Spettri della Terra
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Spettri della Terra
SPETTRI DELLA TERRA di Raffaello Spagnoli Con la vecchia Lancia Aurelia di Fabio, corsero all’ospedale. Lei era sdraiata con il viso rivolto alla finestra e, se anche lo sentì entrare, non si girò. Lui sentì la fiammata dentro il torace e, con un solo passo la raggiunse e, presale con una mano il volto, la fece girare e le stampò un lungo bacio sulle labbra. – “Faremo i conti dopo” – la minacciò a fior di labbra. Lei lo respinse adagio ma con decisione e, guardandolo negli occhi, rispose –“ Avessi mai capito niente!” – Gli altri, in sordina, erano usciti. Lui le chiese –“Che hai?” – e intanto il cuore gli dava tonfi di campana tra le costole. Lei abbassò lo sguardo -” Ho un cancro che mi si sta mangiando la pancia, l’utero.” – Lo disse con voce ferma, un annuncio di morte che sembrava lei avesse letto sopra un muro, come un annuncio funerario di altri. –“Perché? - chiese lui ancora – Perché non mi hai mai detto nulla? Chi sono io, per non sapere che mia moglie sta male? Pensavo che te ne fossi andata.... farmi trovare casa come un sepolcro e sparire così. Che può pensare uno che torna dal lavoro? che ne può essere stato di mia moglie?” – E poi scoppiò a piangere, mentre il veleno della notizia gli si spargeva nelle vene, una scarica elettrica che gli bruciava il cervello. La mano di lei gli carezzò la guancia ruvida, poi risalì ai capelli e glie li afferrò rudemente, alzandogli la faccia: - “Che fai, ora? E’ così che fa un uomo?”- e con uno strattone gli spinse indietro la testa, allontanandolo da se. Come se fosse stata offesa duramente, si volse nuovamente verso la finestra, dandogli la schiena. Lui si era alzato, si era asciugato le guance e gli occhi, si era ricomposto. –“Vedi di far presto, allora, che ti rivoglio a casa quanto prima!”- Così era iniziata la salita al calvario. Lei era stata operata – un lungo squarcio fatto con il poco riguardo che compete ai poveri – e tutto il suo miserabile essere era stato suddiviso, come in un inventario di organi buoni e di organi da buttare, sezionato, ricucito e rimandato a casa. Lui aveva iniziato in quel periodo a fare il doppio turno in miniera ed aveva imparato l’arte del bombardiere. Glie l’aveva insegnata il vecchio Toni, un minatore d’altri tempi e d’altra tempra, grande bestemmiatore che professava, comunque, una fede fervida, radicata nel ricordo della sua povera mamma e una fiducia cieca nella dinamite, che sapeva governare con una sensibilità ed una precisione impagabili. Toni gli aveva dato lezioni nelle quali i termini tecnici erano sostituiti da nomi ed aggettivi di fantasia ma densi di significato e lui aveva bevuto ogni cosa, se ne era impadronito con facilità, con naturalezza, come di cose che avesse sempre saputo ma che, nel ripasso, gli fossero state riportate alla memoria. Erano stati una squadra eccellente ed affiatata ma lui faceva il bombardiere solo di primo turno, dopo diventava troppo stanco e distratto per sentirsi di maneggiare l’esplosivo. Però, quando lui e Toni minavano una galleria, si poteva star certi che il lavoro avrebbe reso e con pochi rischi. Finito il turno, mentre Toni andava a casa, lui imbracciava gli altri arnesi e si univa alla squadra, nelle gallerie. Quello non era un lavoro di fino e richiedeva solo muscoli e prudenza e lasciava il tempo per pensare. Ma gli lasciava anche il tempo per distillare dentro una grande amarezza. Quella sua moglie ribelle e dai larghi occhi era diventata, col passare dei giorni, un