagnava il funerale di Erminia. Palme e cipressi rincorrevano la salma con una danza mesta
che avanzando mutava in un ballo sfrenato, come
in un cartone animato o come capita nei sogni
dove le immagini diventano altre e con loro chi le
osserva. Uomini e donne avevano preso il posto
degli alberi, e gli uni allungavano la figura fino a
impersonare signori longilinei ed alti mentre le
altre allargavano le foglie fino a raggiungere l’opulenza. Virginia correva incespicando tra i cespugli,
ma non era lei, era un’altra. Non vedeva il cielo e
la luce dell’orizzonte appariva e spariva come
quando si guarda attraverso un bosco da un’automobile in corsa. Poi tutto prese a girare vorticosamente. Si svegliò di soprassalto. Era gelata. La
finestra si era aperta lasciando passare l’aria che
annunciava la pioggia. Girolamo l’aveva vegliata.
Si alzò per spegnerlo, ma prima spinse il tasto di
“N” e poi quello di “O”.
170
***
La stampante riempiva il cervello di un rumore
vuoto. Lavorare era ormai la sua unica distrazione.
L’agenzia d’informatica che le aveva affidato l’ultimo incarico esigeva molta precisione e molta discrezione. Bisognava gestire il file di una grossa
società provvedendo alla trascrizione dei dati riguardanti clienti, collaboratori e personaggi di rilievo ai quali venivano dati omaggi offerti per ogni
tipo di festività. Tutti erano stati contrassegnati da
un codice che sostituiva il nome e che conteneva
anche la data di consegna e altre notizie a lei sconosciute. Le tabelle dovevano essere continuamente aggiornate e rielaborate in base al numero
dei regali e ad altre informazioni che le venivano
sempre indicate con abbreviazioni incomprensibili.
Virginia non conosceva l’identità del committente
in quanto era l’agenzia che pur affidandole il lavoro, ne rimaneva unica responsabile. Un impegno noioso quanto quello precedentemente svolto
dal notaio. Che sarebbe successo se avesse sostituito un numero di codice con un altro?
Non era primavera e il Coniglio d’Amministrazione
sarebbe ancora finito in padella…
“CB4FE.18021” come stai? si apostrofava allo
specchio
“cem.tris.4” cosa vuoi mangiare oggi? chiedeva a
se stessa prima del pranzo.
Ma chi sei tu? “cem.tris.4” oppure “b7,411”?
Donnanumero. Che tristezza!
Passate le passioni, passate le illusioni, la monotonia della quotidianità l’aveva resa opaca non
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solo nell’aspetto. Non le andava bene più niente.
“Accidenti alla sporcizia della città.” aveva imprecato una sera tornando a casa piena di pacchi e
di malinconie. Un vortice d’acqua, troppo abbondante per entrare nella fogna, le aveva inzuppato
i piedi e sbattuto sulla caviglia qualche cosa che
l’aveva fatta rabbrividire. Che schifo. Scalciò per
liberarsi dal rifiuto ma abbassando lo sguardo si
accorse che quella cosa appoggiata al suo piede
era un gattino. Istintivamente si chinò a raccoglierlo. Era talmente zuppo che non sembrava più
un animale. Le pareva di avere in mano un sacchetto vuoto, senza consistenza, eppure anche se
così conciato il micino tentava di scappare. Facendo acrobazie con l’ombrello e le borse riuscì a
trattenerlo.
“Perché non ti prendi una bestiola, fanno tanta
compagnia…” le avevano ripetuto in diverse occasioni, e la frase le rimbombava nelle orecchie.
Entrò in casa con il gattino in braccio. L’appoggiò
sul tavolo della cucina e solo allora si rese conto di
quanto fosse piccolo. Lo asciugò. Aprì una scatoletta di carne, il latte era finito, la sbriciolò in un
piatto e mise il pane ammollato nell’acqua in una
ciotola.
La bestiolina sembrò riprendere consistenza. Incominciò a fare le fusa mentre ispezionava il piano
del tavolo senza azzardarsi a scendere. Assomigliava ad un grosso pulcino arrossato, aveva il pelo
fulvo striato di bianco e gli occhi verdi. Sarebbe diventato proprio un bel gatto. Virginia lo osservava
incapace di provare emozione. Piegò una coperta
che pose sotto una sedia e vi appoggiò il gattino.
Dal frigorifero prese qualcosa da mangiare per sé
172
e si chiuse la porta della cucina alle spalle come se
dentro fossero rimasti soltanto i soliti quattro
piatti da lavare.
Il mattino seguente il gattino non era al suo posto,
ma dormiva rannicchiato in un angolo pieno di
escrementi. Aveva la diarrea. Scoraggiata Virginia
incominciò a pulire. Le si prospettava una giornata
molto impegnativa, due incontri importanti ai
quali voleva dare il meglio di sé. Non avrebbe proprio fatto in tempo a portarlo dal veterinario. Mise
sul fuoco l’acqua per lessare un pugno di riso e
quando lui si riprese e incominciò a girarle intorno
con la coda dritta, la giornata era già avanzata.
Gli appuntamenti non portarono nulla di buono.
Rientrando chiamò il gattino che non vedeva e nel
guardarsi intorno, sentì una forte puzza di guasto.
Oddio! La cacca. L’animale, disteso con le zampe
rigide, guardava Virginia senza muovere gli occhi,
sembrava morto. Aveva i peli impiastricciati di
muco giallastro. Lo sollevò più con rabbia che con
delicatezza e lo lasciò cadere nella vasca da bagno.
Non c’era altro da fare che pulire, pulire, pulire.
Infilò i guanti di gomma e come un segugio tignoso
seguì la traccia delle macchie che disegnavano la
mappa dei rifiuti. Per terra, sui preziosi tabulati,
persino sui tasti del computer. La merda aveva imbrattato tutto.
L’odore di marcio ingigantiva. Sentiva un sapore
amaro salirle in bocca. La sua merda. Aveva voglia
di andare di corpo. Riprese a pulire con maggiore
lena. Le veniva da vomitare. Si fermò ansante.
L’odore diventava sempre più forte confondeva i
sensi, impiastricciava la mente. Ci mancava anche
questo!
173
Un’idea atroce le riempì la testa. Lucidamente. Gli
avrebbe stretto il collo con due dita, poi l’avrebbe
buttato nel secchio della spazzatura e l’indomani
mattina, uscendo, avrebbe buttato la busta nel
cassonetto. Una cosa da niente. Non era mica un
essere umano… Non se ne sarebbe accorto nessuno. Ce n’erano tanti di gatti in giro… uno più
uno meno…
Le prese una gran voglia di farlo. Guardò il secchio
sotto il lavandino. Si alzò per andare a prendere il
gatto.
Ma che stava facendo?
Restò immobile, vuota di pensieri e di azioni, poi
come un automa andò vicino alla vasca, tolse i
guanti di gomma, si guardò a lungo le mani e con
le mani nude raccolse la bestiola e la lavò e si lavò
e non finiva mai di lavarsi.
Avvolse il gattino in un asciugamano e se lo strinse
al petto. Sul letto, mentre le fusa cantavano la
ninna nanna, si addormentò senza riuscire a piangere.
