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Edizioni Artescrittura Collana Autori della Community Teresa Amendolagine La treccia del latte a Narrativa Edizioni Artescrittura © 2009 Proprietà letteraria riservata Edizioni Artescrittura by Autori Online www.artescrittura.it www.autorionline.org E-mail: [email protected] A Lelia e Ulisse che mi hanno dato la vita a Lelia e Roberto ai quali ho dato la vita a Daniele e Margherita che la proseguono. PREFAZIONE di Stanislao Nievo I sogni e le illusioni sono necessari come l’acqua e il pane e se non li diamo ai nostri figli con i suddetti alimenti, loro li vanno a cercare altrove. Magari un po’ dopo. Saranno i drammi e le commedie della vita – se solo teniamo occhi ed orecchi aperti, non importa dove – ad offrirgli il vestito per rintracciarli, magari in luoghi disdicevoli o consciamente poco afferrabili; ma tant’è, quegli alimenti, che sono l’infanzia e la “dieta prima”dello spirito da qualche parte appariranno, Virginia, barbona, questo ci testimonia. Virginia è sensibile e un po’, come tutti i nuovi nati, ignorante. Cioè ignora, non sa, pronta ad ascoltare chi parla, perché la donna è sensibilissima, intelligente. Fa un errore di generosità, e forse di pigrizia mentale, attendendo dagli altri qualcosa che solo il nostro urlo vitale può raggiungere, che solo il richiamo del nostro carattere può assicurarci. Virginia invece lo cerca attraverso un libro che non pubblicherà mai, accostando urgenze sociali dirette, comuni nell’ambiente cittadino un po’ anonimo ma non per questo meno inciso in cui vive. È una donna incapace di rinunciare – e fa bene – ma anche di scegliere decisamente – e qui fa meno bene. Potremmo dare un sottotitolo dai precedenti illustri: Virginia o delle perplessità. Virginia è una lottatrice che rilancia le sue oppor9 tunità, anche se ne esamina particolarmente la decisa influenza fisica. Intanto costruisce la sua fiaba tramutando le possibilità in sogni narrati. Il libro è sempre a colori. Il cerchio si chiude in attesa di una maternità di cui non vogliamo nella prefazione narrare la straordinaria levità di pensiero e d’amore. Tutto può essere trasformato, a cominciare da noi stessi se sappiamo immaginare ed amare. Allora la discesa nelle pagine diventa esperienza di verità ed il calore della scrittura scioglie la solitudine più intensa, attraverso un’originalità quasi surreale. C’è un po’ di vittimismo conscio e femminile. Il figlio dapprima inventato, i dettagli romani di questa città sempre pronta ad offrirsi in forma teatralmente intima e indifferente nella sua grande accoglienza, hanno la capacità di trascinare il lettore verso la pagina seguente, grande arte dello scrivere. L’attesa della quotidianità un po’ sfortunata , della poliedricità delle occasioni attuali, pubbliche e private (mi pare che questo sia il vero senso della globalità che ci permea tutti). Il perbenismo che militarizza un po’ la protagonista, tra gatti, computer, case di riposo, arte, uffici e relazioni amorose è materiale in cui l’autrice mostra una gustosa competenza anche se sfortunata. Ecco il libro, e se vogliamo rendere l’introduzione scrupolosa, aleggia nell’analisi anche un po’ di freddezza voluta, quasi un analgesico della sofferenza, la sottigliezza mimetica della timidezza, l’eccessivo ricominciare delle avventure importanti e la delusione sempre in agguato. Da leggersi senza preoccupazione specialmente per chi, in segreto, pensa di non aver vissuto realmente. 10 Teresa Amendolagine che invece ha vissuto e vive, ci conduce in questa particolarissima esperienza, e rivela con chiara panoramicità l’affresco dai molti dettagli, obliqui e pieni di chiaroscuri in una prosa che scorre, come la vita scorre per una barbona. Barbona eccellente che è anche – spesso in questa categoria – l’espressione del confine scabroso della personalità cittadina e borghese in cerca di individualità diretta, quella che accompagna milioni di noi. Il barbone è l’eremita di oggi, lo scrittore è il trovatore del nostro tempo, a volte ruvido e un po’ pettegolo, dal canto evidentemente lanciato a narrare le nostre sconfitte sociali, che da sempre commedia, dramma e tragedia privilegiano. E che fiaba e poesia (forse sono la stessa cosa in spiriti di età diversa?) correggono a volte in splendide pagine. 11 12 Virginia, consumato il primo sonno, uscì dai cartoni in cui era avvolta. I botti, sempre più insistenti, l’avvisarono che l’anno stava per finire, ma soltanto per lei sarebbe entrato il terzo millennio, nella realtà era il 31 dicembre del 1998. La fantasia le fece immaginare piazza dei Cinquecento vestita a festa per ricevere il nuovo anno. Le cime dei lecci e dei pini fiorivano lampadine rosse. Ghirlande di luci intermittenti scendevano dai lampioni dando allo spazio circostante la sensazione di pulsare. La povera donna si sentiva al centro di un enorme cuore in cui i treni e gli autobus irroravano la città di linfa umana. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte e la facciata della Stazione Termini, illuminata da lampadine bianche, dava ospitalità ai diseredati. La barbona si raccolse nei panni, aggiustò la cartella che portava a tracolla e si stropicciò gli occhi alzando gli occhiali. Udiva note lontane mentre i canti del passato si confondevano con quelli del presente. “Die fahne hoch”… (*) “Nais kong mautil ang awit ni inang mathal”… (**) Le voci venivano verso di lei, modulate da un giovane nordico che camminava insieme ad una piccola donna orientale con in braccio un bimbo (*) “In alto la bandiera”, canzone tedesca in voga negli anni del nazismo. (**) “Voglio ripeterti il canto della mia mamma”, ritornello di una antica ninna nanna filippina. 13 riccioluto e biondo. Un bimbo che non aveva partorito. Lui la spingeva avanti, lei saltellava cantando. Lo scoppio di un petardo le mise addosso il tremore di quando era bambina, spaventata dal rumore delle sirene e dei carri che a lei giungevano da lontano. Poi, come in una foto sbiadita, si vide piccola, con le treccine legate sul capo e la manina stretta da quella della mamma. Sentì la sua voce che la invitava a ripetere “Angelo di Dio, che sei il mio custode illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidata dalla pietà celeste…” Smarrita si guardò intorno. Ma perché gli angeli avrebbero dovuto avere pietà di un esserino che ancora non aveva fatto nulla né di bene né di male? Era stata una bella bambina, le avevano detto, sana, obbediente… forse lassù sapevano quel che sarebbe accaduto… e allora perché affidarla ad un angelo distratto? “Dove sei?” mormorò muovendo appena le labbra. “Angelo Custode, non perdermi di vista, vieni, balliamo, finalmente è arrivato il duemila.” Con cura ripiegò il giaciglio di cartoni, si appoggiò alla vetrata e vide scendere lento, su palazzo Massimo, l’arazzo della Madonna di Pompei, appeso un tempo al capezzale del letto dei suoi genitori. I colori erano forti e lucenti come quelli di un tabellone pubblicitario. Mancavano le scritte. Ave Maria? Sia lodato Gesù? Allungò le mani per toccare l’immagine, come quando da piccola le allungava per toccare i piedini del bambinello ricamato, e come allora non riusciva a raggiungerli. Protesa in avanti, con le braccia alzate, sembrava che avesse rag14 giunto l’estasi della preghiera. Si guardò le mani rugose e sporche... “Dio, che vuoi ancora da me?” La fine del millennio confondeva gli animi e gli anni. Un garbuglio di credi, illusioni, disperazioni e speranze. Virginia le sentiva addosso. Le vedeva. Cercò di pulire il vetro degli occhiali con il bordo della giacca senza riuscirci. La società l’aveva portata per mano, come una mamma. Per entrare nel duemila. Quel duemila che tutti aspettavano, “Il sabato del villaggio”. Il suo duemila. Le era sembrato sempre così lontano. Aveva immaginato quella data scritta in cielo con i numeri d’oro. Avrebbe voluto toccarla, come avrebbe voluto toccare i piedi del bambino Gesù. S’incamminò lasciando la stazione alle spalle. Si sentiva leggera, signorina. Voleva ballare… Quando era ragazza non era mai andata a ballare. Anche alla mamma piaceva ballare, lo capì un giorno mentre lo diceva al padre, abbassando il tono della voce, come se si vergognasse. Con un gesto cacciò il rigurgito della memoria, si calcò il berretto sulla fronte e il viso largo e grinzoso quasi scomparve. Dietro le lenti sporche le brillavano gli occhi, ma nessuno se ne accorse. Il freddo era pungente, la Caritas aveva regalato indumenti nuovi alla donna e il giubbotto imbottito la riparava bene, rendendola però ancora più goffa. Sulla piazza della stazione Termini si muovevano pochi passanti. Il vagito del primo gennaio era straniero. Roma, la sua città, vestita a festa più di quello che meritava, apriva le danze. Accennò un passo di valzer e quasi fosse sorretta da un ignoto 15 cavaliere, si avviò verso piazza della Repubblica dove la fontana delle Naiadi, sfacciata, allattava il nuovo millennio. Mentre il traffico inseguiva il ritmo del capodanno, Virginia incominciò a ballare. *** Lorenzo era stato un uomo con molto fascino ed una forte personalità. Le difficoltà che la vita prescrive comunque, erano state per lui giochi sui quali impegnare intelligenza e volontà. Aveva conservato i credi affettivi imposti dalla madre, rimasta vedova quando il figlio aveva appena passato l’adolescenza. Aveva ricercato il fiato caldo della famiglia che sognava senza essere però mai riuscito a dare quel che una famiglia richiede. La mamma, una nobile del Galles, gli era stata accanto anche nella maturità. Due donne Laura e Francesca lo avevano fatto avvicinare al matrimonio dandogli ciascuna una figlia, ma a nessuna si era poi legato. In cerca di nuove emozioni aveva chiesto di sposare Virginia arrivata per ultima e lei aveva continuato a prendere tempo prima di dargli una risposta. *** Non si sarebbe potuto riconoscere nella donna un po’ curva, imbacuccata in abiti senza forma, la 16 compagna di Lorenzo. Eppure Virginia si sentiva osservata. Quell’uomo tornava come tornavano i momenti del passato, appoggiati alle strade, alle piazze, affacciati alle finestre delle case. La barbona ripassava il sentimento d’amore, voleva riprovare le emozioni ed i suoni legati al suo rapporto, lì, in piazza di Torre Argentina aveva abitato e dove per arrivare dalla stazione Termini ci metteva più di un giorno. Le gambe le dolevano e quando c’era il sole, per assorbirlo tutto, si accucciava sui marciapiedi facendosi rincorrere dall’ombra. Spesso la notte la sorprendeva senza che si accorgesse del suo arrivo. Con lo sguardo in aria, come fosse incantata, scendeva fra i ruderi del teatro Pompeo in cerca della terra nuda per sdraiarsi ad amare. Lontana dalla gente, mescolando fantasie storiche a vibrazioni erotiche, sentiva Lorenzo, ombra di pietra tra le pietre, diventare vivo. Lei, che non era mai stata una donna passionale, ricercava la spinta del ricordo per concludere la voglia d’amore che la turbava ancora. L’aspetto, imbruttito dalla vita all’addiaccio, nascondeva una fibra forte, vitale, che le faceva desiderare l’uomo come una volta. Per sentirlo vivo. Lo immaginava allora a fianco, poi sopra e si frugava fra i panni per stuzzicare i capezzoli come faceva lui. “Amooore” ripeteva consumandosi nello sforzo di una passione lontana, trascinandosi nell’eccitazione che non voleva arrivare . “Ooh si, ooh si” ripeteva come una volta e se ne veniva come lo avesse in corpo, con le gambe strette e la bocca aperta che diventava arida. 17 L’amplesso fantastico le serviva per allontanare il freddo, invitava al sonno mentre il rumore del traffico diventava un suono melodioso che riportava al passato. Povera donna! La lunga fila di finestre all’ultimo piano del palazzo di fronte molto spesso era spenta. Quando in quella casa abitava Lorenzo le luci restavano accese anche se non c‘era nessuno ed a volte, restavano accese persino di notte. Un comportamento che aveva fatto stizzire prima la madre e poi le figlie, ma che Virginia aveva sopportato sorridendo. Un vizio pieno di esuberanza, ma anche di inconsce paure. Un’abitudine che aveva fatto dedurre alla polizia la presenza di altre persone nell’appartamento il giorno in cui era avvenuta la disgrazia. Una morte sospetta quella di Lorenzo. Una morte inutile quella di sua figlia Lucia. Due vite spezzate per non risolvere niente. *** La targa sulla porta dell’appartamento di largo di Torre Argentina indicava benessere e onorabilità. L’ottone, sempre lucido, portava inciso a caratteri gotici il nome del padre di Lorenzo, “Prof. Ruggero Jaconis”. L’interno non smentiva la presentazione. L’ambiente si addiceva perfettamente agli abitanti anche se la severità dell’arredo aveva contribuito ad alimentare il desiderio di trasgressione nelle ultime generazioni. Lorenzo aveva conosciuto Virginia appena andato in pensione. Era stato un dirigente dell’ENI, so18 cietà per la quale continuava a svolgere collaborazioni saltuarie. “Mi permette di guadagnare qualcosa e mi tiene sveglio con la mente” ripeteva alla nuova compagna che non capiva la necessità di dedicare ancora tanto tempo al lavoro quando insieme avrebbero potuto “godersi la vita”. La buona posizione economica e la voglia di muoversi, che caratterizzava l’uomo, non avevano certo bisogno di essere stimolati da quel lavoro, inoltre, una villa a Gaeta lasciatagli in eredità dalla madre che l’aveva acquistata quando da nordica convinta si era convertita al calore del sud, lo teneva abbastanza occupato con i continui lavori di riparazione e le migliorie. Virginia aveva finito per accettare i continui spostamenti del compagno, che andava spesso anche all’estero per delle consulenze, senza chiedere troppe spiegazioni. La posizione di donna di casa, con la responsabilità di una famiglia, anche se tanto diversa dal tipo di vita fatta in precedenza, l’appagava e non le dispiaceva stare ad aspettare il suo compagno presa dagli impegni casalinghi. Passava il tempo libero mettendo in ordine soprammobili e cassetti, leggendo, affacciandosi spesso alle finestre che davano sulla piazza attirata dal turbinio della gente, dalle automobili, dal movimento di una umanità che osservava come se fosse al cinema. Le piaceva la città, le arricchiva i pensieri. Era una donna paziente e anche quando Lorenzo cambiava itinerario, dimenticando di avvertire, oppure ritardava o anticipava il ritorno, non se la prendeva. Lui sapeva farsi perdonare. Diventava gentile e non mancava di chiederle scusa. Era un 19 uomo che sapeva controllarsi, nei momenti di maggiore tensione, il suo nervosismo assumeva le sembianze della tenerezza, una tenerezza forzata, imposta dall’educazione che soltanto chi lo conosceva bene sapeva riconoscere come non vera. Con tutti era sempre cortese, ma gli estranei in realtà gli erano assolutamente indifferenti, mentre con le persone con cui aveva rapporti continui come il giornalaio, la portiera, il barista, si lasciava andare alla cordialità ricevendone in cambio una forma di rispettosa deferenza che giovò poi all’inchiesta sulla sua morte. Per le figlie aveva un debole. Profondamente orgoglioso del loro esistere ne riportava in positivo ogni azione. Giovanna continuava a fare fotografie terribilmente anonime, ma per il padre Giovanna possedeva una innata predisposizione alle inquadrature. Lucia aveva riempito la casa di ceramiche crude, con la chitarra e con il sassofono si era cimentata in suoni strazianti, da un computer programmato alla Eco traeva poesie d’amore e appunti privi di grammatica, ma per il padre Lucia era una ragazza piena di talento. Le mura di casa Jaconis raccoglievano quanto di più vario avessero potuto mettere insieme le generazioni passate. Lorenzo le custodiva con la cura del disordinato e quando cercava un oggetto girava e rigirava per l’appartamento accarezzando con lo sguardo tutto ciò che sfiorava, pronto a scoprire cose nuove tra quelle già esistenti oppure a chiedere di altre che improvvisamente gli tornavano alla mente. Non aveva fratelli o sorelle e le figlie, ultime eredi, pareva non provassero alcun interesse verso quei mobili e soprammobili che ave20 vano accompagnato la loro infanzia. Soltanto quando Virginia andò ad abitare nella loro casa l’istinto del possesso uscì allo scoperto. Il padre aveva trattato l’ultimo amore in modo diverso dalle precedenti fiamme. Sulla soglia della terza età aveva cercato nella compagnia la completezza al sentimento che provava. Volle Virginia a fianco e la figlia più piccola, che abitava, con lui dovette accettare. Il primo incontro con la ragazza fu cordiale, come furono allegre le uscite per andare al ristorante, al cinema, a teatro. La convivenza aprì la porta alle difficoltà. Con Giovanna, la più grande, il rapporto fu meno complesso. La giovane donna, già sposata con un promettente dentista, si occupava soltanto di sé e quando andava a trovare il padre e la sorella, che trattava come una simpatica conoscente più che come una parente, si rivolgeva alla compagna del padre con estremo distacco accentuato dalla perfetta educazione. Virginia, convinta di dover fare parte della famiglia, era entrata nell’appartamento di piazza di Torre Argentina portando con sé soltanto i ricordi più cari, un cassettone primo ottocento, una bergère vecchiotta, due litografie di Nicola Simbari e due piccoli tappeti persiani, ma trovò difficile trovargli posto. Ogni parete era piena, ogni stanza portava l’impronta di chi vi aveva vissuto. Persino nei letti la conca impressa dai corpi sui materassi di lana raccontava di ospiti grassi o troppo vivaci. Nello studio i libri ammucchiati sugli scaffali lasciavano appena intravedere la carta damascata che aveva avvolto la lettura di Lorenzo bambino. Pesanti bacheche di noce custodivano le insegne 21 di famiglia, un cappello garibaldino e uno da cavallerizzo, un carnet da ballo e un bastone con il pomo d’argento insieme ad altre cianfrusaglie più o meno preziose. Ultime, ma non meno importanti, una bambola di plastica scura e una casetta costruita con il Lego. La cucina, immensa rispetto agli angoli cottura che si andavano affermando, era stata rinnovata da Scavolini e tra quella formica chiara Virginia aveva tentato di rendere più confidenziale il rapporto con Lucia. Era lì che mangiavano quando Lorenzo non c’era. Unico testimone il silenzio interrotto dai “Ne vuoi ancora?” alla fine di ogni portata a cui la ragazza rispondeva soltanto con un cenno della testa. Diversi erano i pranzi nella sala dove la figlia non aveva voluto cedere il posto alla destra del padre. Tra loro l’intesa sembrava perfetta. Chiacchiere e risatine escludevano senza volerlo la nuova venuta, ma Virginia cercava di non farci caso. Le allusioni a parenti ed amici, che non conosceva, i racconti di avvenimenti passati, i nomi di persone sconosciute la forzavano ad entrare nella nuova famiglia senza riuscire a parteciparvi. A volte si sentiva a disagio, provava imbarazzo, ma l’istinto materno la portava ad essere comprensiva con quella ragazzina, figlia viziata e adorata dall’uomo che amava. Riuscì ad entrare nelle grazie di Lucia soltanto quando una brutta polmonite la tenne a letto per diversi giorni. La gravità della malattia e la debolezza dell’ammalata giocarono in favore della confidenza. Trascorreva molte ore al suo capezzale. Le leggeva 22 le notizie sui rotocalchi, commentando le fotografie più buffe. Dai quotidiani riassumeva gli articoli e sfogliando i libri che la ragazza lasciava ammucchiati sul comodino, trovava sempre qualche pagina da segnalarle per la lettura. Era eccitata dal ruolo di madre ed eccedeva in tenerezze e consigli. Voleva trasmetterle le sue esperienze. Raccontava le sensazioni che aveva provato quando era giovane adattandole a quello che pensava fosse il modo di vivere del momento. Insisteva sull’importanza della fedeltà, della lealtà, dell’amore. “Ma sei fissata…” l’interrompeva Lucia con la spietata sincerità dei giovani e Virginia mortificata azzittiva. Alla madre, che passava a trovare la figlia quasi ogni giorno, per pochi minuti perché aveva sempre fretta, la ragazza non rispondeva quasi mai. Un’alzata di spalle, un girare lo sguardo altrove, un gesto annoiato di cui la donna sembrava non accorgersi. Francesca assumeva l’atteggiamento dell’attrice che deve seguire un copione. Lontana dalle reali esigenze della figlia continuava a portarle libri in prestito o in regalo pur sapendo che non amava leggere. “L’ho letto tutto d’un fiato” ci teneva a precisare ogni volta che ne portava uno. “È interessante, non metterlo da parte come fai tu…” ripeteva baciandola sulla fronte prima di uscire. La ragazza non li sfogliava nemmeno ed era compito di Virginia metterli a posto. Per la donna un piacere. Da quando aveva imparato ad apprezzare i libri, la lettura era stata la sua più grande com23 pagnia, la sua maestra. Ne aveva approfittato per capire il mondo, quel mondo che ancora la affascinava e nello stesso tempo ancora la spaventava. Il mucchio diventava sempre più alto e Virginia non riusciva a leggere i libri con stessa velocità con cui Francesca li portava. Si era attardata soprattutto su di uno, decisamente usato, nel quale le vistose sottolineature l’avevano incuriosita al punto di volerlo leggere dandogli la precedenza su altri già incominciati. Le aveva tracciate la madre di Lucia? Francesca, quella donna di cui non riusciva a capire il comportamento, così distratta… Forse attraverso quei segni sarebbe riuscita a scoprire l’animo dell’ex compagna di Lorenzo… L’animo della donna che era in lei, di un’altra donna… “Aurora”, il titolo, apriva l’immaginazione ad argomenti celesti. Le parole scorrevano riportandola al sogno. Riportandola all’immediato passato. La strada di Terracina, del Circeo, la strada dell’amore. Più giù Gaeta. La casa della madre di Lorenzo. La casa dell’amore. Anche per Francesca aveva voluto dire qualcosa quella strada e quella casa? Sentì vibrare in sé le corde della gelosia mossa dai sensi. La fantasia dello scrittore, Stanislao Nievo descriveva la vita in un intreccio strano. Reale e astrale La donna come madre, in assoluto, fra costellazioni e spazio, nel luogo senza luogo. Nel tempo lontano dal tempo. Una ricerca. Una dea, Mater Matuta, che appare e scompare, ma c’è. Tuta… come il nome della tata a cui lei aveva affidato Michele, quel figlio assurdo, voluto per forza. Coincidenze? 24 Seguendo il filo dell’irreale, uscì dallo scritto, entrò nel vortice della propria mente e di quella di Francesca. Avrebbe voluto cancellare il tratto già tracciato dalla mano di lei per segnare soltanto il suo passaggio. Avrebbe voluto. Si sentì “aurora”, ormai prossima ad accendere il fuoco di quella luce che segue la morte e illumina la nascita. Complice del nuovo giorno. Madre di figli altrui, quei figli che aveva cresciuto senza poterli avere. Diventò dea, Mater Matuta, potenziale generatrice di forze nuove, inconsce. Sentì sua Lucia, figlia di un’altra, comunque donna, futura madre. Di altre figlie, di altre madri. Fu fragile eppure forte. Di terracotta, con mille braccia e mille pupi addosso. Mamma di un sogno, padrona della sera che presto l’avrebbe raggiunta per renderla immortale. Partecipe. Con Lucia raddoppiò le cure. Lorenzo felice dell’armonia famigliare raggiunta, si presentò una sera con un pacco infiocchettato dove aveva fatto mettere un golfino di cachemire azzurro per la figlia ed uno scialle di angora rosso per la compagna. Coppa della vittoria. Ma Lucia, appena guarita, riprese l’abituale distacco. Virginia, insistendo, continuava a cercare di interessarla ai fatti che avvenivano nel mondo. Continuava a cercare di leggerle qualche articolo di giornale. La incitava ad intraprendere un lavoro, a darsi da fare in qualche attività, a scegliere un cammino tutto suo. Per partecipare, lei, che conosceva le lingue così bene ed era giovane… tanto giovane… La ragazza non reagiva, anzi diventava ostile. 25 Provò allora ad esserle amica. Le portava regalini, l’abbracciava con affetto. Le confidava piccoli segreti come avrebbe fatto se fosse stata una sua coetanea, ma il silenzio ostinato che riceveva in risposta le fece smettere ogni attenzione. Tornò ad essere soltanto donna. Donna per il suo uomo, come all’inizio, quando si incontravano nei fine settimana, quando andare al cinema o guardare insieme un panorama diventava un modo per scoprire la vita uno dell’altro attraverso il racconto dei ricordi, attraverso le allusioni, gli incontri. Si erano capiti subito e il parlare a volte era diventato superfluo, bastava uno sguardo per comprendersi. Poi la possibilità di vivere insieme aveva acceso la loro unione di un nuovo entusiasmo. Tornati giovani, anche se il nido era vecchio, furono felici. Avevano approfittato delle vacanze di Lucia per il trasloco. Innamorati, avevano giocato con le piccole cose di tutti i giorni. La spesa al mercato di Campo dei Fiori era diventata per Lorenzo un motivo per offrirle ogni volta una rosa e la fioraia, vecchia conoscenza dell’uomo, “Sempre con un fiore in mano lei…” scherzava dando lo spunto a Virginia di ingelosirsi del passato. Cucinavano divertendosi. I risotti alla pesca di lui erano imbattibili, le insalate miste di lei non finivano mai. Spazzolare i vestiti, spiumacciare i cuscini, rifare il letto, erano azioni che avevano stimolato gesti d’amore antichi, ancestrali, anche se quella casa non era la sua. Il ritorno di Lucia aveva rotto l’incantesimo. I cibi che piacevano a Virginia non erano graditi 26 alla ragazza. Fino a mezzogiorno si doveva camminare in punta di piedi perché dormiva. Non si doveva mai rispondere al telefono prima che rispondesse lei. Le sue camicette avevano la precedenza su ogni altro indumento da lavare o da stirare e Maria, la donna che da molti anni faceva le pulizie in casa, perdeva tempo a chiacchierare nella sua stanza invece di fare i servizi. Ma andava bene anche così per la nuova arrivata che sperava ancora nel futuro. *** Uscirono insieme padre e figlia la mattina di quel terribile giorno. In silenzio. Lei con l’aria assonnata ed i capelli arruffati slegò il motorino appoggiato al lampione. “Ciao pà” farfugliò e si sporse per prendere la carezza lunga di lui. Virginia si rigirava nel letto. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, aveva sentito Lucia alzarsi più volte e più volte si era alzata anche lei. Una brutta lite avvenuta la sera prima aveva tenuto tutti svegli. Dopo anni di convivenza in cui la donna non era mai intervenuta nelle discussioni di famiglia, inghiottendo a volte pareri e conclusioni che le gonfiavano il petto, quella sera si era intromessa. Non aveva sopportato che la ragazza insultasse il padre come non era mai successo, gli aveva dato addirittura dell’assassino, e la reazione di Lorenzo era stata per la prima volta violenta. Il motivo della lite non avrebbe dovuto portare a 27 tanto. Dove erano finite l’educazione e l’amore paterno? Lucia voleva trasferirsi a Parigi per intraprendere una professione che a suo dire le avrebbe dato molte soddisfazioni. Voleva frequentare un corso di alta cucina per poi aprire un ristorante che avrebbe avuto sicuramente successo, affermava e non aveva sorriso alle battute del padre che la dissuadeva elencando gli arrosti bruciati, i dolci troppo dolci e le pietanze raramente portate a tavola. Le parole erano diventate spade dalle lame taglienti. Da parte della ragazza le accuse alla società, alla famiglia. Da parte del padre l’ironia più feroce degli insulti. Virginia aveva preso le difese del compagno. “Bugiardi. Ipocriti” urlava infuriata Lucia con gli occhi pieni di lacrime e rivolta alla donna, “E tu che stai sempre lì come un’oca in adorazione.” Un turbinio di voci sempre più alte finché Lorenzo non pose fine all’alterco dando uno schiaffo alla figlia. *** La telefonata dei carabinieri arrivò alle 19,05. L’ora rimase impressa alla donna perché su RAI 3, al telegiornale, commentavano l’approvazione del Senato al Trattato di Maastricht. C’era stato un incidente. Il futuro era arrivato troppo tardi. *** 28 “Ti voglio bene… scusami per ieri sera…” aveva detto Virginia la mattina nel salutare Lorenzo che partiva per Zurigo. L’uomo si era voltato, era tornato indietro e con un sorriso mesto le aveva appoggiato la mano sulla spalla in un gesto pieno di intenzioni. Lei, chinata la testa da un lato, aveva sfiorato con la guancia la mano di lui. Erano rimasti così per un lungo momento. L’ultimo gesto affettuoso. La disgrazia della ragazza troncò per sempre ogni effusione. *** Una tragedia la morte di Lucia come può esserlo una morte giovane senza significato. O lo aveva? La ragazza di appena vent’anni era delicata come un papavero nato sulla roccia. La massa di capelli fulvi, che davano alla figurina un aspetto fiero e volitivo, non dicevano il vero. Aveva passato l’infanzia lontana dalla madre occupata dal lavoro e da un uomo sempre nuovo a fianco, e anche se negli ultimi anni la donna aveva cercato di incontrarla più spesso, aveva lasciato nella figlia il bisogno della sua presenza, che andava cercando nell’ottenere dagli altri ciò che più le piaceva. La nonna paterna l’aveva tenuta con sé nell’appartamento di piazza di Torre Argentina e pur amandola molto, non era riuscita a dare alla nipotina quell’abbondanza di baci e di carezze che ammorbidiscono il cuore. Alla sua scomparsa Lucia si era trovata ancora più sola nella grande casa dove il 29 padre aveva ripreso a vivere per starle vicino. Il loro rapporto, fatto di cornetti caldi, di capelli aggiustati con mossa da intenditore maschio, di buffetti affettuosi e baci teneramente appoggiati sulla nuca, si era così rafforzato. Lorenzo comperava vestiti da favola che Lucia indossava una volta soltanto per fargli piacere e lei, sempre per fargli piacere, preparava il cheesecake alle fragole con l’aggiunta della ricotta, una ricetta cara alla nonna. Fiera di essergli figlia, gli si buttava addosso ogni volta che si toglieva la giacca lanciandola sul piolo del attaccapanni con un gesto talmente ampio da lasciargli le braccia aperte pronte per accoglierla. Un padre amato. E se girava per casa a torso nudo, e accadeva non solo d’estate, lo rincorreva per strusciarsi contro il suo petto che con gli anni si era riempito di peluria grigia. Virginia aveva disturbato l’idillio. Estranee finché non si erano trovate a vivere insieme, le due donne, si erano accanite nello scoprire attraverso i movimenti una dell’altra l’intensità del sentimento che le univa allo stesso uomo. Rivalità? Gelosia? Per la più anziana soltanto il desiderio di capire, capire i movimenti della ragazza che le apparivano strani, pieni di curiosità morbosa. Aveva scoperto che Lucia, acquattata dietro le porte delle stanze dove lei si trovava con il padre li spiava. Più volte l’aveva vista scappare dietro gli angoli per non farsi scoprire. Incredula, ma a sua volta incuriosita, aveva finito per seguire le mosse della ragazza, entrando nella spirale di un morboso gioco a rimpiattino che, se da un lato la faceva tornare all’infanzia, dall’altro le metteva addosso un’ansia strana. 30 L’assurda competizione cessò quando un giorno si ritrovarono dietro la porta dello studio di Lorenzo, dove tutte e due erano state attirate dal comportamento insolito di Antonio Serra, un amico venuto a far visita a Lorenzo senza avvisare. L’uomo era entrato salutando appena. Virginia, che gli aveva aperto la porta, lo aveva seguito preoccupata e notando la reazione insolita del compagno all’inattesa presenza si era fermata ad ascoltare dietro la porta. Al di là dell’uscio parole monche, alterate, frasi di cui non si capiva il significato. Le voci si erano fatte alte ed era arrivata Lucia. Ma che stava succedendo? Lorenzo non alzava mai la voce. Le due donne si erano guardate complici, ma nell’istante in cui si sfiorarono toccandosi con le spalle, Virginia sentì l’impaccio della sua presenza.. Chinò la testa e “smettiamola, andiamo via” disse come se parlasse a se stessa. La reazione fu imprevista. “Antonio è un nostro amico. Uno che ci vuole bene, capito? E tu non c’entri, non c’entri niente, capito? Sono anni che frequenta questa casa e tu non hai il diritto di sapere che cosa dicono, vattene, vattene tu.” Virginia si era allontana mentre le pareti, i mobili, i quadri le venivano incontro come se fossero appartenuti ad un museo. Il rispetto, dettato più dall’educazione che dal carattere di ciascuno, aveva accompagnato fino a quel momento la convivenza in casa Jaconis, ma dopo la visita di Antonio Serra l’atteggiamento cambiò. Lorenzo sempre più distratto, qualche volta era persino sgarbato. Virginia interveniva in ogni discorso facendo domande su domande. 31 Lucia, nervosa, si offendeva per ogni piccola cosa. Sembrava che ognuno avesse avuto voglia di litigare, ma anche se la situazione venutasi a creare portava ad una maggiore confidenza, non si potevano cancellare le esperienze che ognuno di loro aveva vissuto separatamente e che ne condizionavano il comportamento. La morte della ragazza aggravò la situazione. Virginia ne fu molto scossa. Un dolore che non aveva mai provato, di riflesso, ma proprio per questo difficile da gestire. Cercò di alleviare la sofferenza che Lorenzo nascondeva dietro un contegno e una rigidità eccessiva, ma non riusciva a trovare le parole giuste. I gesti erano insufficienti. Sempre di più lui si isolava in un mutismo ostinato. Riprese a viaggiare con maggiore frequenza e quando era in casa si appartava per ore e ore nello studio. Usciva e rientrava senza dare spiegazioni, spesso senza neanche salutare. Virginia divenne l’ombra che era stata Lucia. Spiava i movimenti dell’uomo amato e come sua figlia, rincorreva la fuga delle stanze alla ricerca di quell’affetto ancora conteso. Fu perdente. A nulla valse riproporsi giovane. Dormivano nello stesso letto senza neanche sfiorarsi. Gli anni passati insieme erano stati troppo pochi per concedere l’immortalità al sentimento. *** Uscire, uscire. Allontanarsi per non disturbare un dolore che ingigantiva invece di diminuire. Virgi32 nia si inventava impegni che non avevano nessuna importanza e tracciava percorsi sempre nuovi per perdere tempo fuori di casa. La strada come salvezza. Poi Lorenzo era morto. Il distacco era stato atroce. Pieno di rimorsi anche. L’aveva trovato Giovanna, che come era solita fare da quando non c’era più la sorella, entrava senza bussare con le chiavi che erano state le sue. Il portiere aveva indicato Virginia alla guardia che stava nell’androne e la donna, di ritorno da uno dei suoi giri insulsi, aveva capito che di sopra era successo qualcosa. Tutto divenne irreale. Giovanna che raccontava e raccontava e raccontava. E piangeva. Non la smetteva di piangere. La polizia con le domande. La pistola ai piedi del cadavere, Virginia sapeva che era conservata nel cassetto? E Giovanna ne era al corrente? Parlavano di suicidio. Neanche una lettera di addio. Era così immenso il dolore per la perdita della figlia da fargli dimenticare l’altra figlia? e la compagna che viveva con lui non contava proprio più niente? L’avevano portato via chiuso in un sacco di plastica grigia. La casa si era svuotata a notte inoltrata. Restò per fare compagnia a Virginia soltanto Laura, la mamma di Giovanna. Non si erano mai conosciute. Due donne che avevano contato nella vita di Lorenzo, due donne che lo avevano amato. Vegliarono la sua memoria parlando di lui, con riserbo, frapponendo alle parole lunghi silenzi. Il mattino le trovò amiche. *** 33 I giornali riportarono la notizia sulla Cronaca di Roma poi il caso si gonfiò e gli venne riservato uno spazio in prima pagina. Si sospettava l’omicidio. Sulla Beretta calibro 22 le impronte non erano chiare. La traiettoria della pallottola indicava un cammino diverso. Per Virginia la prova del guanto di paraffina. L’alibi che non aveva. Interrogatori che non finivano mai. Ma perché avrebbero dovuto ucciderlo? Dalle domande aveva tratto sospetti. Dalle notizie aveva tratto indicazioni. Nelle notti insonni la comprensione e il rispetto per l’uomo amato si trasformavano in rabbia. Chi era stato veramente Lorenzo? Ancora impersonò Lucia e divenne il segugio di un’ombra. Chissà se lei aveva capito? Le frasi raccolte origliando dietro la porta tornavano alla mente confuse, come tornava l’assurdità di alcuni comportamenti. Possibile? Un giallo. Povero Lorenzo, non era riuscito a mettere in pratica quei valori che aveva insegnato alle figlie, che chiedeva agli altri. Perché non si era lasciato aiutare? Le indagini imboccarono due strade. Una indicava Giovanna e il marito come maggiori indiziati. Il testamento, stilato appena pochi giorni prima, lasciava alla figlia la proprietà dell’appartamento di Roma, della villa di Gaeta, di azioni e obbligazioni depositate in diverse banche. La lasciava inoltre beneficiaria di una cospicua assicurazione sulla vita. I sospetti erano avallati dalla precaria situazione economica in 34 cui si era venuta a trovare la coppia in seguito ad alcuni investimenti sbagliati del dentista che aveva il pallino degli affari. L’altra strada era stata presa con cautela. Sulle perquisizioni fatte alla villa di Gaeta, la stampa aveva taciuto, ma si capiva che avevano portato a qualcosa di interessante. Alcuni interrogatori scossero il mondo imprenditoriale. Fu ascoltato un ministro e negli ambienti al potere ogni illazione diventò calunnia. Antonio Serra, l’amico di Lorenzo, uomo senza una precisa occupazione, era stato fotografo, giornalista, direttore di una rivista d’arte, ma con amicizie eccellenti, abilmente riuscì a depistare i sospetti. Soltanto i giornali continuarono ad accanirsi su di lui. Per gli inquirenti Virginia non doveva tenersi più a disposizione. Poteva andare. Ma dove? La casa in cui viveva non le apparteneva… Doveva fare presto. Far presto. *** Via dei Giubbonari era sempre piena di gente. Fruttava bene addossarsi all’angolo del largo dei Librai. Bastava ammucchiarsi nei goffi panni che la coprivano e gli spiccioli cadevano sul foglio di carta stropicciato e sporco che a Virginia serviva da piattino. Non c’era scritto nulla, ma le prime due monete le metteva lei per invogliare la gente a darle l’elemosina. 