fantasma vacuo e quasi inconsistente che lui trovava, a fine turno, impigliato nelle lenzuola di quel letto che, all’improvviso, era divenuto enorme, come una piazza dove nessuno passeggia mai. Venne un medico a vederla, dall’ospedale. Gli costò metà mese di paga ma non ci badò. Disse che aveva bisogno di applicazioni di cobalto per bloccare il male che, secondo lui, stava per ripartire. L’accompagnò Toni, all’ospedale, al Centro Alte Energie. Là dentro l’aria sembrava elettrica, sembrava che gli isotopi cercassero di farsi largo di prepotenza, di sfuggire dalla loro gabbia di piombo. Videro la donna sdraiata su un lettino mobile, inghiottita da una porta sulla quale erano stampati decine di divieti. Quando uscì fu quasi incredulo di rivederla uguale e la accompagnò in corsia massaggiandole le mani gialle e fredde con le sue ruvide, dure mani nere. Lei appariva stremata e ricevette il suo bacio senza reazioni. Lui seppe in quel momento che sua moglie, quella sua fiera e misteriosa moglie, lo stava per lasciare senza svelargli nulla dei suoi segreti, senza lasciargli nulla – non avevano avuto tempo neppure per un figlio – senza confidargli nessuno dei suoi sogni o delle sue delusioni. Così, quasi automaticamente, continuò a fare il doppio turno, per pagare quelle inutili cure che stavano bruciando le carni della sua donna, il suo spirito, la luce maliziosa dei suoi larghi occhi. Con Toni si scambiavano frasi brevi. Loro due soli si trovavano in ospedale quando lei morì. Le abbassò le palpebre con le sue ruvide, nere dita e, in quel gesto che escludeva i grandi occhi di lei dal mondo, sentì l’artiglio del dolore che gli attraversava tutto il corpo, dai piedi ai polpacci all’inguine al ventre al torace alle braccia alla testa, un fulmine che gli saettava tra i capelli e si perdeva in alto, oltre il soffitto della stanza, oltre il tetto dell’ospedale, oltre le nuvole, chissà dove, in chissà quale vuoto siderale per poi tornare indietro a schiantarlo. Il suo urlo di dolore risuonò nei corridoi, fece accorrere medici ed infermieri, fece rabbrividire un prete che si affacciò alla stanza ma lui non c’era più. Aveva coperto col lenzuolo quella sua piccola moglie e se n’era andato. Non erano andati in un bar o a casa. Insieme erano scesi nel pozzo, avevano imboccato l’ultima galleria e, spinti fuori gli uomini al lavoro, avevano preparato i fori, le micce, le cariche, i collegamenti ed avevano provocato una esplosione che era divenuta leggendaria, raddoppiando la profondità della galleria, lasciando pareti tanto levigate da sembrare finte, lasciando materiale tanto frantumato da sembrare già semilavorato. Dopo, solo dopo, erano usciti dal pozzo ed erano andati a prepararsi per il funerale. Aveva continuato ad abitare nella loro casa. Aveva ordinatamente messo via ogni cosa che le era appartenuta, l’aveva messa in scatoloni che aveva sigillato ma nessuna delle sue cose parlava di segreti. Dopo molti mesi, una sera che era sceso con Toni in città, a fare compere, perché la figliola dell’amico si sposava, conobbe la commessa di un negozio, una bella ragazza abbronzata e dalla risata aperta e contagiosa che, senza molte titubanze, gli chiese un sacco di fatti suoi e lui si ritrovò a rispondere. Lui si ritrovò a cenare con la ragazza. L’aperitivo era stato eccessivamente alcolico per lui che, astemio per mestiere, faticava a reggere mezzo bicchiere di vino. Cenarono chiacchierando simpaticamente e la serata volò. Fu quando, nella camera della casa di lei, fecero l’amore che lei si rese conto che quell’uomo non le