***
Via del Corso a due passi da piazza Venezia, il portone immetteva in un androne buio, grande, che
portava impudico i segni del tempo. Mariolina Cipolletta aveva spiegato bene come trovarla. Se il
portone non era accostato, come lei lo avrebbe lasciato, doveva farsi aprire da qualche altro perché
il citofono del locale non era collegato. Doveva oltrepassare il cancello, entrare a sinistra, aprire una
174
porta grigia che sembrava chiusa e attraversare un
cortiletto. Sulla destra un portoncino senza insegna né campanello sarebbe stato sicuramente socchiuso. Invece era chiuso e Virginia aveva le
nocche doloranti per il gran bussare. Pareva che
non ci fosse nessuno. Il gattino nella borsa si agitava sempre di più. Aprì la lampo e uscì subito il
musetto curioso. Gli toccò il naso, era freddo per
fortuna. La febbre era passata. Si guardò intorno
sconsolata. Lasciarlo lì? Finalmente da dentro
sentì muovere la serratura e Mariolina Cipolletta si
affacciò festosa. “La signora Ferrin vero? Venga
venga…” e si incamminò verso un corridoio male
illuminato che finiva in una grande sala che odorava di umido. Era imbiancata di fresco e sulle pareti spiccavano tanti poster rappresentanti gatti.
“Purtroppo non c’è riscaldamento… sa com’è… qui
siamo in prestito…” aggiunse precedendola con
l’atteggiamento del prete che conduce in sacrestia
il fedele appena convertito.
“Vediamo vediamo il nostro nuovo amico…” e le
tolse la borsa dal braccio.
Intanto si erano radunate intorno a loro altre signore di quell’età indefinita che supera i cinquanta
e non si sa quanto manchi ai novanta. Appartenevano al club “Il gatto” di cui Mariolina Cipolletta
era fondatrice e presidente. L’associazione le era
stata indicata dal veterinario al quale Virginia
aveva portato la bestiola qualche giorno prima.
“Certo il gattino ha bisogno di molte cure e non è
detto che ce la faccia.” aveva concluso alla fine
della visita il medico “ma se lei proprio non lo può
tenere provi con la signora Cipolletta, le ho visto
far miracoli.”
175
La signora Cipolletta però non aveva ancora assicurato che si sarebbe presa cura dell’animale,
aveva già tre gatti in casa e per controllare le effettive condizioni di salute del nuovo arrivato aveva
invitato Virginia a partecipare ad una delle consuete riunioni domenicali del club, per presentarla
alle altre socie. Quel pomeriggio si sarebbe illustrato uno studio sul comportamento dei gatti di
Villa Celimontana, a Roma, e prima che se ne potesse rendere conto Virginia si trovò seduta, con
la borsa in grembo, sotto uno schermo per diapositive a fianco del quale, un signore, si capiva dall’accento e dall’aspetto che fosse inglese,
incominciò a parlare.
“Mi chiamo William Welsey, sono uno studioso di
gattitudine” e sorrise di un sorriso buono, scusandosi per le immagini carpite alla buona fede
degli animali, senza alcuna velleità artistica. Dal
1981 al 1985 Welsey, professore plurilaureato a
Cambridge, aveva pazientemente annotato ogni
movimento felino che avveniva nel giardino romano e le conclusioni che se ne potevano trarre
non difettavano di umanità. L’organizzazione di
vere e proprie tribù all’interno del recinto poteva
essere paragonata a quella di gruppi etnici che difendono il proprio territorio e le proprie tradizioni.
Lo studio era interessante. Il peregrinare da uno
spazio all’altro per carpire i raggi del sole, tipico
dei gatti, era regolato da leggi che rispettavano le
gerarchie. Le zuffe per il cibo dimostravano la priorità dei più forti, ma anche la generosità dei singoli. Petronia era l’indiscussa regina di tutta la
comunità. Una gattona pezzata, lenta nei movimenti, maestosa nell’incedere. Non compariva mai
176
prima delle undici del mattino. Si sistemava su di
una grande pietra, sempre la stessa, dove nessun
altro gatto osava stendersi, come se un tacito accordo fosse trasmesso anche ai nuovi arrivati. Non
si immischiava nelle zuffe, ma quando lo riteneva
opportuno si avvicinava senza fretta e bastava una
sola zampata all’animale più litigioso per ristabilire
la calma. Nessuno l’aveva mai vista incinta. Pur
non essendo sterilizzata sembrava sterile, ma la
cosa che non sapeva spiegarsi il professore era che
anche le altre gatte di quel giardino, a differenza di
tutte le stradaiole che figliano in continuazione,
partorivano solamente una volta l’anno.
Che strano fenomeno.
Cuccioli di città. Rari. Con poco latte e poco amore.
Ma mentre l’emerito gattologo cercava di tirare le
sue conclusioni, il batuffolo fulvo che Virginia teneva sulle ginocchia, cercò di uscire dalla borsa
semiaperta e iniziò a fare le fusa così forte da attirare l’attenzione di tutti. Sembrava voler dire la
sua sull’argomento. Qualche tenera battuta e l’inglese riprese a parlare superando il ronfare del gattino. Virginia non guardava più le diapositive né
tanto meno ascoltava i commenti. Si era persa
nella confusione che aveva dentro. Non si accorse
neppure di avere ringraziato, salutato e sorriso.
Soltanto per strada si era accorta che al posto
della borsa con il gattino stringeva tre fogli piegati
a metà. Frastornata li osservava cercando di leggere quel che c’era scritto. Riportavano il programma del club che invitava i “cari amici del
gatto” a passare piacevoli giornate insieme. Le proposte erano una presentazione ufficiale dei gatti
che vivevano nei Mercati Traianei, quindi una gita
177
a Firenze per conoscere i felini del giardino di Boboli presentati da un gruppo di zoofili olandesi e
l’incontro a Londra per il gemellaggio con una associazione simile comprendente la visita al Britisch Museum per una meditazione sulla Madonna
del Gatto di Leonardo da Vinci. Erano specificate
date di partenza e di arrivo, hotel a disposizione,
spostamenti e costi. Si auspicava la partecipazione
dei soci e si chiedevano proposte per nuove iniziative. Virginia sorrise. Perché non organizzare un
ballo in maschera per i gatti vestiti da umani? Oppure una crociera nelle fogne romane o una battuta di caccia al topo sulle rive del Tevere?
Con i soldi di chi?
Aveva dovuto pagare la quota d’iscrizione al club
per sistemare il trovatello. Cercò il tesserino nel
portafoglio. Un gatto si stava leccando i baffi nel
riquadro dove avrebbe dovuto essere la sua foto
d’identità. Donnagatto. Sociagatto, ma non madregatto. Lei gatti e cani li aveva nutriti con il latte
della disperazione. Di amore e latte non ne aveva
più a disposizione. Perdigatto.
Lasciò cadere il rettangolo di cartoncino nella fessura di un tombino, affrettò il passo e si raccolse
nell’impermeabile chiaro che non la riparava dal
freddo.
***
Il contatto con la natura emozionava Virginia, ma
nello stesso tempo la intimidiva. Non che non le
piacesse il verde, la sua terrazza era carica di
178
piante, ma guardando la campagna dove si trovava, si sentiva fuori posto, come la sua kenzia, la
palma di Erminia, cresciuta in vaso e che non metteva germogli. La primavera era nel suo pieno rigoglio. La donna girava lo sguardo sulla bellezza
storica dei Castelli Romani per nutrirsi di loro. La
luce era accecante, lo sguardo si perdeva nello
spazio. Improvvisamente capì il senso delle vacanze di cui aveva usufruito poco nella sua vita.
Capì Maria Rosa e i suoi lunghi soggiorni in Calabria, le corse dei colleghi per uscire da Roma che
lei, invece, aveva sempre evitato. Le tornò alla
mente la storia, la via Appia, gli antichi romani. Le
vacanze degli imperatori e quelle dei papi. Capì il
piacere di interrompere la città.
