Le opere della letteratura italiana. Verso un canone del

Transcript

Le opere della letteratura italiana. Verso un canone del
Fondazione CEUR, Corso di Alta Formazione «Le opere della letteratura italiana. Verso un canone
del Novecento» (Milano, 8 novembre 2013)
Giuseppe Savoca
L’opera in versi, di Eugenio Montale
Il titolo di questo intervento non è da intendere come relativo a una silloge ordinata dallo
stesso poeta, ma si riferisce alla raccolta di tutti i versi montaliani procurata da Contini e Bettarini e
uscita, vivente l’autore, alla fine del 1980 per Einaudi. Montale muore nel settembre dell’anno
dopo, e nel 1984 appaiono per Mondadori Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, coincidenti
sostanzialmente con i versi dell’edizione einaudiana. Quindici anni dopo la morte del poeta, nel
1996, viene pubblicato il Diario postumo, 66 poesie e altre, che contiene liriche datate tra 1969 e
1979.
Se qualcuno mi chiedesse un consiglio su come leggere Montale, sarei tentato di rispondere
d’istinto «leggiamolo alla francese, e cioè spiegando Montale secondo Montale». Pensandoci poi un
poco, mitigherei l’affermazione invitando a non giurare nemmeno sulle sue parole, e citerei la
candida e callida confessione del poeta di Satura, che dichiara apertis verbis di avere depistato i
suoi critici.
Non c’è dubbio che Montale è, in tutti i sensi, uno dei poeti più ricchi e più complessi, e
perciò più significativi del nostro Novecento per molti aspetti, che schematizzando si potrebbero
sintetizzare in tre punti:
1)
primo, nel ruolo centrale che egli ha svolto con la sua opera poetica nel passaggio tra
la fine del primato di D’Annunzio e la crisi dei movimenti poetici e delle ideologie del Novecento;
2)
secondo, nel posto di primo piano che la sua poesia ha occupato nella nascita e
formazione di un linguaggio lirico che interpreta il presente e il passato italiani e la poesia europea
in una maniera nuova e inconfondibile;
3)
terzo, nel vasto dibattito che la sua opera poetica, ma anche critica e prosastica, come
pure la sua attività di giornalista, hanno suscitato nella cultura italiana del medio e tardo Novecento.
Nonostante il poeta abbia mostrato una certa resistenza a entrare nel campo della critica di sé
stesso, è innegabile che egli ha in qualche modo collaborato con alcuni dei suoi interpreti fornendo
spiegazioni, talvolta reticenti e contraddittorie, e ricevendo anche suggerimenti compositivi da lui in
più di un caso seguìti.
Contini vedeva, già dentro la poesia montaliana delle due prime raccolte, «il più bell’inedito
critico delle lettere contemporanee (non italiane soltanto)», e postulava crocianamente la
complementarietà tra poesia e non poesia.
È del tutto verosimile (e nel caso anche dimostrabile) che in un ambiente letterario maturo e
dinamico il tasso di interdipendenza tra critici e scrittori possa essere notevole e anche
condizionante nella definizione di percorsi tematici, strutturali e linguistici. È proprio questo che
accade a Montale, ad esempio nel caso del rapporto con Bazlen e Contini, in modi non ancora
sufficientemente indagati.
Si pensi, per restare alla periferia del discorso propriamente critico, al fatto che nell’Opera
in versi l’edizione della Bufera subisce un mutamento strutturale, passando dai 56 componimenti
delle stampe d’autore ai 58 dell’edizione critica. I curatori specificano di avere avuto l’assenso del
poeta. È possibile, ma Montale non poteva certo scontentare i due amici che, come ha rivelato la
Bettarini in più di un’intervista, lo interpellavano abbastanza spesso.
Per restare a Montale, e chiudere anche prima di aprirlo l’interminabile capitolo della critica,
cito come un caso limite ciò che è successo con una parola della Bufera che si incontra al v. 41 di
Voce giunta con le folaghe, dove l’«ombra» che parla al padre muto dice: «Io le rammento quelle /
mie prode e pur son giunta con le folaghe / a distaccarti dalle tue».