sarebbe mai appartenuto, che c’era un ben preciso limite oltre il quale lui non l’avrebbe mai lasciata entrare nella sua vita. Gli dedicò quasi un anno di un amore disincantato ma speranzoso, disperato e palpitante, fino a quando la miniera chiuse. Quando lui le disse:- “Me ne vado. Qui non c’é più posto, per me. So fare solo il minatore e devo andare in cerca di un’altra miniera.” – lei non ebbe nulla da dire perché, all’improvviso, si rese conto che lui non le aveva mai chiesto nulla, non le aveva mai promesso nulla, non le aveva mai detto una sola frase declinando un verbo al futuro. Si baciarono alla stazione quando lui, chiusa casa con tutte le sue cose dentro, prese da terra la valigia per salire sul treno che lo avrebbe portato in Svizzera. Là cercavano gente pratica di miniere, che si sapesse muovere bene nel buio delle gallerie. Soprattutto, cercavano bombardieri perché stavano per iniziare il traforo del San Gottardo, un traforo di diciassette chilometri per farci passare i treni ma, anche e soprattutto, l’autostrada. Aveva detto addio a Toni la sera prima. Ora tutto stava cambiando. Una dopo l’altra le miniere chiudevano e loro, gli spettri della terra, non avevano più un mondo in cui calarsi per guadagnarsi il pane. Ora era venuto il momento di chiamare amici gli amici, prima che il tempo si portasse via anche loro, anche l’ultimo dei sentimenti che uniscono talvolta gli uomini, almeno per qualche passo del loro cammino. Dal finestrino della carrozza in cui aveva sistemato la valigia si era sporto e le aveva stretto la mano. – “Mi sei stata cara – le disse – Ti avrò nel cuore, d’ora in avanti.”- Lei pianse a lungo, anche dopo che il treno fu sparito dietro la curva ma non seppe mai il perché. Aveva sempre saputo che non sarebbe stato suo. Il viaggio fu snervante. Dopo molto la pianura del nord gli si spalancò davanti. Non era mai stato abituato ad orizzonti tanto vasti e ne fu quasi stupito, quasi sopraffatto. Tutto quel cielo... che se ne faceva la gente di quelle parti di un cielo tanto grande? Lui, che era abituato al buio delle gallerie, agli orizzonti larghi poche spanne si sentì annichilito. Evitò di guardare fuori dal finestrino. A Milano cambiò treno e lui si fece un panino gigantesco. Quando il treno si mise in movimento, sonnecchiava e quasi non si era accorto che il suo scompartimento si era riempito. Si spazzolò le briciole dai pantaloni, sotto lo sguardo severo di una anziana donna, e si raddrizzò. Una suora di mezza età, un uomo in abiti curati e dai lunghi baffi, una bella ragazza accanto a lui ed il suo accompagnatore, un posto più in là. Di nuovo il brontolare monotono del treno si fece soporifero. Una per volta le palpebre dei viaggiatori si fecero pesanti. Si assopirono. Lui rimase là, con il suo sonno interrotto ed un cattivo sapore in bocca. In tasca aveva un sacchetto di mentine bianche, comprate a peso nel negozio del paese e ne prese una. Il fruscio della carta fece aprire gli occhi alla ragazza che gli viaggiava accanto. Imbarazzato, le allungò il sacchetto. La ragazza gli sorrise e ne prese una , ringraziandolo con un gesto del capo. Lui sorrise a sua volta e ripiegò il sacchetto, che rimise in tasca. L’accompagnatore della ragazza russava con un tono di basso cui faceva riscontro il tono baritonale dell’uomo con i baffi. La suora bisbigliava nel sonno chissà quali litanie. La donna anziana respirava rumorosamente dal naso. –“ Abbiamo un bel coro, no?” – osservò sottovoce la ragazza. Lui sorrise. – “E ancora non ha sentito me....”