La villa dove si trovava affacciava sui campi che
lambivano Roma e anche se ormai disseminato di
abitazioni residenziali era sempre un bel panorama da guardare. Gli alti cipressi che ornavano il
viale d’accesso, insoliti per una zona dove questo
tipo di vegetazione era soprattutto destinato all’ornamento dei cimiteri, raccontavano dei primi proprietari, forse toscani, come poco più in là un
ciuffo di palme tra gli alberi da frutto, raccontava
il rimpianto della sabbia e del mare.
Le tonalità del verde eccessivamente diverse tra
loro riproposero alla maestra d’asilo i disegni del
kinderheim, le margherite sul prato sembravano
disposte dalle mani dei bambini. L’intensità dei colori sbattuti nell’azzurro del cielo quasi toglieva il
respiro. Troppo ossigeno.
Virginia aveva accettato l’invito a passare una giornata nella villa dei nuovi padroni del gatto non soltanto per l’insistenza di Mariolina Cipolletta, che ci
179
teneva alla sua presenza come salvatrice del gattino, ma anche per il desiderio inconscio di stare
una giornata all’aria aperta. Ciuffolo, come era
stato chiamato, dopo un breve soggiorno in casa
della presidente del Club, era stato consegnato ai
signori Spallotta, che abitavano fuori Roma e avevano tutto lo spazio necessario per farlo vivere
bene.
“Vedrà, è veramente un amore. Affettuoso, allegro… le siamo riconoscenti sa…” avevano detto i
genitori adottivi del gatto dopo averla accolta sulla
veranda che apriva al giardino, un vero e proprio
parco.
Era abitudine per i soci abbienti del Club, e lo
erano quasi tutte le persone presenti quella domenica, riunirsi almeno due volte l’anno nella casa
dell’uno o dell’altro per celebrare qualche avvenimento gattesco e l’allegria che sprigionava dai loro
atteggiamenti prometteva una piacevole giornata.
I granelli di terra si spostavano sotto i piedi di Virginia che avanzava per cercare di capire dove arrivassero i confini della tenuta. Sembrava che
vacillasse. La notte non aveva dormito bene. Gli
occhi le bruciavano. Si era svegliata di soprassalto
sentendo tra le dita un calore strano, come di sangue che scorresse dai polsi. Era andata persino in
bagno a lavarsi le mani. Aveva ripreso a dormire a
strappi. Svegliandosi aveva pensato di rinunciare
all’invito, ma la cortesia di Mariolina Cipolletta,
che le aveva telefonato alle otto e mezza per spiegarle la strada, l’aveva resa obbediente. Tra le due
donne era nato un certo interesse, da prima fatto
soltanto di notizie sul gatto, poi si erano lasciate
andare ad una formale confidenza che le aveva
180
portate a parlare delle esperienze più significative
della loro vita, sfiorando appena quelle sentimentali.
L’amica dei gatti era stata professoressa di Storia
dell’Arte in un liceo di Frosinone, aveva collaborato
con alcuni giornali e messo su insieme a un gruppo
di allievi una radio locale. Scriveva ancora, di gatti
naturalmente. Non aveva figli, né era stata sposata.
Si era trasferita in Ciociaria per seguire un uomo
ed era tornata in città appena andata in pensione.
Viveva da sola, ma di come era finita la storia con
quell’uomo non aveva raccontato nulla. Estremamente gentile invitava la nuova socia ad ogni riunione a cui Virginia però evitava di partecipare.
Ciuffolo, principe altezzoso, si faceva aspettare. La
padrona di casa continuava a chiamarlo fino a che
un uomo scuro di pelle, elegante nella tuta da giardiniere, apparve con il gatto in braccio. Era diventato veramente bello. Il pelo fulvo, più folto di
quello che avrebbero dovuto lasciargli le sue origini, metteva in evidenza le striature bianchissime.
Gli occhi assai verdi si socchiudevano voluttuosamente ad ogni carezza, e si lasciava accarezzare
con sapiente dignità. Degnò Virginia soltanto di
uno sguardo, ma non abbandonò più gli ammiratori e con la coda dritta passava da uno all’altro
per ricevere consensi.
La tavola apparecchiata sotto un vecchio pergolato, ricca di stoviglie rustiche, raccolse tutti per il
pranzo. Il cibo risentiva dei consigli alla moda e
anziché servire fettuccine e abbacchio, comparvero
risotto con zucchine e gamberi, tortini di pollo con
purea di funghi e una mousse di banane che chiudeva il menù.
181
Il vino dei castelli usciva abbondante dai fiaschi
impagliati con la plastica anche se lo scandalo del
metanolo, appena scoppiato, invitava alla prudenza. Serviva in tavola la moglie del giardiniere,
costretta in un grembiule celeste che metteva in
evidenza le tipiche rotondità della donna di colore.
Banchetti romani, dove il dottor Argenti e l’ingegner Petri avevano sostituito Settimio e Claudio e
le Agrippine invecchiate davano ancora mostra di
sé.
Virginia aveva parlato poco e a parte l’attenzione
per aver raccolto il gatto, nessuno si era rivolto a
lei con particolare interesse. Le gattescherie avevano avuto l’onore di reggere la conversazione soprattutto fra le signore. Gli uomini, in minor
numero, si accanivano dietro la politica del pentapartito. La contaminazione di Cernobyl appena avvenuta in Ucraina, ancora non turbava la festosità
dell’aria italiana.
Ubriaca d’aria più che di vino, Virginia si spostò
per sedersi su di una comoda sdraio imbottita
dove si sarebbe di certo addormentata se non fosse
arrivato un ospite che non aveva nulla a che fare
con i gatti.
“Un caro amico venuto per aiutarmi a uscire da un
garbuglio burocratico” spiegò il padrone di casa, e
i due uomini scusandosi cerimoniosamente sparirono all’interno. Qualche battuta sul nuovo venuto
ravvivò la conversazione. La padrona di casa ripeté
più volte il nome, Lorenzo Jaconis, come se tutti
avessero dovuto conoscerlo.
Il tempo non passava mai, Virginia non vedeva
l’ora di tornarsene a casa, sentiva il bisogno di
cancellare con una bella doccia gatti, gattare e gat182
titudini, ma per non essere scortese aspettò che
qualche altro prendesse l’iniziativa. Intanto Lorenzo Jaconis era riapparso e si era seduto in una
seggiolina di ferro smaltato proprio accanto a lei.
Rigido guardava ora uno ora l’altro senza espressione. Virginia notò che gli occhi erano simili a
quelli del gatto. Quando il primo ospite si alzò
l’uomo colse al volo l’occasione per salutare inchinandosi davanti alle signore ed a Virginia, che si
informava sulla strada per rientrare a Roma, si offerse di fare da guida.
Un sorriso ed entrarono nelle rispettive automobili.
La velocità richiesta dalla superstrada non veniva
rispettata dalla Panda della donna che arrancava
dietro la BMW dell’uomo più veloce e scattante.
Lui cercava di non perderla. Alle porte della città
mise la freccia per girare a destra sottolineando la
decisione con un ampio gesto della mano fuori del
finestrino. Lei perplessa lo seguì anche se ormai
sapeva come raggiungere il centro andando dritto.
La strada era tortuosa e stretta e Lorenzo Jaconis
continuava a far cenno di andargli dietro. Si fermò
davanti ad una trattoria con i tavoli esterni coperti
da tovaglie a quadri bianchi e rossi. Scese, si avvicinò allo sportello della macchina di Virginia, lo
aprì e la pregò di scendere. Lei rimase seduta. Allora quel signore appena conosciuto, con molta
dolcezza le spiegò che non aveva mangiato dalla
sera prima e che gli avrebbe fatto molto piacere
farlo in sua compagnia. Conosceva la trattoria e
una amatriciana o una carbonara non gliela
avrebbero sicuramente negata, anche se l’ora di
cena era lontana. Lei non seppe cosa rispondere,
183
farfugliò di impegni precedenti, di lavori impellenti.