35 La barbona improvvisava la giornata dondolando sul sedere. Sembrava cantasse una nenia, invece accompagnava i pensieri che correvano dietro ai passanti. C’era una scuola elementare lì vicino e il via vai di mamme di bambini l’inteneriva, le ricordava i bimbi che aveva accudito. Li avrebbe voluti abbracciare tutti insieme, poi uno alla volta, come allora… Il prurito alla schiena la infastidiva e per farlo passare si alzava raggiungendo lentamente lo stipite di qualche portone e si strusciava con violenza quasi volesse strappare ogni indumento, poi, soddisfatta, tornava a sedersi nel solito angolo o raggiungeva la piazza di Campo dei Fiori, dove certamente l’aspettava Lorenzo con una rosa in mano. La rosa che la fioraia, forse riconoscendola, ogni volta che la vedeva passare le regalava. “Fiori in piazza e stelle in cielo… Armi per sparare. Pace. Guerra.” farfugliava facendo il gesto di allontanare qualcosa da tutt’intorno. “Schegge d’umanità. Bambini monchi… Cos’è in fondo un assassinio? Un suicidio d’amore. Qualcuno lo sa e deve parlare. Troppe rose nel fascio. Via, via le spine.” e cercava di ripulire il gambo ferendosi le mani. I piedi strusciavano sui sampietrini, lo sguardo vagava in cerca di lucidità. Virginia cercava gli occhi di Lorenzo negli occhi dei passanti. Cercava quel verde che l’aveva incantata. Qualcuno la guardava accennando un sorriso pietoso, altri passavano ignorandola. Quel verde così poco goduto, lei, che si era nutrita di cemento ed aveva conosciuto gli sprazzi di quel colore soltanto attraverso i buchi delle tendine ricamate dalla nonna. Foglie, foglie 36 di fiori e di frutti al mercato della piazza, da osservare, da mangiare. Chicchi colorati per sognare attraverso il ricordo. Spicchi di umanità. Opulenza e rigoglio della passione che ancora palpitava dentro. Il pensiero correva oltre i suoi passi, raggiungeva la sera senza che la donna se ne accorgesse e mentre lo scorrere delle ore cambiava la fisionomia dei passanti che crescevano di età con l’invecchiarsi del giorno, Virginia si rannicchiava al lato della chiesa di santa Barbara e continuava a sognare intrecciando il passato. In mano il cartoccio del baccalà fritto, quello che solo Marcello sapeva fare così buono e che da tutte le parti della città la gente veniva a mangiare all’aperto, in piedi, in fretta. Bollente che non si poteva tenere in mano. Quello che il proprietario della bottega le offriva ogni volta, quando si accorgeva della sua presenza, forse anche lui riconoscendola. Ecco, Lorenzo è lì a fianco, sorride, le toglie dalle mani il cartoccio bollente per non farla scottare. Lorenzo che si ferma davanti al portone della chiesa e mangia avido il suo baccalà, con un piede sul secondo scalino. Lorenzo. Rotolano sui sampietrini come nel grande letto della casa di Piazza di Torre Argentina e l’odore del fritto che esce dal negozio si mescola a quello del sudore. Ha mangiato troppo. Gli puzza il fiato. Virginia lo allontana. Il baccalà è ancora caldo. È buono. *** 37 Perdere la casa non sarebbe stata poi la fine del mondo per Virginia che ne aveva cambiate tante di case da quando era nata nella stessa città dove aveva sempre vissuto. Cresciuta in un nucleo familiare chiuso, ristretto alla vita semplice dei due genitori, i parenti erano tutti nei paesi d’origine, da piccola aveva partecipato poco alle effusioni d’affetto contenute dall’educazione rigida del tempo. Il padre, Vito Ferrin giunto a Roma da Treviso per essere assunto come archivista al Ministero dei Lavori Pubblici e la madre, Nunziatina Coppola, di Avellino, non erano abituati ad esternare le proprie emozioni. Uniti dal reciproco amore avevano formato una coppia affiatata ma schiva, poco aperta alle amicizie. La casa di via Montebello aveva visto nascere l’unica figlia, teneramente chiamata Ginietta, ma la bambina era ancora molto piccola quando si erano trasferiti in un altro appartamento. Di quegli anni la barbona non aveva ricordi, mentre della casa di piazza Dante con il corridoio largo largo e le stanze ampie, le era rimasto negli occhi il verde delle foglie dei platani che ornavano la via e che riempiva gli occhielli del ricamo fatto dalla nonna sulle tendine appese alla finestra della stanza da pranzo. La piccola passava le ore a guardare oltre quei buchi, oscillando la testa a destra e a sinistra per vedere entrare e uscire il verde dal ricamo, come se lampeggiasse, ma il gioco finì quando l’affitto troppo alto costrinse i Ferrin a cambiare casa ancora una volta. Erano gli anni della guerra. L’incertezza copriva il futuro anche per chi aveva un lavoro fisso. Nunziatina, Vito e la bambina anda38 rono ad abitare in via Messina, in un appartamento dove le proprietarie, due anziane signorine, si erano conservate, l’uso del salotto e della cucina, oltre alla propria stanza, lasciando a loro il bagno padronale, molto ampio. Se la coabitazione fu difficile per la giovane famiglia, Ginietta non se ne accorse. Era una bambina tranquilla, che parlava poco e passava il tempo giocando con la fantasia e quelle due anziane signorine che le regalavano ogni tanto una caramella, bastavano a distrarla dalla monotonia della vita di tutti i giorni. Appena arrivati gli alleati a Roma, Nunziatina, volle dare dignità alla famiglia e cercò nei dintorni una diversa sistemazione. Trovò un piccolo appartamento in piazza Alessandria. Le finestre affacciavano sul mercato dove si apriva anche il portone. Virginia dormiva nella stanza da pranzo in una poltrona letto che di giorno arricchiva l’arredamento. Il frastuono che saliva dalla strada e il vocio della gente con il rumore dei motori dava il ritmo ai movimenti della famiglia. Il primo ad uscire era il padre svegliato dagli ortolani che scaricavano la merce. Scendeva lento le scale accompagnato dalle loro grida. Assonnato e infelice. Il lavoro non lo aveva mai soddisfatto e la malinconia che si portava addosso non nascondeva la sua tristezza. Poi usciva Virginia, spronata dai richiami dei venditori, saltellava sugli scalini contenta di andare a scuola. Ultima la madre. Faceva la spesa appena prima che le bancarelle chiudessero, quando gli ambulanti svendevano la merce per invogliare agli acquisti di fine giornata. Le difficoltà affrontate durante la guerra ancora spronavano tutti a fare economie. 39 Piazza Alessandria era vicina al Piazzale di Porta Pia, la famosa porta, detta Pia dal nome del papa, Pio IV, che nel 1564 l’aveva fatta ricostruire sui ruderi dell’antica porta Nomentana. Lì Ginietta veniva portata a passeggiare, ma nessuno le aveva raccontato che era stata disegnata da Michelangelo. La ragazzina era affascinata dal gioco delle automobili che passavano intorno alla Porta come fossero girandole di latta. Le sarebbe piaciuto averne una tutta per sé, come le sarebbe piaciuto conversare con quel soldato con le piume sul cappello, che nella posizione della corsa restava immobile al centro della piazza. Soltanto un monumento per lei, ma dedicato ad un anonimo bersagliere, in memoria della Presa di Roma di cui lei non conosceva la storia. Possente e vigoroso, il bronzo aveva accompagnato i sogni della sua prima adolescenza, ma anche le prime delusioni dell’infanzia quando passeggiando con la manina in quella del padre chiedeva insistente “…e perché non suona la tromba?” e lui le rispondeva sempre la stessa frase “Perché l’ha già suonata” accennando un sorriso che era sempre uguale. Appena le vibrazioni della nascente sessualità incominciarono a farsi sentire, fu quel corpo maschio a ispirare i suoi sogni. Si incantava a guardarlo sentendosi turbare e più di una volta era stata sul punto di finire sotto un’automobile distratta dal sorgere di un giramento di testa accompagnato da uno strano languore. La Roma di Virginia era quindi una Roma che si viveva e basta. Troppi gli affanni della sopravvivenza per dare spazio al racconto della storia e dell’arte. 40 I monumenti e le fontane facevano soltanto da riferimento ai luoghi dove ci si doveva recare e quando da bambina li sentiva nominare oppure ne sentiva parlare con entusiasmo da qualcuno, non ne capiva l’importanza ma si vergognava a chiedere spiegazioni. Per questo confondeva la fontana di Trevi con quella dell’Acqua Felice a largo di Santa Susanna, e passandoci davanti si chiedeva cosa ci fosse di così bello in quell’enorme statua con le corna, meravigliandosi che quei leoni senza grazia che la rifinivano potessero essere oggetto di tanta ammirazione. Le piaceva e molto, invece, la graziosa finestra che si apriva a fianco della fontana. Le ricordava le favole e i racconti. Immaginava di vivere dietro quei vetri antichi e di affacciarsi, con le treccine diventate bionde, pronta a sorridere all’ignoto bersagliere che dal monumento di Porta Pia le confondeva i sensi. Adolescenza! Suono di trombe e di organi festivi. Speranze e sogni. Il bersagliere muto l’avrebbe raggiunta per abbracciarla. *** Uscì sposa sulla piazza una mattina di aprile e tutto il mercato si fermò per ammirarla. Il vestito era una nuvola bianca presa in prestito. La mamma di Virginia aveva imparato a fare le iniezioni. Non era diplomata infermiera, ma aveva una mano così leggera da essere richiesta da molte persone nel quartiere. Passava di casa in casa guadagnando quei soldi 41 che le assicuravano una vita più confortevole di quel che il magro stipendio del marito permettesse. Il pensiero del matrimonio della figlia le dava molta agitazione. Avrebbe voluto una cerimonia fantastica. Avrebbe voluto quello che lei non aveva avuto, sposata in fretta, con i genitori contrari alle nozze ed i suoceri che l’avevano accettata con indifferenza. Iniziò a comperare lenzuola e asciugamani per completare la dote, ma per l’abito da sposa non sapeva proprio come fare. Fu la contessa Vergano, una delle sue pazienti, che le venne in aiuto prestandole il vestito della figlia. L’anziana signora, costretta a letto da una dolorosa artrite deformante, aveva stabilito con Nunziatina la confidenza che nasce dalla continuità degli incontri. Aveva seguito attraverso i racconti della donna il fidanzamento della ragazza per la quale provava la tenerezza accondiscendente che si nutre verso chi è più povero o più infelice, una giovanetta timida che arrossiva in fretta e quel rossore improvviso che le coloriva il viso lo avrebbe voluto vedere sulle gote di sua figlia, sicura di sé, audace nei discorsi e impertinente con i parenti. L’abito sembrava disegnato apposta per Virginia anche se la sontuosità che Schubert aveva messo nel crearlo non si addiceva alla semplicità della cerimonia e del rinfresco offerto a pochi intimi Una favola! Il giovane marito però non era principe, né assomigliava al bersagliere di Porta Pia e la fidanzata non aveva poi palpitato così tanto per tenerlo fra le braccia. La finestra a fianco della brutta fontana non era stata complice dell’amore come non lo erano state le trecce brune tagliate per far posto alla permanente. Era stata la mancanza del42 l’ascensore nel palazzo dove abitava Virginia che aveva sorriso ai giovani e sul ballatoio dove nascevano i rapporti di buon vicinato, quel ragazzo che andava a fare lezioni private al figlio della signora che abitava a fianco, aveva incuriosito la ragazza. Le pareti dell’androne, ancora scrostate dalla miseria della guerra, assorbirono il respiro del sentimento. Lui salendo faceva gli scalini a due a due, lei scendeva saltellando. Si sorrisero e fecero in modo di aspettarsi sul portone per uscire insieme. Il giro della piazza per sfiorarsi la mano. Un saluto affacciati alla ringhiera per essere felici. Quando la mamma di Virginia lo invitò ad entrare sentirono suonare tutti i campanelli. *** L’appartamento dove gli sposi andarono ad abitare, a pianterreno di una palazzina appena costruita, al limite della città, nel quartiere di Monteverde Nuovo, era stato scelto perché l’affitto, economico rispetto alla modernità dei servizi, garantiva quel benessere che nella società si incominciava a ricercare. La casa era circondata da un giardinetto metà pavimentato, metà in attesa delle piante. Le finestre basse ed il soffitto che quasi si toccava avrebbero dovuto cullare i vagiti d’amore della coppia, ma Carlo De Rossi, il marito di Virginia, dell’amore aveva un concetto assai discreto. Appena assunto come impiegato alla Centrale del Latte si era voluto sposare spinto dai genitori che avevano un concetto assai tradizionale della fami43 glia e incitato dalla madre e dal padre della ragazza che lo trovavano “tanto bravo e con una posizione così buona…” Il viso, di una bellezza tranquilla, era illuminato da grandi occhi azzurri e dava al corpo esile, non alto, un aspetto per bene. La dolcezza e il rispetto che aveva dimostrato nei confronti della ragazza avevano conquistato la sua fiducia. Era diventato un amico e per lei che di amiche non ne aveva mai avute, trovare chi l’ascoltava, ma soprattutto chi si interessava ai suoi discorsi, fu motivo d’amore. Molte notti passarono prima che i modesti approcci di Carlo diventassero appena qualcosa di più. Molti giorni passarono prima che Virginia si rendesse conto della verità. Educata a non prendere in considerazione il sesso, attenta alle parole della mamma che intercalava i discorsi con “ eh, gli uomini… ci vuole pazienza…” e con la scuola che aveva continuato ad insistere soltanto sul valore delle virtù tipicamente femminili, si era concessa con la sottomissione che le avevano insegnato. Il diploma di maestra d’asilo l’aveva aiutata nell’essere comprensiva e non si rendeva conto di quanto le spettasse come moglie. Era stata comunque orgogliosa di poter diventare signora e quando nei negozi la chiamavano signorina, gesticolava con la mano sinistra per far vedere la fede. “E un figlio non lo fate?” insistevano i parenti. La domanda coloriva le guance di Virginia. La numerosa famiglia da cui proveniva il marito avrebbe voluto aggiungere subito un nipotino alla folta schiera di bambini messa al mondo dai fratelli e dalle sorelle, tre maschi e tre femmine, tutti più 44 grandi di lui. I De Rossi avevano lasciato Bucchianico, nelle Marche, appena finita la guerra, per stabilirsi a Roma ed ogni figlio che si sposava non si allontanava molto dalla casa dei genitori, ai limiti di Monteverde Vecchio, per ricreare quel modo di vivere pieno di complicità, aiuto reciproco e affetto che si sviluppa in un piccolo paese. Virginia, pur gradendo le loro attenzioni, si comportava in modo schivo, poco abituata all’eccessivo coinvolgimento che spesso unisce e caratterizza le famiglie numerose. Fu Vito Ferrin a capire che qualcosa nel matrimonio della figlia non andava. Riuscì a ottenere timide confidenze e consigliò al genero un bravo medico. Non furono gli anni che avrebbero dovuto essere. Non portarono bene alla coppia. La mamma di Virginia si ammalò di un brutto male. Il padre, cagionevole di salute, se ne andò stroncato da un edema polmonare. Medici e medicine distrassero la ragazza dai problemi coniugali. Quando si trasferì dalla madre per assisterla, Carlo approvò la decisione con sollievo. Le ore passate al capezzale della donna morente riempivano di tristezza la giovane sposa e quando la poveretta si addormentava, imbottita di morfina, restava immobile, attenta ad ogni fruscio, perdendosi nei pensieri. Pensieri di un tempo. Sommessi, come se fossero tangibili, mentre il soffitto buio si illuminava di strisce saettanti, lente, che le automobili riflettevano passando ignare di quello che avveniva nella stanza. Come passava la vita! La sua era ancora all’inizio e le sembrava già troppa. Guardava le strisce luminose con lo stesso inte45 resse di quando era bambina e dalle persiane chiuse lasciava entrare il sogno del bersagliere muto. Ma muto era l’amore. La luce lentamente attraversava il soffitto lasciandolo poi nudo. Sul riflesso delle automobili faceva scivolare i desideri di moglie, di madre, di figlia. Luce ed ombra. Ombra senza luce. Riflessi che come lei erano incapaci di procurare una qualsiasi reazione. Avrebbe voluto morire, come stava facendo la madre. La mancanza del padre non l’aveva turbata. Un uomo di carattere chiuso, che quando stava in casa parlava poco… Soltanto dopo che se ne era andato le tornava alle orecchie la sua voce. “La mia Genietta… la mia Genietta”. Poche parole per racchiudere i sentimenti che non era riuscito ad esternare in vita. Genietta, genio. Non era ironia la sua, ma affetto. Virginia era stata una bambina tranquilla, bravina a scuola, senza però mai essersi distinta in nessun campo. Certo non era stata un genio, ma il papà si ostinava a crederlo. “La mia Genietta…” Aveva accontentato i genitori o li aveva delusi? Non se lo era mai chiesto, non lo sapeva. Loro non le avevano mai fatto capire ciò che pensavano, sempre pronti a soddisfare le sue richieste che non erano capricci, ma soltanto desiderio di piccole cose un po’ diverse da quelle che si avevano intorno o da quelle che si dovevano fare. Li avrebbe rimpianti? Di certo si sarebbe sentita più sola. *** 46 Il tempo si trascinava nell’appartamento di Monteverde Nuovo senza segnare alcun cambiamento. Carlo evitava ogni discorso riferito ai rapporti intimi e Virginia passava le giornate in compagnia di Roca, una bastardina che doveva il suo nome al modo di abbaiare. Era entrata nel giardinetto senza essere invitata e quando nacquero sette buffi cagnolini, delizia dei passanti che si fermavano a scommettere sulla loro razza, Virginia si sentì viva. Passava le ore osservandoli, puliva il giardino, la cuccia, riempiva le ciotole di latte improvvisandosi mamma. Attirata dal profumo dell’affetto anche una gatta randagia venne a partorire nel giardinetto, ma dal lato opposto, per non essere disturbata. Nacquero cinque micini che miagolavano in continuazione, chiedevano latte, tanto latte anche loro. Latte. Latte per nutrire i cuccioli affamati. Latte che lei non poteva avere. Latte da prendere in prestito. Come il vestito da sposa. Chiese aiuto a Mario, il cognato, che conduceva un camioncino della Centrale addetto al rifornimento delle latterie nel centro di Roma. Mario voleva molto bene alla coppia, un bene da fratello maggiore, carico di bonomia e nello stesso tempo di autorità, era stato lui a fare assumere Carlo come contabile nella azienda dove lavorava da anni e tra lo scherzoso e il serio non mancava occasione per ricordarglielo. “È fatto così, non lo fa apposta…” lo difendevano i parenti. Quel comportamento però metteva anche Virginia in imbarazzo, la faceva sentire come il marito, inferiore, dipendente… ma poi quando suonava il clacson allegramente e appoggiava i cartoni 47 pieni di latte sul muretto scherzando sulla quantità di mammelle che aveva dovuto strizzare per accontentare tutti quei cuccioli, alla cognata veniva voglia di essere allegra. Mario aveva gli stessi occhi azzurri di Carlo con una vena di viola che li rendeva più intensi. Lo stesso sorriso, ma più rapido, pronto ad esplodere. Il corpo massiccio sprigionava quella vigoria che Virginia avrebbe voluto trovare nel marito. Una chiacchiera, un caffè, una battuta con quell’accento marchisciano che distingueva la parlata di tutta la famiglia e la giornata sembrava poi meno noiosa da passare. Divenne un gioco fare insieme le consegne. ”La mia lattaia” scherzava lui sfiorandole con le dita la guancia come si fa con una bambina. “Il mio autista” rispondeva lei sentendosi avvampare. Avvenne alla fine dell’estate, oltre le case, su un prato, a mezzogiorno. Raggiunsero l’ombra di un leccio. Fu il battesimo dell’amore. *** Dopo la morte della madre Virginia si era presa soltanto pochi pezzi del mobilio di famiglia, quelli a cui era più affezionata e che sarebbero potuti entrare nella sua casa arredata, come voleva la moda, con mobili svedesi. Le era dispiaciuto dar via la stanza da letto stile Chippendale, che era stato il punto di riferimento suo e dei genitori e le cui venature del legno l’avevano fatta sognare come se avesse davanti un mappamondo. La vec48 chia poltrona che completava l’arredamento e dove gli ultimi tempi la signora Nunziatina passava dolorosamente le ore, la lasciò coperta dalla fodera di cretonne a fiori cucita dalla mamma e la appoggiò in un angolo del saloncino. Al cassettone della nonna, che l’aveva vista crescere insieme a una parte del corredo conservato nei cassetti, trovò posto nella parete di fronte alla porta d’ingresso. Aveva voluto portare via anche la scrivania regalatale dal padre, ma soltanto perché piaceva a Carlo. Era un tavolino piccolo, più basso del normale e lei ci stava rannicchiata davanti sulla sedia di legno a cui avevano fatto segare un pezzo delle gambe per abbassarla. Mise la scrivania nella stanza da letto e buttandoci sopra una tovaglia ricamata ottenne una buffa toilette senza specchio. Gli altri ricordi di famiglia, erano entrati in una cassa che aveva appoggiato in cantina. Il resto lo aveva regalato a una vicina di casa che frequentava la parrocchia e che aveva alzato gridolini di gioia nel portarsi via, come se fosse in processione, l’arazzo della Madonna di Pompei, che aveva ornato il capezzale del letto dei genitori. Sposi formali, il passato e il presente si strinsero nel nido d’amore senza allacciare fiocchi. La casa, priva di un patriarca, divenne sempre più stretta per la giovane donna che passava ore e ore seduta sulla poltrona della madre, alzandosi soltanto per accarezzare il mobile della nonna come se fosse una persona viva. Inquietudine. Malinconia. Turbamento. Pensieri, pensieri erranti, pensieri d’amore. Di cuore. Di vitalità che non voleva essere repressa. 49 Prigioniera di una adolescenza allungata sentiva il bisogno di crescere. Un foglio di carta trovato per caso la spinse a disegnare il percorso dell’anima. Da prima segni sgarbati, ripetitivi, ossessivi. Poi parole accatastate senza verbi, infine frasi che non erano poesie ma potevano esserlo. Comperò un quaderno. Venne fuori un diario che diario non era, anche se puntigliosamente annotava il giorno e l’ora in cui lo riponeva. Il mobile della nonna le venne in aiuto come nascondiglio e come quando bambina infilava tra gli asciugamani una caramella da conservare o qualche pezzo di una bambola rotta, così il quaderno trovò posto tra le tovaglie ricamate. Non seppe mai come il segreto sgusciò da quel cassetto, ma Carlo cambiò atteggiamento. La sensibilità che si accentua nei deboli e nei sofferenti lo rese partecipe. A suo modo cercò di combattere. Di notte la stringeva al petto senza aggiungere altro, al mattino la salutava con più effusione. Le portò un mazzo di margherite gialle, tornò con il gelato al pistacchio che a lei piaceva tanto, una scatola di biscotti, un vassoio di bignè farciti al cioccolato. Ma Virginia non volle tornare ragazza. Ricominciò a passare le ore guardando il soffitto spento. Le saracinesche non permettevano ai riflessi di giocare con le luci e lei non voleva più giocare con le ombre. Le si richiuse il cuore. Teneva in grembo gatti e cani come fossero orfani. Non più latte, ma lacrime e carne per nutrirli. La famiglia incombeva. Mario era dovuto uscire dalla sua vita. Il quaderno impresse sulle pagine l’alone del dolore. Roca che le scodinzolava intorno, non era festosa. 50 Doveva fare qualcosa. Decise di andare via e con la stessa ostinazione con cui aveva ripetuto la Tavola Pitagorica che non voleva entrarle in testa, imparò a stenografare e a scrivere a macchina. Trovò una famiglia per ogni cucciolo, e come una madre coraggiosa, ogni volta che ne consegnava uno, cercava di reagire al dolore sorridendo. Ma alla faccia livida di Carlo che l’aiutava a salire sul taxi con le valige in mano, non riuscì a sorridere e si buttò sul sedile affranta, senza piangere. *** Aveva 27 anni Virginia e pur sentendosi già vecchia la gioventù che sopiva in lei aveva voglia di svegliarsi. La nuova vita le si aprì piena di speranze e nello steso tempo vuota. Anche se modesto, l’impiego trovato nello studio di un notaio la fece sentire importante, capace di provvedere a se stessa. Finalmente Virginia. E anche se si presentava ancora con il cognome del marito capiva di essergli appartenuta soltanto per quella parte di animo che appagava l’istinto di moglie e di madre. Carlo si era comportato da signore. Aveva sostenuto le spese legali per la separazione e il milione e mezzo che il giudice le aveva assegnato in sostituzione dell’assegno mensile, le era sembrato una somma che non doveva finire mai. Si era trasferita da Maria Rosa, una studentessa di 51 giurisprudenza, che faceva pratica dal notaio Roggi dove era stata assunta come dattilografa. La ragazza le aveva offerto di dividere la stanza a due letti che abitava ospite pagante di una vedova. La soluzione non era quella sognata, ma le avrebbe permesso di spendere poco e di stare in compagnia. Cambiare quartiere fu come cambiare città. Il palazzo si trovava in via Agrigento, non lontano dall’università. Una zona abitata da professori e dignitose famiglie che arrotondavano le entrate affittando le camere agli studenti. Virginia percepiva l’umore delle strade come non le era mai capitato. Lo sentiva diverso da quello assorbito nei due quartieri in cui aveva vissuto fino a quel momento. Da ogni passante, da ogni palazzo acquisiva l’esperienza della novità. Non aveva mai osservato Roma in quel modo, attenta a ciò che si custodiva nelle case, a ciò che dietro ogni muro, ogni negozio si nascondeva. Un modo nuovo per sentirsi viva. Anche la gente le sembrava diversa, nel vestire e nei movimenti, come era diversa l’architettura dei caseggiati, il tracciato delle vie. La giovane donna si guardava intorno per entrare in ogni cosa, come se fino a quel momento non fosse stata capace di farlo, osservava le persone che incontrava per intrecciare pensieri e fantasia. I discorsi sul mangiare, sui soldi, sui vestiti che sentiva nei negozi, la incuriosivano come dicessero cose a cui non aveva saputo fare caso. Con gli amici di Maria Rosa si trovava bene, riempivano gli incontri di scherzi e risate. I riferimenti alle lezioni appena ascoltate, le citazioni colte le facevano rimpiangere di non aver potuto studiare di più, ma la vitalità che usciva dai 52 discorsi di quei ragazzi le toglieva ogni malinconia. Dell’amica era entusiasta. Si era stabilito tra le due donne quel rapporto intimo che nasce dal parlare di uomini e d’amore e anche se Maria Rosa aveva meno anni di lei, la spigliatezza che dimostrava nei confronti delle cose della vita, l’affascinava. Le origine diverse arricchirono l’intesa. Maria Rosa era di Locri. Ultima figlia di un ricco proprietario terriero, stava soddisfacendo le ambizioni dei genitori che volevano tutti i figli laureati e in lei, unica femmina, volevano vedere realizzato il nascente sogno della parità. Ma la tradizione meridionale era più forte di un padre illuminato e l’aveva già fidanzata ad un giovane del luogo con l’avvenire assicurato nella farmacia di uno zio senza eredi. La studentessa viveva questo contrasto benissimo, amoreggiava al telefono con Vincenzo, il promesso sposo, facendo pagare ai parenti conti salatissimi e civettava in facoltà facendosi corteggiare anche dai colleghi più timidi. Lo studio naturalmente ne risentiva come ne risentiva il lavoro, ma al notaio era stata raccomandata da un parente magistrato e lui chiudeva un occhio. Virginia tornò ragazza come non lo era stata mai. Mangiava insieme agli studenti in una trattoria a buon mercato dove la padrona chiamava tutti per nome ed i cibi ricordavano i pranzi di famiglia. Il marito, che serviva a tavola, avrebbe potuto essere scambiato per uno scienziato pazzo. Aveva pochi capelli, ricci, troppo lunghi e spettinati per ornare il cranio di un ristoratore, e se nel modo di vestire scimmiottava gli intellettuali, nel modo di fare 53 scimmiottava i professori. Non segnava mai le ordinazioni, la sua ottima memoria gli consentiva di ricordare le portate senza fare confusione e si sedeva alla fine dei pasti, al tavolo dei clienti, entrando nei loro discorsi per dare sfogo ad una cultura acquisita che non ci si sarebbe aspettata da lui. Virginia lo guardava affascinata, mentre gli altri si divertivano a farlo cadere in banali errori per potergli dare alla fine il voto come se fosse stato uno studente agli esami. Si tirava a far tardi la sera, ma lei ad una certa ora era presa da una smania strana e scappava via, lasciando Maria Rosa con gli amici, e girava per le strade allungando il cammino fino ad arrivare eccitata e stanca davanti al portone di casa. Saliva le scale senza prendere l’ascensore, poi in camera, dove il letto a fianco invocava compagnia, si girava e rigirava tra le lenzuola e il calore dei ricordi d’amore avvampava facendole sentire le mani di Carlo che le accarezzavano il viso mentre quelle di Mario cercavano il suo corpo. Nessun uomo era riuscito a interessarla da quando aveva chiuso la relazione con il cognato e si era separata dal marito. Gli studenti, tutti più giovani, la trattavano con bonomia. Qualcuno la corteggiava, ma era lei a voler stare appartata sentendosi addosso la condizione di donna sposata e separata come se fosse un infamia. La storia con Mario aveva ingigantito i suoi sensi di colpa e soltanto con Maria Rosa riusciva a parlarne, ma sempre con molta ritrosia. Convinta di non essere bella, dava sfogo all’inconscia vanità mettendosi davanti allo specchio quando nessuno la guardava. Si pettinava i capelli con bizzarre cotonature 54 e azzardati chignon, per poi uscire con i capelli sciolti, naturali come erano, castani, tendenti al biondo, morbidi e vaporosi. Vestiti ne aveva pochi, di taglio e fattura semplice. Per fortuna l’ambiente di lavoro richiedeva serietà, non eleganza, e fuori gli studenti non facevano caso al suo abbigliamento. L’espressione del volto non esprimeva gioia. I lineamenti piccoli pur non essendo insignificanti, non erano eccessivamente belli. La mancanza di trucco la rendeva un po’ scialba. Una ragazza tranquilla si sarebbe detto, come tante, che dimostrava meno anni di quelli che aveva, con una figura un po’ piena, ma fatta bene. Colpiva il portamento, molto aggraziato, il seno in fuori, le spalle dritte e il modo di appoggiare i piedi, come se stesse per spiccare il volo, con le braccia che seguivano i movimenti del corpo staccandosi dal dorso. A chi le faceva un complimento ancora rispondeva arrossendo. *** Stipule e contratti, passaggi di proprietà e autentiche. Virginia non ne poteva più di battere a macchina sui fogli di carta da bollo. I testi erano sempre uguali, cambiavano soltanto i nomi. Che noia! Una mattina di primavera, di quelle che invitano a uscire dai portoni, il risveglio della natura si fece sentire anche per lei. Non riusciva a focalizzare il pensiero sulla velocità dei tasti della macchina da 55 scrivere elettrica, appena comperata e vanto dell’ufficio. Le parole, una dietro l’altra, scappavano via piene di errori. “…propone quindi di affidare l’amministrazione della Società a un Coniglio di Amministrazione”… Coniglio… Cercò di cancellare l’errore. Si mise a ridere. Coniglio… Perché non lasciarlo? Le venne voglia di giocare e così ogni volta che capitava di scrivere “Consiglio di Amministrazione” quella seria assemblea descritta sul foglio protocollo si trasformava in un grazioso animaletto. Le conseguenze furono disastrose. Il notaio che aveva un carattere autoritario, permaloso e quindi privo di ironia, interpretò il ripetersi dell’errore come una terribile mancanza di rispetto. Si era accorto del consiglio-coniglio soltanto durante la lettura ufficiale dell’atto e chiamata Virginia, per dimostrare la serietà dello studio al cliente, l’aveva rimproverata invitandola a rimanere a casa dove sicuramente le sarebbe riuscito meglio lavorare a maglia la “calzetta”. Virginia inghiottì l’amarezza e la risposta e quando accompagnò alla porta i membri del Consiglio di Amministrazione appena costituito, il più simpatico dei tre soci, l’unico che aveva sorriso durante la lettura dell’atto, le mise in mano il suo biglietto da visita dicendo “Mi venga a trovare… nella tana naturalmente.” Elogio dello scherzo. Virginia rimase interdetta, ma non equivocò l’invito e l’occhiata piena di comprensione e complicità che l’uomo le rivolse, riuscì a rincuorarla. 56 *** Ricominciare. Ancora una volta. Sarebbe stata l’ultima? La giovane donna decise di concedersi un periodo di riposo. Le sarebbe servito per capire meglio cosa avrebbe voluto fare e poi l’idea di passare le giornate come ai tempi del matrimonio, senza far nulla, se da un lato la spaventava dall’altro l’attirava. Non più gatti, né cani. Non c’era bisogno di latte. Il coniglio birichino aveva prolificato cuccioli senza fame. Ironia. Ironia, soltanto ironia spruzzata di latte. Latte colorato dai soldi. Aveva a disposizione ancora tutta la somma di Carlo, poteva permettersi l’ozio. Volare. Volare con la fantasia alla ricerca dell’impossibile. Per sentirsi più viva. Potente. Indistruttibile. Perché non gettarsi nella mischia? Fare e ancora fare, qualcosa di diverso, di divertente, di strano… E via con i sogni… Avrebbe potuto prestare i soldi a strozzo, dicevano che all’università c’era un certo movimento… ma il suo rapporto con i conti era pessimo… Avrebbe potuto diventare una ladra… ma era allenata soltanto a rubare qualche foglia di insalata dal frigorifero della padrona di casa… Perché non fare la prostituta? Aveva saputo di un certo giro di studentesse che prestavano i loro favori a docenti e professionisti… avrebbe così risolto anche i suoi desideri più nascosti… si, desideri nascosti… fare l’amore… l’amore… ma non era una studentessa e non aveva poi una grande dimestichezza con gli organi genitali… Che fare ? di nuovo un triste impiego? 57 Un corso di ballo e diventare ballerina? Da piccola danzava davanti allo specchio e la mamma la lasciava fare… la mamma… che avrebbe detto la mamma? Aprire un negozio tutto suo… ma di che? Si accorse di non avere un preciso desiderio. Continuò nell’elencare mestieri e professioni da cui però non era attratta. Che scialba vita era la sua! Ed il capire che non sapeva cosa avesse voluto le accentuò il desiderio di un uomo accanto pronto ad abbracciarla, a proteggerla, a dirle anche cosa doveva fare, dove dover andare… Dipendere da lui… Avrebbe voluto essere un cucciolo. Si un cucciolo. Invece “doveva darsi una mossa” come le ripeteva Maria Rosa e lei si infastidiva nel sentirselo ripetere. Aveva rifiutato persino l’invito di recarsi in Calabria con lei, per non discuterci, e rimasta sola aveva ricominciato a confidarsi con le pagine bianche del vecchio quaderno. Loro l’avevano aspettata. Loro non l’incitavano a reagire. Loro l’accettavano così come era. Loro. La penna graffiava i fogli ed i sogni li addolcivano. Voleva tornare fanciulla come era stata, ignara della vita, per vestirsi di fiori, per volare sopra le strade della città e chiamare la gente perché ascoltasse i suoi lamenti e la portasse via, nel vortice di una corsa che non doveva finire mai. Raccontava ai fogli di cubi e di cilindri che diventavano rettangoli. Raccontava di alberi trinciati dal cemento, di cuori allineati per farsi scannare. Di pianti e di grida accorate. E gli animali le andavano incontro per leccarle le mani e lenire il dolore che diventava sempre più confuso mentre i bambini le giravano intorno crescendo più in fretta di lei, lasciandola indietro, piccina, senza né madre, né padre, né 58 alcun parente. Tristezza, non più fantasia. Le giornate passavano e non succedeva nulla. Si spostava dalla finestra della sua stanza alla finestra della cucina e la padrona di casa, sempre con i bigodini in testa, continuava a mischiare le carte del solitario allineandole poi sul piano del tavolo come se Virginia non esistesse. La donna non aveva mai visto di buon occhio “la signora”, come chiamava l’inquilina, forse perché non pagava un affitto adeguato allo spazio che occupava, ma non si azzardava a chiedere aumenti a Maria Rosa che la teneva buona regalandole parte delle leccornie che la madre le mandava tutti i mesi insieme a laute mance che, sempre la madre, le raccomandava di consegnare come un piccolo riconoscimento per le cortesie fatte alla figlia. Giorni e giorni passati senza scopo finché un annuncio sul giornale, letto svogliatamente, la costrinse a riflettere. “Signorina diplomata maestra d’asilo cercasi per assistenza kinderheim”. Lei era diplomata maestra d’asilo… che fare? La parola straniera la spaventò. Non ne conosceva il significato. Mise il giornale da parte. Poi lo riprese e telefonò. *** Raramente usciva dal cancello di via Adelaide Ristori 24, una piccola strada dei Parioli. Aveva tutto ciò che le serviva per la sopravvivenza e di altro non sentiva il bisogno. Il kinderheim, un asilo privato, le aveva aperto la porta. Una fortuna quel posto. Virginia era piaciuta alla signora che lo ge59 stiva. Tra loro era nata una immediata simpatia e la donna per venirle incontro le aveva offerto di trasferirsi nell’appartamento che era grande abbastanza da lasciare una stanza a disposizione dell’assistente appena assunta. “Non si offende vero? Se c’è lei, con quel che c’è in giro, almeno l’asilo è sempre controllato … Per il mangiare poi si può arrangiare con quello che rimane dai bambini, non voglio mica essere pagata per questo.” Virginia aveva accettato piena di entusiasmo anche se lo stipendio non era dei migliori. I piccoli clienti sarebbero arrivati a ottobre ed un gruppo di operai stava finendo di ripulire l’interno rendendolo fresco e vivace. Una fila di pupazzi disneyani correva in girotondo per limitare lo zoccolo dipinto di azzurro. La cucina era ricoperta di mattonelle bianche. La stanza che avrebbe abitato, Virginia la volle sfumata di giallo e dato che era abbastanza grande l’avrebbe riempita con le sue cose rimaste ancora nella casa di Carlo che le aveva permesso di lasciarle lì fintanto che non avesse trovato una sistemazione adeguata. Non incontrava il marito dal momento della separazione in tribunale. Fu l’occasione per rivederlo. L’appartamento dove aveva vissuto da sposa aveva assunto l’aria appannata che viene a formarsi nei luoghi poco frequentati. La scrivania regalatele dal padre, spogliata del drappo ricamato, era carica di fogli. La sedia, con sopra un cuscino schiacciato, sembrava ancora più bassa. Una grande tenerezza invase Virginia per quel piccolo tavolino e per quel piccolo uomo che certamente rincorreva l’infanzia rannicchiandosi davanti ad un mobile che non era 60 stato mai suo. Chi lo aveva reso così fragile? Così indifeso? Presa dall’ingenuità dell’ignoranza non se lo era mai chiesto, eppure quell’uomo l’aveva amata a suo modo. E molto. Le venne voglia di abbracciarlo, di chiedergli scusa e invece “la puoi tenere” disse “tanto a me questa scrivania non serve” e si sentì stupida. Cattiva. Carlo la seguiva con imbarazzo mentre lei continuava a spostarsi per la casa. Quando uscì, richiuse la porta alle spalle di Virginia senza fare rumore. L’odore che aveva sentito entrando accompagnò la donna nel viaggio di ritorno. Le cose da trasportare erano poche e per l’occasione aveva affittato uno di quei camioncini vecchi e traballanti, a tre ruote, che non costano molto. Era salita a fianco dell’autista per indicargli la strada. La giornata, carica di vento, usciva da un cielo limpido come non mai. L’aria era fredda e mano a mano che la velocità aumentava, entrava nella fodera della poltrona della mamma, rendendola simile ad una mongolfiera nelle cui frange, sporcate dal tempo, passava l’aria trasformandosi in danza. Il cassettone della nonna era avvolto da una coperta lisa che svolazzava scappando dalla corda. Anche all’autista la tramontana imponeva le sue folate. Correva a balzelloni intrufolandosi nel traffico come se accompagnasse il movimento del vento. Virginia sobbalzava a ogni buca e lo fissava con lo sguardo tipico di chi ha paura. “Nun se preoccupi signò, c’è nn’angelo che ll’arregge…” ripeteva a intervalli l’uomo mentre cambiava le marce. 