La parola su cui richiamo la vostra attenzione è «giunta», che in questa forma appariva nella
prima stampa della lirica sulla rivista «L’immagine» (1947). È però poi accaduto che nella prima
edizione della Bufera, uscita nel 1956 presso Neri Pozza, il participio femminile «giunta» sia
diventato per errore di stampa il maschile «giunto».
E subito Contini, senza curarsi del «giunta» del testo originale, recensendo a caldo nel 1956
La bufera su «Letteratura», attribuisce il monologo dei vv. 34-45 al padre morto (chiaramente
definito nella lirica come «muto») e non all’«ombra viva» di una donna, «giunta [appunto] con le
folaghe».
La storia filologica del piccolo fatto testuale ci fa sapere che Montale corregge prestissimo,
già nell’edizione mondadoriana del 1957, l’erroneo «giunto», ripristinando il corretto «giunta». Ma
ciò, alquanto assurdamente, non sposta di un millimetro la posizione del critico, che manterrà una
lunga fedeltà alla sua propria interpretazione, conservata tal quale circa vent’anni dopo nella
riproposizione in volume del saggio.
La prevaricazione della critica sulla poesia ha purtroppo il suo corrispettivo nella filologia
dell’Opera in versi, dove gli editori, in nota al corretto «giunta», registrano il «giunto» della Neri
Pozza (e di un’altra stampa su rivista) specificando che esso «è certo poligenetico». L’omissione
della parola elementare «errore» (per quello che nel caso è, come lo ha definito Avalle, «un banale
scorso tipografico») non rende certo un buon servizio alla verità intoccabile del testo montaliano.
Se posso permettermi un’annotazione pedagogica e un auspicio, dirò che la poesia
montaliana aspetta soprattutto dai giovani molti chiarimenti, a partire dal livello puramente letterale.
Segnalo ancora un caso, che ora vedo risolto nel commento di una giovane studiosa alla Bufera [in
realtà, come vedremo, risolto ben prima dallo stesso Savoca].
Mi riferisco alla Primavera hitleriana (che, come a tutti noto, prende spunto da una visita di
Hitler a Firenze nel 1938), dove ai vv. 20-33 tra l’altro si legge:
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte […]
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte!
Nessuno degli studiosi di questa lirica aveva dato una spiegazione convincente, piana o
univoca delle «candele romane», riportate, ad esempio, da Macrì agli «atti della pietà umana e
religiosa», e da Forti a «trepidi e inefficaci rituali» adottati per scongiurare la separazione dalla
donna. Memore dell’avvertenza del poeta che diceva di partire sempre dal vero, nella mia dispensa
del ’75 (Ipotesi sulla «Bufera e altro» di Montale, parte seconda) ho chiarito il passo in questi
termini:
Le «candele romane» sono i fuochi d’artificio, luminosi come i bengala, sparati in onore di
Hitler, presso San Giovanni, il battistero di Santa Maria del Fiore.
Trentasette anni dopo la nuova commentatrice scrive che «le ‘candele romane’ sono un
particolare tipo di fuochi d’artificio», e ne colloca lo sparo a Firenze il 24 giugno, in occasione della
festa di San Giovanni e di una immaginaria partenza di Clizia. In dissenso, rilevo che non c’è nel
testo alcun elemento per collegare la lirica alla festa del patrono fiorentino, che cade in estate,
mentre Montale ambienta la scena nella «piagata primavera» del maggio. A conferma di questa
lettura in chiave di “grande storia”, consiglierei di dare un’occhiata ai cinegiornali del tempo che,
celebrando la visita in Italia del dittatore tedesco, ci mostrano folle plaudenti e fuochi di festa nelle
grandi città (Roma, Napoli e poi Firenze) da lui visitate nella prima metà del maggio 1938.