Lui paziente aspettava rigido come un generale,
poi, quando capì che non accettava davvero l’invito, le sfiorò la guancia con la punta delle dita
prima di voltarsi per andare via e Virginia, turbata,
anziché ingranare la marcia spense il motore.
A tavola Lorenzo parlò delle figlie che aveva, della
casa al centro di Roma, della vita che gli piaceva
vivere, ma le domandò anche moltissime cose alle
quali lei rispondeva impacciata come una scolaretta e finalmente quando si tolse gli occhiali da
sole, lui la guardò negli occhi per un momento che
sembrò lunghissimo.
Un provvidenziale piatto di fettuccine tagliate a
mano, portate a Lorenzo dal padrone della trattoria, fece inghiottire a Virginia le lacrime che stavano per uscire. Chinò la testa sulla macedonia
che aveva chiesto ed i piccoli pezzi di frutta confusero il colore. Il vino bianco di Frascati, appena
uscito dal frigo, aveva accentuato il turbamento.
Fu un corteggiamento rapido, velato di pudore. Ad
una certa età non si ha più tempo da perdere, ma
si è persa l’irruenza della gioventù. Nei giorni che
seguirono Lorenzo invitò Virginia a Gaeta dove
aveva un villino che non affacciava sul mare. Imboccarono la Pontina, il lungomare di Terracina e
poi la Flacca. Una strada romantica, e mentre
cambiava le marce lui teneva la mano di lei sotto
la sua. Le curve si affacciavano sulle onde che salutavano da vicino. Arrivarono quando il presepe
di case assiepate sul golfo era punteggiato di luci.
Entrarono che ancora non era buio. La costruzione Liberty con gli stucchi intorno alle finestre
appariva vecchia. Un’ampia scala con la balaustra
184
di mogano portava al piano di sopra. Un trumeaux, anch’esso di mogano, si accompagnava a un
tavolo ovale con le sedie intorno. L’imbottitura del
divano e delle due poltrone era incorniciata da
legno scuro. I quadri riproducevano scene di caccia alla volpe. Non era certo un arredamento da
spiaggia. Le origini inglesi della mamma di Lorenzo
avevano avuto il sopravvento.
Cenarono al lume di candela, l’impianto elettrico si
era guastato. Avevano comprato lungo la strada le
mozzarelle di bufala e lui aveva portato da casa un
dolce fatto da una delle figlie, un cheesecake dal
sapore di fragole.
Fu piacevole salire tenendosi abbracciati.
Un soffio sulla candela e il buio vide per primo la
loro nudità, poi, soltanto il silenzio sentì il cauto
grido dell’orgasmo.
L’insonnia di lui e il russare di lei si tennero compagnia. La mattina scesero al mare. Il vento sbatteva sugli scogli l’affanno della risalita. Ansanti
raggiunsero un punto dove il vento cercava di condurli altrove. Sorretti uno dall’altro si scambiarono
un lungo bacio d’amore.
***
Il prima Lorenzo, il dopo Lorenzo.
Amare è soltanto un’abitudine di cui non si può
fare a meno o un’emozione da volere assolutamente ripetere?
Certamente la vita di Virginia cambiò. Ancora una
volta il pensiero si riempì di un lui. Cosa gli pas185
sava nella testa? Cosa stava facendo, cosa aveva
fatto ed il sorriso insieme ironico e comprensivo
che illuminava il volto di quel suo nuovo uomo le
appariva nei momenti più impensati. Pacato il
morso che le stringeva lo stomaco ogni volta che
lo incontrava, ma lei non voleva chiarire a se
stessa quanto fosse la gastrite o la passione a provocarlo.
Ancora… alla sua età!
Lorenzo…
Dolcemente le si era messo a fianco, dolcemente
pretendeva tutte quelle attenzioni di cui ha bisogno l’essere umano per speculare la propria immagine su di un altro. Lui, che metteva tutto
l’amore nella richiesta di bellezza, di eleganza, di
felicità, di sentimento sublimato comunque nell’amplesso. Lui, che tacitava dolcemente ogni sfogo
di Virginia con parole appropriate, rapide, conclusive, che si chiudeva in silenzi che non volevano
essere disturbati, che si irrigidiva sulle chiacchiere
delle futilità. Lui, l’innamorato.
Il lavoro impegnava molto Virginia, che però riusciva a fare acrobazie con il tempo e gli appuntamenti per accontentarlo. Lui la voleva bella. Via le
scarpe con il tacco troppo basso, a Virginia però
facevano male i piedi, meglio i capelli più lunghi e
soprattutto sempre in ordine, ma il parrucchiere
costava… Via i jeans, è più opportuno vestirsi con
classe sportiva con il filo di perle che non deve
mancare. La voleva sempre a posto… ma che fatica! E nel rappresentare la figura della donna perfetta, preferita da lui, lei si sentiva comunque fiera,
partecipe di una esistenza che aveva bisogno dell’esistenza dell’altro per trovare l’equilibrio. Equili186
brio da mantenere in bilico sul tracciato del latte
versato, ricominciato a dare. Latte di donna. Latte
di palma, che senza la forza del sole non dà frutto.
Latte di fiori per adornare seni svuotati. Latte di
perle, per abbellire gli anni della sterilità.
Virginia e Lorenzo. La coppia. “Vieni a vivere da
me, a riposarti, lascia perdere questo stupido lavoro. Metti in pensione la donna che sei stata. Lasciati andare, lasciati amare.” le ripeteva lui.
Ancora un cambiamento. Un’altra casa dove andare. Altre cose da scoprire per allargare l’amore,
per donare energia, attenzione, come l’istinto
avrebbe voluto che fosse, ma come l’indipendenza
raggiunta non voleva che accadesse. Sarebbe riuscita ad essere la donna che Lorenzo voleva?
Piazza di Torre Argentina. La casa era vecchia. Ruderi da ravvivare. Non c’era neanche un balcone
nell’appartamento, l’unico terrazzino era diventato
una veranda piena di cose ammucchiate. Impossibile mettere piante. Avrebbe lasciato il suo giardino dove era. Avrebbe soltanto aggiunto latte
all’acqua delle rose acquistate al mercato di piazza
di Campo dei Fiori, alle primule, alle margherite
recise. Latte per vivere ancora, per durare di più.
***
Il sorriso di Colombo, carico di orgoglio maschile,
l’aveva contagiata gonfiandola di umori antichi. Si
era sentita ancora donna, ed era scappata via dal
giardino di Piazza Cavour dove le ombre giocavano
allo specchio. Virginia donna, rientrata tra le
187
gambe della madre, fagotto di ossa e di carne, per
proseguire quella treccia di latte che trasmette
latte senza doverlo trasformare in sperma. Ultimo
capo di una catena di femmine predestinate ad esserlo. Colombo e Virginia, anime traballanti in bilico sul confine dell’eterno, vagabondi che ancora
generavano energia. Prendere per dare, dare per
prendere. Nutrivano di sogno la continuità, mentre lo scalpo del latte giaceva in terra vinto. Lei si
era allontanata senza parlare, lui l’aveva lasciata
andare. Ci mise molti giorni per tornare a piazza
dei Cinquecento. Strada facendo aveva sfiorato il
quartiere Prati, si era bagnata agli spruzzi della
fontana di piazza degli Eroi e dai ruderi di piazza
di Torre Argentina non aveva visto finestre illuminate. Si fermò a villa Aldobrandini dove non era
mai entrata. Dalla terrazza Roma apriva il cuore
di una delle tante storie dell’umanità. Bella che
quasi le tolse il respiro. La sua città, da dove non
era voluta uscire che con la fantasia. Terra, acqua,
aria, mescolati dal pensiero avevano formato civiltà. Civiltà in cui si rifugiavano obbedienti i ribelli e nella fucina attizzata dal progresso la
natura crogiolava l’intimità. La donna si accomodò
su una panchina. Era fredda. Aveva voglia di latte
caldo. Dalla piccola fontana non usciva neanche
un po’ d’acqua, ma ugualmente il putto con la
bocca aperta aspettava. Sopra di lei le cime dei cipressi e le chiome delle palme gareggiavano per
scacciare le nuvole sfilacciate dal tramonto. In
basso i fiori d’arancio iniziavano ai frutti. Il giardino era ben tenuto. Fece vagare lo sguardo tra gli
alberi e si imbatté nell’incavo del tronco di un cipresso dove in alto, bizzarra, era nata una palma.