61 Il cassettone della nonna si sbilanciò inginocchiandosi all’ultima frenata, la fodera della poltrona della mamma si afflosciò davanti al cancello del kinderheim. Virginia scese frastornata con ancora l’odore della casa di Carlo nelle narici. Nelle orecchie il silenzio della porta che si chiudeva delicatamente alle sue spalle. Andrea, Elisabetta, Giusy Daniele, Marco, sarebbero stati i nuovi cuccioli da allattare. Per loro avrebbe scritto storie fantastiche, li avrebbe abbracciati, accarezzati, avrebbe ricevuto in cambio moine ed affetto. Le sarebbe bastato? Sedette rigida nella poltrona della mamma senza cantare. La notte non riuscì a dormire. Lo sgomento che si prova quando intorno tutto è nuovo e soltanto qualche oggetto riporta al passato, la disturbava. Il vento esasperava i rumori. Come una sonnambula prese a spostarsi alla ricerca del futuro. Aveva chiuso una porta, aveva fermato una persiana che sbatteva, aveva aperto le valige e alla cassa dei ricordi si era appoggiata per concludere la nostalgia. Continuò il giro. Le piccole sedie e i tavolini bassi non le fecero provare la tenerezza che avrebbe voluto. Si era assopita non appena il silenzio aveva vinto il rumore del vento, ma il sonno era stato breve. Fissava la lampadina accesa e nuda per sentire dolore negli occhi, per capire che era viva e quando l’abbaglio le aveva riempito di troppi colori la vista, era stato il cinguettio di un uccellino a darle coraggio. Il kinderheim aprì le porte un lunedì. Nel giardino che correva intorno alle stanze c’era ancora qualche fiore. Gli alberi facevano capolino dalle ville a 62 fianco, ma avevano già indossato i colori dell’autunno. Virginia si vestì di lana. Gli uccellini continuarono a svegliarla poi furono azzittiti dall’inverno. Al mattino la casa era fredda e il latte caldo, bruciandole la gola, diventava il buongiorno della sua solitudine.. La camera che occupava era situata nella parte dei servizi e Virginia andava con la mente alle donne che l’avevano abitata prima di lei. Cameriere certo. Sentiva la loro fatica, i sacrifici, la stanchezza, ma non riusciva a sentire le loro speranze, se le avevano avute… Era grande abbastanza da contenere comodamente una rete con il materasso, il cassettone della nonna e la cassa dei ricordi, ma la poltrona della mamma a stento era entrata nell’angolo. Alla finestra aveva voluto mettere le tendine che portavano ricamati i ricordi dell’infanzia per intravedere ancora, dagli spazi lasciati vuoti dall’ago della nonna, il verde delle foglie che entrava e usciva insieme ai sogni. Tornò bambina con i bambini, giocò con loro, ma dormiva con le persiane aperte per dare la possibilità ai lampioni di illuminare l’insonnia. Riprese carta e penna. Inventò favole. Storie di animali e principi, ma il finale raccontato di giorno non rispettava mai quello scritto di notte. Si mise a osservare le persone che le capitavano davanti come fosse allo zoo, con curiosità ed anche simpatia, però quando qualche mamma dimenticava di passare a riprendere il figlio all’orario di chiusura, e succedeva spesso, la spavalderia con cui poi si scusava quasi ostentando l’importanza dei propri impegni o la propria distrazione, lasciava 63 Virginia addolorata e perplessa. Lei, che s’incantava nell’immaginare Marco, Elisabetta, Andrea come fossero suoi figli, si sentiva vittima di una grande ingiustizia. Mise nel lavoro l’impegno che richiedeva, divenne un’assistente talmente brava da essere chiamata dai genitori dei bimbi, anche nelle ore in cui l’asilo era chiuso. Entrava in quegli appartamenti di lusso, così lontani dal suo modo di vivere, dove ogni comodità aveva il suo spazio, dove i giocattoli imperavano, dove l’eleganza dell’arredo le metteva soggezione e assorbiva l’umore dalle mura mentre dalla gente assorbiva il riflesso dell’esempio. Soltanto con Maria Rosa riusciva a sentirsi a suo agio. La vivacità che l’amica metteva nel condurre la propria vita la riversava anche negli affetti e con Virginia era particolarmente generosa. Quando si incontravano, i discorsi certamente influenzati dall’ambiente, finivano per girare intorno all’amore, alla famiglia, ai figli e ne facevano un gran sognare. Orgia di maternità. Non si meravigliò, quindi, alla notizia che l’amica aspettasse un bambino. Volle sapere cosa provava, come si sentiva e cercò di scacciare quel leggero senso di invidia che le appesantiva il cuore. Maria Rosa si era sposata in fretta e non con Vincenzo che l’aveva aspettata a Locri, ma con Lucio che l’aveva amata nei giardini dell’università. Virginia volle farle un regalo originale, un regalo che accontentasse il suo spirito fantasioso e trasportasse l’amica nel sogno. Si ricordò che Maria Rosa aveva il pallino dell’astrologia e spesso alludeva nei discorsi alle stelle e ai personaggi della mitologia. Volle affidare l’ispirazione al cielo e ini64 ziò a scrivere il racconto di una stella, una piccola stella cadente che dall’infinito era voluta scendere sulla terra non si sapeva bene il perché. Dei e costellazioni resero il compito difficile in quanto la trama sempre di più si aggrovigliava in un discorso pieno di simbologie che intuiva, ma non conosceva. Ricorse alle biblioteche anche se non le aveva mai frequentate e il primo contatto l’intimidì e la confuse al punto da non riuscire a capire più cosa doveva cercare. Andò nelle librerie per acquistare qualcosa, ma anche lì non sapeva bene cosa comprare. Dal giornalaio trovò l’Enciclopedia Economica Garzanti appena uscita in edicola. La comprò per correre alla scoperta del significato delle parole che le tornavano in mente e che quasi da sole le uscivano nel momento in cui erano necessarie. Giove. Mercurio. Minerva. Che mondo fantastico! Da un riferimento passava ad un altro, mai soddisfatta. Provò l’ebbrezza della ricerca il cui risultato, se da una parte riusciva a migliorare il contenuto di ciò che scriveva, dall’altra le faceva capire quante cose non sapesse. Si sentiva comunque una vera scrittrice, ma della scrittrice aveva soltanto il cestino della carta straccia colmo di fogli appallottolati. Numi e dei imposero la loro presenza. Virginia impose il suo incerto stile pieno di fantasia. Fece scendere la piccola stella al centro di una piazza che aveva come ornamento soltanto un cipresso contornato da tanti ciuffi di palme nane. Danze di dei diventati umani. Avventure piene di ingenuità. Lesse e rilesse la sua opera gonfiandosi di orgoglio. Aveva persino acquistato una Olivetti portatile, per presentare al meglio il racconto. Mai si era sentita 65 così soddisfatta. Felice. Fece rilegare le pagine con un filo d’argento e le coprì con una copertina d’oro. Comprò una stella di cristallo da Venini, in via Condotti e la incartò insieme al dattiloscritto sperando che brillasse. Gli sposi però, troppo presi dalla loro passione ed i genitori, troppo impegnati nel fargliela concludere, sorrisero ignorando l’originalità del dono e Virginia, delusa dal loro silenzio, non chiese mai se avessero letto il suo incantato racconto. Tornata dal viaggio di nozze Maria Rosa, con il pancione sempre più grosso, preparava gli esami in casa, dove Lucio preferiva che rimanesse. La cerimonia nuziale si era svolta nella più stretta intimità Il marito si era laureato qualche mese dopo e la professione di avvocato gli era stata aperta dal padre titolare di uno studio in Prati. Il bambino venne al mondo la notte di San Lorenzo. Lo chiamarono Alberto. Le stelle impazzivano nel cielo. Le cime dei cipressi cambiavano colore. Era bruttino e aveva i capelli lisci e neri. Due mamme lo avevano aspettato, una vera e l’altra da inventare. *** Da quando non aveva fissa dimora Virginia passava l’estate ai Parioli. Un paesaggio che la riportava agli anni in cui, svelta nel passo, non inciampava nelle radici degli alberi che facevano esplodere i marciapiedi. Le cime fiorite donavano frescura e alla donna piaceva sentirsi intorno il 66 fiato raccolto dalla signorilità passata. Il quartiere, il più esclusivo di Roma, aveva cambiato volto. Pochi gli abitanti, i portoni serrati mostravano targhe di uffici importanti. Vestita con panni invernali, la barbona si rimboccava continuamente le maniche in un gesto che non allontanava il caldo. Borbottava camminando e a chi l’avesse ascoltata sarebbe apparsa un po’ stramba. “Vattene, e vattene non voglio pensarti, non voglio. Resta dove sei, non venirmi in mente continuamente, qui poi, che è un posto dove tu non c’entri. Basta. Basta.” L’ultima memoria che apparteneva a Lorenzo, come un livido sulla pelle di un vecchio, stentava a scolorirsi. Quel rimboccarsi le maniche continuo era un gesto di affronto e di rabbia verso l’impronta del sentimento che ancora imprimeva alla sua mente il dolore. I pochi passanti la ignoravano, e anche se la cartella di Vuitton che portava a tracolla poteva indicare che era stata una di loro, non si giravano quando alzava la voce o stringeva i pugni agitandoli in aria. Arrivava dalla Stazione Termini come se avesse compiuto un lungo viaggio. Giorni di cammino nel tracciato del tempo per sovrapporre i ricordi più antichi ai più recenti. Passava la notte in una strada piccola e corta dove i pini si spingevano oltre i confini dei palazzi in cerca del sole. Quegli alberi e quei villini le facevano sentire il rumore del mare. Rincorreva le poche villeggiature, le passeggiate serali e in via Adelaide Ristori, dove gli uffici della Simpton & C. avevano occupato i locali del kinderheim, vedeva Marco, Elisabetta, Luca, diventati adulti, entrare e uscire dal cancello su cui 67 una targa in plexilgas portava inciso un nome straniero. Continuava allora a vaneggiare sommessa, come se parlasse ai bambini, e soltanto Erlinda, una filippina di mezza età che al suo paese aveva lasciato la famiglia, le dava ascolto e le si rivolgeva in un italiano stentato infarcito di parole straniere. Spesso le camminava a fianco e quando rientrava nella casa in cui era a servizio, non la salutava perché sapeva che la povera donna andava a sedersi sotto le finestre della stanza del bambino per ascoltare il suo canto, mentre lo cullava, prima che si addormentasse. Un bimbo riccioluto e biondo che dal passeggino guardava Virginia attento ed anche un po’ preoccupato. La ninna nanna era una melodia di parole orientali fuse da note antiche nel canto della sofferenza di una madre che richiama la madre e la madre della madre per donare al neonato tutto quello che forse non avrebbe avuto mai. “Nais kong mautil ang awit ni inang mathal…” e la barbona rannicchiata contro il muro aspettava che la voce di Erlinda, come una nave che fugge dal porto e piano piano scompare, raggiungesse il silenzio della lontananza. Silenzio di strade troppo nobili per urlare. Silenzio contenuto, educato, imposto. La barbona si alzava faticosamente, scendeva dal marciapiede e orinava. In piedi, allargando le gambe, sporgendo in avanti la testa per poter seguire con lo sguardo il rigagnolo scuro che andava incontro alla fogna. *** 68 Il caldo allungava le giornate oltre la cena. L’asilo aveva chiuso i battenti e Virginia era rimasta a vegliare l’appartamento vuoto. I pasti consumati insieme ai bambini le avevano dato la possibilità di mettere da parte quasi tutto lo stipendio. Voleva comperare un’automobile. Le avevano proposto una Seicento usata. Avrebbe approfittato di quei mesi estivi per prendere la patente. Le lezioni di guida si svolgevano nel tardo pomeriggio e le ombre che i raggi del sole allungava prima di scomparire, le mettevano addosso la voglia di saltellare. Le piaceva sentire sotto i piedi il calore accumulato dalla strada durante il giorno, e mentre l’impronta dei tacchi trattenuti dall’asfalto lasciava il segno del suo passaggio, guardava il pavimento sorridendo. Avrebbe voluto togliersi le scarpe, per partecipare al caldo che andava rinfrescando. I mesi appena passati, erano stati importanti per lei e non per la quantità di sederini che aveva dovuto lavare, ma per le cose intorno alle quali aveva prestato attenzione e da cui traeva le più svariate conclusioni. Famiglie ricche, piene di personaggi originali, famiglie scomposte, divise, dove l’invadenza dei soldi faceva da padrona. Il sapere nascosto di chi veramente sa e non si vanta, ma anche l’indifferenza di chi ha occhi per vedere e invece non guarda. Le signore piene di trucco, snob, e quelle affermate nel lavoro, indaffarate. Donne come lei, lontane da lei. Virginia aveva acquistato disinvoltura, il gusto estetico le era migliorato, riusciva persino a non arrossire se le facevano un complimento. Era cresciuta. Estate, la prima estate con le ferie pagate le 69 avrebbe portato fortuna, ma era sola, troppo sola e mentre passeggiava strappava dai cespugli le foglie per sentire tra le dita compagnia. Attenta a poggiare i piedi al centro dei lastroni, qualche volta giocava a campana, senza badare ai passanti che si voltavano per osservarla. Quando incontrava i tombini su cui era impresso SPQR, il marchio imperiale che aveva studiato a scuola di cui però non ricordava il vero significato, ma soltanto quello che le compagne di classe le avevano detto ridendo “Sono Porci Questi Romani” e che in quei momenti euforici e solitari riusciva a comporre come “Sono Povera Quanto Ricca”, e si sentiva una cittadina felice. Non era vero. Le mancava un uomo. Lo desiderava. Avrebbe voluto averlo a fianco. Ma gli uomini dove erano? Francesco, il padre di Luca… Giuseppe, lo zio di Andrea. Vico, che la riaccompagnava a casa scherzando… era simpatico come il figlio… e quella sera che aveva allungato una mano sotto la gonna sussurrando “fammi entrare nel nido e ti darò tutti i bambini che vuoi” lei gli aveva risposto “Il nido a quest’ora è chiuso.” Perché? perché negarsi ciò che desiderava? Girava allora senza meta condotta dall’inconscio. Ogni frase scritta sui manifesti, ogni nome che leggeva sulle insegne dei portoni la riportava al sesso e inventava frasi a cui poi cercava di dare un seguito o un senso compiuto. L’inconscio le ribolliva dentro e la conduceva sempre e soltanto verso concetti azzardati, parole che non avrebbe avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce, violente, cupe, oscene, unite da avverbi che sintetizzavano 70 soltanto per lei l’intensità del pensiero. Passava dall’allegria all’angoscia seguendo la luce e l’ombra che la giornata imponeva. Turbamento. Perché, perché non lasciarsi andare al rigurgito del passato? Mario. Un altro Mario… No, no, avrebbe dovuto interessarsi di più all’educazione dei bambini, leggere, studiare. Comperare altri libri. Una targa chiassosa, evidente “Nuova Grafica” portava ad una rima volgare, Virginia la rigirava nella testa insieme al verso che le era scaturito d’impulso. Quel nome però le diceva qualcosa, qualcosa di diverso… qualcosa… Siii, dal notaio… Il Coniglio di Amministrazione… Nuova Grafica, la società che era stata causa del suo licenziamento. Giorgio Prandi, Anselmo Attieri, Nicola De Gennaro, le vennero in mente come fossero i nomi dei parenti più stretti. Pensava di averli dimenticati appena uscita da quel maledetto ufficio, e invece… lavoravano lì i tre soci ai quali un grazioso coniglietto avrebbe dovuto amministrare i beni. Cercò di mettere a fuoco i volti, ma riuscì soltanto a ricomporre la figura di Roggi, l’odioso notaio. Fece una smorfia. “Mi venga a trovare…” Chi dei tre l’aveva detto? Chi le aveva dato il biglietto da visita? Chissà dove era finito… Ricordi. Ricordi vivi, spiacevoli. Non era stato un buon lavoro quello… chissà… un altro lavoro… Un lavoro nuovo? Sull’elenco del telefono l’indirizzo appariva scritto in grassetto. La mattina seguente chiamò senza sapere di chi dovesse chiedere. Rispose Giorgio Prandi, era stato lui ad offrirle la tana. Il coniglio fece il resto. 71 *** La cosa che affascinò di più Virginia fu l’importanza data ai colori. Quando Prandi la condusse in giro per i locali dove veniva svolta l’attività, non poté fare a meno di notare la vivacità che sprigionava dal disordine delle stanze. Il locale dove disegnavano i grafici con la radio sempre accesa, in fondo ad un corridoio, sembrava essere il centro dello studio. Che differenza dall’austero ufficio del notaio! La Nuova Grafica le era sembrato un asilo per bambini grandi e lei non aveva indugiato nell’indossare il grembiulino a quadretti. Una fortuna l’offerta di Prandi che le aveva proposto di lavorare nello studio dopo l’orario di chiusura del kinderheim. Un genere nuovo di impegno, così lontano da quelle che erano state le sue esperienze. Impiegò tutta la buona volontà per imparare, capire, sapere che cosa si facesse e quali fossero i ruoli che ognuno impersonava. Non fu difficile entrare nel meccanismo. Anselmo Attieri, il grafico, non disdegnava di diventare procacciatore di clienti, contabile o segretario. La pazienza che metteva nel trasferire le lettere dai fogli di Letraset sui disegni, la metteva anche negli altri incarichi, e questo sua meticolosità si scontrava con la fantasia di Giorgio Prandi, caotico e irriverente, sempre pronto a rimettere in discussione quello che aveva appena affermato. Nicola De Gennaro, terzo socio, in realtà conduceva una attività completamente diversa all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni dove la grafica era espressa soltanto nei moduli. Le continue allusioni ai soldi fecero capire a Virginia che 72 il ricco della situazione fosse lui, ma non era la verità anche se era stato l’unico ad avere investito nello studio una parte del denaro risparmiato dalla madre felice di aver potuto assecondare le ambizioni dell’unico figlio. Gli altri avevano investito nella società l’esperienza e l’impegno nel lavoro. Alba, una ragazza spigliata e abbastanza carina, ufficialmente doveva svolgere funzioni di segretaria, in realtà cercava di dare sfogo allo spirito creativo, lasciando indietro fatture e lettere che si ammucchiavano sulla scrivania e che fu contenta di affidare alla nuova venuta. Virginia, riconsegnato l’ultimo bambino, correva al nuovo lavoro senza provare stanchezza. Arrivava quando gli altri stavano per andare via e si tratteneva tutto il tempo necessario per sbrigare quel che le avevano lasciato da fare. Le ore passate in solitudine divennero per lei il momento più bello. Girava per le stanze dello studio, apriva ogni cassetto, sfogliava i libri, accarezzava i bozzetti. Assorbiva il significato dell’attività. Cominciava ad entrare nel meccanismo della comunicazione senza capirlo completamente, ma le piaceva. Un’orgia di disegni e di idee, arte per lei, e la tentazione di trafugare pennarelli e fogli dalle tinte vivaci le veniva sempre più forte. Voleva fare suoi quei colori per usare il giallo come gioia, il nero come urlo, il rosso come amore, e la fantasia che si era espressa all’asilo colorando con i pastelli fiorellini ed alberi, si trasferiva sugli oggetti da pubblicizzare che cercava di trasformare in disegni che poi stracciava. Con Prandi e Attieri la confidenza aumentava rapidamente e Virginia prese a dire la sua su ogni 73 cosa, buttando le frasi lì così come le venivano soprattutto durante quelle riunioni confuse e allegre che in America venivano chiamate brain-storming e altro non erano che una girandola di idee in libertà che faceva sentire tutti più leggeri. La pubblicità andava affermandosi sempre di più. Le grandi industrie spingevano verso nuovi tipi di prodotti e in quell’anno si faceva un gran chiasso intorno all’olio di semi, toccasana per la salute e le tasche degli italiani, mentre l’olio d’oliva sembrava dovesse subire la condanna dell’ostracismo. Un importante produttore toscano si era rivolto allo studio per tenere alto sul mercato il suo olio extravergine notoriamente migliore degli altri. La Nuova Grafica si immedesimò talmente nel prodotto da diventare un fantomatico uliveto. I piccoli frutti rotolavano sui tavoli formando bottiglie immaginarie rivestite di eccentriche etichette. L’olio si mescolava al latte. Per lubrificare il cervello. Per eccitare i sensi. Olio, soltanto olio, privo di latte. Per affermarsi, per sentirsi appagata. Piena... La fantasia di Virginia generò “mangiar bene, mangiar sano con il balsamo toscano” La frase fu approvata dal cliente e apparve a caratteri cubitali sui manifesti affissi nelle principali piazze d’Italia. I risultati della campagna furono positivi, ma la Nuova Grafica stava andando in pezzi. Anselmo rivendicava diritti sui proventi della Meoni, una casa farmaceutica che lui aveva portato come cliente e che garantiva la sopravvivenza allo studio. Giorgio affermava il valore della sua abilità nel concludere i contratti e nel trarre il maggiore profitto dai rapporti con i fornitori. Nicola lamentava l’inesistenza di un effettivo guada74 gno e ogni volta che si discuteva sui rimborsi, sui compensi, sulle spese da sostenere, le parole diventavano sempre più pesanti. La situazione peggiorò quando Alba lasciò capire di aspettare un bambino grazie al diretto intervento di Giorgio, notoriamente facile al rapporto sessuale. Sposato, con una moglie che non si capiva quanto fosse paziente o quanto fosse ignara, l’uomo non aveva nessuna intenzione di riconoscere il fatto. La ragazza oscillava tra il voler abortire e il voler portare avanti la gravidanza e nei momenti di allegria, sempre più rari, si inneggiava a “olivino” con qualche scherzoso disegnino. Virginia tornò a desiderare il latte. Attraverso le discussioni sempre più accese si accorse di rancori mai sopiti tra Anselmo e Giorgio. C’era stata di mezzo anche una donna e quel che prima aveva scambiato per un affettuoso modo di comportarsi, provocatorio e ironico, si rivelava invece come l’espressione di una vecchia rivalità. Vittime della stessa voglia di dominare, non avrebbero potuto fare altro che combattere separati. Attieri, forte del lavoro che la casa farmaceutica gli assicurava, decise di riprendersi il cliente e aprire una nuova società. Prandi rimase con i resti della “Nuova grafica” e Virginia, che aveva complicazioni al kinderheim, in quanto i controlli eseguiti dal Comune avevano accertato la mancanze delle necessarie licenze, si era trovata a dover scegliere tra l’incertezza di un impiego da cercare e la stabilità che le avrebbe procurato l’acquisto del venti per cento delle quote della nascente “Attieri S.r l.” che le erano state offerte da Anselmo. 75 *** Ancora l’estate vide la giovane donna camminare pensosa lungo le strade umide dei Parioli, ancora l’estate le lasciò nel pugno le foglie strappate per tenersi compagnia. Virginia aveva stretto l’ultimo bambino al petto cercando di ricacciare le lacrime. Si era fatta un gran pianto la sera e non aveva voluto spegnere la lampadina rimasta senza lampadario. I colori dell’abbaglio si confusero con quelli della grafica. Era presente e sola. Un altro cambiamento di vita. Dove sarebbe andata? Il kinderheim chiudeva e anche se la titolare le aveva permesso di restare fino a che non avesse trovato un nuovo alloggio e il lavoro alla Attieri S.r.l. era assicurato, si sentiva sperduta. A Milano le agenzie pubblicitarie avevano un grande sviluppo. Roma aveva ancora molto da imparare. Avrebbe imparato con la sua città. Carosello non l’aveva neanche sfiorata. Era andata sposa nel 1954, l’anno in cui l’Italia aveva celebrato le nozze con la televisione, ma per i coniugi De Rossi l’apparecchio magico era rimasto un progetto, e in quel momento l’impegno economico sostenuto per acquistare le quote della Attieri S.r.l. non le permetteva certo di acquistare il magico apparecchio. Aveva fatto carriera, ma troppe cose le mancavano ancora per sentirsi inserita in quella società che incominciava ad assaporare sentendosi protagonista. *** 76 Virginia entrò con entusiasmo nella casa di Via Giorgio Scalia e non per le persone che abitavano il palazzo, sconosciuti che a stento salutavano nell’ascensore, ma per ciò che quella casa rappresentava, la prima casa veramente sua. Sul campanello volle scrivere soltanto il cognome da ragazza. Due stanze, una cucina e un bagno con le porte di mogano e i pavimenti a marmittoni di colore diverso. In cucina maioliche di ceramica verdina. Il mobilio si era arricchito di un letto e di un lume e quando aveva fatto il trasloco, chiamando il trasportatore con il camioncino traballante, pioveva e la poltrona della mamma, con la fodera bagnata sembrava che piangesse, e il cassettone della nonna ricoperto da uno straccio sbiadito non riuscirono a scalfire la sua allegria. Le valige erano aumentate, la cassa dei ricordi era sempre quella. Aveva lasciate appese alla finestra della stanza del kinderheim le vecchie tendine nelle quali gli occhielli formati dal ricamo della nonna erano diventati strappi. La strada, delimitata da palazzi molto alti, indicava una periferia moderna. Le costruzioni confortevoli accontentavano le aspettative del nascente ceto medio. Appoggiate alle falde di Monte Mario, dove le belle case panoramiche inorgoglivano i più abbienti, ingrandivano il quartiere Trionfale, popoloso e vivace, padrone di un grande mercato noto per la varietà dei prodotti e i buoni prezzi. Piazzale degli Eroi era il punto di congiunzione tra il vecchio e il nuovo, e una anonima quanto avveniristica fontana, per venire incontro all’economia idrica della città, zampillava acqua a giorni alterni. L’appartamento di Virginia era al settimo piano e 77 quando l’ascensore non funzionava, e capitava spesso, le sembrava di salire in soffitta. Dalle finestre, sporgendosi, da una parte si poteva allungare lo sguardo verso la campagna che si intravedeva a perdita d’occhio, dall’altra una lunga fila di piccoli balconi si allineavano come soldatini sull’attenti. L’unica persona che si accorse della nuova inquilina fu la signora Erminia che le abitava a fianco e ogni volta che sentiva un rumore apriva la porta facendo finta di lucidare le maniglie di ottone. “Sa, non sono n’impicciona, signorina, è che ero abituata ai Chiodaroli dove ci conoscevamo tutti e si conosceva persino se uno aveva mangiato l’aglio la mattina…” aveva detto scusandosi un giorno, tanto per attaccare discorso e aveva continuato raccontando di come i figli, appena sposati, avevano insistito perché si trasferissero, lei e il marito ormai rimasti soli, in quel condominio moderno dove le maioliche in cucina, la vasca da bagno e l’acqua calda, avrebbero assicurato loro il conforto della vecchiaia. Virginia da principio scambiò per invadenza le chiacchiere della signora Ersilia e, anche se i ricordi della sua vita erano pieni di scale e pianerottoli, non riusciva a provare le stesse emozioni di allora. Si sentiva diversa, ormai troppo “moderna” e soltanto la sua grande cortesia vinse la reticenza. Il marito di Erminia, Giulio, taciturno e bonario, sempre con i pantaloni arricciati dalla cinta stretta sotto la pancia, aveva avuto un negozio di alimentari a due strade di distanza dal vicolo dove abitava, ma quando nel centro della città la vendita dei vestiti aveva cominciato a rendere più di quella 78 del pane, era stato costretto a chiudere bottega. Il mestiere non lo aveva dimenticato e continuava a occuparsi del cibo portando a casa quantità enormi di cose da mangiare che la signora Erminia passava alla vicina quasi scusandosi. Virginia arrotondava l’umore e le forme. Ma non era soltanto il cibo che migliorava l’aspetto della “signorina”, come la chiamavano loro. Gli atteggiamenti delle persone con cui veniva a contatto, professionisti, industriali, donne inserite nel lavoro, con il loro modo di fare e la pratica eleganza, la invogliarono a comperarsi un abito in più, un gioiello di bigiotteria. A recarsi più spesso dal parrucchiere. Al nido era pagata per farsi ciancicare i vestiti dalle manine appiccicose dei bambini, alla Nuova Grafica si divertivano a chiamarla “sempliciotta”, alla Attieri S.r.l. Anselmo teneva moltissimo all’estetica. “Vendiamo immagine e l’immagine migliore la dobbiamo dare di noi” ripeteva continuamente, bravissimo nel dare di sé l’immagine che gli altri volevano. *** La barbona era stanca di stare in ospedale. L’avevano ricoverata al Policlinico senza conoscenza e sentendosi meglio insisteva per andare via. Le avevano fatto il bagno e una infermiera le aveva tagliato i capelli. La glicemia era scesa a valori più accettabili, ma la pressione rimaneva alta. L’avrebbero comunque dimessa presto, fagotti come lei occupavano i letti e non erano ben visti. La povera 79 donna non ricordava quel che le era successo, ma aveva gradito la fragranza delle lenzuola pulite e il tepore della stanza, restando però comunque in quello stato fisico tutto suo che la rendeva indifferente. Soltanto quando entrava Colombo si ravvivava e non faceva caso alle compagne di corsia che lo guardavano con compassione, mentre qualche parente in visita se ne andava via. L’impermeabile dell’uomo, che era stato bianco, portava i segni della strada. La giacca, indossata in precedenza da altri, era stata tessuta in Inghilterra troppi anni prima. Un maglione dal colore indefinito lasciava uscire il collo sporco e raggrinzito. I capelli arruffati e il vezzo di chinare la testa pensoso, come il gesto di portare la mano alla fronte per aggiustarsi il ciuffo, lo facevano somigliare al tenente Colombo. Mettersi nei panni del divo della tivù era stato un vanto per quel pover’uomo di cui nessuno conosceva il vero nome. Le sue più belle esperienze le aveva vissute soltanto da barbone. Non lo avevano voluto neanche a fare il militare, eppure non era gracile, ma il sorriso eternamente disegnato sul volto, indicava che dentro aveva troppo o troppo poco. Le suore del brefotrofio, dove era cresciuto da bambino, avevano considerato la sua espressione come segno di poca intelligenza e lui non si era dato la pena di smentirle. Aveva imparato a leggere e scrivere con fatica, ma una volta appreso il meccanismo, le lettere dell’alfabeto erano rimaste il suo maggiore passatempo, il gioco preferito. Quando la maestra per far divertire gli orfanelli insisteva con infiniti girotondi di carta ritagliati dai vecchi giornali, lui paziente ritagliava e 80 ritagliava senza mai riuscire a mantenere unite quelle strane figurine che la suora imponeva. I pupazzetti si stracciavano nelle sue mani come biscotti sfatti, non obbedivano ai gesti e per non farsi sgridare, si infilava in tasca la carta stropicciata sentendosi in colpa. Poi, quando nessuno gli prestava attenzione, tirava fuori i pezzetti di carta e li faceva vivere in un gioco che era affascinante soltanto per lui. Leggeva sottovoce gli stralci delle parole troncate dalle forbici e sillabava le lettere delle parole monche. Dava ad ogni vocale un significato, ad ogni consonante una interpretazione. “a” diventava “addio”, “r” gli faceva sentire “rumore”, “m” indicava “mamma”, e quando crescendo aveva voluto mettere più impegno nel divertimento, inventava intere frasi, prendendo spunto dalle parole tronche, per creare un discorso che all’apparenza sembrava insulso, ma che in realtà voleva dire molto di più. “ci sono an” , “nei giorni di fe”, “indano”, “la lu”, si univano in “ci sono animali nei giorni di festa che brindano alla luna” e andava ripetendo e ripetendo sottovoce la frase orgoglioso di averla pensata. Da adulto le pagine intere dei giornali avevano sostituito i ritagli delle bamboline tagliate. Le raccoglieva dappertutto. In parrocchia, dove era stato ospite di un sacerdote, da commesso di bottega, dopo aver consegnato il pane e la pasta ai clienti che gli conservavano i quotidiani del giorno prima. Ma troppo spesso si lasciava andare alla lettura dimenticando l’impegno del lavoro. Il tempo era infinito per lui e prima di buttare le pagine stampate, tornava a ritagliare ghirlande di pupazzi in festa per fare il girotondo con loro. 81 Conobbe Virginia davanti ad una delle edicole della Stazione Termini dove un giornalaio regalava ai barboni un quotidiano ogni mattina. La donna, nuova della comunità, pretendeva di sfogliarlo per prima, ma il privilegio spettava a Colombo, conosciuto ormai da tutti, che poi passava i fogli agli altri disgraziati come lui. Quella signora vestita bene, che si era intrufolata con tanta prepotenza, aveva urtato il sistema nervoso dell’uomo che strappandole il giornale dalle mani le aveva urlato frasi sgarbate facendola scappare via. Quando si erano incontrati ancora avevano evitato di guardarsi, ma con il passare dei mesi, appena Virginia aveva assunto l’aspetto inconfondibile dei suoi compagni, Colombo le aveva regalato L’Espresso e Panorama e la loro conoscenza si era nutrita di commenti che si scambiavano usando pochissime parole. Il barbone andava spesso a trovare l’amica in ospedale e il giorno che apparve brandendo come un trofeo di caccia una cartella di tela blu nuova fiammante, la donna istintivamente strinse al petto la sua Vuitton, logora e sporca, da cui non si era voluta separare neanche dopo le insistenze dei medici. L’uomo aveva capito quanto Virginia fosse affezionata al contenuto della borsa che portava sempre a tracolla, ma non conosceva cosa ci fosse dentro. Aveva quindi pensato di farle un regalo per il suo onomastico portandogliene una nuova dove avrebbe potuto custodire meglio quel prezioso tesoro che non abbandonava mai. La reazione della donna lo deluse. Continuava impaurita a stringere al petto la vecchia cartella mentre Colombo insisteva nel tenere ferma quella 82 nuova, appoggiata sul letto, che Virginia scalciando cercava di buttare via. Poi, con pazienza, aveva sollevato il regalo alzandolo sopra la propria testa e “Auguri” aveva detto dolcemente “oggi è il 16 aprile, santa Virginia”, e mostrando una sicurezza che non ci si sarebbe aspettata da lui, “dammi quell’altra” aveva aggiunto alzando la voce. Virginia si era fermata a guardarlo interdetta, pronta a ribellarsi, ma l’espressione che vide sul volto dell’uomo le strappò un sorriso e, remissiva, lasciò che Colombo prendesse la Vuitton per sostituirla con quella blu che aveva portato.. “È festa è festa è festa” si mise allora a ripetere eccitato il barbone. “Santa, santa, santa Virginia.” e rincorse l’infanzia quando i nomi dei santi lo accompagnavano nei sogni come le lettere stampate sui pupazzetti ritagliati dai giornali. Quei nomi li aveva imparati in chiesa, dalle suore che ogni giorno invocavano il protettore del giorno affinché quei poveri bimbi senza casa, affidati a loro, diventassero sempre più buoni. I santi Colombo li conosceva tutti e a ciascuno aveva dato una immagine viva, che aveva un significato solo per lui. Il 5 giugno aspettava il padre, San Bonifacio che oltre al calore dell’estate, portava le vacanze e qualche volta un soggiorno nelle colonie estive. Il 23 gennaio Santa Emerenziana, la madre, festeggiava l’onomastico infilandosi nel suo letto per stargli vicino e lui riusciva a sentire sul fianco il suo calore. Simeone il 18 febbraio, Rodrigo il 13 marzo e Zita il 27 aprile, erano i fratellini con cui giocare nei momenti più noiosi. Fantasie d’affetto e di famiglia. Con loro parlava e 83 a loro chiedeva giochi e favori che non arrivavano mai. Dimesso dall’istituto, aveva fatto uso del calendario per ingraziarsi la gente. Domandava