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Diseguaglianze nella salute materna nel Regno Unito | 1
di Serena Donati
La disponibilità di un sistema di sorveglianza nazionale nel Regno
Unito ha permesso la realizzazione di un’interessante studio che
sottolinea la necessità di disporre di dati accurati e ben definiti relativi
alle donne in età riproduttiva per migliorare le nostre capacità di
comprensione delle diseguaglianze nella salute materna e per
sviluppare appropriate politiche e strategie di supporto.
Lo studio di Knight e coll. ha l’obiettivo di verificare i nuovi casi di grave patologia
insorta in seguito a gravidanza/parto (morbosità materna grave) nel Regno Unito
ed eventuali differenze ascrivibili all’etnia della popolazione in studio, avvalendosi
del sistema di sorveglianza ostetrica nazionale UKOSS [1]. In letteratura non è ancora
disponibile una definizione univoca e standardizzata di morbosità materna grave anche se le
varie definizioni disponibili esprimono complessivamente lo stesso concetto: “casi in cui le
donne sviluppano complicazioni potenzialmente fatali, durante la gravidanza, il parto o
entro 42 giorni dal parto o altro esito di gravidanza, alle quali sopravvivono o per buona
sorte o per appropriata assistenza ospedaliera”[2].
A livello internazionale vengono utilizzati metodi differenti[3-5] per definire le complicazioni
potenzialmente fatali (near miss cases) e questo rappresenta spesso un limite alla validità
e generalizzabilità dei risultati degli studi.
In base ai criteri di selezione adottati nello studio di Knight sono stati rilevati oltre 600 casi
certi di grave morbosità materna di cui il 74% in donne bianche e il 26% in donne non
bianche. In tutte le donne non bianche il rischio di morbosità grave è risultato essere 1,5
volte quello rilevato tra le donne bianche con rischi significativamente maggiori per le
donne Pakistane, le nere Africane e le Caraibiche. Il rischio delle donne nere rispetto
alle bianche è rimasto aumentato anche dopo aver controllato l’effetto attribuibile
all’età, allo stato socio-economico, all’abitudine al fumo, all’indice di massa
corporea e al numero di figli delle donne bianche rispetto alle nere.
Benché l’etnia e lo stato di migrante in letteratura siano frequentemente associati ad una
maggiore probabilità di peggiori esiti perinatali quali maggiore rischio di mortalità e
morbosità materna, di parto pretermine e di basso peso alla nascita, tuttavia non è ancora
chiaro se l’etnia rappresenti di per sé un fattore di rischio o sia invece un marker
surrogato di una costellazione di altri fattori di rischio quali il basso stato socioeconomico, il basso livello di istruzione e l’inadeguata nutrizione.
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Anche lo studio di Knight e coll. presenta delle debolezze metodologiche che non
permettono di trarre dati conclusivi in merito. Difatti le differenze rilevate potrebbero
essere dovute a diversa frequenza di condizioni mediche preesistenti nei diversi gruppi
etnici per le quali gli autori non hanno potuto controllare. Ad esempio l’ipertensione, il
diabete, precedenti tagli cesarei, il peso alla nascita, la gemellarità ed altre condizioni di cui
ignoriamo la frequenza tra le donne di diversa etnia che hanno partecipato allo studio, sono
un fattore di rischio per la morbosità materna grave. Anche fattori legati a diverse
opportunità di accesso ai servizi durante l’assistenza al percorso nascita e alla qualità
dell’assistenza prenatale ed intrapartum ricevuta potrebbero spiegare in parte le differenze
rilevate.
Come spesso accade, la scarsità dei dati disponibili è responsabile di limitazioni
nell’interpretazione dei dati relativi alle diseguaglianze negli esiti di salute, anche nei paesi
occidentali.
Benché la mortalità e la morbosità materna correlate al travaglio e/o al parto sono
fenomeni sempre più rari nei paesi socialmente avanzati, le indagini e i comitati
sulla mortalità materna istituiti in diversi paesi europei riportano un’incidenza del
fenomeno maggiore di quanto registrato attraverso le notifiche volontarie e
stimano che circa la metà delle morti materne rilevate potrebbe essere evitate
grazie a migliori standard assistenziali[6-9].
Gli ostacoli alla rilevazione della mortalità materna comprendono l’errata notifica delle
morti materne favorita dalla complessa definizione di morte materna che richiede la
conoscenza non solo del decesso, ma anche delle cause di morte e del timing oltre alla bassa
frequenza relativa delle morti materne con conseguenti difficoltà nella produzione di stime
stabili.