188
Incuriosita si avvicinò. La guardava da sotto. Il giovane virgulto allargava le tenere foglie per ricevere
dall’aria il nutrimento che dalla terra non sarebbe
riuscito a prendere. Le prime foglie già pendevano
secche in attesa di cadere, avrebbero resistito le
altre? Così pensando non si accorse che una voce
invitava ad uscire finché la mano di una donna
grassa, ma grassa come non si poteva neanche immaginare, la scosse. Aveva un viso bellissimo come
lo sono a volte i visi delle persone in carne, e il sorriso non era da meno. Si guardarono. Insieme scesero la scalinata che riportava alla strada. La
guardiana tolse dalla tasca di una enorme tuta da
lavoro la chiave e serrò il lucchetto della catena
che chiudeva il cancello.
“Buonanottata” disse.
Virginia non rispose ma si avviò contenta verso la
sua ultima casa.
***
Doveva far presto. Far presto.
Era ormai certa. L’avevano ammazzato.
I giornali aumentavano le illazioni sull’assassinio
di Lorenzo Jaconis. Per capirne di più Virginia incominciò proprio da quello che la stampa aveva riportato e cercò alla Biblioteca Nazionale tutto ciò
che i giornali degli ultimi anni avevano scritto su
gli intrighi internazionali, tangentopoli e qualsiasi
notizia riguardasse traffici illeciti. Divenne rapida
nelle consultazioni e ricordò il tragitto del passato
quando ignorava i libri, ma cercava il senso delle
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cose… della mitologia… per scrivere il regalo di
nozze a Maria Rosa… per sapere di più… Che differenza!
Seduta alla scrivania di Lorenzo, con l’immagine
dell’uomo irrigidito dalla morte negli occhi, incominciò a ripassare ogni attimo vissuto insieme.
Tralasciando le parole d’amore diede corpo alle allusioni, alle frasi ascoltate e allora trascurate.
Riempì i silenzi in cui aveva percepito risposte che
non voleva sentire. Diligente appuntò ogni pensiero e ogni ricordo. Riempì pagine e pagine di frasi
che le indicavano qualcosa. La famiglia Jaconis
continuava a riversare autorevolezza su di lei e attraverso gli oggetti ancora imponeva le sue aristocratiche origini. Virginia le fece proprie. Assunse
la mentalità della casta. Fu inglese come la madre,
professore di diritto come il padre e con l’ottica del
figlio devoto e nello stesso tempo ribelle si mosse
per cercare quel che si doveva nascondere. Con
puntigliosa meticolosità controllò ogni cassetto,
ogni pezzettino di carta. Controllò la veranda, il ripostiglio e la cantina. Il sonno la toglieva alla stanchezza del giorno, ma diventava sempre più breve.
I riflessi del movimento della strada, che nei momenti più difficili della sua vita le avevano tenuto
compagnia spostandosi lenti sul soffitto della casa
dei genitori, si intrecciavano luminosi come fili
conduttori di una energia occulta. Il movimento ripercorreva nella fantasia il cammino della storia
recente ironizzato da Mino, vissuto da Chito, accennato dagli altri. Ognuno a modo suo aggiunse
qualcosa, ma ancora troppi erano gli interrogativi.
Passava giornate intere in biblioteca e la carta per
appuntare ogni cosa non le bastava mai. Scriveva
190
su tutto cercando pezzi di carta nuovi e quando
trovò un fascio di tabulati che si era portati dietro
da viale Eritrea e li rigirò per scriverci sopra, l’invase il ricordo. La solitudine di quei momenti, le
esperienze sessuali, il computer… Lo aveva venduto attraverso Porta Portese e prima ci aveva
messo giorni e giorni per pulire la memoria del
disco rigido con Lorenzo che insisteva perché cancellasse, cancellasse tutto in fretta.
Già… perché?
Che significato potevano avere tutti quei numerini
e quelle lettere dell’ultimo lavoro? Codici… Si mise
ad esaminare i fogli con attenzione. Non era certa
sul nome della società per cui erano stati elaborati, ma le sembrava di ricordare che fosse una
delle società appartenenti al gruppo per cui aveva
lavorato anche Lorenzo. Quei codici quindi avrebbero potuto dire qualcosa… e le ritornò alla mente
che quando gli aveva spiegato il lavoro che faceva,
lui, che normalmente si annoiava alle sue confidenze, le aveva fatto precise domande e come divertito dal significato nascosto dei codici aveva
insistito per vedere i tabulati e li guardava e riguardava a volte molto serio…
Possibile che ci fosse un nesso?
Con accanimento, cercando di tirare fuori dalla
mente ogni pensiero che potesse esserle utile
provò a decifrare quelle pagine. Non fu facile ma
quando ci riuscì con il primo, ed era un nome
noto, continuò eccitata con gli altri. Il meccanismo
di identificazione non era semplice. Ogni sigla era
composta dalle ultime due lettere del cognome
della persona indicata con l’aggiunta del numero
delle lettere che precedevano le ultime due lettere
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segnate, quindi le prime due lettere del nome, un
punto e al contrario gli ultimi due numeri che indicavano l’anno, uno zero ed il numero che corrispondeva al mese. Si bloccò su IS5LO.48012.
“Lorenzo Jaconis dicembre 1984”. Dovette prendere più di un tranquillante per calmare l’agitazione. I giorni che seguirono si riempirono del
ricordo di coincidenze dimenticate. Ogni viaggio si
legò agli avvenimenti letti sui giornali, alle domande della polizia, ogni nome acquistò una identità presunta, un significato. Virginia che era
considerata la più estranea alla vita di Lorenzo, si
ritrovò ad essere la più partecipe.
Doveva far presto.
Doveva riordinare e riscrivere ogni appunto per
avere più chiara la situazione. Il computer lasciato
da Lucia, l’avrebbe aiutata. Si sedette alla sua scrivania. Provò ad accenderlo. Aveva un programma
diverso da quello a cui era abituata, ma perdendoci un po’ di tempo sarebbe riuscita ad usarlo. In
memoria, i suoi versi scomposti e qualche novella
sballata. Cercò i dischetti convinta che li avessero
portati via i poliziotti quando avevano perquisito
la casa. Inaspettatamente li trovò mescolati alle
cento ingenue cose che riempivano i cassetti della
ragazza. Non portavano alcuna indicazione. Dovevano essere vuoti. Avevano etichette rosa bordate
da fiorellini gialli. Sicuramente comperate in Inghilterra. Infilò il primo che le capitò fra le mani
per capire meglio il meccanismo. Cliccò e apparve
una schermata scritta come se fosse la continuazione di altre.