Errori dell’autore, del critico, del filologo sono sempre possibili, ma a volte nascondono una
briciola di verità e di senso. Faccio un passo indietro dalla Bufera alle Occasioni, dove l’Elegia di
Pico Farnese, una poesia difficile e molto discussa nelle lettere di Montale con Bazlen (ma anche
con Contini e Rebay), presenta una lezione infine dichiarata erronea dagli editori (ma non da
Montale!).
Si tratta della parola «diàspori», presente in tutte le edizioni delle Occasioni nel verso 38
dell’Elegia e poi diventata «diòsperi» nell’Opera in versi: «Se urgi fino al midollo i diòsperi […] il
tuo splendore è aperto». Gli editori non dicono nulla sulla paternità della correzione (che quindi è
solo loro) e così annotano: «i diòsperi] i diàspori B C e tutte le edizioni [→ lettera del 9 giugno]».
Il rinvio è a una lettera a Bazlen del ’39 in cui Montale chiarisce il verso e la parola così:
«Se urgi (o se gonfi) ecc. i frutti del kaki ecc. […] il tuo splendore è palese». Questa è in sostanza la
spiegazione che il poeta darà ancora trent’anni dopo a Rebay, il quale precisava che diàspori stava
nell’Elegia per diòsperi.
Chiedo scusa se mi inserisco in prima persona in questa piccola storia testuale.
Licenziando nel maggio del ’73 un mio Quaderno per le «Occasioni» di Montale, mi
chiedevo perché Montale avesse scritto e conservato in tutte le stampe da lui procurate diàspori,
«portando così questa voce nel campo associativo di ‘diaspora’ (parola presente nella sua prosa)», e
aggiungevo:
I «diàspori» non potrebbero significare (anche contro l’intenzione “cosciente” del poeta) i
«dispersi» e il passo voler dire: «Se tu urgi, incalzi gli uomini (i dispersi) e specchi nelle acque…»?
A me pare di sì. E la spiegazione torna ugualmente. In ogni caso, anche a conservare il significato
prevalente indicato dal poeta [cioè quello di cachi], l’altro di «dispersi» non può venire eliminato
perché risiede nella forma letterale, nel significante «diàspori».
Credo che la correzione introdotta dagli editori-amici non sia tale da escludere
l’ammissibilità, se non la validità “matematica”, della mia vecchia interpretazione basata
sull’associazione fonico-semantica di diàspori-diòsperi con diaspora. Tra l’altro, sul terreno della
coerenza semantica e contestuale, potrei richiamare il fatto che la donna-Amore degli stessi versi è
colta da Montale mentre «veglia» «al trapasso [cioè alla migrazione] dei pochi tra orde d’uominicapre».
Ma che le associazioni foniche (implicate a nuovi significati) siano contemplate nel sistema,
ce lo dice lo stesso Montale, e proprio nell’autocommento all’Elegia di Pico Farnese, in una lettera
al Bazlen del maggio 1939, quando per il verbo prilla del v. 57 («nell’aria prilla il piattello»), il
quale letteralmente significa «gira rapidamente su sé stesso», annota: «Come vedrai il prilla è
assunto anche per brilla».
Dunque, il poeta ammette in una parola la compresenza di significati accessori sulla base del
significante fonico: un caso del tutto analogo a quello dei diàspori o diòsperi fonicamente affini al
sostantivo diaspora, del cui significato veicolano per associazione una traccia.
Ma la nota al prilla-brilla meriterebbe qualche attenzione supplementare perché
l’equivalenza postulata dal poeta rivela nettamente il suo lungo conversare con uno dei suoi grandi
maestri qual è Giacomo Leopardi. Non posso dilungarmi, e registro soltanto che dietro questo
piattello dell’Elegia di Pico Farnese che prilla e brilla nell’aria c’è una precisa memoria del
«Primavera dintorno / brilla nell’aria» del Passero solitario (che tornerà come figura esplicita nel
tardo Montale degli Altri versi, I nascondigli II).