il nome alle persone che incontrava, che gli erano simpatiche o di cui aveva bisogno e anticipava gli auguri per il loro onomastico indicandogli la data giusta e ricevendone sempre in cambio qualcosa All’amica non era ancora riuscito a fare gli auguri. La donna non gli aveva mai dato molta confidenza. Era perciò felice quel giorno in ospedale fosse riuscito a farlo. Virginia, ormai rasserenata, aveva incominciato a togliere dalla Vuitton quello che c’era dentro e lo faceva con molta lentezza quasi volesse spingere l’uomo a chiederle spiegazioni. Colombo la osservava in silenzio. “Mi piaceva scrivere… mi piaceva tanto… mi piaceva tanto” si mise a ripetere la barbona accarezzando i fogli che estraeva dalla borsa, alcuni spillati altri raccolti con una costina di plastica nera che sembrava essere stata esposta al sole per molto tempo. “Guarda” disse a Colombo fermandosi, e indicò una copertina azzurra dove era scritto con un pennarello nero “Forse tu…” e aprì le pagine con orgoglio “L’ho scritto per Michele, mio figlio” e lo ripose nell’altra borsa con la stessa delicatezza che avrebbe messo una madre nell’appoggiare un bambino nella culla. Poi, sistemata la cartella nuova sotto il cuscino, scivolò fra le lenzuola fino a coprirsi il mento e rivolta a se stessa più che all’uomo “Un giorno te lo farò leggere, te lo farò leggere…” promise. Colombo uscì dall’ospedale con la vecchia e logora 84 Vuitton di Virginia a tracolla. Estrasse dalle tasche gonfie qualche pagina di giornale e nei cassonetti che incontrava cercò ancora altri giornali. Strappava i fogli meno sporchi per infilarli nella cartella e quando ne fu piena, si sistemò in un angolo vicino ad un muretto. Ghirlande festose stracciate con le mani nude ripresero la danza dei poveri. Pupazzi inventati dalle gambe irriverenti cantarono la fantasia dell’amore e “l’aiu” che allungava le gambe della bambolina, “dell’as” che le allargava la testa, “risce” e “nsé” che chiudevano i piedi, divennero soltanto per lui un canto che diceva “l’aiuola dell’asfalto fiorisce una pansé”. *** Maria Rosa fece visita a Virginia appena questa si fu sistemata nella casa di via Giorgio Scalia e se per sistemazione si intende una cucina solo con il lavandino e il fornello a gas, il bagno solo con i sanitari, la stanza da letto con un letto striminzito e una pila di libri per comodino, nel minuscolo ingresso un vecchio cassettone e nel salotto una poltrona sdrucita, la casa poteva dirsi a posto. Un ospite esigente avrebbe notato tutto questo e Maria Rosa lo era. Per di più l’ascensore quel giorno non funzionava e lei, che aspettava il secondo figlio, per poco non partorì in cima alle scale. Abituata al suo appartamento che occupava il piano nobile di una ridente palazzina ai Parioli, non riusciva proprio a capire come l’amica avesse potuto trovare bello quel posto con la strada an85 cora da asfaltare e con tutte quelle scale da salire. Dopo il matrimonio Maria Rosa, ormai realizzata nella famiglia, aveva assunto il ruolo di sorella maggiore e si era convinta che Virginia avrebbe dovuto pensare prima di tutto a trovarsi un uomo, a risposarsi… Una donna così materna, così dolce… era proprio sprecata senza un figlio… Anche Virginia in cuor suo la pensava così, ma non lo ammetteva neanche con se stessa ed evitava di confidarsi con Maria Rosa che ormai sentiva diversa. Anzi, ostentava i piaceri e le soddisfazioni che gli impegni di lavoro le davano insistendo sulle garanzie che dava un guadagno sicuro e sulla soddisfazione di una vita indipendente. La nuova gravidanza dell’amica, protesa nel civettuolo abitino premaman, però la imbarazzava. Si prepararono un te. Maria Rosa raccoglieva avidamente le briciole dei biscotti portandole con le mani alla bocca. Virginia appoggiava la tazza alle labbra quasi senza bere. Avrebbe voluto avere lei quel corpo gonfio. Un corpo che conteneva un altro corpo. Per esprimersi. Per realizzarsi nella soddisfazione che traspariva dal comportamento appagato della donna incinta. Cercò di distogliere gli occhi dalla pancia dell’amica, accarezzata goffamente dalle manine di Alberto che cercava il battito del cuore del fratellino. Quelle manine avrebbe voluto averle addosso lei. Chiamò il bambino per distoglierlo. Si alzò per prenderlo, ma lui si scansò annoiato. Insistette rincorrendolo e il rifiuto divenne gioco. Giravano intorno alla poltrona senza raggiungersi. Anche 86 Maria Rosa fece finta di acchiappare il bambino. Si sfiorarono. Quel contatto la turbò, troppa la voglia di essere gravida. Gonfia di desiderio era piena di nulla. Raggiunse Alberto, lo strinse troppo forte e lui si divincolò piagnucolando. Sentiva il ventre dolente, tirato e dentro, i battiti sordi del cuore spingevano come fossero i calci di un feto. Turbata accelerò i saluti e appena andata via l’amica si gettò sul letto. Voleva piangere. Non ci riusciva. Si accarezzava la pancia con rabbia mentre i pensieri si arruffavano nella mente. Perché? Perché non a lei? Si alzò. Prese carta e penna, e come nelle lunghe giornate di insonnia al kinderheim scrisse la favola più importante della sua fantasia. Per dare consistenza a un figlio, a quel grumo del suo corpo che non voleva crescere. “Di che colore avrai gli occhi? e la pelle? e i capelli? porterai in te la dolcezza del sorriso o l’infelicità del pianto? La tua mamma, che ti vuole a tutti i costi, potrà dirti chi sei. Soltanto lei. Ma soltanto tu potrai darle l’affetto che ella vuole. Soltanto tu. E proprio tu, piccolo essere ancora senza nome, nel suo ventre dovrai fare rumore, tanto rumore, per avvertirla che ci sei, per dirle che sei suo, soltanto suo, perché non hai padre e non lo avrai mai. La sua vagina si aprirà per lasciarti andare nel mondo, quel mondo che gira senza fermarsi, che la prende e la esclude. Quanta incertezza, piccolo essere ancora da formare… Ti vorrà tenere con sé? Ti vorrà dar via? Quando il primo vagito uscirà dalla tua bocca sa87 prai il tuo destino. Saprai se la donna casta nell’animo e pura da vedere, sarà capace di migliorare in te quel che di lei hai ereditato, quel che di lei vorrai sviluppare, tu, ancora bisognoso di cibo e di calore, eppure già così grande. Così fiero di esserle figlio. Vorrei che dal suo seno succhiassi la libertà che spazia nel pensiero e si risolve nell’amore, tu che sei la speranza di oggi, la certezza del futuro. Le tue manine dovranno tirare i fili della felicità di tua madre e della tua felicità. Che responsabilità bambino mio! Saprai farlo? Sento che scriverai poesie e disegnerai fiori e se maschio non andrai alla guerra e se femmina ti aprirai per generare ancora. Cresci piccino e accompagna la mamma nel cammino che l’attende, la nostra società più fortunata di altre, ti aiuterà.” Così scrisse Virginia e continuò tutta la notte imprimendo sui tasti la forza dell’infelicità. Per giorni e giorni lo gestì col cuore, lo nutrì d’inchiostro e una sera di luna piena mise al mondo Michele. Per distrarsi da Virginia, per insegnare a lui quello che non avevano insegnato a lei, per riversare sul neonato fantasma le angosce del presente, le speranze del poi. *** Se avesse dovuto dare una nonna a Michele, Virginia avrebbe scelto la signora Erminia. Soltanto 88 la vicina di casa avrebbe potuto condurlo per mano e raccontargli le cose della vita. Erminia era quel che comunemente si definisce una brava donna, ma dietro l’aspetto modesto nascondeva la forza e la saggezza che caratterizzano le persone del popolo avvezze a superare ogni difficoltà. Si era stabilita tra loro una intesa simile al rapporto che si stabilisce tra una madre di larghe vedute e una figlia indipendente. Nella giovane donna, la matura casalinga ravvisava quegli impulsi che lei avrebbe voluto avere, ma che ai suoi tempi non si usava esprimere. La confidenza era subentrata a poco a poco. Un saluto più lungo per le scale, una chiacchierata in ascensore, la richiesta di una tazza di latte o di un pizzico di sale che non servivano, ma che giustificavano il gesto di bussare alla porta a fianco come uno stratagemma a cui ricorrere nei momenti di solitudine. Un bisogno di affetto per tutte e due. Era stata la signora Erminia a forzare le confidenze di Virginia e con la sensibilità di una madre, quando lo riteneva opportuno, rientrava nel suo appartamento uscendone poco dopo con una pietanza che aveva appena cucinato e che “Giulio tanto non mangia” diceva insistendo per fargliela accettare. Il pianerottolo ancora una volta creava atmosfere magiche e quando dall’interno la voce del marito chiamava “Ermiiinia… dove sei?” le donne, unite dal sentimento di consuetudini antiche, rientravano ognuna nella propria casa sorridendo con complicità. Nella signora alle soglie della vecchiaia c’era più vitalità di quanta ne avesse addosso la donna più 89 giovane. Virginia era affascinata dalla forza di Erminia che dopo aver speso l’esistenza nel far quadrare i conti, nell’accudire marito, suoceri, genitori e figli, continuava ad interessarsi degli altri, di ciò che avveniva nel mondo, come se fossero tutti vicini di casa. I discorsi sul pianerottolo giravano intorno ai pettegolezzi sulle vedove Kennedy, ma la donna si preoccupava anche delle conseguenze che la morte prematura dei due fratelli avrebbero recato all’equilibrio politico delle altre nazioni. Erminia tifava per la contestazione, ma sperava che gli studenti “non rovinassero le scuole già tanto rovinate.” Non le piaceva Paolo VI “troppo freddo e diplomatico” affermava, e quando era stato seppellito Don Milani, aveva detto sconsolata “avrei voluto che fossero i miei figli a buttare una manciata di terra su quella bara.” I figli erano diversi dalla madre. Indifferenti alle questioni sociali, lustravano l’automobile nei momenti liberi e correvano a mangiar fuori la domenica. Delle due nuore soltanto una si trovava qualche volta d’accordo con la suocera, l’altra preferiva tacere. Quando i giornali pornografici si affacciarono nelle edicole si scandalizzò, ma nello stesso tempo si chiese se una maggiore libertà dei costumi potesse aiutare le donne a uscire dall’arretratezza in cui si trovavano. Le piaceva molto leggere ma ai libri, ai quali non era stata abituata, preferiva i giornali “dicono le cose con più velocità” sosteneva quasi avesse fretta di recuperare il tempo perduto e spendeva i risparmi non soltanto nei rotocalchi femminili, ma in un qualsiasi quotidiano che il giornalaio le conservava ogni giorno anche se passava a ritirarlo la sera. 90 Quando il signor Giulio si allettò dopo una trombosi, cominciò il declino. Lo accudiva come una infermiera, era diventata persino brava nel correre da un ufficio all’altro per difendere quei diritti di cittadina con un malato a carico, che andavano affermandosi. Ma la situazione sanitaria lasciava ancora molto a desiderare e la donna si sfogava con Virginia raccontando di file lunghissime, di impiegati sgarbati, di medici frettolosi, di ospedali disorganizzati. L’entusiasmo che aveva sempre avuto per la vita incominciava a diminuire. Era stanca. I figli, quando l’andavano a trovare, continuavano a parlare di calcio e di automobili, e anche se ripetevano “Mamma non ti affaticare, chiamaci se hai bisogno.” sapevano bene che la madre avrebbe continuato a fare tutto da sola come aveva sempre fatto. Virginia, distratta dall’attività che svolgeva e dall’aprirsi di quei nuovi orizzonti sociali che comunque coinvolgevano chiunque avesse un po’ di sensibilità, non riusciva più a dare alla vicina di casa le attenzioni di cui avrebbe avuto bisogno e la voce sempre più debole del signor Giulio che ripeteva in continuazione “Ermiiinia… dove sei?” lasciava sul pianerottolo un’eco di dolore inascoltato mentre le due donne continuavano a trascinare le chiacchiere fuori degli usci. Parlavano di quello che avveniva intorno. Erminia era delusa, Virginia incredula. Raramente si era discusso in casa Ferrin di politica e quando succedeva, Genietta non aveva prestato eccessiva attenzione ai discorsi dei grandi, presa come era dalle fantasie infantili e dal sogno dell’amore. Una famiglia la sua, in cui alla lettura 91 si dava poco interesse. Soltanto la domenica il padre comperava Il Messaggero, né in casa De Rossi c’era stato un miglioramento. Carlo acquistava tutti i giorni Il Tempo, ma lo lasciava in ufficio. Virginia aveva letto i rotocalchi soltanto dal parrucchiere ed era stata Maria Rosa ad invogliarla ai libri, glieli prestava o le raccontava la trama di quelli che leggeva e, appena usciti in edicola, le aveva regalato alcuni degli Oscar Mondadori che Virginia aveva letto con avidità. Quando nacque il Manifesto, divenne un’abitudine sfogliarlo in ufficio dove Attieri lo portava ogni giorno. Continuava a non capire molto di politica anche se era consapevole di vivere in un momento storico importante. Contestazione. Ideali, ideologie. Parole grosse dal significato astratto, parole che l’attiravano. Osservava ciò che succedeva per trarre conclusioni. Da sola, istintivamente. Non era mai stata una ribelle, non se la sentiva di urlare, eppure qualcosa le suggeriva di adeguarsi. Donna negli anni ‘70. Le altre che facevano? che avevano fatto? Le ricche signore dei Parioli… Erminia… Sua madre morta portandosi nella tomba ciò che pensava. Sua nonna, così lontana… avvolta in abiti neri mai smessi, simbolo di una vedovanza che ad ogni costo doveva renderla triste. Ed Alba che pericolosamente non aveva potuto diventare madre? Le assistenti del kinderheim licenziate senza liquidazione, e le dattilografe dal notaio che lavoravano a cottimo… Insegnò a Michele a camminare ma anche a cucire. Al parco quando lo vide tornare piangendo perché 92 gli altri bambini non gli volevano far recitare la parte della mamma dato che non era una femmina, lo consolò, ma messi i suoi compagni in cerchio spiegò loro il significato dei ruoli imposti, l’uguaglianza sociale, la parità dei diritti. Come pensava che dovesse essere, che fosse… Gli raccontò di un padre che aveva voluto essere soltanto maschio. Si espose come madre libera e indipendente. Si prese la responsabilità di crescerlo da sola e con lui crebbe anche lei. Non aveva voluto battezzare quel figlio frutto di una masturbazione mentale, non volle neanche fargli fare la prima comunione, ma alle domande su Dio e sul perché si vive non seppe dare risposte. Sentiva l’entità divina come una cosa che non le apparteneva. La religione a cui era stata educata, non le aveva posto grosse limitazioni, ma non le aveva dato neanche grandi aspirazioni. Si doveva credere e basta. I precetti festivi erano un motivo per vestirsi bene, uscire e andare in chiesa. La Madonna e i Santi erano benefattori a cui chiedere aiuto, Gesù era la rappresentazione del dolore. Il bene era Dio, il resto era Diavolo e se si disubbidiva a regole di buona condotta si finiva all’Inferno. Le preghiere imposte dalla madre le uscivano dalle labbra, non dal cuore, eppure a Michele aveva voluto insegnare l’Angelo di Dio e come una favola ogni sera glielo ripeteva, qualche volta canticchiando. *** Virginia, “direttore commerciale” alla Attieri S.r.l., aveva un ruolo importante nella società, scritto 93 nell’atto costitutivo, ma in realtà aveva dovuto svolgere ogni incombenza fosse stata necessaria al buon andamento dell’ufficio, compreso il pulire il bagno. Come giocolieri, lei Anselmo e Dodo, il grafico appena assunto, si erano rubati la scena facendo acrobazie fra scrivanie e telefoni per impersonare dipendenti che non c’erano, incarichi che non avevano. Ma i primi mesi di vita dello studio pubblicitario furono sorretti dall’entusiasmo della novità. L’ottimismo era grande anche se avevano un unico cliente, la casa farmaceutica Meoni, che Attieri si era portato dietro e che dava da fare per dieci. Il corpo umano con le medicine per curarlo, imperava ovunque. Gambe, braccia, intestini e teste, diventati compagni di avventura, mostravano spudoratamente la complessità delle loro fibre. Disegni a non finire, didascalie e informazioni da stampare sui dépliant e sui foglietti illustrativi. Un’orgia di parole difficili. Bisticci visivi e ortografici che stimolavano giochi di frasi e di immagini. La serietà dell’impegno era alleggerita dallo scherzo e quando arrivò un industriale che voleva fare pubblicità ad un complesso sistema di valvole meccaniche per l’idraulica, non si riuscì a progettare altro che una pagina illustrata in cui, incastrato tra lucidi tubi di rame, un succoso cuore umano riusciva a pompare ogni genere di liquidi senza intasarsi. L’America dettava legge nel campo della comunicazione e Anselmo, desideroso di gestire la persuasione occulta, pur parlando male degli americani, voleva recarsi negli Stati Uniti per assorbire quel modo di promuovere cose e fatti che avrebbe assunto, a suo dire, un’importanza capi94 tale sia nel commercio che nella politica e intanto, aspettando l’occasione giusta, si dava un gran da fare per acquisire nuovi clienti. Gli piaceva la vita di società e spesso cercava rapporti di affari nei salotti o al tavolo di un ristorante. Figlio di un noto chirurgo, aveva seguito le orme del padre soltanto nel disegnare gli organi umani, ma la gioventù passata tra gente che conta e le buone disponibilità economiche, lo avevano aiutato. La professione scelta, insolita per i parenti abituati alla laurea e alle carriere di prestigio, non era ben vista dalla famiglia, che comunque aveva accettato le sue decisioni lasciandogliele fare senza aiutarlo economicamente. L’agenzia pubblicitaria cominciò ad affermarsi. Il via vai di ragazzi estrosi che venivano a offrire le loro idee e tutta quella gente che voleva ingegnarsi in mestieri nuovi, pronta a inventarsi occasioni e a creare avvenimenti utili alla realizzazione di un progetto originale o avveniristico, portavano all’esaltazione di ciò che si stava facendo. C’era nell’aria l’eccitazione del benessere da sfruttare. Fegato e milza non bastavano più all’ambizione dell’amministratore unico della società. Anselmo lasciò a Virginia l’incombenza di coordinare il lavoro all’interno dello studio e Dodo, aiutato da un altro grafico, non sentì più il bisogno di ricorrere all’aiuto del “capo”, come affettuosamente veniva chiamato Attieri o alla disponibilità della “direttora”, come aveva soprannominato la collega, per esibirsi in azzardate strategie d’immagine. Fu assunta Anna Maria, gracile segretaria dagli occhioni blu che rimasero la sua maggiore qualità. Virginia, pur non amando la vita mondana, veniva 95 convinta da Anselmo a seguirlo negli incontri serali che a suo dire avrebbero reso più contatti con lei al fianco. All’apparenza disinvolta, la giovane donna non lo era affatto. Non riusciva a dire tutte quelle cose importanti nei contatti di società che si dovrebbero dire per dare maggiore importanza alle persone. Diceva solo nome cognome nelle presentazioni e veniva per questo rimproverata da Attieri che, invece, era maestro nell’attirare l’attenzione sul ruolo o sul grado di appartenenza di chi doveva essere messo in evidenza. “La signora Ferrin De Rossi direttore commerciale della società” sillabava ogni volta presentando Virginia che però continuava a sentirsi Virginia e basta. Il parrucchiere le aveva rischiarato i capelli che portava raccolti morbidamente sulla nuca, la profumiera le aveva consigliato Chanel numero 5 e Madame D, la proprietaria della boutique vicino all’ufficio, aveva insistito per farle acquistare un abito di Mila Shone. Non sfigurava affatto al fianco dell’Amministratore Unico della Attieri S.r.l., elegante, magro, alto quel tanto da non apparire basso, con le tempie leggermente spruzzate di bianco, che mostrava l’aria vissuta negli inchini alle signore o nel perfetto baciamano. Anselmo non era sposato, ma da quel che si diceva l’amore non lo aveva benedetto. Si era trovato coinvolto sempre in storie volute dalle donne, storie complicate che lo portavano a consumare la passione in telefonate nevrotiche e amplessi problematici. Stefania, l’ultima fidanzata, ancora lo chiamava al telefono per piagnucolare sui problemi da affrontare o chiedere consigli sul come comportarsi con l’uomo del momento che non vo96 leva sposarla. Attieri, da cui la ragazza aveva preso le distanze per lo stesso motivo, non aveva il coraggio di mandarla a quel paese e le lagne di lei, che lo tenevano per ore all’apparecchio, lo irritavano al punto da fargli scaricare ogni nervosismo sulla sciarpe che indossava. Ne aveva tante, più d’una per ogni stagione, correva voce che le indossasse anche di notte e di giorno gli servivano oltre che per dargli un’aria da artista, per rovesciare sulle frange il proprio nervosismo. Nei momenti più tesi afferrava con una sola mano gli orli della sciarpa allontanandola con violenza dal torace mentre lo strappo, procurandogli un contraccolpo alla nuca, gli faceva oscillare la testa in avanti e indietro con un movimento che ricordava il beccare della gallina. Tirava il collo come per sgranchirsi e riprendeva i bordi della sciarpa che aveva mollato, incominciando a sfogliarne le frange come fossero petali di margherite. Ne sceglieva accuratamente una, non si sa bene con quale criterio, sempre la stessa, per arrotolarla e srotolarla intorno all’indice ripetute volte fino a strapparla con un colpo secco. Dopo di che infilava il pezzo in tasca e diventava un gioco per i colleghi scommettere sul numero di frange che avrebbe raccolto alla fine della giornata. Il rapporto tra Virginia e Anselmo era fatto di stima, fiducia e complicità sul lavoro. La confidenza, caratteristica dell’ambiente in cui si muovevano, non era riuscita a stabilirsi completamente fra loro, sembrava che una lastra di vetro li separasse anche nei momenti più cordiali. Quando uscivano insieme per rappresentare la società, il comportamento estremamente formale non avrebbe dovuto destare 97 sospetti, ma erano in molti a pensare che fossero amanti. Il pettegolezzo si sentiva nell’aria e solo qualche volta una strana euforia li coinvolgeva portandoli a scherzare come se realmente lo fossero. I gesti ormai erano diventati un rituale. Uscivano insieme dall’ufficio e mentre Virginia si assicurava che la sua vecchia Seicento fosse posteggiata dove l’aveva lasciata e non avesse multe, Anselmo la raggiungeva con la sua Lancia fuoriserie, di cui era molto orgoglioso e sulla quale, insieme, si recavano dove dovevano andare. Durante il percorso stabilivano la tattica di comportamento e al ritorno si scambiavano preziose informazioni. Si davano un bacio formale prima di lasciarsi e una volta soltanto nel salutarla lui le aveva trattenuto la mano mormorando “che serate sbagliate” e lei era scesa senza sapere cosa rispondere. La Attieri S.r.l. cominciava ad essere un nome. Anselmo era riuscito ad andare negli Stati Uniti ed era tornato carico di manuali e di idee. Virginia dovette aggiornarsi con un corso di inglese per pronunciare bene tutti quei termini che stavano invadendo il lessico della comunicazione. Fornitori e collaboratori si moltiplicavano, la confusione era tanta, ma il cliente rimaneva sovrano. Con lui “ci si doveva fidanzare” sosteneva Attieri e come fidanzate esigenti si comportavano nei loro riguardi le aziende, obbligandoli ad appuntamenti impossibili in orari impossibili, chiedendo sempre nuove proposte, nuovi preventivi, nuove idee. La signora Ferrin De Rossi non aveva tempo per pensare ad altro. *** 98 Mino Trere un uomo pieno di brio, sempre allegro anche quando non aveva motivo per esserlo, riempiva lo spazio accentrando l’attenzione su di sé e non perché fosse bello, né perché possedesse quel fascino immediato che a volte anche i brutti sprigionano, ma per il suo simpatico modo di fare. Abilissimo nel comprendere al volo quello che stava per dire la persona a cui si rivolgeva, aveva sempre la meglio nelle conversazioni e quando si trovava in difficoltà era altrettanto abile nello spostare l’attenzione su un argomento diverso riuscendo a tenere viva l’attenzione su di sé. La professione lo aiutava o forse aveva scelto di fare il giornalista proprio per le caratteristiche che possedeva. Era attirato dalla politica di cui parlava con competente disinvoltura, ma scriveva per la pagina sportiva de Il Messaggero. Erano appena passate le Olimpiadi di Monaco quando Dodo lo introdusse alla Attieri S.r.l. dove Anselmo gli diede l’incarico di scrivere i testi per la campagna pubblicitaria di una nota casa di articoli sportivi. L’attentato terroristico avvenuto durante le gare, aveva dato maggiore notorietà ai suoi servizi e lui, con malcelato orgoglio, non si asteneva dal ripeterne il racconto quasi che il merito della conclusione fosse suo. Scrivere per far comperare magliette e calzoncini lo divertiva e l’allegra spensieratezza che metteva nel provare frasi e battute era contagiosa, ma la sua esuberanza si manifestava soprattutto nell’appassionarsi agli intrighi di potere che gli davano lo spunto per trasformare in gioco la realtà. Bravissimo nel commentare alla Enrico Ameri le partite di calcio, faceva scendere in campo gli uomini di governo così come le chiac99 chiere di corridoio gli suggerivano. Giulio Andreotti era il suo personaggio preferito e assecondando la situazione del momento, lo lasciava in panchina o lo faceva giocare nei ruoli più diversi. Era uno spasso sentirlo. Anche Virginia, che capiva poco di politica e tantomeno di sport, si divertiva. Ma quando Mino volle ridicolizzare le ultime Olimpiadi mimando una partita tra palestinesi e israeliani, la donna sentendosi addosso la tragedia degli undici morti, lasciò la stanza con evidente disappunto. Quel giorno, prima di andare via, Trere nel salutarla, “meglio ridere”, le aveva detto con insolita gravità . *** La telefonata l’aveva colta di sorpresa e non era riuscita rispondere come avrebbe voluto. Non avrebbe mai accettato l’invito di Mino come non aveva mai accettato inviti che le venivano fatti dalle persone che frequentavano l’ufficio. A casa erano in pochi a chiamarla. Chi gli aveva dato il numero? E perché proprio di sabato? Per andare a colazione poi… Si era subito pentita di avere accettato, ma la velocità e la precisione con cui lui le aveva indicato l’ora e il luogo dell’appuntamento non lasciavano spazio al rifiuto. Meglio lavarsi subito i capelli, dal parrucchiere non avrebbe fatto in tempo ad andare. La doccia le diede energia e asciugandosi la testa con il phon decise di lasciarli sciolti. Insistette col trucco, ma 100 rimase incerta sull’abito da indossare. Alla fine di via Giorgio Scalia, dove i palazzi lasciavano spazio alla sterpaglia, seduto al volante di una Giulietta bianca, il giornalista vide arrivare una giovane donna vestita di azzurro. Le gambe affusolate sui tacchi alti uscivano dalla gonna corta ma non cortissima. Era bella come pensava. Uscì per aprirle lo sportello e in mano aveva una orchidea bianca screziata di rosa. Il pranzo si allungò fino alla domenica. Virginia rientrò a casa ubriaca di baci e di parole. Difficile fu raccontare a Michele quello che le stava capitando, difficile fu non far pesare su di lui la sua disattenzione. Continuava a scrivere con la forza dell’euforia, ma a quel bambino immaginario, divenuto improvvisamente adolescente non poteva nascondere l’amore. *** Alla Attieri pareva non si fossero accorti di nulla. Virginia e Mino cercarono di tenere nascosta la verità sul loro amore, altre persone non ne frequentavano e la loro storia sembrava scorresse liscia come l’olio. Soltanto quando capitava di incontrare insieme le conoscenze di Mino, lui assumeva nei riguardi della compagna l’aria distaccata e riverente che si usa in compagnia di una persona di grandi qualità ed a cui si deve rispetto e se quel comportamento lusingava la donna, le lasciava però una grande incertezza. Avrebbe preferito essere presentata con più confidenza, come una 101 compagna, la sua compagna, ma il rapporto era stato impostato chiaramente, ognuno avrebbe dovuto continuare la propria vita, l’amore era qualcosa in più. E poi perché pensare ad un rapporto ufficializzato se già tutti e due avevano un matrimonio fallito alle spalle? Perché infilarsi ancora in una istituzione superata che andava corretta? Virginia era stata una delle prime a usufruire della legge sul divorzio, Mino invece pur volendo concludere il precedente vincolo rimandava gli incontri con l’avvocato che ogni volta, purtroppo, coincidevano con improvvisi e inderogabili suoi impegni di lavoro. Per Virginia fu un sentimento nuovo, inebriante. Quante cose le faceva conoscere Mino, del sesso e della vita. A chiudere un amplesso c’era spesso una battuta. Sapeva parlare di ogni argomento e diceva la sua su tutto. La portava a mangiare in quei locali caratteristici dove il cibo esaltava l’incontro, la portava in quei paesini vicino Roma, pieni di storia e di ruderi facili da illustrare e che lui sapeva così bene arricchire di fantasia e in città le raccontava di strade coperte di fiori e di velluto. La professione però lo impegnava molto. Questi impegni, spesso improvvisi, diventavano un motivo per incontrarsi soltanto nel momento che lui riteneva più opportuno e allora Virginia, che piena d’amore accettava ogni sua decisione, lo rincorreva con il pensiero, cercando ogni spunto per sentirlo vicino. Allungava il tragitto per potere percorrere vie e piazze che facevano parte degli itinerari consueti di lui, Mino, il suo uomo e camminava dove non era solita passare, per ascoltare dal riflesso dei muri e dall’ombra degli alberi il racconto dei 102 suoi passi, per immaginare l’essenza del suo pensiero. Viale dello Stadio Olimpico la riportava al clamore delle partite e lo vedeva in piedi, pronto a sporgersi, per urlare contro un goal sbagliato. Guardava tutte le Giuliette bianche sperando che dentro ci fosse lui. Camminava lungo via del Tritone rincorrendo i suoi passi, con la speranza di incontrarlo, e davanti al pomposo palazzo de Il Messaggero si fermava annusando l’aria come per respirare l’odore del piombo che lui, nel racconto della sua giornata, le descriveva esaltandosi come un giornalista dell’ottocento. Coriandoli di sentimento sull’asfalto. Per una donna sola. Una donna innamorata. La signora Erminia si era accorta del cambiamento della vicina di casa, il fatto che bussasse meno alla sua porta l’aveva insospettita. La confidenza era poi giunta spontanea. Un lampo di vitalità nuova per la anziana signora che ormai era completamente dedita all’accudire il marito. Insistette per conoscere Mino, e per Virginia non fu facile convincere l’uomo a recarsi nell’appartamento di via Giorgio Scalia dove era riuscito a non a non mettere mai piede “Per mantenere la tua buona reputazione” ripeteva “ per non farti affaticare a preparare la cena… e poi è più divertente fuori” aggiungeva ridendo. Infatti era bravissimo nel trovare spazi nascosti o alberghetti disposti a offrire l’intimità che una coppia provvisoria richiede. Il compleanno di Virginia fu l’occasione giusta per accontentare Erminia. Mino non riuscì a non accettare l’invito e quando al settimo piano aprì la porta dell’ascensore con in mano un gran mazzo di rose c’era ad aspettarlo, come se avesse chia103 mato lei l’ascensore, la signora Erminia che lo guardò da capo a piedi e sorrise prima di sparire nella cabina. L’uomo capì. Ma la festa finì senza l’amore. Non volle farlo e quando andò via, poco prima di mezzanotte, Virginia si sentì stupida e cercò di scherzare chiamandolo “Cenerentolo”. A Maria Rosa invece non raccontò subito le sue emozioni. Capitò per caso al telefono, ma dopo parecchio tempo. A volte non si vedevano o sentivano per mesi e nessuna delle due si preoccupava eccessivamente, consapevoli che la vita diversa e le distanze della città rendevano difficili gli incontri. Maria Rosa aveva realizzato i sogni del passato trasformandoli in impegni per mandare avanti la casa e crescere Alberto e Monica, che ormai rappresentavano il suo maggiore interesse o almeno così credeva. Lucio le dava la sicurezza di un rapporto chiaro e pur sentendosi complice del comportamento senza legami che Virginia e Mino tenevano, non riuscì ad approvare completamente il comportamento dell’amica. Virginia era diventata più bella e l’avevano notato in molti. Non metteva maggiore cura nel vestirsi e continuava a truccarsi poco, ma l’espressione del viso era raggiante e l’umore anche. La gioventù sopita fino a quel momento le accendeva lo sguardo di strani bagliori. Si sentiva diversa e si comportava in modo diverso. Con il panettiere ironizzava sul doppio senso a cui poteva dare adito lo sfilatino, si informava della salute del figlio della sorella del cognato della fruttivendola di cui non le era mai importato nulla e sorrideva agli sconosciuti a volte attaccando discorso. Magia dell’amore. 104 In ufficio canticchiava mettendo in ordine i fogli e Anna Maria, meravigliata, le sgranava addosso i grandi occhi blu. Dodo nel parlarle aveva aggiunto quell’interesse che gli uomini mettono nel guardare le donne di cui vogliono scoprire la sensualità che altri hanno appena scoperto. Anselmo invece sembrava non accorgersi di nulla e se qualcuno in sua presenza stuzzicava la collega con qualche frase allusiva, mentre a lei saliva un leggero rossore, lui neanche sorrideva. Voglia di ritrovare nei colori il senso della propria immagine. Lettere e figure ancora si animarono per Virginia e aprirono i libri per aggiungere alle parole già scritte le frasi dell’amore. Stava godendo di una relazione in cui la spensieratezza cedeva il posto all’impegno del futuro. Provava il piacere del presente come non lo aveva mai provato. Perché preoccuparsi? La società cambiava le abitudini superandole con l’apertura al ragionamento ispirato dai tempi. Era una donna libera, riuscita, solo ogni tanto incominciava a sentire il desiderio di avere Mino anche in casa, la sera, per dormirci a fianco. Potergli telefonare ogni volta che ne aveva voglia… troppo spesso restava sola. Ricominciò a camminare per le strade alla ricerca di qualcosa che non sapeva bene cosa fosse. Ricominciò a stringere in pugno le foglie che strappava ai cespugli per sentire compagnia. Prese Michele per mano e parlandogli dolcemente scoprì la città guardandola con i suoi occhi. Gli occhi dell’innocenza. Si addentrò nei meandri del potere cominciando dai luoghi. Palazzo Madama, il Quirinale, Montecitorio… Oltre alla storia delle mura cercava il significato delle istituzioni. A Mino 105 poi chiedeva conferma delle sue osservazioni e lui sempre mimando partite di calcio, dava una personale interpretazione della società. Portò Michele a San Pietro e non per pregare. Si incuriosì alle ambasciate e mentre quella degli Stati Uniti a Via Veneto la impressionò per la prestigiosa imponenza, Villa Abamelek, sede della rappresentanza dell’Unione Sovietica, la spaventò per le mura massicce e l’impossibilità di spiarci dentro. Meglio passeggiare a piazza Navona, e da Rosati prendere un aperitivo. Nella fontana di Trevi scoperta troppo tardi, volle immergere Michele e lo scroscio dell’acqua fu musica. Sempre più avida di conoscere, di sapere, acquistava libri e leggeva di notte. I giornali erano pane quotidiano per l’agenzia e sfogliarli non le bastava più. Pasolini l’aveva avvicinata a un mondo intellettuale che non capiva e anche se “Ragazzi di vita” l’aveva introdotta in una realtà da cui era stata per fortuna lontana, non riusciva a comprendere l’uomo, e il parlare che si faceva intorno all’artista la lasciava perplessa. Benediceva Michele e i suoi capricci. Amava Mino e le sue battute. Era Virginia che incominciava a preoccuparla. Giorni in cui l’Inferno e il Paradiso la chiamavano mentre su di lei si increspava il Limbo del presente. Mamma di carta. Quel figlio inventato la inquietava. Studente al Mamiani, riempiva i quaderni di punti esclamativi. Gli interrogativi rimanevano per aria e quando rientrava dai cortei scalmanato e stanco, non le restava che accarezzargli il volto contenta che fosse tornato. 106 Dodo le prestò “Un’arancia a orologeria”, di Burgess. Se ne era accanitamente discusso in ufficio. Virginia non dormì finché non l’ebbe finito. Stimolata dal linguaggio provocatorio, immersa nella violenza che non voleva leggere, ma dalla quale era attratta, entrò nella rivoluzione senza accorgersene per ritrovarsi turbata e nello stesso tempo appagata di qualcosa che sentiva dentro e non riusciva a esprimere. “L’ho loccato fratello” disse riconsegnando il libro “è molto piccolopoco cinebrivido” e Dodo le battè un pugno sulla spalla rispondendo con i gesti al gergo della ribellione. La contestazione la trascinava e lei si lasciava condurre, ma la corsa si faceva sempre più affannosa. Avrebbe voluto superare Mino per voltarsi e fargli uno sberleffo. I loro incontri si erano diradati, i loro discorsi si erano svuotati di significato. Lui non le insegnava più come riuscire a ridere e lei non gli chiedeva più cosa pensasse della vita. L’estate stava finendo. Sentendosi addosso il torpore dell’inverno Virginia volle reagire. A Mino, che le proponeva di incontrarsi al solito posto, propose invece di salire a prenderla in ufficio. Alle otto non ci sarebbe stato di sicuro più nessuno e avrebbero potuto fare l’amore in un modo diverso. Il suono del campanello la colse mentre si rinfrescava il trucco. Aprì la porta sciogliendosi i capelli. Festosa lo condusse a vedere gli ultimi bozzetti. I colori furono ancora artefici di fantasia. Uno sguardo al giallo e abbracciò il compagno, un’occhiata al rosso e lo condusse nel bagno. Lì, come una vergine spudorata, incominciò a slacciargli la lampo dei jeans. 