- Anche lei sorrise. –“Va in Svizzera per lavoro?” – gli chiese. Lui annuì. – “Anch’io. Al paese hanno chiuso tutto, non c’é più niente da fare. Non resta che andarsene.” – Lui rimase un attimo perplesso per quelle confidenze non sollecitate. La sua natura ombrosa lo voleva più riservato. Poi capì che la ragazza chiacchierava anche per vincere una sua nascosta angoscia. –“Da dove viene?” – le chiese. -“ Dal Friuli. E’ un momento strano. Chi aveva qualcosa, sta iniziando nuove attività, nuove fortune. Chi non ha niente, invece, deve di nuovo andare a cercare di rimediare il pranzo e la cena chissà dove.” – Non c’era niente di nuovo in tutto questo e lui stava per considerare chiuso quel capitolo ma lei chiese –“ E lei dove sta andando?” – Lui glie lo disse. La ragazza rimase silenziosa per un poco, come a soppesare le sue parole. Lui le allungò un’altra mentina, che lei accettò. – “Minatore! Anche mio nonno ha lavorato in miniera, in Belgio, per qualche anno. E’ tornato con i polmoni coperti di carbone e qualche soldo che poi gli é servito solo per farsi curare.”- Lui fece spallucce come a dire che di qualcosa bisogna pur morire. –“ Questa non é miniera. – disse – La galleria deve essere una cosa enorme, rispetto a quelle cui sono abituato. Però cambia poco. Sempre sotto terra si deve stare, purtroppo. A me sembra di esserci nato, sotto terra. Non so fare altro, non conosco altro. Vedremo...” – La ragazza si rimise a riflettere. –“Ci potrebbe essere del lavoro anche per me?” – La domanda lo colse impreparato, senza risposte. Poi pensò che, dove ci sono uomini al lavoro ci devono essere persone che gli fanno da mangiare, che lavano, che cuciono... Glie lo disse. Il campo base era un vasto appezzamento nel quale erano state piazzate decine di baracche prefabbricate in cui gli uomini venivano alloggiati. Nessuna riservatezza. Nessuna comodità. Il campo era cintato con un’alta rete metallica e l’entrata e l’uscita erano controllate. Gli svizzeri ritenevano che, se loro erano là per lavorare, avessero bisogno di poco, per la loro vita di uomini, e quando tutto fosse stato terminato, avrebbero potuto tornare alle loro case, per cercare quello che desideravano. Qualcuno si lamentava della situazione. Lui, senza radici, senza affetti, senza altri legami che un pugno di ricordi, si adattava senza lamentarsi. Quando veniva il suo turno si preparava, si univa alla sua squadra, saliva sull’autocarro che li portava verso le enormi bocche delle gallerie, ne raggiungeva il fondo e, in base alle istruzioni che i tecnici svizzeri gli davano, preparava gli alloggi per le cariche, controllava per bene che tutto fosse a posto, come lui sapeva che avrebbe dovuto essere e, infine, dava corrente. Il lampo, lontano, poi il rombo profondo, mentre si tappava le orecchie. Poi toccava agli altri, mentre lui andava a farsi dare nuove indicazioni. Agli svizzeri piaceva: poche chiacchiere, efficiente, padrone assoluto di quel mestiere difficile e pericoloso. Rivide la ragazza dopo un mese. La vide aggirarsi tra i loro tavolacci a distribuire le razioni. Pensò che non era più tanto bella come l’aveva vista in treno ma aveva conservato un bel sorriso, sempre pronto a sbocciare. Per il resto sembrava che quella vita al chiuso, fuori dal mondo, la stesse facendo avvizzire. Le sfiorò la mano, mentre gli passava accanto. Ci mise qualche momento a riconoscerlo ma si illuminò tutta, quando ci riuscì. Si incontrarono per la prima volta, una sera, fuori dal recinto e si scambiarono reciproche notizie. A nessuno dei due piaceva quella vita, così prigioniera ma