Non aggiungo altro e chiudo con questo genere di ragionamenti tra filologico e critico, non
senza osservare però che noi dobbiamo sempre ai classici il massimo delle nostre capacità
conoscitive, da esercitare anche sul particolare, senza perdere tuttavia mai di vista la totalità di
un’opera e del suo autore.
Accennavo in apertura al posto centrale occupato da Montale nella formazione storica del
nostro Novecento lirico. Questo processo cominciava già nel 1925 con gli Ossi di seppia, i quali si
ponevano, sin dal titolo, nella prospettiva del rapporto uomo-natura. Storicamente, il compito che il
poeta si assegnava era quello di trovarsi uno spazio nel quadro della nostra poesia, con un
D’Annunzio che faceva ancora un certo effetto, nonostante la sua tematica superomistica o panica
fosse ormai chiaramente demodée, soprattutto dopo che la bufera della grande guerra aveva messo
in crisi le mitologie decadenti.
Anche il mito dell’uomo-natura e della natura umanizzata aveva fatto il suo tempo, e la
prima poesia di Montale, testimoniando la crisi e denunziando una radicale disarmonia tra l’uomo e
il mondo, tentava di liquidare, come altri poeti facevano per altre vie, ogni residuo di
dannunzianesimo.
La sezione Mediterraneo, il romanzo del mare-natura, è emblematica di un dissidio
insanabile tra la nostalgia della fusione panica e la consapevolezza dell’impossibilità di superare la
disarmonia costitutiva dell’uomo contemporaneo.
Le Occasioni, collocabili tra il 1926 e il 1939, e coincidenti con l’abbandono della provincia
genovese per Firenze, non rinnegano la problematica degli Ossi, ma la superano con un’apertura
nuova verso il mondo degli uomini. Pietro Pancrazi nel titolo del nuovo libro colse subito
l’allusione illustre alla confessione di Goethe, il quale aveva detto ad Eckermann: «Tutte le mie
poesie sono poesie d’occasione: esse sono stimolate dalla realtà e lì trovano il loro fondamento».
Leggendo Montale non si dovrebbe mai dimenticare quello che egli espresse con una
formula esplicita che ho già richiamato: «Io parto sempre dal vero, non so inventare nulla».
Ovviamente, un’affermazione del genere non va intesa nel senso ingenuo di un’arte che si adegui a
un vero grettamente positivistico, anche perché per il poeta è fondamentale il concetto eliotiano di
“correlativo oggettivo”. A questo proposito, rivendicando l’originalità del suo percorso di
rifondazione della lirica in Italia, nell’Intervista immaginaria del 1946 egli affermò di non credere
che il «“correlativo obbiettivo” […] esistesse ancora, nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato
nel “Criterion”».
Con grande consapevolezza, Montale come base della sua poesia individuava l’idea che
«Tutto è interno e tutto è esterno per l’uomo d’oggi; senza che il cosiddetto mondo sia
necessariamente la nostra rappresentazione».
Arsenio è una delle liriche aggiunte alla seconda edizione degli Ossi, e la citazione che ne fa
il poeta nell’autointervista mi pare significativa della continuità tra le due raccolte. In Arsenio tra
l’altro si può trovare la chiave etimologica del nuovo titolo perché «occasione», com’è noto, deriva
dal latino ob = davanti e càdere = cadère, e il significato di «incontro fortuito» era già nella lirica
degli Ossi, dove si legge: «e se un gesto ti sfiora, una parola / ti cade accanto […]». Questo «cadere
accanto» di una parola, lo sfiorare di un gesto erano sentiti dal poeta come un miracolo in una
situazione di assedio da parte di una realtà incomprensibile e ostile.