107 L’uomo più che coinvolto era divertito. Le mani diventate abili scendevano nell’intimità che prendeva consistenza. Il bacio profondo che li unì schiacciati tra il water e il lavandino di appassionato aveva soltanto l’apparenza. Le mani di Mino frugavano nella scollatura di Virginia che scivolò via dall’incastro spingendo Mino sul bordo della vasca. Dolcemente lo fece sedere. Era completamente esposto al suo sguardo. Per terra il pizzo delle mutandine sembrava danzasse. Volse la schiena alle voglie dell’uomo e pronta a chinarsi assaporò l’amplesso che voleva godere così. Il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva li fece sobbalzare. Un attimo e mentre Mino cercava di ricomporsi, Virginia lo chiuse dentro e con spavalderia passò di stanza in stanza per vedere se era entrato qualcuno. Sulla scrivania di Anselmo gli occhiali da sole e l’agenda, che prima non c’erano, fecero capire alla donna che Attieri era passato per prendere qualcosa. Si era accorto di loro? In silenzio scesero le scale, in silenzio salirono in macchina e la pizza che mangiarono non aveva il sapore di sempre. Inutili le battute di spirito, inutili le carezze per dissipare l’imbarazzo. Salita in macchina Virginia salutò il compagno con un sorriso vuoto. Lui le prese la mano “…e poi sei stata tu che hai insistito per farmi salire, io non ero venuto nel tuo ufficio per scopare.” La donna accese il motore sperando che scoppiasse. La macchina scappò con un balzo. La strada offuscata dalle lacrime sfumava i palazzi. 108 Non se la sentiva di guidare. Accostò e scese. Seguì i passi che la conducevano senza che lo volesse. Rare le automobili, nessun passante. Avrebbe potuto succederle di tutto e lei avrebbe voluto che accadesse qualcosa. Le strade, come i pensieri, seguivano direzioni che non aveva scelto, direzioni vecchie, nel quartiere che l’aveva accettata senza accoglierla. Riconobbe gli alberi con i fiori appassiti, i villini, le targhe sui portoni. Non riconobbe la maestra d’asilo che era stata. Ordinò ai piedi il cammino da percorrere, ordinò ai pensieri la strada da seguire. Era una persona adulta ormai, poteva fare quello che voleva e l’ufficio in parte era anche suo, Attieri non avrebbe dovuto comportarsi in quel modo… entrare come un ladro… per poi far capire che aveva visto… Che stupido! Piombò nel sonno come se l’avessero tramortita, ma la sveglia segnava le quattro quando finì di dormire. Dal comodino prese “Porci con le ali” il libro rimasto aperto dalla sera prima. Rilesse la pagina che aveva già letto. “In due in piedi in un cesso dopo il clic della chiave girata nella toppa, con odori di borotalco e lucido da scarpe e il ricordo di quando Laura gli ha preso in mano il pisello e leccato i peletti eccetera eccetera nell’intervallo della coppa Wimbledon.” Antonia con Rocco, protagonisti di una rivoluzione che aveva coinvolto anche lei, alle soglie dei quarant’anni. Ancora… Che adolescenza diversa la sua… quei particolari fisici e sensuali che allora nessuno diceva… lei che aveva visto l’angelo custode tramutarsi nel bersa109 gliere del monumento di porta Pia, e quando le strette al basso ventre le avevano fatto lamentare la colite, nessuno era stato capace di spiegarle la naturalezza della gioventù. Ancora… Antonia con i desideri di affermazione tramutati in orgasmi, Virginia con i desideri d’amore tramutati in allegria. L’impegno politico per sostituire la famiglia nella ragazza, l’affermazione nel lavoro per sostituire i figli nella donna. Chissà cosa avrebbe fatto Antonia alla sua età. Lei era rimasta ragazza. *** Alla Attieri S.r.l. sembrava che non fosse successo assolutamente nulla. Anselmo si comportava come sempre. Soltanto dopo qualche giorno, durante uno dei soliti ricevimenti in cui erano andati insieme, Virginia alla fine della serata lo aveva trovato su una poltrona che beveva attaccato alla bottiglia e non doveva essere il primo sorso. Con un comportamento insolito per lui l’aveva tirata per un braccio e “dai bevi che fa bene” aveva detto agitando la bottiglia sguaiato. Nei giorni che seguirono non scese come sempre a mangiare un panino con gli altri e impose a Virginia di rimanere anche lei in ufficio nell’ora di pranzo adducendo lavori improvvisi da terminare. L’atteggiamento insolito non sfuggì ai colleghi e tanto meno sfuggì a Virginia che tentò di ribellarsi chiedendo spiegazioni, ma lui meravigliato negò ogni comportamento anomalo e divenne gentile in 110 modo esagerato. Una sera le propose persino di andare al cinema. Lei rifiutò. Non era mai successo che l’invitasse per qualcosa di diverso dai doveri di ufficio. Continuò con la proposta di una cena a due. Le propose un teatro. Virginia trovò una scusa. Gli inviti cessarono, ma le sciarpe che indossava al mattino, la sera avevano perso quasi tutte le frange. Mino quando la incontrava, e succedeva sempre meno, l’amava e rideva, ammiccando ogni volta che in un locale doveva recarsi in bagno. *** Quante volte Michele si era chiuso nel cesso per provare la potenza della sua mascolinità? Era poi così importante che lei lo sapesse? Michele Michele Michele, ragazzo verde diverso dagli altri perché germoglio della sua fantasia. Michele azzurro rosso viola. Michele tazebao, Michele col fazzoletto sulla bocca. Michele con la pistola in pugno, fortunato perché non ha una famiglia. Michele Rocco con la sua Antonia che lo fa soffrire e lei mamma che non vuole vedere. Michele non deve crescere. Michele resta così! Ragazzo pieno di sogni e di certezze. Non uomo. Un uomo. Il suo uomo. Il compagno. È’ compagno chi ha le stesse idee politiche. È compagno chi scopa con una donna tante volte per un tempo abbastanza considerevole. 111 Mino è un compagno lungo. Anni di appuntamenti e di scopate. Che bel compagno! Anche Virginia è una brava compagna, gli ha dato subito il “tu” ed anche il resto… È sempre pronta ad ascoltare, ma anche a controbattere quel tanto che basta per accendere la discussione fino a farsi convincere che quello che dice lui è vero. Inneggia all’uguaglianza sociale e ai diritti delle donne e ogni volta che le era capitato di credere di essere incinta aveva inneggiato all’aborto. Questa volta no. Il ritardo del ciclo ha raggiunto il mese e le analisi dicono che a Michele sarebbe nato un fratellino. È il momento di mettere su famiglia. Virginia una casa ce l’ha, un lavoro pure e c’è anche un vero papà. Mino. Avrebbe potuto trasferirsi da lei e riconoscere quel figlio che disturbava la libertà di entrambi, ma completava l’amore. Avrebbero potuto vivere felici e contenti per formare quella generazione futura in cui credevano di credere. “Fratello sono incinta” sussurrò Virginia a Dodo nell’intervallo del pranzo “e tu sai chi è il padre. Hai loccato abbastanza per avere capito chi è il mio compagno.” “Urg urg urg” fece lui “Dammi un pugno.” E lei glielo diede. “ Accidenti… e ora che fai?” “Me lo tengo anche se lui fa lo stronzo” Ecco, la parola che ormai pronunciavano tutti senza pudore e che lei per atavico pudore si era sempre rifiutata di pronunciare esprimeva pienamente il concetto. Dodo sapeva e non lo aveva detto. Mino a Cotignola aveva già una famiglia. Non era separato 112 dalla moglie e quando diceva di recarsi a trovare i genitori, andava soprattutto per vedere Ghesde la figlia, una adolescente con gli occhi di fuoco, che della nonna paterna aveva ereditato il nome. Ma andava anche per adempiere ai suoi doveri di marito affettuoso. Dodo non aveva voluto turbare Virginia finché l’aveva vista felice. La donna però non era più felice e la storia si faceva seria. Meglio essere sinceri. Tracciando ghirigori col pennarello nero su di un foglio immacolato, disse tutto quel che sapeva e alla reazione di lei non poté fare altro che unire al pentimento per non aver parlato prima, la comprensione dell’amicizia. Nel frattempo aveva preso a frequentare l’agenzia Tiziana, una ragazza poco simpatica ma nell’aspetto “assai booona”, come diceva Dodo. Era la figlia del proprietario di una industria chimica che produceva insetticidi, Anselmo l’aveva conosciuta durante una delle serate mondane a cui partecipava e per ingraziarsi il padre, che gli aveva promesso di affidargli la pubblicità della sua ditta, le aveva offerto di dare una mano in ufficio senza sapere bene che cosa farle fare. Dodo aveva proposto una campagna pubblicitaria contro gli insetti nocivi, Virginia avrebbe voluto sterminarli. Il piccolo essere che portava dentro voleva attenzioni e la situazione intorno stava prendendo un andazzo che non le piaceva affatto. Com’era stata diversa la gravidanza di Michele! Il corpo cresceva, la mente non sapeva più cosa pensare. Sete. Sete di latte. Latte per nutrire di futuro i cuccioli d’uomo. Latte sterilizzato, scremato, 113 a lunga conservazione. Comunque latte, per non uccidere il sogno. Per non uccidere la realtà. L’emorragia la portò in ospedale mentre era in ufficio. Successe di pomeriggio, dopo aver mangiato il solito panino, quando ci si siede un po’ sonnacchiosi al proprio tavolo senza avere voglia di lavorare. Virginia quel giorno non si sentiva molto bene. La sera prima c’era stata una grande litigata con Mino. Un chiarimento. Non avrebbe mai lasciato la moglie che non amava, ma era un’ottima madre. Non voleva procurare traumi alla figlia. Continuava a chiederle scusa. “Se ti avessi detto la verità ti avrei perso” ripeteva sconsolato senza però indicare altra soluzione se non quella di proseguire il rapporto nella stessa maniera, e insisteva “Lascia perdere, non sai in che situazione ti vai a infilare con questo figlio. Sei una donna libera, affermata, cosa vuoi di più? E poi hai me… non ti basto?” Sentendosi svuotare, Virginia aveva chiamato Anna Maria con la paura negli occhi, ma la ragazza visto il sangue sulla sedia si era messa a gridare. Che vergogna! Dodo l’aveva accompagnata al Pronto Soccorso. Qualche giorno e sarebbe guarita. Mino era contento. Tutto si era risolto per il meglio. Ma Virginia non si riprese in fretta, ci volle più di un mese prima che guarisse. Lui continuava a telefonarle, eppure a lei sembrava sempre più lontano. Per fortuna c’era Erminia che le portava il latte caldo e la bistecca al sangue. La mattina che tornò in ufficio Dodo l’abbracciò stretta stretta, Anna Maria era imbarazzata men114 tre Tiziana, continuava a stare seduta alla scrivania, che era stata di Virginia, con ostentata indifferenza. L’aveva riempita di penne e pupazzetti che chiaramente indicavano l’intenzione di volerci rimanere anche dopo il ritorno della legittima proprietaria. La donna espresse il suo disappunto, ma la ragazza restò seduta e si scusò svogliata “Sai qui c’era più luce… adesso vado via…” e lentamente, molto lentamente, cominciò a raccogliere le sue cose. L’ufficio nel frattempo era cambiato, persino i colori sembrava che avessero raffreddato ogni riflesso. La musica non usciva più dalla stanza dei grafici. Anna Maria non si allontanava dalla macchina da scrivere, Tiziana, invece, si spostava da un tavolo all’altro riempiendo l’aria di discorsi insulsi e di risatine sciocche. Le due donne si osservavano senza darlo a vedere. Entrambe femmine. Adescare e procreare. Le mosse di sempre. Quando Virginia incontrò Attieri era passato qualche giorno. Si abbracciarono, ma anche lui ormai era andato lontano, troppo lontano. C’era un continuo parlottare dietro le spalle di ognuno e mancava a tutti il coraggio di dire “Su, piantiamola, cosa c’è che non va?”. Tiziana era diventata il braccio destro di Anselmo. Era chiaro che i due stavano insieme. Arrivavano persino a lanciarsi bacini dalla porta e lui portava al collo le sciarpe con le frange intatte. La moda dell’usato aiutava la prosperosa ragazza a farsi notare. Gli abiti, indossati precedentemente da donne di due taglie inferiori, evidenziavano la rotondità delle forme. Virginia invece sembrava fosse 115 diventata più piccola. Gironzolava per l’ufficio con aria affranta e passava le ore alla scrivania con i giornali aperti facendo finta di leggere o facendo finta di lavorare, ma in realtà erano molto poche le cose che Anselmo le dava da fare. Donna inutile. Inutile donna. La situazione si risolse quando Attieri le disse di avere l’intenzione di aumentare il capitale sociale e di fare entrare come socia Tiziana che avrebbe acquistato il 25% delle quote. Si scusò educato dicendo che era indispensabile prendere in considerazione lo sviluppo dell’attività, impegnandosi in investimenti più redditizi, per cui si rendeva necessario l’acquisto di una tipografia, proposto dal padre della nuova socia, che avrebbe portato ulteriori opportunità di lavoro e maggiori guadagni. Naturalmente Virginia poteva rimanere, anche per lei si sarebbero aperte altre possibilità di affermazione, bastava adeguarsi agli impegni. Stronzo stronzo stronzo stronzo stronzo. Evviva le parolacce. Ma che credeva che fosse proprio un’imbecille. La proposta era un chiaro modo per metterla alla porta. Pianse di rabbia. 50% Attieri, 25% Tiziana, 20% la signora Ferrin. Nella società avrebbe contato un cazzo. E i soldi per l’aumento del capitale sociale dove li avrebbe presi? La “zeccona”, così la chiamava Dodo per via del padre insetticida, aveva vinto. Le dimissioni, apparvero a tutti la cosa più opportuna. Virginia aveva ostentato indifferenza e perfino allegria, ma dentro, lo stomaco si ribellava. 116 Volle andarsene senza cerimonie. Dodo l’accompagnò alla porta cercando di farla ridere. Anselmo quel giorno non si presentò in ufficio. A casa le giornate non passavano mai e se prima il trillo del telefono si faceva sentire poco, ormai sembrava che l’apparecchio si fosse guastato. Il silenzio pesava come un macigno. Il rimpianto della voce di Mino che scherzava ogni volta che la sentiva un po’ arrabbiata, le stringeva il cuore. “Spicchio ti sei guardata allo specchio?” “Guardati… sei bellissima!” le ripeteva allegro. Parole stupide, care… Quanto le mancavano… Parole che riempivano il tempo tra un incontro e l’altro, parole che nutrivano le vene, che sostituivano gli abbracci, che facevano venire voglia di abbracci. Soltanto parole, eppure... Avrebbe voluto ancora sentirsi parte di quel tutto che era lui. Mino. Lo aveva amato per più di quattro anni… pronta a vederlo soltanto quando lui poteva... Un rapporto alla pari, dicevano… Lei ci aveva creduto. Via il bambino, via Mino. Eppure lo amava ancora e ancora avrebbe voluto che il telefono squillasse per sentirsi spicchio. Uno spicchio da inghiottire… Ma quanti altri spicchi avrebbe dovuto offrire Eva per ricomporre la costola ad Adamo? Per annullare quel giorno di distanza che separa la donna dall’uomo? Uno spicchio di tempo nel tempo per sopprimere l’Eden, per ingannare l’amore. Camminava su e giù nel corridoio con Erminia che 117 ripeteva “non fare così.” mentre il passato le tornava in mente. Quanti pianti! Maria Rosa l’aveva strapazzata “Hai fatto sempre quello che hai voluto… potevi rimanere con Carlo, ti facevi un amante, magari anche un figlio, facevi in modo che pensasse che fosse suo e non dovevi sbatterti come hai fatto… Hai capito ora com’è la vita? Vedi di cambiare.” Ma poi l’aveva abbracciata “Sei forte Ginia, cerca di reagire. Troverai un altro lavoro e un altro uomo. Starai meglio vedrai….” e masticando un biscotto al cioccolato “Dai che sei tutte noi. Non mollare” poi infilandogliene più d’uno in bocca come si fa con i bambini, l’aveva invitata a inghiottire insieme ai biscotti anche le lacrime per ridere della vita e degli uomini, lasciando che le briciole cadessero dalle labbra troppo tirate. *** Sembrava che anche le piccole cose che stavano intorno volessero creare problemi a Virginia. La tazza di plastica, ricordo del kinderheim, si ruppe, la televisione prese a trasmettere righe anziché figure, lo sciacquone del gabinetto si mise a fare scorrere acqua senza interruzione, mentre un fornelletto della cucina a gas rifiutava di accendersi. Il giorno in cui il proprietario dell’appartamento avvisò l’inquilina che non avrebbe potuto rinnovarle il contratto, in quanto la casa serviva alla figlia che si sposava, la donna pensò proprio che 118 non ce l’avrebbe fatta a sopportare più nulla. Attieri tardava nel versarle il rimborso delle quote e senza quei soldi era impossibile pensare di affrontare un nuovo contratto d’affitto e le spese per il trasloco, inoltre anche il fisico dava segni di insofferenza. Continue coliche la facevano torcere dai dolori e i racconti della signora Erminia sulla sanità e gli uffici pubblici che le erano sembrati esagerati, divennero una realtà da affrontare. Esasperata dalle lunghe attese era diventata irascibile, rimproverava infermiere e medici. Rivendicava diritti, istigava ai doveri con il risultato di essere additata come una rompipalle e trattata con quell’aria di sufficiente condiscendenza che si ha verso chi non è nessuno. Ma lo stare veramente male la costrinse a diventare umile, ad accettare tempi e modi prescritti dai medici che le avevano trovato i calcoli alla cistifellea e le avevano consigliato di ricoverarsi per l’operazione. Entrò in ospedale portando insieme al pigiama, tanta paura. Si attaccò al conforto che il numero del letto, 13, le avrebbe portato fortuna. Maria Rosa era al mare con i bambini, la signora Erminia aveva il marito moribondo, soltanto Michele avrebbe potuto pensare a sua madre e la sua fantasia le fu di aiuto. Attendeva l’immagine fantasiosa del figlio senza rimproverargli i ritardi. Partecipava ai suoi entusiasmi, divideva le sue delusioni. Per strada i giovani pieni di ideali venivano ammazzati e gli adulti gambizzati, eppure lui trovava il tempo per correre da lei per raccontare la ribellione di un movimento che non voleva essere rivoluzione. Le spiegava i meravigliosi ideali, rispondeva ai dubbi, e usciva dalla porta alzando il 119 pugno. Virginia si rammaricava soltanto di non poter presentare quel figlio tutto suo alle vicine di letto che a turno scendevano a comperarle La Repubblica e Il Manifesto su cui leggeva la cronaca di ciò che avveniva nelle piazze d’Italia e che lei trasformava nel coinvolgimento del ragazzo. “Io sono mia” si ripeteva con malinconico orgoglio, ma capiva di essere sempre più sola. Firmò per tornare a casa in anticipo e sul pianerottolo incontrò Erminia rientrata dal cimitero dove aveva appena accompagnato il marito. Si abbracciarono e piansero ciascuna le proprie lacrime di donna. Riuscirono a trovare nella solidarietà l’impegno per continuare a vivere. Insieme uscivano, insieme si univano ai cortei che incontravano o che andavano cercando per capire meglio il senso della propria femminilità. Per essere inserite nel momento storico che stavano attraversando, per partecipare. Non indossarono mai gli zoccoli e la gonna a fiori, ma dentro nutrivano un gran fascio di mimose. Tornavano stanche e fiere. Un saluto sulla porta e il ricordo della voce di Giulio che chiamava “Ermiiinia… dove sei?” riportava ad ognuna la nostalgia degli antichi doveri. *** Oltre la Portuense, nei quartieri nuovi, Virginia era andata a visitare appartamenti che le rammentavano quello dove aveva abitato con il marito, e sulla Circonvallazione Ostiense, a Centocelle, verso la Casilina o la Tuscolana, i palazzoni popo120 lari non la entusiasmarono. Le aveva girate tutte le case a prezzo contenuto, ma la Roma elegante che abitava ai confini della Cassia, della Trionfale, su, oltre villa Ada, aveva prezzi inaccessibili. Il nord della città, come il nord di gran parte del mondo, era più curato, più attento all’estetica dell’insieme, pensava avvilita la donna convinta di non riuscire mai più ad abitare in una zona dove le sarebbe piaciuto vivere. Lei, che era nata dall’unione di un uomo del nord e una donna del sud, non si riconosceva nelle case che andava visitando, le case dalla parte più calda di quella che sarebbe diventata una metropoli, dove la periferia metteva in evidenza con strapazzato orgoglio le proprie miserie, i panni stesi e i terrazzini pieni di cose appoggiate alla rinfusa, simili nell’insieme al cortile dove si affacciavano le finestre della casa di piazza Alessandria, dove la mamma aveva ricavato un ripostiglio. Balconi addobbati di ristrettezze. Balconi come bandiere. Allontanarsi da allora, come aveva fatto allora o tornare nella Roma Umbertina che aveva accolto i genitori? In quella Capitale ambita che aveva rappresentato per loro un punto di arrivo. Nord e sud uniti dalla speranza di un miglioramento per lei, creatura amalgamata dal cauto amore familiare, entrata poi in un qualcosa di troppo grande, con i palazzi addosso, pesanti e interessanti insieme, di cui non capiva più il senso dell’abitabilità. Roma che tutti lascia entrare e tutti ignora, si era allargata in ogni direzione, ma non confondeva i ceti sociali nell’abbraccio dell’uguaglianza. Virginia avvolta dall’intrigo dei pensieri non si decideva a concludere nessun contratto d’affitto. 121 Forse Michele avrebbe potuto scegliere per lei un appartamento con un balcone pieno soltanto di fiori e le finestre spalancate. Michele. Che faceva per sua madre? Riempiva fogli e fogli di frasi contestate. Era cresciuto in fretta come avviene nei libri dove il tempo non è mai quello reale. Stava finendo l’università. Voleva conoscere paesi lontani, società diverse. Roma non gli bastava più. Trovò lavoro all’Alitalia, un posto sicuro, con lo stipendio a fine mese e la possibilità di fare un viaggio gratis all’anno per vedere il mondo, quel mondo che la madre non conosceva ma immaginava incastonato nella sua città. La penna lo aveva portato altrove e lei, Virginia, madre contestatrice avrebbe voluto che avesse preferito trasferirsi a Cuba. *** Dodo era veramente un amico. Preoccupato per la collega l’invitava spesso a casa dove la compagna, che pur non essendo sposata divideva con lui e due bellissimi gemelli un appartamento a Monte Sacro, l’accoglieva con molto affetto. Lavorava in banca e nel resto del tempo, benché impegnata con i bambini, non mancava mai di preparare qualche cibo speciale. Era l’immagine dell’amore inteso nel senso più ampio della parola. Sorridente anche nei momenti più difficili aveva creato intorno a sé un giro di parenti e soprattutto amici che si prodigavano come bambinaie, ma anche 122 come idraulici, falegnami, pittori e compagni di allegre mangiate. Virginia, che non era abituata alla confusione della confidenza, spesso declinava gli inviti sentendosi fuori posto e la sua ritrosia veniva accettata con la stessa disinvoltura con cui i padroni di casa accettavano l’invadenza degli altri. Soltanto i gemelli la facevano sentire a proprio agio e per loro tornava a essere la maestra d’asilo che era stata. Riccioluti e biondi i piccoli erano identici, e la gioia dei loro volti diventava un’unica grande gioia per la donna che se li stringeva al petto insieme e nel sentimento che provava si illanguidiva. Avrebbe voluto allattarli. Per farli crescere sani. Per bagnargli con il latte il piccolo sesso, segnargli la fronte, schizzargli gocce di latte sul viso. Latte, latte… Latte di lupa disperata. Romolo e Remo. A loro avrebbe chiesto le chiavi della città, il senso della città. A loro avrebbe chiesto dove andare ad abitare. E gli parlava e raccontava la storia di Roma e i piccoli ascoltavano e ridevano, ridevano senza capire. L’occasione capitò per caso. Uno dei tanti amici di Dodo, un fotografo di Rio de Janeiro, doveva assentarsi per diversi mesi e non volendo pagare le utenze a vuoto, cercava una persona di fiducia che potesse sostituirlo nell’appartamento ed avere la certezza di poterci rientrare al suo ritorno. Virginia non era convinta. Una casa da prendere in prestito, come l’abito da sposa. E poi non conosceva Via Tito Speri, in Prati. Nord? Sud? Il quartiere Prati era ormai considerato centro e poi la strada ospitava un mercato rionale. Già, come il mercato di piazza Alessandria… Andò a vederla. Si entrava da un cancello nasco123 sto dalle bancarelle… un attimo ed il vocio si trasformò in applauso… Il cortile, assai curato, aveva al centro una palma. Virginia raggiunse il portone come se fosse ubriaca e nel prendere l’ascensore si rese conto di non essere più sposa. Le porte che si affacciavano sul pianerottolo erano di noce, eleganti, avevano pomi di ottone per maniglie. Erminia li avrebbe lucidati ogni mattina pensò, lei invece avrebbe lasciato al tempo il compito di rivestirli di opacità. La casa era abbondantemente arredata e non avrebbe potuto portare nulla di suo se non la biancheria e i vestiti. Ogni parete, ogni angolo era completamente ingombro. Di tradizionale c’era soltanto il letto, a due piazze, sorretto dall’intelaiatura di ferro battuto con le spalliere dipinte dove danzavano amorini scoloriti dalle ombre del passato. I volti rosei e paffuti erano scrostati come se una mano nervosa avesse voluto nasconderne la vera identità. Somigliavano ai gemelli di Dodo. Riccioluti e biondi. Le si accese lo sguardo. Che l’America Latina fosse stata la patria del fotografo si capiva dai colori sgargianti intrisi di sole. Gialle erano le pareti della cucina, verde il soffitto del soggiorno e nel bagno l’azzurro riproponeva le onde dell’Atlantico. L’ingresso non aveva altri mobili che un grande tavolo, un baule cileno e una branda aperta carica di cuscini dai disegni vivaci. La stanza da letto, con l’armadio a muro che prendeva una intera parete, allargava lo spazio dalle ante rivestite di specchi. Una piccola panca di legno grossolanamente intagliato e un tavolino in 124 ferro laccato di rosso servivano da comodini. Lumi dovunque mentre erano stati aboliti i lampadari. Virginia non sapeva se essere divertita o spaventata, comunque riuscì a stabilire il giorno del trasloco. Affacciata alla ringhiera delle scale di via Giorgio Scalia, con la signora Erminia a fianco, seguì con lo sguardo il cassettone della nonna portato a spalla da due amici di Dodo. Il tavolo e le sedie ancora con il lucido netto del mobilio nuovo, entrarono nell’ascensore. Appoggiava le sue cose nella cantina che gentilmente la vicina di casa le prestava. La poltrona della mamma fu l’ultima ad uscire, anche lei portata a spalla, e come un feretro caro ebbe Virginia al seguito. La donna scendeva la lunga fila di scalini inseguendo la memoria. In alto aveva lasciato il dilatarsi della gioventù, in basso avrebbe depositato le spoglie del passato. Erminia aspettò che le ombre sparissero per chiudere la porta piangendo. *** In primavera i viali geometrici, larghi e pieni di alberi emanavano il profumo del bene. Bene infatti stava la gente che viveva in Prati, e si vedeva. La barbona non ricordava con lucidità quei viali e quelle piazza, ma l’istinto la portava ancora a percorrerli, facendoglieli inserire nel programma del suo peregrinare. Sembrava che le signore agghindate con i canoni di una eleganza statica, portassero riflessa negli abiti la signorilità austera delle 125 loro case. Persino il mercato risentiva della raffinata ricchezza degli abitanti. Le donne meno sguaiate nell’offrire i frutti, gli uomini più attenti nel decantare pesci e carni. Un quartiere dove alla gente non piaceva camminare per strada, poche le persone e quelle poche si salutavano con estrema educazione mentre la conversazione assumeva i toni della formalità. Virginia tornava volentieri in via Tito Speri e la memoria del mercato le riportava alle orecchie il rumore dell’adolescenza. Tornava per cercare di sentirsi ancora donna, come lo era stata allora e non era raro trovarla di notte, di fronte al cancello che si apriva sul mercato, accucciata per terra, con gli occhi aperti senza pupille, che si agitava in cerca di quel piacere fisico che neanche il ricordo le faceva più provare. Dedicava a quel quartiere il mese di maggio. Cominciava a spostarsi ad aprile, lentamente, anche se lungo la strada non trovava buoni posti per dormire. Appena giunta gironzolava fra i banchi ripetendo i gesti del passato quando per reagire alla malinconia usciva dal cancello della casa presa in prestito ed il colore delle arance ed il profumo delle spezie la eccitavano. Ricordi sovrapposti ai ricordi. Il richiamo dei venditori si confondeva all’applauso delle nozze, sposa con il vestito di un’altra, bambina senza pomi da offrire, vecchia costretta a rubare pomi che era ormai inutile dividere a spicchi. Adamo aveva preso la rincorsa e lei era rimasta indietro. Ancora con la voglia di esistere, di guardare la propria immagine riflessa nelle vetrine dimentica dei goffi panni e del modo di muovere i passi appesantito dalla miseria. Prendeva in prestito 126 Piazza Mazzini, piazza Bainsizza, via Settembrini, per godere l’ampiezza delle strade che allontanavano dallo sguardo la tristezza del cemento. La sua città. Altre non ne aveva viste. Non era stata abituata a viaggiare, ai suoi tempi era considerato un lusso, e poi perché avrebbe dovuto farlo se Roma le aveva offerto tutto ciò che aveva voluto sapere? Annusare gli odori, ascoltare le voci, misurare l’intensità dei silenzi le era servito per capire l’identità dei popoli. Vie e piazze per sognare, occhi negli occhi dei passanti per capire e poi su, a scrutare oltre i balconi, le tende, i soffitti, per vedere gli arredamenti che si intravedevano dalle finestre illuminate. La sua città, preziosa antologia di tante piccole città, cucite insieme dal filo della storia che compone il tappeto su cui si appoggia il futuro. Come un turista spinto dalla curiosità, si spostava tra i palazzi immaginando di essere a Houston, a Parigi o in Cappadocia, e dal mercato prendeva in prestito l’umanità per vedere la gente trasformata in popoli lontani. La donna volava con la fantasia mentre i mattoni immobili aspettavano di essere scaldati dal sole per poter dare ristoro alle sue stanche ossa. *** A Virginia venne spontaneo annodarsi il fazzoletto pervinca sulla testa e allargare un gran fiocco sulla fronte. Si sentiva brasiliana… o argentina? Però poteva anche essere del Perù… Quanto poco sapeva di quei popoli lontani! 127 Intorno la casa sorrideva e cercava di coinvolgere la nuova inquilina. Con una mano sul ventre ed una sul sedere, muovendosi al ritmo di una ipotetica samba, girò intorno al letto rimirandosi negli specchi. Alzò le braccia con passione. Voleva che la musica si impossessasse di lei. Continuava a camminare ballando mentre cercava di portare in equilibrio camicette e maglioni, lenzuola e scarpe. Wanda Osiris non faceva così? e le donne brune che nelle pubblicità invitavano ai viaggi? No, era Joséphine Baker che portava mango e banane sulla testa… Provò a tenere in equilibrio una mela. Si sentì preda di Robin Hood… I vetri spalancati, che affacciavano sui disegni Liberty del palazzo di fronte, aprivano orizzonti artificiali dove la mano di un ignoto artista aveva riempito i muri di foglie polpose dai colori autunnali. La facciata, interrotta dalle colonne delle finestre sporgenti, riproponeva l’architettura nordica protesa ad assorbire meglio il sole. Intorno, intrecci di foglie e di fiori senza figure umane, una foresta immaginaria in cui Robin Hood avrebbe potuto nascondersi… Ancora lui… Che strano effetto quei disegni Liberty, non facevano venire voglia di guardare di sotto ed il cielo sempre più scuro aggiungeva mistero. Sentì freddo, ma non chiuse i vetri. Incantata aspettò che la notte lasciasse ai palazzi soltanto la sagoma delle pareti e l’ombra che allungava la fuga dei cortili mettesse in evidenza il profilo delle palme, tutte uguali, tutte al centro dei giardinetti. Poteva essere un borgo quel agglomerato di costruzioni… Un’altra Roma da scoprire, come da scoprire era quella casa in cui l’impronta della persona che 128 l’aveva abitata tentava di allontanare la personalità della nuova venuta. Virginia non si accorse che il tempo passava e le palme fra i palazzi incominciavano ad agitarsi mosse dal vento. Chissà quanti anni avevano? Palme del primo novecento, con poche foglie in cima e il tronco secco secco che sembrava impossibile potesse rimanere dritto. Sembrava che si fossero staccate dai disegni del muro del palazzo di fronte. Forse avevano la sua età. Quarant’anni. Ma lei a che epoca apparteneva? Chiuse le persiane con i capelli schiacciati dal foulard che si era appena tolto. Chiuse gli occhi. Non aveva più voglia di sognare. *** Alberto e Monica, con i loro perché l’invitavano alla meditazione. Curiosi come lo sono i bambini, non staccavano gli occhi dalle numerose fotografie appese al muro. Le guardavano in silenzio e poi i “chi è?” si accavallavano a “…e che faceva?” senza lasciare a Virginia il tempo d’inventare qualcosa da rispondere. Maria Rosa spiegava il Che rivoluzionario, Virginia descriveva l’eroe. “Ma è buono o cattivo?” insisteva la piccola mentre la mamma si distraeva sul tessuto Maya dei cuscini che trovava bellissimi. La maggior parte delle foto riportavano immagini di povertà dove la forza addormentata dal calore si 129 esprimeva nei volti cotti dal sole. I sorrisi sdentati, le rughe profonde, l’intensità degli sguardi che spesso era domanda e disperazione, raccontavano una vita diversa, lontana. Le difficoltà del vivere quotidiano trasparivano dalle case arrangiate, dalle baracche addossate ai grattacieli, dalla polvere ovunque. Campesinos, desaparecidos, parole straniere per Virginia e nelle orecchie il canto della rivolta. Anche a Roma la violenza raccontata a pennarelli rossi imbracciava la morte e i cortei si moltiplicavano, ma Virginia ormai era assente. Soltanto l’atroce silenzio sulla cattura di Moro, la riportò a fianco di Erminia, che l’aspettava paziente negli spazi di tempo sempre più rari. “Quel poveretto” diceva “che colpe ha?” Nella gente la paura. La revolution non cantava più “El Pueblo, unito…” Chito Pachete, il fotografo che le aveva prestato la casa tornò prima del previsto “per un mese” disse e poi sarebbe ripartito. Aveva telefonato dall’aeroporto per chiedere a Virginia se poteva ospitarlo soltanto per una notte, l’indomani avrebbe cercato con calma un albergo. Lei acconsentì senza imbarazzo, l’appartamento d’altronde era suo. Preparò svelta il letto nell’ingresso ammucchiando per terra i cuscini. Aveva visto Chito poche volte e sempre molto in fretta. Un giovane di carnagione scura dagli occhi vellutati, non facile al sorriso, che dimostrava più anni di quelli che aveva. Ne aveva sentito parlare assai bene da Dodo e l’immagine che si era fatta di lui, attraverso l’arredamento della casa, la stimolava ad approfondirne la conoscenza. Gli avrebbe chiesto di raccontare la sua terra, di spiegargli quei popoli. 