“Ancora un articolo bestia. L.U.I. ha troncato il discorso quando glien’ho parlato.” e via con apprez192
zamenti e critiche in tono violento. Sembrava un
diario. C’era disperazione nelle parole messe alla
rinfusa e frasi lasciate a metà. Virginia non voleva
leggere, le sembrava di appropriarsi di una intimità che non le apparteneva, ma nello stesso
tempo era spinta dalla curiosità di capire di chi si
parlasse e a cosa alludesse quel L.U.I. pieno di
puntini, scritto con il grassetto e le maiuscole.
Fece scorrere lo scritto.
“Camaleonte, falso, bugiardo, neanche con quella
riesci ad essere vero, ma non ti guardi quanto sei
ridicolo quando fai l’innamorato? e non ti ascolti
quando rispondi a quegli stronzi di amici tuoi? Sei
odioso. Sembra che per te tutti siano merda. Ma
chi sei realmente?” e dentro, alla rinfusa, i sentimenti vergini di una fanciulla piena di amore deluso.
Una malinconica amarezza l’invase. Lucia. Povera
ragazza. Era lei che aveva scritto quelle parole tremende… e triplicava le doppie per rafforzare ciò
che diceva.
“L.U.I. è a Zurigo e invece mi aveva promesso di
venire con me al cinema. Sempre i soliti impegni
più importanti di tutto…” e ancora riferito al L.U.I.
“…non ce l’ha fatta a resistere quando mi sono incazzata per i bambini storpiati dalle mine. S’è alzato e se n’è andato via e quella cretina che
insisteva sulla sua sensibilità…”
Uno dei soliti battibecchi a tavola. Virginia ricordò
la discussione.
Lorenzo. L.U.I. Ancora un gioco di lettere per sentirsi di pietra.
Rimase un giorno e una notte con gli occhi sbarrati, incredula. Andò di nuovo in biblioteca a sfo193
gliare giornali per sapere tutto quello che si diceva
sul traffico di armi ed ebbe chiara la responsabilità
dell’uomo. Andare dalla polizia? Non aveva prove e
poi Lorenzo non c’era più, perché infangarne la figura? Forse non si sarebbe mai riusciti a sapere
la verità. Sul morto si stende un velo di silenzio o
si addensano tutte le colpe. Sperava nella prima
versione.
Gli incastri della fantasia come quando girava per
le strade dei Parioli, tornarono a tenerle compagnia. L.U.I. Lorenzo Ultimo Idolo oppure Lorenzo
Ultra Impostore? E se avesse voluto dire Lorenzo
Uguale Ingenuità?
Si incontrò con Laura, la mamma di Giovanna. Sapeva che Virginia stava facendo ricerche per ottenere giustizia e l’aveva aiutata convincendo la figlia
a lasciarla ancora un po’ nell’appartamento di
piazza di Torre Argentina, ma Virginia non ebbe il
coraggio di raccontare quello che aveva scoperto. E
poi era veramente la verità?
“Dove andrai?” continuava a ripeterle preoccupata
la donna “Che farai?”.
“Non lo so. Non lo so. Lasciami ancora finire questo pensiero, poi vedrò.”
***
Le strisce di luce sul soffitto andavano verso i confini del buio spostandosi a intervalli. L’onda del rumore delle ruote sull’asfalto che accompagnava il
movimento del riflesso, si assopiva lasciando viva
la mente. Guardava in alto Virginia, inseguiva i ra194
gionamenti che scivolavano insieme alle parole impresse da Lucia sul computer, cuore di plastica a
cui affidare confidenza. Strisce di luce fredda che
riflettevano le pulsazioni della città, o le peggiori
pulsioni dell’uomo? Interrogativi a cui la donna
non voleva rispondere. Anche la ragazza aveva vissuto nel centro della città e forse anche lei aveva
inseguito sul soffitto il via vai del riflesso della
strada meditando considerazioni e sogni. La sua
stanza. Il suo mondo da cui era uscita con violenza. Lucia, gattino fulvo di razza, raccolta e non
accolta. Lei aveva cercato di starle vicino e non
c’era riuscita.
Virginia cercava di trattenere le lacrime. Lucia infranta. Quante cose aveva dentro. Distorte ma
tutte ugualmente vere. Veniva fuori dai dischetti
con le etichette romantiche una romantica fanciulla delusa. Arrabbiata. Che aveva capito e non
voleva credere. Che rifiutava ogni imposizione
come fosse una stupidaggine dettata dall’egoismo,
dalla cattiveria, dall’indifferenza degli altri. Nominava la mamma soltanto per dovere di cronaca. La
nonna la sentiva vicina come una specie di spirito
protettore, una guida a cui appoggiarsi per poi disobbedire obbligandola a esserle complice. Dell’amore aveva un concetto estetico, passionale e
istintivo. Gli amici erano sempre “…issimi” così le
cose per cui si entusiasmava. Vocali e consonanti
alla rinfusa accanto a indirizzi, note, date, rumori
sintetizzati in esclamazioni senza significato, alla
maniera dei ragazzi. Termini che Virginia aveva
adoperato scrivendo di Michele. Ma come era diverso Michele. Eppure simile. Non sentiva più di
rubare qualcosa, donnamamma con il cuore elet195
trico e le arterie di plastica. E di plastica ormai
erano i suoi sentimenti. Mater Matuta, colma di
bimbi mai nati, elettronici, invadenti. Neonati sui
quali le fibre ottiche si sarebbero intrecciate con il
latte. Latte al vento per spruzzare l’etere di ricordi.
Non più aurora, ma notte.
Attraverso la ricerca della verità Virginia ricostruiva l’uomo che avrebbe dovuto tenere per
mano nel momento della morte. Non le piaceva la
persona che veniva fuori. Cercò di allontanare Lorenzo senza riuscirci. La razionalità andava bene
per spostare mobili e soprammobili, non andava
bene per i sentimenti. Prese nuovi appunti, in
omaggio a Lucia, vestale sacrificata agli dei di
un’epoca. Ripassò i silenzi cupi, le notti insonni di
Lorenzo che si spostava come un ladro nello studio… Rimorsi? Lo rivedeva intento a studiare davanti ad un contenitore grigio pieno di carte, a
volte in piedi a volte girando preoccupato intorno
alla scrivania.
Già… quel contenitore grigio… dove era finito?
Nessuno ne aveva parlato, né polizia né giornali.
Né lei si era ricordata che c’era. Eppure lo aveva
spiato tante volte mentre lo prendeva o lo riponeva
nel cassetto, l’unico cassetto che si chiudeva a
chiave… già… dove era finita la chiave? Lei non
l’aveva trovata. Lei che ironizzava sempre sulla
mancanza di segretezza di quella casa dove l’antichità aveva arrugginito le serrature… chi l’aveva
fatta sparire?
Domande, ancora domande.
Lorenzo forse stava raccogliendo le prove per denunciare ciò che sapeva e qualcuno lo aveva capito e quindi lo aveva eliminato.
196
Bravo Lorenzo. Lorenzo bravo.
Lei ne avrebbe fatto un eroe.
Cominciò a scrivere alacremente, con l’impegno
che si mette in un lavoro pagato bene. Anzi di più.
Scriveva in prima persona il racconto di chi voleva
spiegare più che accusare. Donnauomo. Cercava
di entrare nel suo modo di pensare, di agire, per
capire il perché del suo comportamento. Per assolverlo. Lorenzo. Michele. Gli altri. Uomini veri e
di fantasia. Teatranti dell’inconscio potere della
potenza a tutti i costi. Pronti ad affermare ciò che
avrebbero voluto essere e non riuscivano ad essere. Pari opportunità per loro, incapaci di considerare la femmina amica. Tornò ai fatti, ma la
mente tendeva ad andare oltre.