entrambi erano contenti della paga. Il lavoro, però, era duro, nessuna distrazione, mai una soddisfazione. Lui le chiese se un lavoro così valesse la pena di stare lontana da casa ma lei non rispose. Si misero insieme dopo tre mesi, due stanze in affitto in una vecchia baita. Lei era una amante appassionata ed una compagna piena di qualità, pulita, ordinata, premurosa. Ora il loro lavoro era diventato un enorme budello che era stato aperto nelle viscere della montagna e vi sprofondava, vi sprofondava e non c’era più luce. Gli spettri della terra entravano nel corpo pietroso della montagna con il rumore dei loro macchinari, i martelli pneumatici sempre in funzione, le esplosioni, lo sgombero dei materiali in un girone infernale di confusione, di rumore, di polvere che si depositava nei polmoni. Le lampade elettriche brillavano di luce artificiale sul nero di mani e volti ed ognuno aveva imparato a riconoscere gli altri dalle posture e dai gesti più che dai lineamenti. Lui entrava nel profondo della galleria, esaminava le pareti, valutava le fessure e le crepe, parlava con i capiturno, con gli svizzeri che, con i loro progetti in mano, davano ordini. Poi si accordava con chi manovrava i martelli pneumatici e gli scalpelli, gli diceva come fare i fori, dove farli. Spesso era lui stesso a manovrare le perforatrici, in un fracasso di membra che parevano frullate dalla macchina, la testa che si riempiva di rumore e di vuoto. Quand’era soddisfatto si faceva consegnare le cariche, le piazzava accuratamente, disponeva i detonatori e poi iniziava a svolgere i cavi, indietro, indietro fino a dove sapeva che il drago di fuoco e di pietra non avrebbe potuto colpire. Contatto. La montagna aveva un sussulto. A fine turno, via, un ritorno di ossa indolenzite, di mani e facce nere, una doccia calda e poi la camminata verso casa. Il nuovo ingegnere era un biondino dalle guance lisce e rosate, alto molto più di lui, magro e un poco curvo. Spiegò i disegni sul tavolo da disegno e cominciò a dare ordini, strettamente in tedesco. Il traduttore trasmise loro gli ordini. Lui andò in fondo alla galleria e guardò la parete, minuziosamente. Sentì l’ingegnere urlargli qualcosa ma non gli badò. Fece dei segni sulle rocce. Il traduttore lo raggiunse e lo toccò sulla spalla. –“Il nuovo vuole che tu venga via da qui. Dice che ha già calcolato tutto lui. Tu devi solo fare come dice lui.” – Un lampo buio gli attraversò lo sguardo mentre parole aspre gli affollavano la gola. Ma le inghiottì ed abbassò le spalle. Vide il giovane tecnico avvicinarsi alla parete insieme agli uomini con i martelli pneumatici, dare ordini e ritirarsi. Iniziò a preparare le cariche ed intanto guardava il lavoro dei suoi compagni. A un certo punto non poté più trattenersi. Si avvicinò al capoturno e gli gridò, al di sopra del frastuono: - “Io le cariche, così non le metto. E’ sbagliato! Qui si rischia di far crollare la volta!”Il capoturno, ormai, lo conosceva bene. Fece un gesto al traduttore che, solerte, si avvicinò. Parlarono brevemente, poi il capoturno sembrò prender fuoco ed iniziò a gesticolare, indicò lui, indicò le pareti e la volta della galleria. Infine, il traduttore raggiunse l’ingegnere e gli parlò. Il giovane si volse a guardarlo, poi fece un gesto eloquente con la mano, come a scacciare una mosca, come a cancellarlo, negandogli qualunque importanza. Il capoturno tornò da lui. –“Pronto?” – gli chiese. Lui gettò a terra la sua attrezzatura. – “No, non me la sento.” – Poi scivolò a terra, come stesse per sentirsi male. Il capoturno capì e stette