130 Era mezzanotte passata quando Chito arrivò. Aveva aperto la porta con le chiavi, senza prima bussare e questo sorprese Virginia. L’abbracciò come se fosse un’amica che non vedeva da molto tempo, poi allontanandola con un gesto galante osservò ogni centimetro quadrato della sua persona lasciandola alquanto interdetta. La strinse ancora tra le braccia e sembrò commuoversi. Virginia imbarazzata non sapeva che fare. Gli chiese se avesse cenato. Lui rispose di si. Il fotografo, anche se aveva disegnata sul volto molta stanchezza, lasciava trasparire l’entusiasmo di un ragazzo. “Ma che casa ordinata” continuava a ripetere guardandosi intorno “non sembra più la mia”. Virginia gli diede la buona notte e chiuse la porta. Stentava ad addormentarsi tesa ad ascoltare ogni rumore, ma sembrava che nella casa non ci fosse nessuno, poi sprofondò in un sonno agitato e quando allungando un piede ne incontrò un altro che non era il suo si rigirò pensando di sognare. La sensazione di calore che proveniva dal fianco la illanguidiva. Il desiderio di essere abbracciata l’invase senza svegliarla. Si strinse nel cuscino, gemette ed il cuscino diventò un corpo. Percepì la voglia del maschio. Divenne femmina. Senza aprire gli occhi rispose alla passione. Il sole già alto allungò un raggio tra le fessure della saracinesca per stringere ancora Chito e Virginia in un appassionato abbraccio. Un sogno che durò un mese. Stupendo. In cui l’ardore della donna condotto dalla spavalderia del ragazzo argentino uscì allo scoperto. Visse in quei giorni soltanto per lui cercando di carpirgli anche 131 l’anima, ma non ci riuscì. Era completamente suo soltanto a letto. Gli altri momenti della giornata apparteneva all’America Latina. Gli telefonavano molte persone e lui mescolava veloce e a scatti lo spagnolo, l’inglese e rapide esclamazioni in italiano. Lei rimaneva esclusa. Chito non voleva parlare della sua terra, con lei voleva soltanto godere e quando Virginia insisteva nel farsi spiegare le vicende di quei popoli “Tu no puede capire nostro travaglio, tu vivi in un’altra realtà. Tu donna fortunata” e l’azzittiva con un bacio. Era vero. Mai come in quel momento si era sentita così bene. Aveva allontanato le ansie del lavoro che non cercava più e della sopravvivenza futura di cui non voleva occuparsi. Stirava camicie e magliette, riempiva le ore girando per il mercato in cerca di primizie, pulendo fagiolini, lavando la verdura, crogiolandosi nel pensiero di lui, di ciò che poteva piacergli, di ciò che insieme avrebbero potuto fare. Aspettava il suo ritorno come una moglie devota. “…le era venuta una gran placidezza. L’uscio chiuso e il tranquillo compagno le davano un agio, un calore che non aveva mai provati, né sola né in compagnia…” Così pensava Artemisia nel libro di Anna Banti che aveva appena finito di leggere. Così Virginia emulava nelle sensazioni la grande pittrice, e si sentiva appagata. Ancora la spinta ad un comportamento data da un libro. Essere un’altra. L’altra. Le altre. Ma l’io di cui tanto si discuteva intorno, dove era finito? Freud sviava la storia. Impossibile essere un’altra anche se le circostanze erano simili. Artemisia agiva, lei aspettava. Chito partì all’alba, insonnolito e sazio. Dopo un 132 mese le arrivò una cartolina da Barranquilla, in Colombia. Soltanto la firma “Chicco” come lei lo chiamava ripiena di lui. Chicco, più intenso di uno Spicchio. Chicco, più piccolo di uno Spicchio. Soltanto un Chicco, enorme per lei. Passò i giorni sprofondata tra i cuscini della branda mai usata, li accarezzava come fossero Chito. Ma Chito non c’era. E allora parlava al ragazzo con la sapienza dell’adulto e gli raccomandava la prudenza e lo chiamava Michele. Ma Michele girava il mondo seduto su una comoda poltrona d’aereo e Chito a Cuba c’era stato davvero. Con lo sguardo perso, Virginia, immobile davanti alla finestra, non piegava più calzini e maglioni, né si accorgeva del tempo che guidava il suo umore affidandolo alle ombre. Sentiva accanto l’energia del maschio e se ne veniva convulsa eccitandosi alla vista dei fiori grassi dipinti sul palazzo di fronte. “Mi piace questa casa perché è una casa che mi ricorda casa mia… Una casa del nord costruita al sud. Come me che ho imparato a crescere nell’altra parte del mondo. Qui potrei essere a Londra o a Parigi, è lo stesso. Vedi quei disegni? hanno l’opulenza dei frutti che mangiavo da piccolo, ma le tinte non hanno resistito al sole che non è il mio sole. La luce qui sbiadisce i colori come i sentimenti… voglio invecchiare sotto il sole senza sbiadire.” Così diceva Chito. Chitomichele. Opulenza della fantasia. Virginia riprese in mano i suoi scritti, riordinò le 133 pagine. Corresse, riscrisse. Inserì note di vigore giovanile che prima non aveva conosciuto. Venne fuori un vero libro e si convinse che era il più bello che avesse mai letto. Quello che avrebbe portato sempre con sé, per non sbiadire, e da ogni finestre lo avrebbe letto alle stelle che non volevano cadere. *** Colombo si avvolse meglio nell’impermeabile chiaro sempre più stazzonato, la Vuitton a tracolla lasciava uscire dalle cuciture sdrucite pezzetti di giornali ciondolanti. Andò incontro a Virginia. Lei sembrava non lo avesse visto invece lo aveva notato, ma la figura dell’uomo non le aveva dato conforto. Tornava da uno di quegli spostamenti tra i quartieri della città che l’impegnavano per giorni, a volte per mesi come se l’Australia si fosse trovata all’EUR e l’Asia a Campo Marzio. Aveva l’aria ancora più stanca e la cartella blu rendeva inconfondibile la sua figura. Riavvicinarsi ai treni era come rientrare nella propria casa. La donna camminava lungo il margine dei binari fino ad arrivare dove sapeva di trovare il suo conforto. Raggiunto uno dei tanti vagoni in deposito, immaginando il rullio del movimento, viaggiava come aveva viaggiato nella vita, con la fantasia. Le figure, i panorami impressi dalle foto e dalla televisione nell’iride ormai non più congestionata dal riso e dal pianto, le si riproponevano rivestiti di bello e di buono. La luce assai fioca rischiarava una squallida visione di binari infiniti sui quali Virginia si lasciava 134 condurre. Realtà virtuale. I finestrini diventavano schermi. Videogames sui quali non aveva fatto in tempo a giocare ed allora, lei, giocava il gioco dei ricordi manovrando comandi nascosti nel guanto dell’illusione. Le andavano incontro uomini in jeans con la testa carica di lustrini come il Mago Zurlì e le donne, bambine coi capelli bianchi, portavano cesti azzurri pieni di chicchi e di spicchi. Chi cantava e chi bofonchiava. Davanti non era più notte, dietro, la morte, con la falce in mano, avanzava lanciando lampi di elettricità, mentre il sonno che arrivava danzando le appoggiava accanto la gioventù. Colombo, che l’aveva seguita, si accomodava discretamente qualche posto più in là e la mattina, appena l’alba si confondeva al chiarore dei lampioni, anticipava i movimenti dell’amica che nello scendere dal treno quasi rotolava sul predellino. Lei gli concedeva attenzione senza parlare. Insieme si recavano ai bagni pubblici, insieme cercavano di fare colazione gironzolando fra i bar appena aperti della stazione e quando l’uomo tirava fuori dalla tasca qualche leccornia che aveva rimediato la sera prima, diventava un gioco contendersela. “Oggi è il 19 settembre” disse Colombo la mattina di San Michele “È la festa di tuo figlio. Mi devi far leggere il libro, me l’hai promesso.” e senza aspettare risposta fece la mossa di sfilarle la cartella dalla spalla. Virginia non si oppose, ma trattenendo la borsa con tutte e due le mani sorrise e con un cenno della testa gli indicò di seguirla. Lo condusse nel sottosuolo della stazione dove la luce non si spegne mai. Fece sedere l’amico per terra con le 135 gambe allungate e gli si pose accanto nella stessa posizione, aprì la borsa e appoggiò sulle ginocchia il sogno. “Forse tu…” diceva la copertina. Forse soltanto tu, pensava la donna. Passarono le ore, la notte diminuì il movimento, i due barboni erano sempre lì, ma mentre non si capiva se lei dormisse lui ancora leggeva. Poi Colombo le aveva ridato i fogli e Virginia li aveva riposti nella cartella facendogli segno di tacere. Nel viso dell’uomo aveva visto ciò che le bastava. La storia di Michele lo aveva turbato. Dove era finito quel ragazzo che ormai doveva essere un uomo? “Voglio un quotidiano” disse al giornalaio che gli stava porgendo “Gente” al posto del solito quotidiano. Quel giorno non voleva essere disturbato dalle fotografie. Michele gli era entrato dentro e la mamma… o la mamma. Per lei voleva comporre ghirlande di bamboline stampate. Voleva far parlare il cuore. Con “Il Tempo” in mano l’uomo uscì sul piazzale e appoggiato alla vetrata si accomodò con le gambe incrociate pregustando il piacere di giocare. L’abilità con cui usava le dita era sorprendente, le muoveva come fossero forbici appuntite e i pupazzetti di carta prendevano forme sempre più precise, ma quel giorno li girava e rigirava tra le mani senza riuscire a trovare il nesso logico che cercava nelle parole tronche, quasi che le lettere si divertissero a imbrogliargli le idee. Finalmente “don”, di chissà quale parola che riempiva la caviglia di una ballerina e “bro” che le si troncava sulla testa gli fecero gridare “Donnalibro! Donnalibro!” e come se in corpo gli si fossero accesi mille razzi scappò in cerca di Virginia. Ma la donna era andata in chissà 136 quale altra parte del mondo e quando tornò, molti giorni dopo, non si accorse che nei sotterranei della Stazione Termini gli altri barboni la indicavano chiamandola così. *** “Artepiù” era tracciato con la scrittura incerta di un bambino. Stava scritto sulla porta a vetri della galleria dove aveva trovato lavoro Virginia. Lo status symbol del momento voleva il ceto medio arricchito anche dalla cultura, e nelle case abbondavano enciclopedie e quadri alle pareti. La grafica si vendeva bene. Torquato Lunetti, era stato uno dei primi a capire il business che poteva girare intorno ai fogli numerati e firmati dagli autori. Ci fu il boom delle litografie e delle incisioni e lui aveva pensato di organizzarne la vendita oltre che nel grazioso negozio di via Laurina, a due passi da via Margutta, anche attraverso una rete di venditori che si recavano nelle case e negli uffici sul modello delle vendite porta a porta della Stanhome. Virginia era capitata al momento giusto proprio quando il gallerista non riusciva più a gestire da solo il movimento che si era creato intorno all’iniziativa. Lunetti, cliente di Lucio, il marito di Maria Rosa, dava garanzie di serietà e l’amica aveva tanto insistito perché accettasse l’incarico. “Dai… è un lavoro adatto a te. Entri in un ambiente diverso, fantasioso come piace a te e non si mai… t’innamori di un artista, tu che cerchi sempre qualcosa di strano…” 137 Il gallerista non era un uomo antipatico e oltretutto prometteva grossi guadagni, ma soltanto in seguito Virginia si accorse di quanto era difficile mantenere un buon rapporto con lui. Bravissimo nel vendere i quadri e nel proporre l’acquisto come fosse un affare, era dotato di un intuito veloce che lo faceva agire tempestivamente e sempre a proprio favore. Aveva capito che l’esperienza maturata nell’agenzia pubblicitaria dalla signora appena conosciuta, gli sarebbe stata molto utile, ma ostentava indifferenza per rendere più preziosa la sua proposta. All’inizio sembrò a Virginia di aver trovato il posto giusto al momento giusto. L’odore dell’arte l’inebriava. Purificato, Maccari, Monachesi, Cagli, Perilli, Turcato da nomi diventarono colori. Forme di volti e linee di malia. In ogni foglio un invito per ritrovare nei tratti originali di ognuno il senso di tutti. Si entusiasmò alla scelta della grafica e alla vendita, ma presto si accorse che ogni suo suggerimento veniva accantonato per essere riproposto poi da Torquato Lunetti come una idea avuta in precedenza da lui. Avvilita si adattò alla situazione e cercò di fare finta di essere scema. Lunetti conosceva però l’importanza del riconoscere ai collaboratori la loro bravura e onestà e lo faceva al momento più utile per lui, in presenza dei clienti. Era una astuzia che migliorava l’immagine della galleria, ma a Virginia, che d’immagine se ne intendeva, quelle lodi non davano la soddisfazione che procuravano agli altri. Consapevole di essere una dipendente indispensabile, non si rifiutava di spolverare i quadri, pulire la moquette, aprire e chiudere la pesante saracinesca garantendo una 138 graziosa presenza nel locale e una preziosa collaborazione nel lavoro. Aveva dovuto sottostare alla diminuzione di qualifica per essere iscritta all’INPS solamente come commessa e aveva dovuto accettare che la percentuale sulle vendite, non denunciata ma promessa come integrazione al basso stipendio, le venisse conteggiata a discrezione del datore di lavoro. Nella galleria l’abitudine a procrastinare le spese aveva la precedenza anche sull’acquisto della carta igienica e delle saponette. Sembrava che l’arte fosse sempre pulita. Si viveva un’atmosfera surreale in cui pareva che tutto galleggiasse al di sopra delle necessità di ognuno, vuoi perché i discorsi giravano soprattutto sul significato intrinseco ed estrinseco delle opere esposte, vuoi perché ogni altra questione conduceva alla drammatizzazione delle situazioni contingenti in rapporto all’incomprensione della società rispetto all’interiorità dei singoli individui. Varcare la soglia di Artepiù significava entrare in un tempio dove le preghiere erano opere d’arte e il parlare assumeva un tono da confessionale. Se fosse stato possibile scegliere i disegni al buio si sarebbero spente le luci e la grafica alle pareti, che non eccedeva per calore, accentuava l’irrealtà. Veniva spontaneo stare al gioco e ognuno assumeva toni bassi in modo da non alzare mai la voce, neanche quando si trattava di controbattere le prevaricazioni che Torquato Lunetti era portato ad imporre. Non era facile piazzare alcuni autori dal segno inesistente e se la corrente di mercato aveva privilegiato l’informale, il gallerista insisteva convinto che “l’astrattismo è come l’architettura, racconta qualcosa che piace per la sua armonia, i suoi spazi, le 139 sue forme” e raccomandava ai collaboratori di ripetere la frase ai clienti più sprovveduti come se fosse un passo della Sacra Scrittura. Virginia prediligeva il tratto realistico delle figure anche se si era commossa davanti ad un Burri. Aveva voglia di conoscere e non perdeva un numero di Bolaffiarte per cercare di capire cosa ruotasse intorno alle opere di cui sentiva parlare. Addetta soprattutto alle questioni pratiche della galleria voleva entrare sempre di più nell’espressione dello spirito concretizzato dal colore. Vendere una serigrafia o una incisione non era poi così difficile. Aveva imparato da Lunetti le tecniche della persuasione che però riusciva a mettere in pratica soltanto per i pezzi in cui credeva. Gli altri venditori erano sicuramente più bravi di lei ed il fatto che fossero introdotti negli ambienti giusti aumentava il loro prestigio. Oscillavano intorno alla decina, per lo più signore appartenenti alla buona borghesia che cercavano la realizzazione nella cultura e nel guadagno. Qualche ragazzo o ragazza al primo lavoro non dava risultati soddisfacenti. La più brava era Ornella, una giovane donna con due figlie, romana, di origini popolari, coraggiosa e prudente nell’aver abbandonato il marito assai ricco che l’apprezzava al punto da farla gustare anche agli amici. Le aveva intestato, come regalo per le prestazioni straordinarie, un appartamento a corso Trieste dove lei si era rifugiata con le figlie, ma l’assegno stabilito dal giudice per il mantenimento delle bambine non arrivava mai e la donna faceva acrobazie per pagare le bollette. Ornella metteva nel lavoro la praticità dell’organizzazione famigliare unita alla 140 spregiudicatezza degli incontri coniugali. Aveva un fisico minuto che la faceva sembrare bambina e questa sua aria disarmata invogliava i clienti a intrattenersi con lei. Non si capì mai fino a che punto giocasse in favore delle vendite la speranza di una conoscenza più intima o la convinzione dell’acquisto, ma i risultati erano ottimi. Aveva iniziato rivolgendosi ad amici e parenti, poi, accortasi che questi le comperavano soltanto qualche pezzo per compassione si era rivolta ai grossi enti che acquistavano tirature complete come regali aziendali. La fantasia non le mancava e ai dirigenti proponeva variazioni pittoriche a volte talmente ingenue da sembrare azzardate. Soltanto l’entità cospicua dei contratti convinceva Torquato Lunetti e di conseguenza gli artisti, a sottostare alle bizzarre richieste di Ornella che cercava di soddisfare i bisogni estetici, ma molto poco artistici, dei clienti. Battaglie infinite. Per giorni e giorni il gallerista provava a spiegare la necessità assoluta dell’autore di esprimere ciò che sente al di fuori di ogni imposizione. Per giorni e giorni, in separata sede, insisteva con gli artisti per fargli eseguire le forme e i disegni adatti alle industrie che li avrebbero acquistati. Non metteva mai in contatto i venditori con i pittori, né i clienti con i pittori, un’accortezza che oltre a dare maggiore importanza al suo ruolo, evitava accordi che potevano andare a suo danno. Ornella, invece, lontana dalle astuzie di Lunetti, con una punta di ingenua presunzione, era certa di riuscire a convincere chi tracciava soltanto linee, a colorare evidenti figure, oppure il contrario, e insisteva nel voler parlare direttamente con gli artisti. Le discussioni non finivano mai e i due 141 continuavano a opporre i propri ragionamenti fino all’esasperazione. L’uomo ricorreva al paradosso pur di convincere chi gli stava di fronte e con Ornella lo faceva ancora di più. Cercava l’orgasmo nella penetrazione del cervello e come dopo un amplesso violato pretendeva la resa del corpo sfatto. Con la sua venditrice più brava non sempre ci riusciva anche se dagli scambi verbali la giovane donna usciva disfatta. Gli scontri avevano finito per eccitare l’attrazione. Ne furono coinvolti. Ornella aveva dell’amore un concetto primitivo, parte integrante della sua natura generosa che la portava ad essere soddisfatta nel soddisfare i bisogni di chi li richiedeva o di chi era in difficoltà. Ricercava nel sesso la molla del cuore per aprirsi al sentimento. Si aspettava dagli altri la stessa intensità che metteva lei nell’amare e la facilità con cui riusciva a risolvere rapidamente ogni cosa concreta la rendeva irascibile verso chi non riusciva a uniformarsi al suo modo di essere. Si sfogava allora con un linguaggio talmente schietto, aggressivo, da sembrare volgare. “Ma se tu me voi scopà e su e giu e su giu e vedi che io non me movo, cazzo, accorgetene. Fai qualcosa. No. E io li a sospirare, a fare la carina, a dirti come sei bravo.” si confidava con Virginia. Aveva bisogno di confrontare se stessa con i sogni che da fanciulla rincorreva e che la vita condotta nel lusso matrimoniale aveva esaltato e poi deluso. Voleva migliorare il rapporto più vecchio del mondo. Chiedeva partecipazione, parità e si appoggiava alle tendenze politiche del momento per sentirsi appagata anche nella contestazione. 142 La storia con Lunetti divenne evidente soprattutto per l’atteggiamento di lei che non sapeva trattenersi dal riempirlo di attenzioni a volte troppo infantili. Naturalmente per gli altri diventò puttana. Intanto il fatturato aumentava grazie anche al desiderio della donna di compiacere sempre di più il suo amore. L’uomo ben contento accettava, ma continuava a discutere sul modo sbagliato di vendere l’arte “come se fosse pizza farcita”. *** La malattia fu grave e rapida. Un tumore ai polmoni già in avanzato stato lo portò in ospedale soltanto per pochi giorni. Ornella riuscì a salutarlo recandosi a fargli visita insieme ai colleghi, poi la famiglia si unì in un cordone di affetto che non permise ad alcuno di incontrarlo. I funerali si svolsero nella cattedrale di Anagni dove Torquato Lunetti era nato e dove con la moglie e i figli continuava ad andare nei week-end ospiti della grande casa dei genitori. Non era riuscito a convincere il buon Dio o chi per lui a lasciarlo in vita. Lo sgomento aveva preso il sopravvento sul dolore. Virginia era affranta, non si sapeva cosa fare anche se ognuno cercava di mandare avanti gli impegni presi come se il gallerista fosse partito per uno dei soliti viaggi. Ornella fermò ogni appuntamento e sconsolata, ma dignitosa, si chiuse nel pianto e nessuno la vide salutare il morto. Dopo una quindicina di giorni dalle esequie quando la 143 galleria trascinava ancora il lavoro in attesa di una decisione da parte dei familiari, si presentò con un mazzolino di violette in mano, abbracciò Virginia e depose i fiori sulla sedia che Torquato era solito cavalcare al contrario quando voleva rafforzare con un gesto di spregiudicatezza le sue imposizioni. *** La terrazza non si affacciava su niente, aveva soltanto un muro davanti, di quelli alti senza finestre che tagliano i palazzi. Oltre il parapetto non si riusciva a vedere la strada. Era l’appendice dell’appartamento ricavato tra due costruzioni al quarto piano di un complesso senza balconi, venuto su negli anni cinquanta per ospitare le case popolari, e che la metamorfosi del quartiere aveva rese appetibili alle persone più abbienti. L’aspetto triste della facciata rispecchiava l’umore del momento in cui Virginia aveva scelto di abitarci. La casa si trovava in viale Eritrea, una grande strada commerciale lontana dalle zone della città dove avrebbe preferito vivere, ma era stata proprio la terrazza a convincerla ad affittare l’unico locale che componeva l’appartamento. Uno spazio triste che quando il sole sgusciava dai palazzi, si illuminava del riflesso. Lei l’avrebbe reso accogliente. Piante e fiori l’avrebbero reso un giardino, le poltrone di vimini gli avrebbe donato l’aspetto di un salotto, i cuscini colorati e gonfi avrebbero ammorbidito il colore grigio del pavimento consumato. 144 Appena ripresi i mobili dalla cantina di Erminia, Virginia si era accorta che la fantasia era andata oltre. Se entrava il letto non entrava il tavolo. Quattro sedie erano troppe. La lavatrice e il frigorifero si erano arrugginiti. Soltanto i pensili della cucina potevano essere appesi con riguardo. Lasciò in via Scalia tutto quello che non entrava in casa e sullo stesso camioncino che le fece gli altri traslochi, presero posto il cassettone della nonna, ricoperto di muffa e la poltrona della mamma, con la fodera trinciata dall’umidità. Il vento questa volta non volle giocare e il freddo congelò i ricordi. L’autista aveva un sorriso mesto nell’aiutarla a scaricare i mobili. Comperò un divano letto che volle austero, da un falegname si fece montare mensole bianche alle pareti e le due litografie di Simbari, pagate con le provvigioni sulle vendite dei quadri, sembrava che mostrassero le ansie anziché il piacere degli amanti di Parigi. Pose le piccole preghiere persiane regalatele da Mino, davanti alla portafinestra che dava sul terrazzo, ma non si inginocchiò a pregare. La poltrona regina del conforto, tolta la fodera cucita dalla madre, esponeva il damasco d’oro del tessuto originale. Il cassettone, re dell’arredamento, divenne capo di una monarchia senza sudditi e lei, principessa stanca, leniva la malinconia accoccolandosi tra le gore dorate della vecchia bergère che l’avvolgeva con l’intensità del sogno. Fuori un tenace rampicante senza più foglie allungava i rami secchi come braccia stecchite. Non aveva avuto tempo per abbellire il terrazzo, Artepiù le occupava l’intera giornata e la sera guardava la televisione senza riuscire a vedere un programma fino 145 alla fine. Mai si era trovata presa dalla mancanza di gioia come in quei momenti. Il palazzo era alto, non aveva voluto contare i piani e il pianerottolo con la luce a comando non le faceva riconoscere chi abitava di fronte. La città la inghiottiva con la stessa sciatteria del portiere raramente al suo posto, con la stessa velocità dell’ascensore quasi sempre occupato, con la stessa indifferenza degli inquilini. La scomparsa di Lunetti l’aveva riempita di smarrimento. La galleria non avrebbe sopravvissuto a lui. La moglie insegnava matematica in un liceo, i figli erano ancora troppo giovani e non volevano una gestione estranea. Virginia non poteva più perdersi nelle speranze. Davanti aveva un muro da superare. Un muro di cemento per sbattere la rabbia e vederla rimbalzare. Cemento, per imprigionare quello che sentiva dentro. Sampietrini sconnessi per camminarci sopra. La città sembrava respingerla. Con la mente in subbuglio sfogliava le pagine del libro appoggiato sulle ginocchia e il desiderio di entrare nel racconto si imponeva su ogni altro pensiero, come le capitava ogni volta che la lettura si avvicinava al suo stato d’animo. Urlare, urlare, battere la sua ribellione per farsi udire dal mondo. Rullio di tamburi per avvisare che c’era, come l’Oskar pazzo di Gunter Grass. Voleva anche lei il “Tamburo di latta”. Voleva sulla testa le quattro sottane della nonna per nascondersi, e sotto ognuna ritrovare le pieghe dei sentimenti. Neanche il pensiero di Michele la dava conforto. Non aveva avuto il coraggio di mandare il manoscritto alle case editrici. Non era più convinta che fosse un capolavoro. 146 “Che fai copi?” le aveva detto Maria Rosa dopo averlo letto. “Lettera a un bambino mai nato, la Fallaci l’ha già scritto.” Invece Michele era stato concepito prima, molto prima e poi lei lo aveva portato alla vita il suo bambino, e lo aveva cresciuto, accompagnato, lasciato andare dove voleva… “È troppo interiorizzato e poi manca quel pizzico di suspense che ti fa venire voglia di arrivare alla fine. Forse dovresti lavorarci ancora, mi sembra troppo retorico, anche se c’è qualche pagina bella…” Erminia invece lo aveva letto in fretta e per affetto se ne era entusiasmata. “Che bell’anima che hai. Se Dio ti avesse dato un figlio… Io non me ne intendo, ma scrivi, scrivi, continua a farlo, prova a pubblicarlo. Insisti, vedrai che prima o poi qualcuno si accorgerà di te.” Le amiche. *** Anche se l’Italia aveva ingranato la quinta la signora Ferrin stentava a mettere la marcia giusta. Tripudio di tecnologie e servizi. Soldi che passavano di tasca in tasca lasciando polvere di benessere. Roma gonfia di potere sempre più lo usava per gli interessi di pochi che poi erano tanti. Virginia non aveva voluto appartenere ad alcun partito, né ad associazioni o religioni, non sentiva di seguire ideali o ideologie che non conosceva bene e di cui non era sicura di condividere in pieno il modo 147 di metterle in pratica, e questo non le era di aiuto. I mezzi di comunicazione di massa sempre di più amplificavano il pensiero degli altri e anche su di lei ottenevano gli effetti desiderati. Parole e immagini. Immagini e parole. Il clamore arrivava comunque e non si poteva fare a meno di sentirlo. Il futuro, dicevano, sarebbe stato sicuramente migliore. Il terziario avanzava a grandi passi e in quel campo Virginia doveva muoversi, anche se lo spirito la indirizzava verso emozioni dettate dall’astratto. I telex, le telescriventi, le segreterie telefoniche avevano cercato di indurla alla soddisfazione telematica. Del computer già parlava Anselmo Attieri sempre pronto a farsi trainare dalle spinte d’oltreoceano, “Sostituirà la mano e il cervello” diceva, ma Virginia non ne era mai stata molto convinta. Fu Ornella, la generosa Ornella, a introdurla al software e all’hardware. Lei, che cercava di cambiare il mondo con il sistema più vecchio del mondo, le presentò Giacomo Leopardi, un signore di mezza età titolare dell’Informatica Center una società che vendeva computer. L’uomo cercava una collaboratrice seria e dinamica. Virginia entrò nel futuro. Del nuovo datore di lavoro, neanche lontano parente del grande poeta, l’impiegata non si innamorò malgrado lui mettesse grande impegno nel cercare di conquistarla. Spiegava le possibilità infinite dei computer farcendole di ammiccamenti e doppi sensi. “L’hard disc e i floppy disc, sono moderne pergamene su cui incidere versi e non hanno bisogno di cultura per essere capite, ma devono essere stimolate con sapienza e nei punti giusti” diceva mo148 dulando mellifluo la voce. Aveva persino coniato un versetto “Copia, incolla, salva, / sorelle indipendenti / non fanno prendere accidenti / come bacia, abbraccia, guarda, / sul sofà dell’amore / non portano al dottore.” Ma Virginia ignorava la sensualità dei tasti e con lo sguardo incantato cercava significati occulti soltanto nelle figurine disegnate sulla barra che indicavano infantilmente le azioni da fare. La spiegazione dell’uso del mouse portò altre istruzioni. “Vede” sussurrava suadente Giacomo Leopardi accompagnandole dolcemente la mano “lo deve accarezzare come fosse un fiore, il fiore della vita… Scorre come la penna che scrive versi appassionati…” e se dal sommo poeta l’uomo non aveva certo ripreso la profondità dei concetti, né la sofferenza sul volto, era convinto di averne ereditato la vena. “Se le istruzioni ti fanno impazzire / vuol dir che la ragion non sai seguire / con la pazienza devi giocare / per divertirti ad imparare” ma malgrado sorridesse compiaciuto nel ripetere i versi, non si poteva dire che avesse l’aria allegra. Era un anonimo signore di mezza età, quasi calvo, con gli occhi un po’ sporgenti. Ricco, sembrava che avesse tanti soldi, almeno così sosteneva Ornella. “È buono, mi fa tenerezza” aveva confidato a Virginia “…me lo ha chiesto con tanta dolcezza... ha una moglie mignotta che gliene mette tante… è così infelice…” Una volta soltanto però le si era sciolto il cuore, poi lo aveva aiutato in altro modo, mettendolo in contatto con le società a cui aveva venduto la grafica nel precedente lavoro, facendogli concludere 149 buoni affari. La generosa Ornella. Leopardi pensava che anche Virginia fosse d’animo aperto come l’amica e ogni mattina la salutava puntando lo sguardo sul seno come se quel rigonfio naturale potesse rispondere un buongiorno nudo. L’età aveva arrotondato la donna nei punti giusti e il portamento che conservava eretto le faceva portare il petto in fuori anche senza volerlo. Nei pochi mesi che rimase alla Informatica Center si costrinse a rinchiudere il torace nelle spalle e solo quando si licenziò riprese a respirare ampio. Parole e cifre danzavano sui piccoli schermi affascinando coloro che volevano risparmiare insieme al tempo, l’impegno ed il denaro. Virginia si convinse dell’importanza che avrebbe avuto il computer e fece tesoro dell’esperienza fatta. Ne aveva parlato con Dodo ed era andata a ripescare Giorgio Prandi che dopo essersi separato da Attieri, aveva svolto varie attività nel campo pubblicitario e al momento si occupava della vendita di spazi sui giornali per conto della SEAT. L’incontro assai cordiale, la riportò al buon umore degli anni passati e le comunicò ottimismo, lo stesso che aveva provato all’inizio della carriera. Lasciò a Giacomo Leopardi il rimpianto di un busto da scoprire, mentre a lei restò l’impegno degli assegni da coprire. Si era portata via un IBM completo di stampante che mise nell’unica stanza dove viveva e che avrebbe adibito a studio con molto orgoglio ed eccessive speranze. *** 150 Voleva riportare nello spazio del terrazzo l’atmosfera della casa da sposa che non era riuscita a mantenere pura. Là aveva curato cuccioli di cane e di gatti, qui curava le piante come fossero bambini. Le innaffiava a orario aggiungendo latte, convinta che alla loro crescita facesse bene. Controllava ogni foglia novella come un dentino appena nato, e se al kinderheim riordinava seggioloni e banchetti, su quel piccolo spazio all’aperto spostava continuamente sedie e cuscini convinta di riuscire a nascondere le mattonelle scrostate. Parlava ai fiori e la risposta che le davano i colori la nutriva. Guardava di traverso il cielo e la vista, anche se limitata, l’appagava. All’interno il computer, dall’opacità dell’incarnato, chiedeva latte. Latte futuro. Elettrico. Informatizzato. Virginia lo trattava con rispetto, gli aveva assegnato un ruolo, “tecnico della comunicazione”, gli aveva dato anche un nome, Girolamo, che le riportava alla mente giri di vite ed ami per pescare. Compendio di meccanismi nascosti dietro il volto schermato dalla scienza. Computer. Per lei ancora un oggetto misterioso anche se i versetti di Giacomo Leopardi le avevano aperto nuovi orizzonti e non solo elettronici. Lo usava con riguardo. Il libro delle istruzioni, scritto in inglese, aveva ritardato la comprensione, ma quando riuscì a comporre sullo schermo le prime frasi, le sillabe, che si accendevano di verde, diventarono fili di prato e tornarono vivi gli alberi che disegnava all’asilo, mentre le parole che si illuminavano di minuscole luci al neon divennero bandiere della voce. Portare le lettere ad obbedire fu più difficile che chiedere ai 151 bambini di fare un girotondo ordinato. Aveva l’impressione che si divertissero a sgusciare dal loro posto per sparire giocando a nascondino. Rientri e spaziature, apice, pedice, tabulazione, formattazione, erano comandi che apparivano nelle finestre sovrapposte non meno misteriosi delle impronte lasciate dagli artisti più avanzati sui quadri esposti ad Artepiù, ma le ore passate davanti al piccolo schermo correvano veloci scacciando ogni altro pensiero. Riuscì in breve tempo ad acquistare dimestichezza con i tasti ed il mouse. Poi, lentamente, si insinuò tra lei e Girolamo un rapporto d’amore illegale. Lui come un signore che aspetta l’amante per far bella mostra di sé, lei disposta ad assecondarlo per soddisfare l’astuzia di piegarlo alle sue richieste. Quattro pezzi di plastica che senza una spina elettrica innescata formavano un oggetto brutto ed ingombrante. Una follia dargli tanta importanza. Eppure… Cercò di ignorarlo per qualche giorno e quando riprese a scrivere lo aveva vinto. Era soltanto uno strumento per ottenere risposte meccaniche. Soddisfatta usciva allora sul terrazzo ed ai fiori raccontava l’animo che non poteva raccontare a lui ed il verde delle foglie si accendeva di aria e non aveva bisogno della spinta di un tasto per rimanere acceso. Il primo lavoro che Virginia riuscì a trovare fu quello di inserire centinaia di dati riguardanti i contributi INPS dovuti ai dipendenti di una società di assicurazioni. Un incarico avuto da uno studio che elaborava programmi informatici. Dopo tre mesi di impegno, sostituì gli assicuratori nella memoria del computer con un interminabile numero 152 di probabili lettori di libri da acquistare a rate. Girolamo però non era ancora bene allenato e mal sopportava di stampare oltre le venti etichette, dopo di che si inceppava emettendo strani mugolii o ripetendo l’ultimo indirizzo fino all’esasperazione. Neanche il tecnico riuscì a fermarlo. Virginia gli parlò, ci ragionò. Accarezzava il mouse come le aveva insegnato Leopardi, senza riuscire a ricondurlo alla ragione. Non le rimase che diventare complice dei suoi capricci e stampare le etichette venti per volta allungando il lavoro anche di notte. Con la meticolosità che era abituata a mettere in ogni cosa fece l’elenco delle persone a cui rivolgersi per cercare altro lavoro. Imprese ed enti per proporre i suoi servizi, per inserirsi nel mercato romano. Forte degli insegnamenti di Attieri sapeva presentarsi con eleganza e giuste parole. A Lunetti doveva l’insistenza del ragionamento, a Ornella la civetteria della femminilità, a Mino l’opportunità di una battuta sagace. Ma che fatica! Esplicita e sincera nell’esprimere ciò che pensava, Virginia qualche volta si lasciava sopraffare dal temperamento e bastava una frase non studiata, un sorriso mancato per annullare tutto quello che aveva detto prima. I consigli di Maria Rosa la spingevano verso la vita di società “per entrare negli ambienti giusti e diventare amica dei personaggi che contano” insisteva. Si lasciò convincere. Invitò a cena in un ristorante alla moda sei persone e poi ancora otto e ancora sei e ancora otto, tutti inseriti nel mondo del lavoro Si appoggiò alla coppia amica ponendo la loro posizione sociale come garanzia della sua non ancora affermata, era una donna sola e questo rendeva più complesso ogni contatto. 