Non mangiava quasi più e il dormire era diventato
soltanto un momento di riposo quando gli occhi si
chiudevano da soli. Eppure ingrassava. Sembrava
gonfia. Gonfia di eccitazione e di pensiero. Ci mise
due mesi per riempire centodiciassette pagine, che
volle ridurre a centotredici. Feticismo di numeri e
di parole. Un libro. Due mesi in cui l’antica strada
d’oriente si fermò al medio oriente. Petrolio, seta
di Dio, sapienza del diavolo. Armi per riportare la
pace, mentre l’orgoglio dell’appartenenza ad una
etnia stimolava i più furbi.
Aveva iniziato il libro raccontando un fatto di cui
Lorenzo le aveva parlato. Un amore, uno dei tanti.
Aziza, incontrata casualmente durante un viaggio
di lavoro. Danza del ventre finita in guerra. Denaro
vestito con la gonna. La solita storia del pomo offerto ad Adamo da cui Virginia volle trarre la trama
che portava alla redenzione, ma con quel giorno di
distanza che era stato fatale.
197
Ser Iaconis, come veniva chiamato Lorenzo dai governi stranieri, superata la passione si era trovato
coinvolto nell’intreccio di interessi internazionali.
L’intelligenza ne aveva tratto vantaggio fino a raggiungere il parossismo. Potenza e potere. Coito. E
Virginia l’accolse e lo perdonò.
Sulle pagine bianche scritte dall’amore, neonati
neri come il latte d’asfalto delle terre ammazzate
riprendevano vita per combattere battaglie perse.
Sia fatta giustizia Lorenzo. Tu, antesignano della
globalizzazione, univi i popoli nella violenza per
raggiungere la civiltà. Avanti, avanti sempre di più,
fino a perdere ogni senso.
Chi ne aveva approfittato?
Connivenze, intrighi, fughe, una trama che non
avrebbe mai pensato potesse esistere. A lei il compito di renderla buona. A lui la memoria dell’ineluttabile.
Ser Jaconis.
***
Il giorno accorciava il riflesso delle luci sul soffitto, aiutato dall’estate che voleva entrare per
forza. Virginia guardava per aria. Aveva sete,
tanta sete e avrebbe gradito un bicchiere di latte.
Il racconto delle trame era finito. Impaginato
bene, il contenuto chiaro, pieno di nomi che
avrebbero potuto portare allo sconquasso, anche
se difettava nella scorrevolezza dei verbi. Al posto
del titolo tanti puntini, non era riuscita a trovare
una frase giusta.
198
Come Lucia, nascose le sue confidenze su di un
dischetto che lasciò adorno soltanto di fiorellini
gialli. Lo mise tra gli altri. Le due copie che aveva
stampato le ripose nella cartella Vuitton dove
aveva conservato “Forse tu…” e le favole scritte
per i bambini del kinderheim. Con un gesto lento
se la mise a tracolla e ripercorse la casa. Spiava
dalle porte le stanze vuote, tendeva l’orecchio ai
rumori che non c’erano. Si muoveva con i gesti di
Lorenzo, toccava gli oggetti alla sua maniera, li vedeva con i suoi occhi. Cari, cari occhi. Aprì la porta
d’ingresso e uscì chiudendola come se dentro
qualcuno non dovesse sentire lo scatto. Sul pianerottolo non c’era nessuno, né l’ascensore la disturbò. Scese a piedi le scale senza accorgersi di
farlo. Appena fuori del portone si guardò intorno.
Camminava in cerca di un bar non ricordando più
dove si trovasse quello che conosceva bene. Si infilò nel primo che le capitò davanti. Bevve un bicchiere di latte freddo, ne chiese altri due e al
momento di pagare si accorse di aver portato con
sé soltanto la Vuitton con le carte. Per fortuna
aveva preso dall’attaccapanni la giacca e nella
tasca trovò una manciata di spiccioli con qualche
banconota. Voleva andare dal maresciallo Imbeni,
un pacioso poliziotto che le aveva più volte ripetuto di rivolgersi a lui qualora avesse avuto qualcosa da comunicargli, ma era confusa sulla strada
da fare. Non ricordava dove fosse il commissariato,
non riconosceva i marciapiedi, il selciato. Camminò guardandosi intorno come se vedesse le
strade per la prima volta e quando giunse davanti
agli uffici della Polizia si impappinò nel chiedere
all’agente di guardia se c’era il superiore. Tirò fuori
199
dalla cartella uno dei due pacchi di fogli raccolti
con la costina di plastica nera e disse di volerli
dare personalmente al maresciallo.
L’agente girò e rigirò le carte con cautela come fossero imbottite di esplosivo e la pregò di attendere.
Tornò con un agente più anziano, che l’invitò a seguirla chiedendole con aria inquisitoria chi fosse e
perché volesse consegnare proprio al maresciallo
quegli scritti.
Virginia si presentò, spiegò in breve la storia di Lorenzo continuando a interrompersi per ripetere più
volte che aveva trovato la soluzione. “È tutto
scritto qui” insisteva e il brigadiere la guardava insospettito.
“Imbeni capirà sicuramente, capirà sicuramente…”
L’uomo fece cenno di attendere. Tornò con dei moduli. Le chiese di mostrargli un documento. Virginia cercò il portafoglio e si rese conto di non avere
nulla addosso che dimostrasse la sua identità.
Farfugliò parole di scusa e allo sguardo penetrante
che l’agente le rivolgeva rispose con un mezzo sorriso “Abbia pazienza, vado a casa, prendo la borsa
e torno subito.” e senza dargli il tempo di reagire
uscì.
Quel senso di inconsistenza che l’aveva colta lasciando l’appartamento l’avvolse di nuovo. Camminava in cerca di punti di riferimento. Non
sapeva più perché si trovasse in quella via. I passi
la conducevano a percorrere le strade senza accorgersene. Le sembrava un paese sconosciuto eppure i muri emanavano affetto. Lo sentiva. Come
sentiva il calore dei sampietrini sotto i piedi. Sentiva l’odore dei gas di scarico come fosse un pro200
fumo. Le voci, lo strisciare delle gomme, il calpestio dei passi, erano suoi. Voleva goderne intensamente. E fu godimento riemergere dall’oblio e
capire che non ricordava dove fosse. Toccò la cartella, non aveva altro con sé che l’alfabeto mescolato al sentimento per esprimere il cuore.
Donnacarta. Sorrise e azzardò un passo più lungo
come per giocare a campana. Le scale di una
chiesa l’aspettavano. Si sedette. Chiuse gli occhi
con la gente che sfumava nel sonno.
Fu il calore del sole a svegliarla. Un raggio l’accarezzava allungandosi dal fondo della via.
“Bello” mormorò Virginia e seguì con lo sguardo la
linea luminosa che tracciava. Sembrava tutto più
pulito. I passanti indossavano l’aria tersa del mattino. Istintivamente sporse il braccio per guardare
l’ora. Aveva dimenticato a casa anche l’orologio.
Rimase seduta dove era aspettando di avere voglia
di alzarsi.
***
L’abbigliamento non era dei più adatti alla strada,
ma Virginia non se ne rendeva conto. Distratta,
vagava per le vie come se fosse in un’altra città Ai
piedi comode Tod’s. I pantaloni e la giacca di ottimo taglio, in fresco di lana, permettevano movimenti sciolti e calore giusto, ma erano troppo
eleganti perché qualcuno si impietosisse e le desse
un’elemosina. Aveva ancora gli occhiali sul naso.