Le Occasioni nascono tutte sotto il segno dell’uomo, e sono tese a recuperare, dentro le
lacerazioni dei sentimenti, il senso della vita. Il seguito di questa ricerca si ha nelle liriche di
Finisterre, uscite a Lugano nel 1943, e che costituiranno nel 1956 la prima sezione della Bufera e
altro. Il nuovo libro si collega internamente alle ultime «occasioni», nelle quali erano
drammaticamente calate, nella vicenda dualistica del rapporto tra il poeta e una donna assentepresente, la paura della storia e la preoccupazione per gli eventi che andavano maturando in Europa
(si pensi a Dora Markus o a Nuove stanze). Ma forse conviene riascoltare le parole del poeta, anche
se note a tutti:
Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia
esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia, o la Mandetta o la Delia (la
chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza
ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria.
Nonostante la delusione di certi critici all’apparire di un libro che non autenticava la falsa
idea di un Montale per così dire “progressivo” o ateo, la Bufera concludeva splendidamente un ciclo
e dava alla poesia montaliana un’elevata capacità di testimonianza storica.
Ma a questo punto vorrei virare un poco verso il letterario per riproporre l’invito a prendere
le parole del poeta, oltre che quelle dei critici, con il beneficio d’inventario. È successo dunque che,
non sottoponendo al vaglio critico le parole di Montale, i critici abbiano circoscritto la sua
esperienza petrarchesca al tempo di Finisterre, non cercando tracce della lezione petrarchesca prima
o dopo, e limitandosi a individuare qualche lemma petrarchesco solo all’interno di queste poesie.
Acquisiti pacificamente Dante e D’Annunzio come referenti privilegiati nella genesi del
linguaggio montaliano, ne sono restati a lungo esclusi, per citare solo i maggiori, tanto Petrarca
quanto Leopardi.
Significativamente nel 1977, nell’attento profilo di cinquant’anni di storia della critica
montaliana tracciato da Scrivano per i «Classici italiani nella storia della critica» di Binni, il nome
del Petrarca è del tutto assente, mentre quello di Leopardi appare genericamente tre volte. Dante per
converso è stracitato da tutti, tanto da avere provocato la stizzita reazione del poeta, che ha dovuto
dichiarare di non avere «scritto tenendo la Divina Commedia aperta sul tavolo».
Per un autore il quale ha ammesso apertamente che il terreno di coltura della sua poesia era
stato molto concimato, il problema dei suoi padri e dei suoi testi di riferimento resterà sempre
aperto e potrà riservare ancora molte sorprese. Qui intanto mi fermo un momento
sull’assenza/presenza del Petrarca nella lingua montaliana fino alla Bufera, e cito in merito una
poco nota dichiarazione a Bonora del poeta, il quale affermava di avere «letto per la prima volta il
così detto Canzoniere, i Rerum vulgarium fragmenta tutti di sèguito come si legge un romanzo,
credo a Fiesole, nel ’44». Egli aggiungeva di avere «compreso pienamente allora il Petrarca», ma
non escludeva di averlo letto anche prima.
Come ho già detto, i critici hanno preso alla lettera la dichiarazione contenuta
nell’autointervista del ’46 e, più realisti del re, hanno escluso in blocco il cantore di Laura dalla
storia montaliana (anche sulla base di una presunta opposizione tra monolinguismo petrarchesco e
plurilinguismo dantesco-montaliano).
Bonora (che da giovane aveva curato il capitolo su Petrarca nell’antologia dei «Classici
italiani» di Russo) fa eccezione; ma le affinità che egli riscontra fra i due poeti riguardano solo la
tematica del canzoniere amoroso, sono di tipo contenutistico e prescindono dal concreto della lingua
che, in poesia, è tutto o quasi.
Mi scuso ancora per il mettermi in mezzo, ma non posso farne proprio a meno.
Dunque, in una conferenza fiorentina organizzata dall’UTET, mi pare intorno alla metà degli
anni ottanta (c’erano, tra gli altri, Nencioni, Gianni Brera, Manganelli e Bàrberi Squarotti), ho
aperto un piccolo fronte Sul petrarchismo di Montale. La mia tesi di fondo era/è che Petrarca sia per
Montale un autore del suo primo tempo e di sempre, e che negli Ossi di seppia, più che altrove, sia
attivo un Petrarca per così dire allo stato sorgente, certo assimilato e rimacinato, ma tuttavia
riconoscibile all’analisi lessicale e semantica.