153 Cercava di ingigantire le mansioni svolte in passato per apparire importante e bene inserita. Attenta alle tendenze politiche di ognuno evitava incontri polemici. Si concesse l’ottimismo dell’affetto soltanto con Dodo e la sua compagna. Li invitò insieme a Maria Rosa e Lucio, ma le idee politiche diverse per poco non sfociarono in un litigio lasciando agli amici decisamente di sinistra, e agli altri tendenti a destra, la delusione dell’incontro e il desiderio di continuare a frequentare solamente lei. Azzardò una cena in terrazza. Cucinò i migliori manicaretti, aggiunse fiori alle piante. Gli ospiti si complimentarono, ma la presenza del computer nell’unica stanza dichiarò la situazione. Pochissimi gli inviti di rimando, nessun contratto di lavoro. Alla resa dei conti l’investimento mondano non era stato valido. Cambiò modo di proporsi. Finì i risparmi comperando una cartella di Vuitton, un tailleur blù dalle sorelle Fontana e i mocassini da Gucci. Così vestita affrontò nuove ditte cercate sulle Pagine Gialle. Lasciò decine di biglietti da visita. Cercò di apparire rigorosa ed efficiente, ne ricavò un piccolo incarico. Rise con Giorgio Prandi, pianse sulla spalla di Dodo e soltanto mettendo avanti il loro nome riuscì a farsi un piccolo nome. *** Erminia, la dolce e forte Erminia era crollata. Anche se Virginia ci parlava al telefono non era più 154 capace di distrarla. I reumatismi, le vene varicose e tanti altri acciacchi si accanivano su di lei costringendola a stare in casa. Aveva tentato di coinvolgerla in qualche manifestazione di piazza, ma ormai l’effimero spostava le folle soltanto di sera. Quando andava a trovare l’amica, la mestizia con cui accettava la conclusione della vita, riaccendeva nell’ancor giovane donna la ribellione degli anni passati, ma poi i problemi della quotidianità scacciavano ogni voglia di reagire. I mesi corsero senza farsene accorgere e non appena Virginia si era accorta che era passato molto tempo dall’ultima visita, chiamò l’amica senza ricevere risposta. Preoccupata chiamò uno dei figli che imbarazzato le diede l’indirizzo della casa di riposo dove l’avevano portata. Un villino ai limiti della città, sulla via Trionfale con tanto verde intorno. Tutto era estremamente pulito. La sala di riunione, dove la televisione sempre accesa trasmetteva la vita, era piena di comode poltrone in cui sprofondavano i corpi inerti delle persone anziane più pigre, le altre si alzavano e sedevano in una lenta pantomima che ripeteva ogni volta gli stessi gesti impacciati. Erminia passava la maggior parte del tempo a letto e quando Virginia aprì la porta della sua camera, il gelo delle mattonelle che ricopriva le pareti fino a metà, la stanza evidentemente era stata una cucina, le fermò il cuore. La donna aveva perso la lucentezza degli occhi e anche se la riconobbe subito, stentò a pronunciare il suo nome. Passarono un’ora tenendosi per mano e Virginia parlò e parlò per raccontare tutto quello che Er155 minia non avrebbe più avuto da raccontare. Promise di tornare presto e sul pianerottolo le sembrò di udire la voce del signor Giulio che ripeteva insistente “Ermiiinia… dove sei?” e la moglie era là, che aspettava di raggiungerlo. Pretombe. La conquista della longevità, vanto del secolo, aveva bisogno di loro. A casa fece la doccia, ma continuava a sentire l’odore dolciastro di detersivo e scorie umane che le era entrato dentro. *** L’appartamento dove da qualche anno viveva Maria Rosa, poteva considerarsi di gran lusso. Era adatto alle nuove necessità della famiglia, attico e superattico a Vigna Clara con terrazza sfiorata dalle cime dei pini. Oltre il giardino condominiale, con piscina e cespugli fioriti, lo sguardo spaziava su Roma dalla parte di San Pietro dove la cupola diventava un punto di riferimento del panorama. Virginia e l’amica si erano sedute sotto l’ombrellone quadrato lasciando al sole il compito di scaldare la rigogliosa bouganvillea che copriva l’angolo. L’ospite aveva adagiato sul palmo della mano un fiore appena caduto, non voleva farlo volare via, scosso così come era dalla brezza che invece avrebbe voluto vederlo saltellare sul pavimento. Il fucsia dei petali cominciava già a scolorirsi e Maria Rosa aveva sussurrato mesta “Come la mia vita…” La donna dopo il matrimonio si era dedicata ai figli 156 impegnando nella loro educazione gran parte dell’esuberante energia che la caratterizzava. Al marito aveva concesso il resto, aiutandolo soprattutto nei rapporti sociali in cui era diventata maestra. L’aspetto, decisamente meridionale, le donava quella calda femminilità che sapeva mettere in evidenza indossando vestiti attillati e trucco marcato con sapiente maestria. Gli abiti più belli erano firmati da sartorie importanti, ma li portava con la stessa noncuranza che metteva nell’indossare i vestiti comperati sulle bancarelle. Una donna piacente, e la civetteria di provocare l’attenzione degli uomini era rimasta un’abitudine che non preoccupava più Lucio. Alberto e Monica si erano fatti grandi e dell’adolescenza che portavano addosso non volevano dare segno, si atteggiavano perciò a giovani sicuri, senza inibizioni. Il motorino era l’argomento dominante. Ne avevano uno ciascuno e la madre era in continua angoscia per loro. Quando uscirono sul terrazzo per salutare Virginia, la donna abbracciandoli si gonfiò di orgoglio come se li avesse fatti lei. La ragazza assai graziosa, aveva ripreso la sottigliezza del padre che la faceva apparire un giunco ed il ragazzo, robusto nel corpo, esprimeva precocità. La consideravano una simpatica zia e lei ricambiava l’affetto scherzando volentieri con loro, ma quel giorno Maria Rosa, presa dai suoi problemi, li mandò via in fretta. La storia che voleva raccontare all’amica era stata troppo importante per lasciare spazio ai figli. Una storia d’amore, “come tante…” pensò sarcastica Virginia, il solito trio, ma per la protagonista non era stato così. Lui, amico di famiglia, che di157 ceva di non provare più nulla per la moglie, brava donna, carina, intelligente, ma poco attenta ai suoi bisogni, aveva acceso la comprensione di Maria Rosa e quindi lo scatenarsi della passione. L’incontrarsi all’insaputa dei rispettivi coniugi aveva portato gli amanti a quei tipici giochi di incastro che li avevano fatti rincorrere nelle ore più impensate per fare l’amore in macchina o per concedersi l’eccitazione di un bacio rubato mentre i congiunti chiacchieravano nell’altra stanza. Parenti e amici forse se ne erano accorti, ma ognuno aveva cercato di non approfondire i sospetti per lasciare integro e quindi felice quel paradiso di cene, cinema, viaggi, fatti sempre in comune. La relazione era finita di nascosto come era cominciata. La notizia della gravidanza della moglie di lui aveva preso a girare prima dell’annuncio ufficiale. Gli incontri avevano assunto l’isterismo del complotto. Maria Rosa non voleva crederci e continuava a proporre ricevimenti per studiare gli atteggiamenti della coppia amica. Quel che prima era stato piacere diventò sofferenza. I giochi d’incastro per incontrarsi divennero giochi di gelosia per spiarsi. Finita la storia la donna si chiuse in un mutismo pieno di ombre che non giovava a nessuno. Non ne aveva voluto parlare all’amica fino a quel momento per pudore, ma anche per non turbare l’immagine di brava signora che si era costruita e che le piaceva avere addosso. Nel dolore ritrovò l’umiltà della sconfitta, la speranza della comprensione, ma Virginia non riusciva a capacitarsi del tradimento. Lucio, anche se un po’ vanesio, era un uomo dedito alla famiglia e al lavoro, alla mo158 glie voleva quel bene assuefatto, miscuglio di regali costosi, di sfoghi intimi, di sesso sicuro. Era meravigliata, aveva invidiato la complicità della coppia che, anche se venata da qualche recriminazione o rimprovero, dimostrava la sicurezza dell’essere parte di un tutto in cui ciascuno sembrava necessario all’altro. Aveva esaltato in cuor suo quello scambio di parole e gesti che avviene tra marito e moglie, aveva invidiato il loro dividere le piccole cose banali di tutti i giorni. L’intimità della convivenza. Un modo di vivere che portava ad esempio. Come era potuto accadere? Rimase lontana dalla partecipazione affettiva che l’amica si aspettava e con la lucidità di una estranea continuava a snocciolare soluzioni “Distraiti, concediti del tempo tutto per te. Iscriviti a un corso di ceramica, oppure aiuta tuo marito in studio. Hai una laurea, falla fruttare… e poi ci sono i ragazzi, pensa a loro, hanno bisogno della tua serenità.” e più parlava più il volto di Maria Rosa diventava affilato e triste. “Non mi basta, Ginia, non mi basta.” implorava Maria Rosa senza trovare nell’abbraccio di Virginia il calore che cercava. *** Le difficoltà erano tante. Il commercialista pretendeva ordine nei conti e ricevute per tutto. La bolla di accompagno divenne un incubo, doveva o non doveva riempirla per consegnare i tabulati? Quale 159 era il codice di attività da inserire sulla dichiarazione dei redditi, visto che il suo genere di lavoro non era ancora ben definito? IVA, ritenuta d’acconto, IRPEF, ILOR, e quando fece un contratto con un ente pubblico tanti documenti in più per il controllo antimafia. Che complicazione! L’identità personale di Virginia si confondeva con quella aziendale. Perdeva più tempo dietro la burocrazia che dietro il lavoro vero e proprio. Per tenersi buoni i clienti spesso completava le prestazioni con l’impegno manuale che la vedeva piegare fogli, incollare buste e francobolli in un crescendo di direct marketing che sempre di più avrebbe dovuto convincere i fruitori della pubblicità a fare quel che gli veniva proposto. Accettava di copiare e rendere graficamente accattivante qualsiasi testo con le piccole agenzie di servizi che incominciavano ad essere sempre più numerose e che non potendo permettersi la spesa del computer, chiedevano il suo intervento per migliorare l’immagine, per apparire più importanti di quello che erano. Follia del comunicare. La professionalità imponeva di non lasciarsi andare in chiacchiere perditempo e meno che meno in confidenze. I contatti con le persone divennero soltanto contatti di lavoro. Per fare sempre più cose, sempre più in fretta usava l’automobile al posto dei piedi e non scendeva dalla macchina che per la spesa, nei negozi che incontrava strada facendo. Donnanumero. Componente la società del progresso. Nel portafoglio il cartoncino con il codice fiscale l’avrebbe fatta riconoscere in caso di incidente. Lei non si riconosceva più. 160 *** Il dottor Antonio Vieri era in anticipo. Il treno per Firenze sarebbe partito soltanto dopo venti minuti, avrebbe fatto in tempo a prendersi un caffè. Affidò la borsa all’attenzione di una suora che si era già sistemata sul sedile di fronte e si avviò verso il bar. Nello scendere dal vagone urtò contro un carrello abbandonato e nel voltarsi imprecando notò una barbona che dondolava un altro carrello come fosse una culla. Oscillava il corpo a destra e a sinistra e quel movimento gli rammentò qualcosa. Un attimo, e sostituì l’immagine sospesa con la confusione del marciapiede. Al ritorno la barbona era ancora là. Gli camminava davanti spingendo il carrello come se dentro, al posto di una sporca cartella di tela, dormisse un bimbo, ma la nenia che modulava con le labbra era un motivo strano che non ricordava le ninne nanne della nonna. La superò girandosi per osservarla e di nuovo ebbe l’impressione di avere già visto la scena. Ma dove? Forse un figlio perduto… Poveretta. Il ritmo del treno invitava al sonno. Nel vagone lui e la suora leggevano. A fianco un uomo non troppo anziano dormiva con la bocca aperta. Entrò una ragazza giovane, truccata bene. Si sorrisero. Prese posto a fianco della suora. Il libro che la religiosa teneva in mano aveva la copertina nera. La ragazza sfogliava una rivista patinata. Il dottor Vieri appoggiò il giornale e perse lo sguardo sul viso chino della religiosa intenta a leggere il breviario. Il volto 161 si sovrappose a quello della ragazza, si incorniciò di capelli vaporosi mentre la copertina nera entrava nel rotocalco colorato. Una fuga di ricordi dimenticati lo rincorsero. Virginia… Virginia… Somigliava alla suora, somigliava alla ragazza… L’aveva incontrata al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito… era stato colpito dalla dolcezza con cui cullava il passeggino dove un pupotto, figlio della donna che aveva accompagnato, si guardava intorno spaventato. “Lei è una parente?” le aveva chiesto e al suo “no” aveva cercato di allontanarla dall’ambulatorio senza riuscirci. Possibile che fosse la stessa persona? Allora stava bene, lavorava… un lavoro di grandi prospettive diceva… Possibile che fosse finita così? Quanti anni erano passati? Ma no, forse non era lei… Cullato dal treno entrò nel sonno. Quando riaprì gli occhi la ragazza non c’era e la suora stava cercando qualcosa nella cartella. Una cartella di tela blu. Come quella che cullava la barbona… Il dottor Vieri cambiò posizione e si mise a guardare fuori del finestrino. Il pensiero tornò a Virginia… Virginia. L’aveva amata? Anche allora non aveva saputo rispondere. Forse più che amarla si era incuriosito. Una donna strana. Dopo aver soccorso per strada la giovane madre, con ostinazione aveva continuato a seguirne i movimenti anche quando lui aveva cercato di dissuaderla ben conoscendo le reazioni della donna che dava evidenti segni di squilibrio. Le aveva consigliato di lasciar perdere, casi del genere ne vedeva spesso e già sapeva come andavano a finire, ma Virginia lo aveva inseguito 162 con le telefonate, aveva insistito per avere il suo aiuto… Era brava a parlare, con la risposta svelta, capace di ribaltare ogni discorso a suo favore. Ce l’aveva col maschio, ce l’aveva col mondo intero. Insoddisfatta, delusa. Non si era realizzata. Imprecava contro quel lavoro che le faceva passare ore e ore davanti a un computer, ma diceva che era il futuro. Cocciuta. Testarda. Quando fu evidente che la giovane madre la sfruttava chiedendo sempre più soldi, tagliò ogni contatto con la giovane donna assistita… come poi fece con lui. Generosa e tirchia… Virginia… Che scenata la sera in cui inneggiando alla parità le fece pagare la cena… Blaterava sui diritti delle donne e gli rimproverava di non aprirle mai lo sportello della macchina… Aveva tanto insistito perché lasciasse la moglie… già… e per fortuna non le aveva dato retta. Però lo aveva attirato quel suo modo di affrontare la vita, di prendere le cose di petto, ribelle e tenera… Dolcissima soltanto quando le garbava… Scoppi improvvisi di rabbia, senza ragione e dopo faceva l’amore trasformando la disperazione in passione… No, non era il sesso che li aveva legati, ne aveva conosciute di migliori. Virginia. *** Forse aveva sbagliato a mettersi in proprio. Neanche il guadagno era un gran che. Virginia ragio163 nava e ragionava come se la sua vita appartenesse a un’altra. Appoggiarsi a un uomo? Per concedere il suo buco in cambio di qualcosa? Certo era possibile in una società che malgrado il progresso concepiva ancora le donne soltanto come buco. Ma a che prezzo? Donna oggetto, non più angelo del focolare. Donnabuco. “Non voltarti mai indietro” si sentiva ripetere. Infatti era meglio non farlo. Si era realizzata? Si, se per realizzazione si intende provare a fare cose diverse da quelle in cui si credeva prima, oppure si era soltanto lasciata trasportare dalla corrente, mescolando l’istinto al raziocinio, sostituendo il rispetto per gli altri all’appagamento della propria personalità? Un amalgama di vorrei ma non devo, devo ma non vorrei, che l’avevano circuita per lasciarla confusa, per porgerle nuovi desideri, per riportarla ad antichi impulsi come era successo quella volta che i buoni sentimenti l’avevano spinta a soccorrere una povera donna che si era sentita male mentre spingeva un passeggino con un pupotto moccioloso e sporco. Ma contemporaneamente la femminilità sopita l’aveva spinta a corteggiare quel “fico” di medico trovato al pronto soccorso, che tra l’altro aveva la fede all’anulare sinistro. Il dottor Antonio Vieri. Accidenti quanto era bello! Assomigliava a Marco Pannella, il leader del Partito Radicale. Gli occhi però non avevano la sua magia. A letto le piaceva più guardarlo che accontentarlo. Lo aveva irretito 164 usando le vecchie armi della seduzione unite alla spregiudicatezza della libertà. Una casa sempre a disposizione non era poco, si poteva risparmiare sugli alberghi e spesso si gustava un pasto gratis arricchito dalle moine dell’amore. Aveva provato a gestire Antonio come gestiva Girolamo e se il computer accettava gli ordini, l’uomo non accettava imposizioni. Virginia amante consolatrice. Un buco dove infilare ogni lagnanza… lamentele… accidenti alla moglie… l’aveva sposata perché era incinta. Nella casa sporcizia e disordine e i soldi, oh i soldi che scorrevano a fiumi… Una disgrazia.… Virginia gli aveva consigliato di separarsi, di chiedere il divorzio e lui rispondeva che si, l’avrebbe fatto e subito, ma quando gli propose di trasferirsi da lei, lui non accettò. Perché fermarsi? Con Enrico fu diverso. Si ricordò di lui una sera di malinconica noia. L’interesse dimostrato quando si erano conosciuti, l’aveva lusingata. Raffinato, esuberante, era un funzionario di banca pronto a divertirsi senza complicazioni. Si erano scambiati i numeri di telefono sapendo entrambi che se si fossero chiamati non lo avrebbero fatto per sola amicizia. Lui aveva provato a invitarla un paio di volte, ma lei allora non si sentiva ancora pronta per quel tipo di libertà. Quando lo chiamò fu per concludere a letto una simpatia che le ricordava l’amore. Si videro qualche volta con piena soddisfazione e senza impegno. Poi gli altri. Ignazio Lodoli Ceretti Corti, raffinato nobiluomo pretendeva prestazioni allo champagne, ma quelle condite con il peperoncino di cui era ghiotto furono troppo accese. Oreste, revisore di conti, conteggiava i giorni 165 fecondi e quelli sterili preferendo sottolinearli in rosso. Paolo andava da Virginia dopo la messa. La paragonava a un angelo ma chiedeva riti diabolici. Aurelio, militare in carriera riusciva a fare l’amore soltanto al suono di una marcia. Luciano si eccitava nelle piazze affollate. Si lasciarono per strada. Louis confermò che quel che si diceva sulla passionalità dei francesi era vero. Peccato che tornò in patria. Chiese scusa a Girolamo che aveva assistito ad ogni intemperanza e le piccole lettere verdi ripresero la danza della solitudine cantando versi di altri. Spogliata dei tabù Virginia aveva indossato gli abiti del maschio, ma era rimasta integra nell’intimità. L’euforia di sentirsi femmina aveva accentuato l’orgoglio di sentirsi madre. Per accogliere, per lenire le angosce degli uomini tramutate in orgasmi. Surrogati di sentimento. Delusione, amarezza. Voleva illudersi che almeno Michele, oltre a spruzzare sperma, fosse capace di domandare sincero “Come stai?”. Certo si era divertita, aveva anche provato piacere e l’ebbrezza dei complimenti la rimpiangeva ancora, ma non le bastava. Pretendeva dall’accoglienza del ventre pulsioni separate dagli organi restanti e non poteva chiamarsi amore ciò che aveva provato. Virginia soltanto buco. Perciò aveva smesso. Li contò, erano dodici quelli che aveva inghiottito. Girolamo, il tredicesimo, li accolse come un fratello, e vederli scritti in ordine alfabetico sullo schermo procurò alla donna un moto di ilarità. Ordinò i nomi nel rispetto dei tempi, in grassetto: Carlo, Mario, Mino, Chito, Antonio, Enrico, Ignazio, Oreste, Paolo, Aurelio, Luciano, Louis 166 poi riordinò i cognomi valutando l’intensità dei sensi, li mise in ordine alfabetico, confuse le iniziali, intrecciò le consonanti con le vocali in un gioco infinito finché non venne fuori “Palma come Chito”. Chito. Chissà dove si trovava? Dove il sole splende o dove il sole scolorisce i disegni? Dove le palme andavano troppo in alto e dove la passione le aveva fatto alzare l’orlo della gonna? Cliccò sul cestino e Girolamo ci buttò gli amanti, accarezzò il tasto dell’invio e lui espulse i suoi bit. *** Colombo da quando era stato dimesso dagli istituti, aveva vagato per la città senza mai uscirne. La vita priva di un impegno fisso gli aveva reso difficile trovare una sistemazione dignitosa e allora si prendeva in prestito le piazze che diventavano saloni di un palazzo tutto per lui. Le scale, che intravedeva dai portoni, servivano per raggiungere il cielo, l’asfalto per camminare sul velluto. Non ce l’aveva col mondo, non ce l’aveva con Dio e neanche con le donne che aveva visto come erano fatte troppi anni prima, quando ancora metteva la giacca per apparire bello, e usava le tasche soltanto per i fazzoletti. Luana era stato il suo grande amore. Era la più giovane di un bordello che lui frequentava e con lei aveva festeggiato più di un Natale di Roma, il 21 aprile, in sostituzione del suo onomastico che non esisteva. La ragazza in quella ricorrenza tirava fuori da sotto il materasso una 167 bottiglia di vino marsalato e i gianduiotti per condire le grazie che non si faceva pagare. Poi di donne non ne aveva avute più e soltanto la strada era stato il suo passato. Il luogo dove si era trovato meglio si trovava nei giardini di piazza Cavour dove le palme d’estate facevano da tetto e i gabinetti pubblici, d’inverno, da riparo. Il letto era l’ultima panchina a destra, sempre quella, e il materasso, ricolmo di stelle, raggiungeva in fretta la notte. Di giorno era il sole che conduceva le sue mosse e nel sole Colombo trovava ogni risorsa. Quando aveva voglia di aggiustarsi il colletto della giacca o i capelli arruffati proiettava la sua ombra sul tronco delle palme che accoglievano la sagoma del suo corpo come uno specchio. Con il rasoio asciutto si faceva la barba seguendo i contorni del viso anche loro diventati ombra, con un pezzo di pettine si rimetteva a posto i capelli e soltanto quando la sagoma gli appariva in ordine, si allontanava dal tronco della palma per affrontare la giornata. Poi abbandonò la piazza e cercò di specchiarsi sugli alberi intorno alla Stazione Termini, ma i tronchi dei lecci erano troppo sottili e così rinunciò alle pulizie mattutine pilotate dal sole. Fu dopo che Virginia gli fece leggere il romanzo che in un impeto di affetto le chiese di accompagnarlo a rivedere la sua vecchia casa, piazza Cavour, per riprovare insieme a lei le emozioni del passato, per spiegarle come viveva e quanto caro gli fosse quel luogo. Un viaggio che li condusse per la prima volta affiancati fino ad attraversare il Tevere dove gli angeli, a guardia del ponte che porta al Castello, li lasciarono passare poveri e diseredati. Lui trascinava i piedi nelle scarpe senza lacci, 168 lei li portava gonfi. Raggiunsero il colonnato di San Pietro in anticipo sul giubileo. Fu il suono delle campane che usciva dal Vaticano che li svegliò al mattino, vicini, raggomitolati e infreddoliti. Raggiunsero piazza Cavour seguiti dal sole. Si lavarono il viso alla fontanella e si spruzzarono l’acqua come due bambini. Aspettarono che il sole fosse in posizione giusta per proiettare le loro ombre sul tronco di una vecchia palma mentre i colombi svolazzavano intorno. Ma le due teste affiancate non riuscirono a vedersi insieme e allora divenne uno scherzo alternare le ombre creando il gioco magico della vita. Colombo si passava la mano tra i capelli arruffati, Virginia si metteva di profilo. Gesticolarono goffi come mimi alla recita dei principianti e quando lui trasse il rasoio dalla tasca per radersi, lei si allontanò senza avvisarlo. *** La kenzia era diventata bellissima. Le cure a base di latte le avevano fatto bene. Era cresciuta molto da quando Erminia gliela aveva regalata. “Prendila tu, anche se è una palma d’appartamento sono sicura che sul tuo terrazzo starà meglio. La metti in un vaso più grande e poi se sboccia un germoglio, lo metti in un vaso più piccolo e me lo porti.”, ma la nuova gemma non era ancora nata. Le altre piante sentivano l’inverno che si annunciava umido. Le foglie sembrava si stringessero intorno ai tronchi mentre Virginia piangeva. Aveva 169 telefonato per avere notizie di Erminia e le avevano risposto che il funerale si era svolto la settimana prima. I figli avevano preferito salutarla nell’intimità della famiglia. Ancora una volta inutile donna. Vegetale scosso dal vento che sguscia fra i palazzi trascinando soltanto sporcizia e polvere. Anche lei palma. Palma d’appartamento, destinata a nutrirsi di aria rarefatta. Lasciò al freddo l’incarico di occuparsi della terrazza. Chiuse i vetri alle spalle senza fermare i battenti, mentre sul video del computer entrava e usciva ossessivo il messaggio dell’attesa. Si rannicchiò nella poltrona della mamma e il sonno la raggiunse per portarla altrove. Accompagnava il funerale di Erminia. Palme e cipressi rincorrevano la salma con una danza mesta che avanzando mutava in un ballo sfrenato, come in un cartone animato o come capita nei sogni dove le immagini diventano altre e con loro chi le osserva. Uomini e donne avevano preso il posto degli alberi, e gli uni allungavano la figura fino a impersonare signori longilinei ed alti mentre le altre allargavano le foglie fino a raggiungere l’opulenza. Virginia correva incespicando tra i cespugli, ma non era lei, era un’altra. Non vedeva il cielo e la luce dell’orizzonte appariva e spariva come quando si guarda attraverso un bosco da un’automobile in corsa. Poi tutto prese a girare vorticosamente. Si svegliò di soprassalto. Era gelata. La finestra si era aperta lasciando passare l’aria che annunciava la pioggia. Girolamo l’aveva vegliata. Si alzò per spegnerlo, ma prima spinse il tasto di “N” e poi quello di “O”. 170 *** La stampante riempiva il cervello di un rumore vuoto. Lavorare era ormai la sua unica distrazione. L’agenzia d’informatica che le aveva affidato l’ultimo incarico esigeva molta precisione e molta discrezione. Bisognava gestire il file di una grossa società provvedendo alla trascrizione dei dati riguardanti clienti, collaboratori e personaggi di rilievo ai quali venivano dati omaggi offerti per ogni tipo di festività. Tutti erano stati contrassegnati da un codice che sostituiva il nome e che conteneva anche la data di consegna e altre notizie a lei sconosciute. Le tabelle dovevano essere continuamente aggiornate e rielaborate in base al numero dei regali e ad altre informazioni che le venivano sempre indicate con abbreviazioni incomprensibili. Virginia non conosceva l’identità del committente in quanto era l’agenzia che pur affidandole il lavoro, ne rimaneva unica responsabile. Un impegno noioso quanto quello precedentemente svolto dal notaio. Che sarebbe successo se avesse sostituito un numero di codice con un altro? Non era primavera e il Coniglio d’Amministrazione sarebbe ancora finito in padella… “CB4FE.18021” come stai? si apostrofava allo specchio “cem.tris.4” cosa vuoi mangiare oggi? chiedeva a se stessa prima del pranzo. Ma chi sei tu? “cem.tris.4” oppure “b7,411”? Donnanumero. Che tristezza! Passate le passioni, passate le illusioni, la monotonia della quotidianità l’aveva resa opaca non 171 solo nell’aspetto. Non le andava bene più niente. “Accidenti alla sporcizia della città.” aveva imprecato una sera tornando a casa piena di pacchi e di malinconie. Un vortice d’acqua, troppo abbondante per entrare nella fogna, le aveva inzuppato i piedi e sbattuto sulla caviglia qualche cosa che l’aveva fatta rabbrividire. Che schifo. Scalciò per liberarsi dal rifiuto ma abbassando lo sguardo si accorse che quella cosa appoggiata al suo piede era un gattino. Istintivamente si chinò a raccoglierlo. Era talmente zuppo che non sembrava più un animale. Le pareva di avere in mano un sacchetto vuoto, senza consistenza, eppure anche se così conciato il micino tentava di scappare. Facendo acrobazie con l’ombrello e le borse riuscì a trattenerlo. “Perché non ti prendi una bestiola, fanno tanta compagnia…” le avevano ripetuto in diverse occasioni, e la frase le rimbombava nelle orecchie. Entrò in casa con il gattino in braccio. L’appoggiò sul tavolo della cucina e solo allora si rese conto di quanto fosse piccolo. Lo asciugò. Aprì una scatoletta di carne, il latte era finito, la sbriciolò in un piatto e mise il pane ammollato nell’acqua in una ciotola. La bestiolina sembrò riprendere consistenza. Incominciò a fare le fusa mentre ispezionava il piano del tavolo senza azzardarsi a scendere. Assomigliava ad un grosso pulcino arrossato, aveva il pelo fulvo striato di bianco e gli occhi verdi. Sarebbe diventato proprio un bel gatto. Virginia lo osservava incapace di provare emozione. Piegò una coperta che pose sotto una sedia e vi appoggiò il gattino. Dal frigorifero prese qualcosa da mangiare per sé 172 e si chiuse la porta della cucina alle spalle come se dentro fossero rimasti soltanto i soliti quattro piatti da lavare. Il mattino seguente il gattino non era al suo posto, ma dormiva rannicchiato in un angolo pieno di escrementi. Aveva la diarrea. Scoraggiata Virginia incominciò a pulire. Le si prospettava una giornata molto impegnativa, due incontri importanti ai quali voleva dare il meglio di sé. Non avrebbe proprio fatto in tempo a portarlo dal veterinario. Mise sul fuoco l’acqua per lessare un pugno di riso e quando lui si riprese e incominciò a girarle intorno con la coda dritta, la giornata era già avanzata. Gli appuntamenti non portarono nulla di buono. Rientrando chiamò il gattino che non vedeva e nel guardarsi intorno, sentì una forte puzza di guasto. Oddio! La cacca. L’animale, disteso con le zampe rigide, guardava Virginia senza muovere gli occhi, sembrava morto. Aveva i peli impiastricciati di muco giallastro. Lo sollevò più con rabbia che con delicatezza e lo lasciò cadere nella vasca da bagno. Non c’era altro da fare che pulire, pulire, pulire. Infilò i guanti di gomma e come un segugio tignoso seguì la traccia delle macchie che disegnavano la mappa dei rifiuti. Per terra, sui preziosi tabulati, persino sui tasti del computer. La merda aveva imbrattato tutto. L’odore di marcio ingigantiva. Sentiva un sapore amaro salirle in bocca. La sua merda. Aveva voglia di andare di corpo. Riprese a pulire con maggiore lena. Le veniva da vomitare. Si fermò ansante. L’odore diventava sempre più forte confondeva i sensi, impiastricciava la mente. Ci mancava anche questo! 173 Un’idea atroce le riempì la testa. Lucidamente. Gli avrebbe stretto il collo con due dita, poi l’avrebbe buttato nel secchio della spazzatura e l’indomani mattina, uscendo, avrebbe buttato la busta nel cassonetto. Una cosa da niente. Non era mica un essere umano… Non se ne sarebbe accorto nessuno. Ce n’erano tanti di gatti in giro… uno più uno meno… Le prese una gran voglia di farlo. Guardò il secchio sotto il lavandino. Si alzò per andare a prendere il gatto. Ma che stava facendo? Restò immobile, vuota di pensieri e di azioni, poi come un automa andò vicino alla vasca, tolse i guanti di gomma, si guardò a lungo le mani e con le mani nude raccolse la bestiola e la lavò e si lavò e non finiva mai di lavarsi. Avvolse il gattino in un asciugamano e se lo strinse al petto. Sul letto, mentre le fusa cantavano la ninna nanna, si addormentò senza riuscire a piangere. *** Via del Corso a due passi da piazza Venezia, il portone immetteva in un androne buio, grande, che portava impudico i segni del tempo. Mariolina Cipolletta aveva spiegato bene come trovarla. Se il portone non era accostato, come lei lo avrebbe lasciato, doveva farsi aprire da qualche altro perché il citofono del locale non era collegato. Doveva oltrepassare il cancello, entrare a sinistra, aprire una 174 porta grigia che sembrava chiusa e attraversare un cortiletto. Sulla destra un portoncino senza insegna né campanello sarebbe stato sicuramente socchiuso. Invece era chiuso e Virginia aveva le nocche doloranti per il gran bussare. Pareva che non ci fosse nessuno. Il gattino nella borsa si agitava sempre di più. Aprì la lampo e uscì subito il musetto curioso. Gli toccò il naso, era freddo per fortuna. La febbre era passata. Si guardò intorno sconsolata. Lasciarlo lì? Finalmente da dentro sentì muovere la serratura e Mariolina Cipolletta si affacciò festosa. “La signora Ferrin vero? Venga venga…” e si incamminò verso un corridoio male illuminato che finiva in una grande sala che odorava di umido. Era imbiancata di fresco e sulle pareti spiccavano tanti poster rappresentanti gatti. “Purtroppo non c’è riscaldamento… sa com’è… qui siamo in prestito…” aggiunse precedendola con l’atteggiamento del prete che conduce in sacrestia il fedele appena convertito. “Vediamo vediamo il nostro nuovo amico…” e le tolse la borsa dal braccio. Intanto si erano radunate intorno a loro altre signore di quell’età indefinita che supera i cinquanta e non si sa quanto manchi ai novanta. Appartenevano al club “Il gatto” di cui Mariolina Cipolletta era fondatrice e presidente. L’associazione le era stata indicata dal veterinario al quale Virginia aveva portato la bestiola qualche giorno prima. “Certo il gattino ha bisogno di molte cure e non è detto che ce la faccia.” aveva concluso alla fine della visita il medico “ma se lei proprio non lo può tenere provi con la signora Cipolletta, le ho visto far miracoli.” 175 La signora Cipolletta però non aveva ancora assicurato che si sarebbe presa cura dell’animale, aveva già tre gatti in casa e per controllare le effettive condizioni di salute del nuovo arrivato aveva invitato Virginia a partecipare ad una delle consuete riunioni domenicali del club, per presentarla alle altre socie. Quel pomeriggio si sarebbe illustrato uno studio sul comportamento dei gatti di Villa Celimontana, a Roma, e prima che se ne potesse rendere conto Virginia si trovò seduta, con la borsa in grembo, sotto uno schermo per diapositive a fianco del quale, un signore, si capiva dall’accento e dall’aspetto che fosse inglese, incominciò a parlare. “Mi chiamo William Welsey, sono uno studioso di gattitudine” e sorrise di un sorriso buono, scusandosi per le immagini carpite alla buona fede degli animali, senza alcuna velleità artistica. Dal 1981 al 1985 Welsey, professore plurilaureato a Cambridge, aveva pazientemente annotato ogni movimento felino che avveniva nel giardino romano e le conclusioni che se ne potevano trarre non difettavano di umanità. L’organizzazione di vere e proprie tribù all’interno del recinto poteva essere paragonata a quella di gruppi etnici che difendono il proprio territorio e le proprie tradizioni. Lo studio era interessante. Il peregrinare da uno spazio all’altro per carpire i raggi del sole, tipico dei gatti, era regolato da leggi che rispettavano le gerarchie. Le zuffe per il cibo dimostravano la priorità dei più forti, ma anche la generosità dei singoli. Petronia era l’indiscussa regina di tutta la comunità. Una gattona pezzata, lenta nei movimenti, maestosa nell’incedere. Non compariva mai 176 prima delle undici del mattino. Si sistemava su di una grande pietra, sempre la stessa, dove nessun altro gatto osava stendersi, come se un tacito accordo fosse trasmesso anche ai nuovi arrivati. Non si immischiava nelle zuffe, ma quando lo riteneva opportuno si avvicinava senza fretta e bastava una sola zampata all’animale più litigioso per ristabilire la calma. Nessuno l’aveva mai vista incinta. Pur non essendo sterilizzata sembrava sterile, ma la cosa che non sapeva spiegarsi il professore era che anche le altre gatte di quel giardino, a differenza di tutte le stradaiole che figliano in continuazione, partorivano solamente una volta l’anno. Che strano fenomeno. Cuccioli di città. Rari. Con poco latte e poco amore. Ma mentre l’emerito gattologo cercava di tirare le sue conclusioni, il batuffolo fulvo che Virginia teneva sulle ginocchia, cercò di uscire dalla borsa semiaperta e iniziò a fare le fusa così forte da attirare l’attenzione di tutti. Sembrava voler dire la sua sull’argomento. Qualche tenera battuta e l’inglese riprese a parlare superando il ronfare del gattino. Virginia non guardava più le diapositive né tanto meno ascoltava i commenti. Si era persa nella confusione che aveva dentro. Non si accorse neppure di avere ringraziato, salutato e sorriso. Soltanto per strada si era accorta che al posto della borsa con il gattino stringeva tre fogli piegati a metà. Frastornata li osservava cercando di leggere quel che c’era scritto. Riportavano il programma del club che invitava i “cari amici del gatto” a passare piacevoli giornate insieme. Le proposte erano una presentazione ufficiale dei gatti che vivevano nei Mercati Traianei, quindi una gita 177 a Firenze per conoscere i felini del giardino di Boboli presentati da un gruppo di zoofili olandesi e l’incontro a Londra per il gemellaggio con una associazione simile comprendente la visita al Britisch Museum per una meditazione sulla Madonna del Gatto di Leonardo da Vinci. Erano specificate date di partenza e di arrivo, hotel a disposizione, spostamenti e costi. Si auspicava la partecipazione dei soci e si chiedevano proposte per nuove iniziative. Virginia sorrise. Perché non organizzare un ballo in maschera per i gatti vestiti da umani? Oppure una crociera nelle fogne romane o una battuta di caccia al topo sulle rive del Tevere? Con i soldi di chi? Aveva dovuto pagare la quota d’iscrizione al club per sistemare il trovatello. Cercò il tesserino nel portafoglio. Un gatto si stava leccando i baffi nel riquadro dove avrebbe dovuto essere la sua foto d’identità. Donnagatto. Sociagatto, ma non madregatto. Lei gatti e cani li aveva nutriti con il latte della disperazione. Di amore e latte non ne aveva più a disposizione. Perdigatto. Lasciò cadere il rettangolo di cartoncino nella fessura di un tombino, affrettò il passo e si raccolse nell’impermeabile chiaro che non la riparava dal freddo. *** Il contatto con la natura emozionava Virginia, ma nello stesso tempo la intimidiva. Non che non le piacesse il verde, la sua terrazza era carica di 178 piante, ma guardando la campagna dove si trovava, si sentiva fuori posto, come la sua kenzia, la palma di Erminia, cresciuta in vaso e che non metteva germogli. La primavera era nel suo pieno rigoglio. La donna girava lo sguardo sulla bellezza storica dei Castelli Romani per nutrirsi di loro. La luce era accecante, lo sguardo si perdeva nello spazio. Improvvisamente capì il senso delle vacanze di cui aveva usufruito poco nella sua vita. Capì Maria Rosa e i suoi lunghi soggiorni in Calabria, le corse dei colleghi per uscire da Roma che lei, invece, aveva sempre evitato. Le tornò alla mente la storia, la via Appia, gli antichi romani. Le vacanze degli imperatori e quelle dei papi. Capì il piacere di interrompere la città. La villa dove si trovava affacciava sui campi che lambivano Roma e anche se ormai disseminato di abitazioni residenziali era sempre un bel panorama da guardare. Gli alti cipressi che ornavano il viale d’accesso, insoliti per una zona dove questo tipo di vegetazione era soprattutto destinato all’ornamento dei cimiteri, raccontavano dei primi proprietari, forse toscani, come poco più in là un ciuffo di palme tra gli alberi da frutto, raccontava il rimpianto della sabbia e del mare. Le tonalità del verde eccessivamente diverse tra loro riproposero alla maestra d’asilo i disegni del kinderheim, le margherite sul prato sembravano disposte dalle mani dei bambini. L’intensità dei colori sbattuti nell’azzurro del cielo quasi toglieva il respiro. Troppo ossigeno. Virginia aveva accettato l’invito a passare una giornata nella villa dei nuovi padroni del gatto non soltanto per l’insistenza di Mariolina Cipolletta, che ci 179 teneva alla sua presenza come salvatrice del gattino, ma anche per il desiderio inconscio di stare una giornata all’aria aperta. Ciuffolo, come era stato chiamato, dopo un breve soggiorno in casa della presidente del Club, era stato consegnato ai signori Spallotta, che abitavano fuori Roma e avevano tutto lo spazio necessario per farlo vivere bene. “Vedrà, è veramente un amore. Affettuoso, allegro… le siamo riconoscenti sa…” avevano detto i genitori adottivi del gatto dopo averla accolta sulla veranda che apriva al giardino, un vero e proprio parco. Era abitudine per i soci abbienti del Club, e lo erano quasi tutte le persone presenti quella domenica, riunirsi almeno due volte l’anno nella casa dell’uno o dell’altro per celebrare qualche avvenimento gattesco e l’allegria che sprigionava dai loro atteggiamenti prometteva una piacevole giornata. I granelli di terra si spostavano sotto i piedi di Virginia che avanzava per cercare di capire dove arrivassero i confini della tenuta. Sembrava che vacillasse. La notte non aveva dormito bene. Gli occhi le bruciavano. Si era svegliata di soprassalto sentendo tra le dita un calore strano, come di sangue che scorresse dai polsi. Era andata persino in bagno a lavarsi le mani. Aveva ripreso a dormire a strappi. Svegliandosi aveva pensato di rinunciare all’invito, ma la cortesia di Mariolina Cipolletta, che le aveva telefonato alle otto e mezza per spiegarle la strada, l’aveva resa obbediente. Tra le due donne era nato un certo interesse, da prima fatto soltanto di notizie sul gatto, poi si erano lasciate andare ad una formale confidenza che le aveva 180 portate a parlare delle esperienze più significative della loro vita, sfiorando appena quelle sentimentali. L’amica dei gatti era stata professoressa di Storia dell’Arte in un liceo di Frosinone, aveva collaborato con alcuni giornali e messo su insieme a un gruppo di allievi una radio locale. Scriveva ancora, di gatti naturalmente. Non aveva figli, né era stata sposata. Si era trasferita in Ciociaria per seguire un uomo ed era tornata in città appena andata in pensione. Viveva da sola, ma di come era finita la storia con quell’uomo non aveva raccontato nulla. Estremamente gentile invitava la nuova socia ad ogni riunione a cui Virginia però evitava di partecipare. Ciuffolo, principe altezzoso, si faceva aspettare. La padrona di casa continuava a chiamarlo fino a che un uomo scuro di pelle, elegante nella tuta da giardiniere, apparve con il gatto in braccio. Era diventato veramente bello. Il pelo fulvo, più folto di quello che avrebbero dovuto lasciargli le sue origini, metteva in evidenza le striature bianchissime. Gli occhi assai verdi si socchiudevano voluttuosamente ad ogni carezza, e si lasciava accarezzare con sapiente dignità. Degnò Virginia soltanto di uno sguardo, ma non abbandonò più gli ammiratori e con la coda dritta passava da uno all’altro per ricevere consensi. La tavola apparecchiata sotto un vecchio pergolato, ricca di stoviglie rustiche, raccolse