Rilevazioni ad hoc effettuate in diversi paesi Europei, in Canada e negli Stati Uniti hanno
evidenziato sottostime variabili dal 10 al 60% nei rapporti di mortalità materna rilevati dai
flussi correnti.
L’OMS riporta per l’anno 2004 un rapporto di mortalità materna nella Regione Europea pari
a 13 x 100.000. In Italia, in analogia con gli altri paesi industrializzati, il rapporto di
mortalità è diminuito negli anni passando da 133 per 100.000 nel 1955, a 53 nel
1970, 13 nel 1980, 9 nel 1990, 4 nel 1998 e 3 per il periodo 1998-2002[11].
Il dato di 3 morti materne per 100.000 è notevolmente inferiore rispetto a quanto
rilevato negli altri paesi europei e in un’indagine condotta nella Regione
Lombardia è stato riscontrato un rapporto di mortalità materna per il triennio
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96/98 di 13 morti materne su 100.000 nati, di molto superiore al dato nazionale
ISTAT. Il rapporto di mortalità materna rilevato nella regione Lombardia[12], e confermato
da una successiva indagine telefonica nello stesso territorio [13], è in accordo con quello
rilevato in un’indagine condotta nella Regione Emilia Romagna[14] e nella gran parte dei
paesi socialmente avanzati.
L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sta conducendo un progetto di ricerca,
finanziato dal Ministero della Salute, che ha l’obiettivo di correggere l’eventuale
sottostima della mortalità materna, rilevare le principali cause di morbosità e
mortalità e disegnare uno o più modelli di sistema di sorveglianza attiva che
possano essere implementati in Italia ed in altri paesi comunitari in collaborazione
con L’OMS. Le Regioni e le Province Autonome che partecipano al progetto sono: Trento,
Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia e i dati elaborati saranno
disponibili entro la fine del 2009.
La morte materna non rappresenta un evento discreto bensì il culmine di un processo il cui
monitoraggio, oltre all’identificazione e alla registrazione delle morti materne, richiede
anche la raccolta di informazioni sui percorsi che esitano nella morte materna. Dal
momento che i paesi che hanno istituito un sistema di sorveglianza della mortalità
materna stimano che dal 40 al 60% delle morti materne siano prevenibili mediante
un’analisi delle cause ed una loro correzione, riteniamo che per sviluppare,
implementare e valutare politiche volte alla prevenzione delle morti evitabili, sia più
importante comprendere le cause che definire l’esatto numero di nuovi casi di morti annue.
L’Italia presenta inoltre alcune specificità rispetto al potenziale aumento del rischio di
mortalità materna che sono alla base del razionale dello studio ISS. Indagini inglesi e
olandesi [6,7] hanno rilevato un maggiore rischio di morte materna sia tra le donne
immigrate rispetto alla popolazione locale, sia all’aumentare dell’età materna al
parto a prescindere dall’etnia. Negli ultimi 15 anni il numero di donne straniere residenti
o domiciliate nel nostro paese è notevolmente aumentato. Si tratta prevalentemente di
donne giovani in età riproduttiva, difatti oltre il 65% ha un’età compresa tra i 19 e i 40 anni,
e il parto e la gravidanza sono il motivo più frequente di ricovero ospedaliero. Negli ultimi
decenni in Italia è stato registrato anche un aumento dell’età materna al parto (le nascite ≥
35 anni pari al 9% nel 1981 sono salite al 25% nel 2002) che, a livello internazionale, risulta
associato ad un maggior rischio di mortalità materna. Un ulteriore elemento di criticità
è rappresentato dall’aumentato rischio di morte materna (riportato pari a 4-5 volte
dalla letteratura internazionale) in caso di taglio cesareo rispetto al parto vaginale.
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Considerato che l’Italia ha in assoluto il tasso di cesarei più alto d’Europa[15], pari
al 38% con punte pari al 60% nella Regione Campania, anche questa
inappropriatezza, figlia dell’eccesso di medicalizzazione dell’assistenza al percorso
nascita, potrebbe esporre le donne ad un maggior rischio di esiti riproduttivi
sfavorevoli.
Nota: Serena Donati, medico, CNESPS, Istituto Superiore di Sanità, Roma –
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Ginecologia e Ostetricia. Bologna 24 Settembre 2005. Dati non pubblicati.
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European Perinatal Health Report, 2008 by EURO-PERISTAT project in collaboration
with SCPE, EUROCAT & EURONEOSTAT. [PDF: 6,3 Mb]. Available at EURO-PERISTAT.
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