Tralascio, per mancanza di tempo, ogni argomentazione dimostrativa, ma devo, per rispetto
a chi mi ascolta, suggerire la legittimità di una simile indagine almeno con un esempio.
Si pensi al luogo di Ripenso il tuo sorriso (negli Ossi) in cui il poeta dice a K:
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…
Quest’ultima immagine della giovinetta palma è stata creduta (da Mengaldo) un «tipo
d’apparenza dannunziana», e sono stati citati perciò i dannunziani «giovinetto bosco» e «giovinetto
salce». Ma in realtà qui ci troviamo dinanzi a una precisa reminiscenza (meglio, a una citazione
letterale) del petrarchesco «lauro giovenetto et schietto» (Rvf CCCXXIII, 26), inequivocabilmente
dichiarata dalla compresenza in Montale dei due aggettivi petrarcheschi «giovenetto = giovinetto»
(presente anche in D’Annunzio) e «schietto» (in D’Annunzio assente).
E cito perciò la ricerca di un mio allievo che, senza giurare sulle parole mie e di
Montale/Petrarca, ha ristudiato con le concordanze alla mano il problema, arrivando a integrare il
mio lavoro, tra l’altro con la scoperta di una parola molto bella e molto petrarchesca, che è il
rarissimo (in poesia) «rimena». Ricordate «Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena»? Ebbene, questo
verbo, che non è dantesco né dannunziano bensì marcatamente petrarchesco (e che Leopardi usa
solo una volta, nell’Appressamento della morte), si ritrova (nello stesso rapporto con «vento») nei
primi due versi degli Ossi di seppia (insieme al «Godi» leopardiano del Sabato):
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
Ecco, l’«ondata della vita», la parola chiave «vita». È questo l’unico, elementare e insieme
arduo, tema della poesia di Montale. Egli dice (in Opinioni, nel Diario del ’71 e del ’72):
Non si è mai saputo se la vita
sia ciò che si vive o ciò che si muore.
Constatata, per dirla con le parole di Contini, l’«abolizione della frontiera fra vita e morte»,
Montale si pone senza soste e in infinite variazioni il dubbio, la domanda delle domande sulla vita
che è «altra morte» e sulla «morte che vive». A questa incertezza si collegano il disinganno della
storia, sempre insensata e disumana, e lo scacco per l’incapacità di dare un senso ad «ogni rottame /
della vita» (ricordo in parentesi che «Rottami» era stato un titolo poi scartato della prima raccolta; e
preciso che quella appena fatta è citazione da una poesia del 1979 intitolata Ho tanta fede in te.
Aggiungo anche che questo titolo è prestito letterale tratto da una poesia di Antonia Pozzi, morta
suicida a Milano nel 1938, la cui raccolta Parole veniva preceduta, nell’edizione del ’48, da una
prefazione di Montale).
Dunque, nel sistema montaliano i vivi si portano dentro la morte, «rinchiusa in noi per anni
e anni», e i morti possono continuare a vivere (e forse, come si teme negli Ossi, anche a soffrire).
Essi non vivono solo nel ricordo di chi sopravvive, ma per virtù autonoma della loro condizione di
viventi in un «ordine diverso», nell’«oltrevita» e nell’«oltretempo».
Ogni discorso ermeneutico sulla poesia di Montale dovrebbe per me cominciare da questo
nodo e, ad esempio, dal riconoscimento della funzione centrale che una poesia come A mia madre
riveste nella Bufera e in tutta la poesia montaliana.
Il terzo libro non è solo il poema di Iride-Clizia o della Volpe o di altra donna assentepresente; è anche il libro di ricordi e di speranze in cui Montale celebra, al più alto grado di intensità
lirico-affettiva, i riti sacri delle sue origini e memorie familiari più profonde e viscerali, e in cui,
nuovo Ulisse, egli tende al ritorno alla casa della sua infanzia, al reincontro con i perduti. L’«eliso /
folto d’anime e voci» in cui «vive» la madre morta è il paradiso cristiano in cui essa, vissuta in
terra «all’ombra delle croci», continua a vivere, aspettando il giorno del Giudizio in cui ritroverà,
insieme alla «forma in cui bruciava / amor di Chi la mosse e non di sé», anche i propri cari.