tutti per il pranzo. Il cibo risentiva dei consigli alla moda e anziché servire fettuccine e abbacchio, comparvero risotto con zucchine e gamberi, tortini di pollo con purea di funghi e una mousse di banane che chiudeva il menù. 181 Il vino dei castelli usciva abbondante dai fiaschi impagliati con la plastica anche se lo scandalo del metanolo, appena scoppiato, invitava alla prudenza. Serviva in tavola la moglie del giardiniere, costretta in un grembiule celeste che metteva in evidenza le tipiche rotondità della donna di colore. Banchetti romani, dove il dottor Argenti e l’ingegner Petri avevano sostituito Settimio e Claudio e le Agrippine invecchiate davano ancora mostra di sé. Virginia aveva parlato poco e a parte l’attenzione per aver raccolto il gatto, nessuno si era rivolto a lei con particolare interesse. Le gattescherie avevano avuto l’onore di reggere la conversazione soprattutto fra le signore. Gli uomini, in minor numero, si accanivano dietro la politica del pentapartito. La contaminazione di Cernobyl appena avvenuta in Ucraina, ancora non turbava la festosità dell’aria italiana. Ubriaca d’aria più che di vino, Virginia si spostò per sedersi su di una comoda sdraio imbottita dove si sarebbe di certo addormentata se non fosse arrivato un ospite che non aveva nulla a che fare con i gatti. “Un caro amico venuto per aiutarmi a uscire da un garbuglio burocratico” spiegò il padrone di casa, e i due uomini scusandosi cerimoniosamente sparirono all’interno. Qualche battuta sul nuovo venuto ravvivò la conversazione. La padrona di casa ripeté più volte il nome, Lorenzo Jaconis, come se tutti avessero dovuto conoscerlo. Il tempo non passava mai, Virginia non vedeva l’ora di tornarsene a casa, sentiva il bisogno di cancellare con una bella doccia gatti, gattare e gat182 titudini, ma per non essere scortese aspettò che qualche altro prendesse l’iniziativa. Intanto Lorenzo Jaconis era riapparso e si era seduto in una seggiolina di ferro smaltato proprio accanto a lei. Rigido guardava ora uno ora l’altro senza espressione. Virginia notò che gli occhi erano simili a quelli del gatto. Quando il primo ospite si alzò l’uomo colse al volo l’occasione per salutare inchinandosi davanti alle signore ed a Virginia, che si informava sulla strada per rientrare a Roma, si offerse di fare da guida. Un sorriso ed entrarono nelle rispettive automobili. La velocità richiesta dalla superstrada non veniva rispettata dalla Panda della donna che arrancava dietro la BMW dell’uomo più veloce e scattante. Lui cercava di non perderla. Alle porte della città mise la freccia per girare a destra sottolineando la decisione con un ampio gesto della mano fuori del finestrino. Lei perplessa lo seguì anche se ormai sapeva come raggiungere il centro andando dritto. La strada era tortuosa e stretta e Lorenzo Jaconis continuava a far cenno di andargli dietro. Si fermò davanti ad una trattoria con i tavoli esterni coperti da tovaglie a quadri bianchi e rossi. Scese, si avvicinò allo sportello della macchina di Virginia, lo aprì e la pregò di scendere. Lei rimase seduta. Allora quel signore appena conosciuto, con molta dolcezza le spiegò che non aveva mangiato dalla sera prima e che gli avrebbe fatto molto piacere farlo in sua compagnia. Conosceva la trattoria e una amatriciana o una carbonara non gliela avrebbero sicuramente negata, anche se l’ora di cena era lontana. Lei non seppe cosa rispondere, 183 farfugliò di impegni precedenti, di lavori impellenti. Lui paziente aspettava rigido come un generale, poi, quando capì che non accettava davvero l’invito, le sfiorò la guancia con la punta delle dita prima di voltarsi per andare via e Virginia, turbata, anziché ingranare la marcia spense il motore. A tavola Lorenzo parlò delle figlie che aveva, della casa al centro di Roma, della vita che gli piaceva vivere, ma le domandò anche moltissime cose alle quali lei rispondeva impacciata come una scolaretta e finalmente quando si tolse gli occhiali da sole, lui la guardò negli occhi per un momento che sembrò lunghissimo. Un provvidenziale piatto di fettuccine tagliate a mano, portate a Lorenzo dal padrone della trattoria, fece inghiottire a Virginia le lacrime che stavano per uscire. Chinò la testa sulla macedonia che aveva chiesto ed i piccoli pezzi di frutta confusero il colore. Il vino bianco di Frascati, appena uscito dal frigo, aveva accentuato il turbamento. Fu un corteggiamento rapido, velato di pudore. Ad una certa età non si ha più tempo da perdere, ma si è persa l’irruenza della gioventù. Nei giorni che seguirono Lorenzo invitò Virginia a Gaeta dove aveva un villino che non affacciava sul mare. Imboccarono la Pontina, il lungomare di Terracina e poi la Flacca. Una strada romantica, e mentre cambiava le marce lui teneva la mano di lei sotto la sua. Le curve si affacciavano sulle onde che salutavano da vicino. Arrivarono quando il presepe di case assiepate sul golfo era punteggiato di luci. Entrarono che ancora non era buio. La costruzione Liberty con gli stucchi intorno alle finestre appariva vecchia. Un’ampia scala con la balaustra 184 di mogano portava al piano di sopra. Un trumeaux, anch’esso di mogano, si accompagnava a un tavolo ovale con le sedie intorno. L’imbottitura del divano e delle due poltrone era incorniciata da legno scuro. I quadri riproducevano scene di caccia alla volpe. Non era certo un arredamento da spiaggia. Le origini inglesi della mamma di Lorenzo avevano avuto il sopravvento. Cenarono al lume di candela, l’impianto elettrico si era guastato. Avevano comprato lungo la strada le mozzarelle di bufala e lui aveva portato da casa un dolce fatto da una delle figlie, un cheesecake dal sapore di fragole. Fu piacevole salire tenendosi abbracciati. Un soffio sulla candela e il buio vide per primo la loro nudità, poi, soltanto il silenzio sentì il cauto grido dell’orgasmo. L’insonnia di lui e il russare di lei si tennero compagnia. La mattina scesero al mare. Il vento sbatteva sugli scogli l’affanno della risalita. Ansanti raggiunsero un punto dove il vento cercava di condurli altrove. Sorretti uno dall’altro si scambiarono un lungo bacio d’amore. *** Il prima Lorenzo, il dopo Lorenzo. Amare è soltanto un’abitudine di cui non si può fare a meno o un’emozione da volere assolutamente ripetere? Certamente la vita di Virginia cambiò. Ancora una volta il pensiero si riempì di un lui. Cosa gli pas185 sava nella testa? Cosa stava facendo, cosa aveva fatto ed il sorriso insieme ironico e comprensivo che illuminava il volto di quel suo nuovo uomo le appariva nei momenti più impensati. Pacato il morso che le stringeva lo stomaco ogni volta che lo incontrava, ma lei non voleva chiarire a se stessa quanto fosse la gastrite o la passione a provocarlo. Ancora… alla sua età! Lorenzo… Dolcemente le si era messo a fianco, dolcemente pretendeva tutte quelle attenzioni di cui ha bisogno l’essere umano per speculare la propria immagine su di un altro. Lui, che metteva tutto l’amore nella richiesta di bellezza, di eleganza, di felicità, di sentimento sublimato comunque nell’amplesso. Lui, che tacitava dolcemente ogni sfogo di Virginia con parole appropriate, rapide, conclusive, che si chiudeva in silenzi che non volevano essere disturbati, che si irrigidiva sulle chiacchiere delle futilità. Lui, l’innamorato. Il lavoro impegnava molto Virginia, che però riusciva a fare acrobazie con il tempo e gli appuntamenti per accontentarlo. Lui la voleva bella. Via le scarpe con il tacco troppo basso, a Virginia però facevano male i piedi, meglio i capelli più lunghi e soprattutto sempre in ordine, ma il parrucchiere costava… Via i jeans, è più opportuno vestirsi con classe sportiva con il filo di perle che non deve mancare. La voleva sempre a posto… ma che fatica! E nel rappresentare la figura della donna perfetta, preferita da lui, lei si sentiva comunque fiera, partecipe di una esistenza che aveva bisogno dell’esistenza dell’altro per trovare l’equilibrio. Equili186 brio da mantenere in bilico sul tracciato del latte versato, ricominciato a dare. Latte di donna. Latte di palma, che senza la forza del sole non dà frutto. Latte di fiori per adornare seni svuotati. Latte di perle, per abbellire gli anni della sterilità. Virginia e Lorenzo. La coppia. “Vieni a vivere da me, a riposarti, lascia perdere questo stupido lavoro. Metti in pensione la donna che sei stata. Lasciati andare, lasciati amare.” le ripeteva lui. Ancora un cambiamento. Un’altra casa dove andare. Altre cose da scoprire per allargare l’amore, per donare energia, attenzione, come l’istinto avrebbe voluto che fosse, ma come l’indipendenza raggiunta non voleva che accadesse. Sarebbe riuscita ad essere la donna che Lorenzo voleva? Piazza di Torre Argentina. La casa era vecchia. Ruderi da ravvivare. Non c’era neanche un balcone nell’appartamento, l’unico terrazzino era diventato una veranda piena di cose ammucchiate. Impossibile mettere piante. Avrebbe lasciato il suo giardino dove era. Avrebbe soltanto aggiunto latte all’acqua delle rose acquistate al mercato di piazza di Campo dei Fiori, alle primule, alle margherite recise. Latte per vivere ancora, per durare di più. *** Il sorriso di Colombo, carico di orgoglio maschile, l’aveva contagiata gonfiandola di umori antichi. Si era sentita ancora donna, ed era scappata via dal giardino di Piazza Cavour dove le ombre giocavano allo specchio. Virginia donna, rientrata tra le 187 gambe della madre, fagotto di ossa e di carne, per proseguire quella treccia di latte che trasmette latte senza doverlo trasformare in sperma. Ultimo capo di una catena di femmine predestinate ad esserlo. Colombo e Virginia, anime traballanti in bilico sul confine dell’eterno, vagabondi che ancora generavano energia. Prendere per dare, dare per prendere. Nutrivano di sogno la continuità, mentre lo scalpo del latte giaceva in terra vinto. Lei si era allontanata senza parlare, lui l’aveva lasciata andare. Ci mise molti giorni per tornare a piazza dei Cinquecento. Strada facendo aveva sfiorato il quartiere Prati, si era bagnata agli spruzzi della fontana di piazza degli Eroi e dai ruderi di piazza di Torre Argentina non aveva visto finestre illuminate. Si fermò a villa Aldobrandini dove non era mai entrata. Dalla terrazza Roma apriva il cuore di una delle tante storie dell’umanità. Bella che quasi le tolse il respiro. La sua città, da dove non era voluta uscire che con la fantasia. Terra, acqua, aria, mescolati dal pensiero avevano formato civiltà. Civiltà in cui si rifugiavano obbedienti i ribelli e nella fucina attizzata dal progresso la natura crogiolava l’intimità. La donna si accomodò su una panchina. Era fredda. Aveva voglia di latte caldo. Dalla piccola fontana non usciva neanche un po’ d’acqua, ma ugualmente il putto con la bocca aperta aspettava. Sopra di lei le cime dei cipressi e le chiome delle palme gareggiavano per scacciare le nuvole sfilacciate dal tramonto. In basso i fiori d’arancio iniziavano ai frutti. Il giardino era ben tenuto. Fece vagare lo sguardo tra gli alberi e si imbatté nell’incavo del tronco di un cipresso dove in alto, bizzarra, era nata una palma. 188 Incuriosita si avvicinò. La guardava da sotto. Il giovane virgulto allargava le tenere foglie per ricevere dall’aria il nutrimento che dalla terra non sarebbe riuscito a prendere. Le prime foglie già pendevano secche in attesa di cadere, avrebbero resistito le altre? Così pensando non si accorse che una voce invitava ad uscire finché la mano di una donna grassa, ma grassa come non si poteva neanche immaginare, la scosse. Aveva un viso bellissimo come lo sono a volte i visi delle persone in carne, e il sorriso non era da meno. Si guardarono. Insieme scesero la scalinata che riportava alla strada. La guardiana tolse dalla tasca di una enorme tuta da lavoro la chiave e serrò il lucchetto della catena che chiudeva il cancello. “Buonanottata” disse. Virginia non rispose ma si avviò contenta verso la sua ultima casa. *** Doveva far presto. Far presto. Era ormai certa. L’avevano ammazzato. I giornali aumentavano le illazioni sull’assassinio di Lorenzo Jaconis. Per capirne di più Virginia incominciò proprio da quello che la stampa aveva riportato e cercò alla Biblioteca Nazionale tutto ciò che i giornali degli ultimi anni avevano scritto su gli intrighi internazionali, tangentopoli e qualsiasi notizia riguardasse traffici illeciti. Divenne rapida nelle consultazioni e ricordò il tragitto del passato quando ignorava i libri, ma cercava il senso delle 189 cose… della mitologia… per scrivere il regalo di nozze a Maria Rosa… per sapere di più… Che differenza! Seduta alla scrivania di Lorenzo, con l’immagine dell’uomo irrigidito dalla morte negli occhi, incominciò a ripassare ogni attimo vissuto insieme. Tralasciando le parole d’amore diede corpo alle allusioni, alle frasi ascoltate e allora trascurate. Riempì i silenzi in cui aveva percepito risposte che non voleva sentire. Diligente appuntò ogni pensiero e ogni ricordo. Riempì pagine e pagine di frasi che le indicavano qualcosa. La famiglia Jaconis continuava a riversare autorevolezza su di lei e attraverso gli oggetti ancora imponeva le sue aristocratiche origini. Virginia le fece proprie. Assunse la mentalità della casta. Fu inglese come la madre, professore di diritto come il padre e con l’ottica del figlio devoto e nello stesso tempo ribelle si mosse per cercare quel che si doveva nascondere. Con puntigliosa meticolosità controllò ogni cassetto, ogni pezzettino di carta. Controllò la veranda, il ripostiglio e la cantina. Il sonno la toglieva alla stanchezza del giorno, ma diventava sempre più breve. I riflessi del movimento della strada, che nei momenti più difficili della sua vita le avevano tenuto compagnia spostandosi lenti sul soffitto della casa dei genitori, si intrecciavano luminosi come fili conduttori di una energia occulta. Il movimento ripercorreva nella fantasia il cammino della storia recente ironizzato da Mino, vissuto da Chito, accennato dagli altri. Ognuno a modo suo aggiunse qualcosa, ma ancora troppi erano gli interrogativi. Passava giornate intere in biblioteca e la carta per appuntare ogni cosa non le bastava mai. Scriveva 190 su tutto cercando pezzi di carta nuovi e quando trovò un fascio di tabulati che si era portati dietro da viale Eritrea e li rigirò per scriverci sopra, l’invase il ricordo. La solitudine di quei momenti, le esperienze sessuali, il computer… Lo aveva venduto attraverso Porta Portese e prima ci aveva messo giorni e giorni per pulire la memoria del disco rigido con Lorenzo che insisteva perché cancellasse, cancellasse tutto in fretta. Già… perché? Che significato potevano avere tutti quei numerini e quelle lettere dell’ultimo lavoro? Codici… Si mise ad esaminare i fogli con attenzione. Non era certa sul nome della società per cui erano stati elaborati, ma le sembrava di ricordare che fosse una delle società appartenenti al gruppo per cui aveva lavorato anche Lorenzo. Quei codici quindi avrebbero potuto dire qualcosa… e le ritornò alla mente che quando gli aveva spiegato il lavoro che faceva, lui, che normalmente si annoiava alle sue confidenze, le aveva fatto precise domande e come divertito dal significato nascosto dei codici aveva insistito per vedere i tabulati e li guardava e riguardava a volte molto serio… Possibile che ci fosse un nesso? Con accanimento, cercando di tirare fuori dalla mente ogni pensiero che potesse esserle utile provò a decifrare quelle pagine. Non fu facile ma quando ci riuscì con il primo, ed era un nome noto, continuò eccitata con gli altri. Il meccanismo di identificazione non era semplice. Ogni sigla era composta dalle ultime due lettere del cognome della persona indicata con l’aggiunta del numero delle lettere che precedevano le ultime due lettere 191 segnate, quindi le prime due lettere del nome, un punto e al contrario gli ultimi due numeri che indicavano l’anno, uno zero ed il numero che corrispondeva al mese. Si bloccò su IS5LO.48012. “Lorenzo Jaconis dicembre 1984”. Dovette prendere più di un tranquillante per calmare l’agitazione. I giorni che seguirono si riempirono del ricordo di coincidenze dimenticate. Ogni viaggio si legò agli avvenimenti letti sui giornali, alle domande della polizia, ogni nome acquistò una identità presunta, un significato. Virginia che era considerata la più estranea alla vita di Lorenzo, si ritrovò ad essere la più partecipe. Doveva far presto. Doveva riordinare e riscrivere ogni appunto per avere più chiara la situazione. Il computer lasciato da Lucia, l’avrebbe aiutata. Si sedette alla sua scrivania. Provò ad accenderlo. Aveva un programma diverso da quello a cui era abituata, ma perdendoci un po’ di tempo sarebbe riuscita ad usarlo. In memoria, i suoi versi scomposti e qualche novella sballata. Cercò i dischetti convinta che li avessero portati via i poliziotti quando avevano perquisito la casa. Inaspettatamente li trovò mescolati alle cento ingenue cose che riempivano i cassetti della ragazza. Non portavano alcuna indicazione. Dovevano essere vuoti. Avevano etichette rosa bordate da fiorellini gialli. Sicuramente comperate in Inghilterra. Infilò il primo che le capitò fra le mani per capire meglio il meccanismo. Cliccò e apparve una schermata scritta come se fosse la continuazione di altre. “Ancora un articolo bestia. L.U.I. ha troncato il discorso quando glien’ho parlato.” e via con apprez192 zamenti e critiche in tono violento. Sembrava un diario. C’era disperazione nelle parole messe alla rinfusa e frasi lasciate a metà. Virginia non voleva leggere, le sembrava di appropriarsi di una intimità che non le apparteneva, ma nello stesso tempo era spinta dalla curiosità di capire di chi si parlasse e a cosa alludesse quel L.U.I. pieno di puntini, scritto con il grassetto e le maiuscole. Fece scorrere lo scritto. “Camaleonte, falso, bugiardo, neanche con quella riesci ad essere vero, ma non ti guardi quanto sei ridicolo quando fai l’innamorato? e non ti ascolti quando rispondi a quegli stronzi di amici tuoi? Sei odioso. Sembra che per te tutti siano merda. Ma chi sei realmente?” e dentro, alla rinfusa, i sentimenti vergini di una fanciulla piena di amore deluso. Una malinconica amarezza l’invase. Lucia. Povera ragazza. Era lei che aveva scritto quelle parole tremende… e triplicava le doppie per rafforzare ciò che diceva. “L.U.I. è a Zurigo e invece mi aveva promesso di venire con me al cinema. Sempre i soliti impegni più importanti di tutto…” e ancora riferito al L.U.I. “…non ce l’ha fatta a resistere quando mi sono incazzata per i bambini storpiati dalle mine. S’è alzato e se n’è andato via e quella cretina che insisteva sulla sua sensibilità…” Uno dei soliti battibecchi a tavola. Virginia ricordò la discussione. Lorenzo. L.U.I. Ancora un gioco di lettere per sentirsi di pietra. Rimase un giorno e una notte con gli occhi sbarrati, incredula. Andò di nuovo in biblioteca a sfo193 gliare giornali per sapere tutto quello che si diceva sul traffico di armi ed ebbe chiara la responsabilità dell’uomo. Andare dalla polizia? Non aveva prove e poi Lorenzo non c’era più, perché infangarne la figura? Forse non si sarebbe mai riusciti a sapere la verità. Sul morto si stende un velo di silenzio o si addensano tutte le colpe. Sperava nella prima versione. Gli incastri della fantasia come quando girava per le strade dei Parioli, tornarono a tenerle compagnia. L.U.I. Lorenzo Ultimo Idolo oppure Lorenzo Ultra Impostore? E se avesse voluto dire Lorenzo Uguale Ingenuità? Si incontrò con Laura, la mamma di Giovanna. Sapeva che Virginia stava facendo ricerche per ottenere giustizia e l’aveva aiutata convincendo la figlia a lasciarla ancora un po’ nell’appartamento di piazza di Torre Argentina, ma Virginia non ebbe il coraggio di raccontare quello che aveva scoperto. E poi era veramente la verità? “Dove andrai?” continuava a ripeterle preoccupata la donna “Che farai?”. “Non lo so. Non lo so. Lasciami ancora finire questo pensiero, poi vedrò.” *** Le strisce di luce sul soffitto andavano verso i confini del buio spostandosi a intervalli. L’onda del rumore delle ruote sull’asfalto che accompagnava il movimento del riflesso, si assopiva lasciando viva la mente. Guardava in alto Virginia, inseguiva i ra194 gionamenti che scivolavano insieme alle parole impresse da Lucia sul computer, cuore di plastica a cui affidare confidenza. Strisce di luce fredda che riflettevano le pulsazioni della città, o le peggiori pulsioni dell’uomo? Interrogativi a cui la donna non voleva rispondere. Anche la ragazza aveva vissuto nel centro della città e forse anche lei aveva inseguito sul soffitto il via vai del riflesso della strada meditando considerazioni e sogni. La sua stanza. Il suo mondo da cui era uscita con violenza. Lucia, gattino fulvo di razza, raccolta e non accolta. Lei aveva cercato di starle vicino e non c’era riuscita. Virginia cercava di trattenere le lacrime. Lucia infranta. Quante cose aveva dentro. Distorte ma tutte ugualmente vere. Veniva fuori dai dischetti con le etichette romantiche una romantica fanciulla delusa. Arrabbiata. Che aveva capito e non voleva credere. Che rifiutava ogni imposizione come fosse una stupidaggine dettata dall’egoismo, dalla cattiveria, dall’indifferenza degli altri. Nominava la mamma soltanto per dovere di cronaca. La nonna la sentiva vicina come una specie di spirito protettore, una guida a cui appoggiarsi per poi disobbedire obbligandola a esserle complice. Dell’amore aveva un concetto estetico, passionale e istintivo. Gli amici erano sempre “…issimi” così le cose per cui si entusiasmava. Vocali e consonanti alla rinfusa accanto a indirizzi, note, date, rumori sintetizzati in esclamazioni senza significato, alla maniera dei ragazzi. Termini che Virginia aveva adoperato scrivendo di Michele. Ma come era diverso Michele. Eppure simile. Non sentiva più di rubare qualcosa, donnamamma con il cuore elet195 trico e le arterie di plastica. E di plastica ormai erano i suoi sentimenti. Mater Matuta, colma di bimbi mai nati, elettronici, invadenti. Neonati sui quali le fibre ottiche si sarebbero intrecciate con il latte. Latte al vento per spruzzare l’etere di ricordi. Non più aurora, ma notte. Attraverso la ricerca della verità Virginia ricostruiva l’uomo che avrebbe dovuto tenere per mano nel momento della morte. Non le piaceva la persona che veniva fuori. Cercò di allontanare Lorenzo senza riuscirci. La razionalità andava bene per spostare mobili e soprammobili, non andava bene per i sentimenti. Prese nuovi appunti, in omaggio a Lucia, vestale sacrificata agli dei di un’epoca. Ripassò i silenzi cupi, le notti insonni di Lorenzo che si spostava come un ladro nello studio… Rimorsi? Lo rivedeva intento a studiare davanti ad un contenitore grigio pieno di carte, a volte in piedi a volte girando preoccupato intorno alla scrivania. Già… quel contenitore grigio… dove era finito? Nessuno ne aveva parlato, né polizia né giornali. Né lei si era ricordata che c’era. Eppure lo aveva spiato tante volte mentre lo prendeva o lo riponeva nel cassetto, l’unico cassetto che si chiudeva a chiave… già… dove era finita la chiave? Lei non l’aveva trovata. Lei che ironizzava sempre sulla mancanza di segretezza di quella casa dove l’antichità aveva arrugginito le serrature… chi l’aveva fatta sparire? Domande, ancora domande. Lorenzo forse stava raccogliendo le prove per denunciare ciò che sapeva e qualcuno lo aveva capito e quindi lo aveva eliminato. 196 Bravo Lorenzo. Lorenzo bravo. Lei ne avrebbe fatto un eroe. Cominciò a scrivere alacremente, con l’impegno che si mette in un lavoro pagato bene. Anzi di più. Scriveva in prima persona il racconto di chi voleva spiegare più che accusare. Donnauomo. Cercava di entrare nel suo modo di pensare, di agire, per capire il perché del suo comportamento. Per assolverlo. Lorenzo. Michele. Gli altri. Uomini veri e di fantasia. Teatranti dell’inconscio potere della potenza a tutti i costi. Pronti ad affermare ciò che avrebbero voluto essere e non riuscivano ad essere. Pari opportunità per loro, incapaci di considerare la femmina amica. Tornò ai fatti, ma la mente tendeva ad andare oltre. Non mangiava quasi più e il dormire era diventato soltanto un momento di riposo quando gli occhi si chiudevano da soli. Eppure ingrassava. Sembrava gonfia. Gonfia di eccitazione e di pensiero. Ci mise due mesi per riempire centodiciassette pagine, che volle ridurre a centotredici. Feticismo di numeri e di parole. Un libro. Due mesi in cui l’antica strada d’oriente si fermò al medio oriente. Petrolio, seta di Dio, sapienza del diavolo. Armi per riportare la pace, mentre l’orgoglio dell’appartenenza ad una etnia stimolava i più furbi. Aveva iniziato il libro raccontando un fatto di cui Lorenzo le aveva parlato. Un amore, uno dei tanti. Aziza, incontrata casualmente durante un viaggio di lavoro. Danza del ventre finita in guerra. Denaro vestito con la gonna. La solita storia del pomo offerto ad Adamo da cui Virginia volle trarre la trama che portava alla redenzione, ma con quel giorno di distanza che era stato fatale. 197 Ser Iaconis, come veniva chiamato Lorenzo dai governi stranieri, superata la passione si era trovato coinvolto nell’intreccio di interessi internazionali. L’intelligenza ne aveva tratto vantaggio fino a raggiungere il parossismo. Potenza e potere. Coito. E Virginia l’accolse e lo perdonò. Sulle pagine bianche scritte dall’amore, neonati neri come il latte d’asfalto delle terre ammazzate riprendevano vita per combattere battaglie perse. Sia fatta giustizia Lorenzo. Tu, antesignano della globalizzazione, univi i popoli nella violenza per raggiungere la civiltà. Avanti, avanti sempre di più, fino a perdere ogni senso. Chi ne aveva approfittato? Connivenze, intrighi, fughe, una trama che non avrebbe mai pensato potesse esistere. A lei il compito di renderla buona. A lui la memoria dell’ineluttabile. Ser Jaconis. *** Il giorno accorciava il riflesso delle luci sul soffitto, aiutato dall’estate che voleva entrare per forza. Virginia guardava per aria. Aveva sete, tanta sete e avrebbe gradito un bicchiere di latte. Il racconto delle trame era finito. Impaginato bene, il contenuto chiaro, pieno di nomi che avrebbero potuto portare allo sconquasso, anche se difettava nella scorrevolezza dei verbi. Al posto del titolo tanti puntini, non era riuscita a trovare una frase giusta. 198 Come Lucia, nascose le sue confidenze su di un dischetto che lasciò adorno soltanto di fiorellini gialli. Lo mise tra gli altri. Le due copie che aveva stampato le ripose nella cartella Vuitton dove aveva conservato “Forse tu…” e le favole scritte per i bambini del kinderheim. Con un gesto lento se la mise a tracolla e ripercorse la casa. Spiava dalle porte le stanze vuote, tendeva l’orecchio ai rumori che non c’erano. Si muoveva con i gesti di Lorenzo, toccava gli oggetti alla sua maniera, li vedeva con i suoi occhi. Cari, cari occhi. Aprì la porta d’ingresso e uscì chiudendola come se dentro qualcuno non dovesse sentire lo scatto. Sul pianerottolo non c’era nessuno, né l’ascensore la disturbò. Scese a piedi le scale senza accorgersi di farlo. Appena fuori del portone si guardò intorno. Camminava in cerca di un bar non ricordando più dove si trovasse quello che conosceva bene. Si infilò nel primo che le capitò davanti. Bevve un bicchiere di latte freddo, ne chiese altri due e al momento di pagare si accorse di aver portato con sé soltanto la Vuitton con le carte. Per fortuna aveva preso dall’attaccapanni la giacca e nella tasca trovò una manciata di spiccioli con qualche banconota. Voleva andare dal maresciallo Imbeni, un pacioso poliziotto che le aveva più volte ripetuto di rivolgersi a lui qualora avesse avuto qualcosa da comunicargli, ma era confusa sulla strada da fare. Non ricordava dove fosse il commissariato, non riconosceva i marciapiedi, il selciato. Camminò guardandosi intorno come se vedesse le strade per la prima volta e quando giunse davanti agli uffici della Polizia si impappinò nel chiedere all’agente di guardia se c’era il superiore. Tirò fuori 199 dalla cartella uno dei due pacchi di fogli raccolti con la costina di plastica nera e disse di volerli dare personalmente al maresciallo. L’agente girò e rigirò le carte con cautela come fossero imbottite di esplosivo e la pregò di attendere. Tornò con un agente più anziano, che l’invitò a seguirla chiedendole con aria inquisitoria chi fosse e perché volesse consegnare proprio al maresciallo quegli scritti. Virginia si presentò, spiegò in breve la storia di Lorenzo continuando a interrompersi per ripetere più volte che aveva trovato la soluzione. “È tutto scritto qui” insisteva e il brigadiere la guardava insospettito. “Imbeni capirà sicuramente, capirà sicuramente…” L’uomo fece cenno di attendere. Tornò con dei moduli. Le chiese di mostrargli un documento. Virginia cercò il portafoglio e si rese conto di non avere nulla addosso che dimostrasse la sua identità. Farfugliò parole di scusa e allo sguardo penetrante che l’agente le rivolgeva rispose con un mezzo sorriso “Abbia pazienza, vado a casa, prendo la borsa e torno subito.” e senza dargli il tempo di reagire uscì. Quel senso di inconsistenza che l’aveva colta lasciando l’appartamento l’avvolse di nuovo. Camminava in cerca di punti di riferimento. Non sapeva più perché si trovasse in quella via. I passi la conducevano a percorrere le strade senza accorgersene. Le sembrava un paese sconosciuto eppure i muri emanavano affetto. Lo sentiva. Come sentiva il calore dei sampietrini sotto i piedi. Sentiva l’odore dei gas di scarico come fosse un pro200 fumo. Le voci, lo strisciare delle gomme, il calpestio dei passi, erano suoi. Voleva goderne intensamente. E fu godimento riemergere dall’oblio e capire che non ricordava dove fosse. Toccò la cartella, non aveva altro con sé che l’alfabeto mescolato al sentimento per esprimere il cuore. Donnacarta. Sorrise e azzardò un passo più lungo come per giocare a campana. Le scale di una chiesa l’aspettavano. Si sedette. Chiuse gli occhi con la gente che sfumava nel sonno. Fu il calore del sole a svegliarla. Un raggio l’accarezzava allungandosi dal fondo della via. “Bello” mormorò Virginia e seguì con lo sguardo la linea luminosa che tracciava. Sembrava tutto più pulito. I passanti indossavano l’aria tersa del mattino. Istintivamente sporse il braccio per guardare l’ora. Aveva dimenticato a casa anche l’orologio. Rimase seduta dove era aspettando di avere voglia di alzarsi. *** L’abbigliamento non era dei più adatti alla strada, ma Virginia non se ne rendeva conto. Distratta, vagava per le vie come se fosse in un’altra città Ai piedi comode Tod’s. I pantaloni e la giacca di ottimo taglio, in fresco di lana, permettevano movimenti sciolti e calore giusto, ma erano troppo eleganti perché qualcuno si impietosisse e le desse un’elemosina. Aveva ancora gli occhiali sul naso. Lorenzo le avrebbe detto “Tesoro hai un viso così giovane… cerca di non abituarti…” 201 Lui che aveva una vista da falco! Contò i soldi Trentacinquemilaottocentocinquantotto lire. Avrebbe potuto comperare il giornale per diversi giorni. La storia di Lorenzo era viva dentro di lei e sperava nella giustizia. Il resto non contava più nulla. L’ultimo messaggio d’amore era affidato a un dischetto che forse mai nessuno avrebbe letto e ad un pacco di fogli che forse qualcuno avrebbe occultato. Ancora lucida nel pensiero che riguardava la morte di Lorenzo, Virginia per il resto si nutriva di sensazioni. Ciò che assorbiva l’appagava come se il corpo fosse un estraneo a cui badare soltanto quando chiedeva cibo da ingoiare e rifiuti da espellere. Quel che le era appartenuto non importava più anche se a tratti tornavano nitide le immagini del passato. Maria Rosa, che le aveva tenuto il broncio chiamandola pazza dopo che le aveva raccontato di essersi rifiutata di sposare Lorenzo. Già, perché non lo aveva voluto sposare? Ora sarebbe stata la vedova Jaconis. Che sicurezza! Le ultime volte le aveva risposto al telefono con fatica… non le andava di parlare più con nessuno… Di Ornella aveva perso le tracce. Dodo se avesse saputo la sua situazione l’avrebbe sicuramente aiutata, ma non lo sentiva da qualche anno, Lorenzo ne era stato geloso. Chi altri poteva pensare a lei? Laura, l’ultima amica… L’aveva cercata infatti. Prima al telefono poi preoccupata aveva convinto Giovanna ad accompagnarla nell’appartamento di piazza di Torre Argentina per vedere cosa fosse successo. La borsa con il portafoglio, le chiavi, i vestiti, tutto lasciato lì come se l’ultima compagna di Lorenzo dovesse tornare da un momento all’altro le fece paura. Litigò con la figlia che 202 continuava a ripeterle di non immischiarsi in cose che non la riguardavano. Andò da sola dai carabinieri. Giovanna s’infuriò quando lo seppe. Proibì alla madre anche soltanto di nominare “quella donna” e chiamò subito un antiquario per far valutare il mobilio della casa che era stata del padre e della nonna. Virginia sempre più lontana da se stessa ricordava soltanto stralci del passato, ma continuava a leggere i giornali pensando a Lorenzo. Il rimbombo del mondo urlato dai titoli dei quotidiani non la impressionava più. Si agitò soltanto quando in una pagina interna de La Repubblica vide il titolo di un articolo non molto lungo che diceva “Scomparsa la compagna di Jaconis”. Corse allora a comperarsi un paio di forbici, entrò in un bagno pubblico, tagliuzzò i capelli fino alla radice, indossò la giacca al rovescio e l’immagine che vide riflessa la rassicurò. *** La Stazione Termini non era più la stessa, rinnovata dai lavori eseguiti per accogliere il nuovo millennio. Mancava poco più di un’ora all’evento tanto atteso. Le transenne disturbavano le abitudini di Virginia che vedeva invasa la sua casa da troppi sbandati ai quali si erano aggiunti tanti giovani che parlavano un’altra lingua, svelti nel muoversi e nel litigare. La donna si spostava da un punto all’altro e ogni volta che Colombo le si avvicinava, lo man203 dava via con il gesto di chi scaccia una mosca. Lui la osservava preoccupato. L’aveva trovata più di una volta seduta in terra in posti insoliti, con l’aria assente e la cartella aperta con i fogli sparsi sulle ginocchia come se non le importasse più di custodirli bene. Le previsioni dopo l’estate eccezionalmente torrida annunciavano un inverno assai freddo. Virginia aveva già indossato più panni di quelli che portava di solito e, goffa, continuava a girare come se fosse alla ricerca di qualcosa. Colombo non sapeva più che fare per starle vicino. Una volta lei gli si aveva messo la mano sul braccio come si fa con un vecchio confidente e aveva preso a parlargli sottovoce. Parole vaghe, senza senso, che il barbone ascoltava con pazienza, senza capire. “Il caldo è finito, è finito il caldo. Anche il sessantotto è finito …è finito…” ripeteva e ripeteva Virginia “La rivoluzione più lunga che per trent’anni ha macinato cultura e denaro… natura e libertà, uguaglianza e parità, concretezza e spiritualità… è finita è finita” e agitava l’altro braccio nel gesto di chi gira un grande mestolo in un pentolone. “…il sesso, oh! il sesso…” e sorrideva come se stesse iniziando un rapporto d’amore. “La storia vivrà un altro giorno, un altro lungo giorno” continuava a farfugliare rimestando l’aria “ma serve ancora del latte. Aggiungi del latte, del latte. Aggiungi cultura… aggiungi serietà, sapienza… Dignitààà” e scuotendo il braccio di Colombo come si scuote un ramo per far cadere i frutti “Getta lo scalpo, lo scalpo del latte… mescola mescola… il secolo è cotto, l’individuo scotto, la società s’è sfatta… il 2000 sarà.” 204 Poi lasciando l’uomo e riprendendo a camminare “Evviva, evviva il nuovo millennio, evviva le donne, i bambini, le fate” si era messa a canticchiare e “non vedi?” indicava come se stesse davanti a qualcosa “sono affacciata alla finestra e getto la treccia. La treccia del latte, la treccia del latte, la treccia del latte…”. La notte di capodanno il freddo faceva rabbrividire. Era appena passata la mezzanotte e Virginia si sentiva leggera come una piuma mentre continuava a ballare. Colombo per la prima volta notò quanto era impacciata nei passi e goffa nei movimenti. La seguì mentre si trascinava verso via Nazionale e tornava indietro fino a piazza dell’Indipendenza, sembrava che stesse per cadere da un momento all’altro. Girava su se stessa, andava avanti e indietro fino a che raggiunse il piccolo portico sotto la sede de La Repubblica in piazza Indipendenza. Soltanto allora il barbone prese sonno sotto il portico un poco più grande del palazzo di fronte. Il rumore del camion della spazzatura non lo disturbò, si svegliò invece allo stridio dei freni di una volante della polizia che si fermava proprio dove era Virginia. Si alzò, attraversò la piazza avvicinandosi cauto. Due spazzini e le guardie osservavano il corpo della donna che se ne era andata togliendosi il berretto e gli occhiali. Indugiò con la mano sulla fronte aggiustandosi il ciuffo di capelli e, rapido, si allontanò girando l’angolo. Davanti a sé notò un signore che apriva con la punta dell’ombrello la cartella di plastica blu di Virginia che la donna aveva posato in terra a fianco del portone d’ingresso della redazione del grande quotidiano 205 italiano. Si fermò a guardare mentre l’uomo si chinava per cercare di leggere meglio il contenuto dei fogli. Qualche minuto e poi veloce, raccoglieva la borsa come se fosse caduta a lui. Con un gesto cordiale il portiere lo salutò riconoscendolo. Colombo proseguì per via dei Mille e non si accorse che la Vuitton che portava a tracolla aveva finito di rompersi e dallo squarcio, ad ogni passo, cadevano pezzetti di giornale. 206 INDICE 9 13 Prefazione di Stanislao Nievo LA TRECCIA DEL LATTE Romanzo 209