Lorenzo le avrebbe detto “Tesoro hai un viso così
giovane… cerca di non abituarti…”
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Lui che aveva una vista da falco!
Contò i soldi Trentacinquemilaottocentocinquantotto lire. Avrebbe potuto comperare il giornale per
diversi giorni. La storia di Lorenzo era viva dentro
di lei e sperava nella giustizia. Il resto non contava
più nulla. L’ultimo messaggio d’amore era affidato
a un dischetto che forse mai nessuno avrebbe letto
e ad un pacco di fogli che forse qualcuno avrebbe
occultato. Ancora lucida nel pensiero che riguardava la morte di Lorenzo, Virginia per il resto si
nutriva di sensazioni. Ciò che assorbiva l’appagava
come se il corpo fosse un estraneo a cui badare
soltanto quando chiedeva cibo da ingoiare e rifiuti
da espellere. Quel che le era appartenuto non importava più anche se a tratti tornavano nitide le
immagini del passato. Maria Rosa, che le aveva tenuto il broncio chiamandola pazza dopo che le
aveva raccontato di essersi rifiutata di sposare Lorenzo. Già, perché non lo aveva voluto sposare?
Ora sarebbe stata la vedova Jaconis. Che sicurezza! Le ultime volte le aveva risposto al telefono
con fatica… non le andava di parlare più con nessuno… Di Ornella aveva perso le tracce. Dodo se
avesse saputo la sua situazione l’avrebbe sicuramente aiutata, ma non lo sentiva da qualche anno,
Lorenzo ne era stato geloso. Chi altri poteva pensare a lei? Laura, l’ultima amica… L’aveva cercata
infatti. Prima al telefono poi preoccupata aveva
convinto Giovanna ad accompagnarla nell’appartamento di piazza di Torre Argentina per vedere
cosa fosse successo. La borsa con il portafoglio, le
chiavi, i vestiti, tutto lasciato lì come se l’ultima
compagna di Lorenzo dovesse tornare da un momento all’altro le fece paura. Litigò con la figlia che
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continuava a ripeterle di non immischiarsi in cose
che non la riguardavano. Andò da sola dai carabinieri. Giovanna s’infuriò quando lo seppe. Proibì
alla madre anche soltanto di nominare “quella
donna” e chiamò subito un antiquario per far valutare il mobilio della casa che era stata del padre
e della nonna.
Virginia sempre più lontana da se stessa ricordava
soltanto stralci del passato, ma continuava a leggere i giornali pensando a Lorenzo. Il rimbombo
del mondo urlato dai titoli dei quotidiani non la
impressionava più. Si agitò soltanto quando in
una pagina interna de La Repubblica vide il titolo
di un articolo non molto lungo che diceva “Scomparsa la compagna di Jaconis”. Corse allora a
comperarsi un paio di forbici, entrò in un bagno
pubblico, tagliuzzò i capelli fino alla radice, indossò la giacca al rovescio e l’immagine che vide
riflessa la rassicurò.
***
La Stazione Termini non era più la stessa, rinnovata dai lavori eseguiti per accogliere il nuovo millennio.
Mancava poco più di un’ora all’evento tanto atteso.
Le transenne disturbavano le abitudini di Virginia
che vedeva invasa la sua casa da troppi sbandati
ai quali si erano aggiunti tanti giovani che parlavano un’altra lingua, svelti nel muoversi e nel litigare. La donna si spostava da un punto all’altro e
ogni volta che Colombo le si avvicinava, lo man203
dava via con il gesto di chi scaccia una mosca. Lui
la osservava preoccupato. L’aveva trovata più di
una volta seduta in terra in posti insoliti, con l’aria
assente e la cartella aperta con i fogli sparsi sulle
ginocchia come se non le importasse più di custodirli bene.
Le previsioni dopo l’estate eccezionalmente torrida
annunciavano un inverno assai freddo. Virginia
aveva già indossato più panni di quelli che portava
di solito e, goffa, continuava a girare come se fosse
alla ricerca di qualcosa. Colombo non sapeva più
che fare per starle vicino. Una volta lei gli si aveva
messo la mano sul braccio come si fa con un vecchio confidente e aveva preso a parlargli sottovoce.
Parole vaghe, senza senso, che il barbone ascoltava con pazienza, senza capire.
“Il caldo è finito, è finito il caldo. Anche il sessantotto è finito …è finito…” ripeteva e ripeteva Virginia “La rivoluzione più lunga che per trent’anni ha
macinato cultura e denaro… natura e libertà,
uguaglianza e parità, concretezza e spiritualità…
è finita è finita” e agitava l’altro braccio nel gesto di
chi gira un grande mestolo in un pentolone. “…il
sesso, oh! il sesso…” e sorrideva come se stesse
iniziando un rapporto d’amore. “La storia vivrà un
altro giorno, un altro lungo giorno” continuava a
farfugliare rimestando l’aria “ma serve ancora del
latte. Aggiungi del latte, del latte. Aggiungi cultura… aggiungi serietà, sapienza… Dignitààà” e
scuotendo il braccio di Colombo come si scuote un
ramo per far cadere i frutti “Getta lo scalpo, lo
scalpo del latte… mescola mescola… il secolo è
cotto, l’individuo scotto, la società s’è sfatta… il
2000 sarà.”
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Poi lasciando l’uomo e riprendendo a camminare
“Evviva, evviva il nuovo millennio, evviva le donne,
i bambini, le fate” si era messa a canticchiare e
“non vedi?” indicava come se stesse davanti a
qualcosa “sono affacciata alla finestra e getto la
treccia. La treccia del latte, la treccia del latte, la
treccia del latte…”.
La notte di capodanno il freddo faceva rabbrividire. Era appena passata la mezzanotte e Virginia si sentiva leggera come una piuma mentre
continuava a ballare. Colombo per la prima volta
notò quanto era impacciata nei passi e goffa nei
movimenti. La seguì mentre si trascinava verso
via Nazionale e tornava indietro fino a piazza dell’Indipendenza, sembrava che stesse per cadere
da un momento all’altro. Girava su se stessa, andava avanti e indietro fino a che raggiunse il piccolo portico sotto la sede de La Repubblica in
piazza Indipendenza. Soltanto allora il barbone
prese sonno sotto il portico un poco più grande
del palazzo di fronte.
Il rumore del camion della spazzatura non lo disturbò, si svegliò invece allo stridio dei freni di una
volante della polizia che si fermava proprio dove
era Virginia. Si alzò, attraversò la piazza avvicinandosi cauto. Due spazzini e le guardie osservavano il corpo della donna che se ne era andata
togliendosi il berretto e gli occhiali. Indugiò con la
mano sulla fronte aggiustandosi il ciuffo di capelli
e, rapido, si allontanò girando l’angolo. Davanti a
sé notò un signore che apriva con la punta dell’ombrello la cartella di plastica blu di Virginia che
la donna aveva posato in terra a fianco del portone
d’ingresso della redazione del grande quotidiano
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italiano. Si fermò a guardare mentre l’uomo si chinava per cercare di leggere meglio il contenuto dei
fogli. Qualche minuto e poi veloce, raccoglieva la
borsa come se fosse caduta a lui.
Con un gesto cordiale il portiere lo salutò riconoscendolo.
Colombo proseguì per via dei Mille e non si accorse
che la Vuitton che portava a tracolla aveva finito di
rompersi e dallo squarcio, ad ogni passo, cadevano
pezzetti di giornale.
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INDICE
9
13
Prefazione
di Stanislao Nievo
LA TRECCIA DEL LATTE
Romanzo
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