È nota la distinzione che Montale ha fatto nella sua storia poetica tra una prima e una
seconda fase in termini di recto e verso di un unico quadro. Questo percorso si potrebbe
rappresentare immaginando un primo Montale (fino alla Bufera) essenzialmente lirico, e un
secondo (da Satura in poi) prevalentemente comico nel senso dantesco della compresenza di più
registri stilistici, della mescolanza dei linguaggi e dei toni.
Il poeta ha provato a guardare a queste due facce del suo stesso universo poetico
immaginandosi postero di sé stesso nel Diario postumo, e prendendosi la libertà di rapportarsi alla
propria vita e poesia nella totale indipendenza da ogni schema critico, sottraendosi, ad esempio,
all’abusato cliché del cosiddetto male di vivere.
Prudentissimo in vita, il Montale postumo può ridersela dei «mini-professori» e degli
«Speculatori di parole / che esultano nell’omologare». Riprendendo l’ipotesi della Grazia già
affiorata negli Ossi, egli dichiara esplicitamente che il tema di fondo della sua poesia è stato sempre
quello di una «salvazione» possibile perché la vita, e la parola che nella poesia la illumina, sono
sempre aperte all’evento di «Una parola nuova che ci possa salvare».
Non mi resta tempo per articolare qui compiutamente una interpretazione di Montale che
forse si potrebbe definire come “metafisica”. Credo però indispensabile precisare che egli si portava
dentro, dal proprio ambiente familiare (con in primis la sorella Marianna e la madre Giuseppina
Ricci), contenuti di una religiosità profonda (su base modernista), da lui mai esplicitamente
ammessa ma neppure mai rinnegata.
Ricordo, con nostalgia e affetto per l’amico, la sorpresa e la gioia di un grande interprete di
poesia come fu Oreste Macrì quando gli comunicai la mia ipotesi che il concetto della donna
Cristofora, assente come parola dalla lingua poetica di Montale, poteva venirgli dall’immagine di
un grande San Cristoforo dipinto nell’abside della chiesetta del cimitero di Monterosso, dove sono
sepolti i genitori e la sorella. E oggi le Lettere da casa Montale (1908-1938) confermano, se ce ne
fosse bisogno, l’aura di comunione religiosa tra i vivi e i morti che sta alle origini e al cuore della
vita e della poesia montaliane.
In conclusione, ho piacere di ricordare un altro nome, quello di Angelo Marchese che, fuori
dall’università, con finezza e profondità, ha ricostruito la formazione e la storia del poeta suo
corregionale lasciandoci contributi decisivi, e tra l’altro riconoscendo in lui operante l’esempio alto
del Leopardi metafisico.
Il critico colloca Montale in una prospettiva metafisico-esistenziale in cui è riscontrabile
l’influsso di autori come Agostino, Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij, ma anche di un “maestro del
sospetto” come l’italiano Giuseppe Rensi, senza trascurare gli spiritualisti Lachelier e Bergson, il
mistico polacco Towianski e il contingentista Boutroux. Egli aggiunge che non si può veramente
comprendere il poeta senza fare appello al “grande codice” della Bibbia.
Marchese infine si chiedeva, senza dare la risposta che nessuno può dare per nessuno, se «la
ricerca religiosa di Montale» sia «un’autentica esperienza di fede». E concludeva con parole che
avrei voluto scrivere io e che, nel ricordo del carissimo e discreto amico, faccio mie: «Noi
pensiamo, con Pascal, che Dio “si nasconde a coloro che lo tentano e si rivela a quelli che lo
cercano”(557). Ma questo segreto trascende la letteratura».
Grazie.