al suo gioco. Lo aiutò a rialzarsi e lo accompagnò via, reggendolo per un braccio. Poco dopo videro passare un bombardiere jugoslavo, che si affrettò a mettere le cariche secondo le indicazioni dell’ingegnere. Il capoturno lo fece appoggiare al riparo e si accucciò accanto a lui. –“Se ti sei sbagliato, rischi il posto”. – disse. Lui, di rimando –“Un lavoro lo si rimedia ancora. La pelle é una.”L’esplosione non sembrò avere nulla di diverso da ogni altra si fosse sentita in galleria. Polvere, roccia frantumata, lo spostamento d’aria. Poi il silenzio, mentre la polvere depositava. Poi le squadre si misero all’opera per portare via il materiale. Il capoturno si alzò. –“Non andare – gli disse lui – Non rischiare!” - L’altro lo guardò: - “Senti, io ho famiglia. Se mi licenziano, cosa gli mando, a casa?”- Lo afferrò per una manica e, senza una parola, gli indicò un punto della volta della galleria. –“ Non passare là sotto, qualunque cosa succeda” – Il capoturno annuì e si avviò al suo lavoro. Anche lui si alzò, avviandosi verso l’uscita del tunnel, ormai molto lontana. Si era allontanato di poche decine di metri, quando la roccia si staccò dalla volta, senza un sospiro di preavviso. Molte ore più tardi recuperarono anche il corpo dell’ultimo dei quattro morti, il giovane ingegnere svizzero e l’inchiesta fu veloce, efficiente, sbrigativa. La responsabilità fu attribuita allo jugoslavo, anch’egli morto. Da allora, anche nei punti più difficili, gli furono sempre chiesti pareri, prima di minare le gallerie ed il lavoro proseguì. Certo, ci furono altri incidenti ed altre morti, in tutto diciannove, di cui quattordici italiani. Anche quella titanica opera ebbe il suo tributo di sangue da parte degli spettri della terra, come ogni altra galleria. Dopo quella prima volta, però, al suo rientro trovava sempre una espressione di sollievo sul viso di lei, che lo accoglieva con il tranquillizzante calore del suo abbraccio senza chiedere nulla a quell’uomo cupo, taciturno, dalle mani nere e dalla tosse terribile che lo assaliva di notte e di giorno, improvvisa, malefica. Quando la galleria fu terminata, gli spettri della terra furono sostituiti da un altro genere di lavoratori, gente che ne sapeva di cemento e di asfalto, di carpenteria metallica e di idraulica, e se ne dovettero andare. Il giorno in cui, salendo su un treno che tornava in Italia, furono costretti a parlare di se, del loro futuro, nessuno dei due riuscì a trovare le parole da dire. Lei chiese: -“Che farai ora?”Lui rispose: -“So fare solo il minatore. Andrò in cerca di altre gallerie.”L’uomo sedette in riva a quel mare azzurro e verde e lasciò che la luce gli penetrasse fino in fondo all’anima, tutta la luce che aveva perso nel corso della sua vita di spettro. Il medico era stato categorico, quel mattino di dieci giorni prima: fra i tre e i cinque mesi, i suoi polmoni non avrebbero retto di più. Lui si era limitato ad annuire. Aveva chiesto solo: -“Sarà doloroso?”- Il medico aveva allargato le braccia, dichiarando la propria impotente ignoranza. Uscendo dall’ospedale si era fermato davanti al chiosco di un fioraio e, per chissà quale associazione di idee, aveva pensato a quella sua moglie ribelle, mai domata. –“Sto per venirti a stanare. Stavolta scoprirò i tuoi segreti” – Poi era entrato in banca ed aveva ordinato un bonifico a favore della moglie di Toni. Infine, in un’agenzia di viaggi, aveva comperato biglietti per la Sardegna e aveva stipulato un contratto di affitto per una villetta in fronte al mare. La sua quieta compagna friulana lo aveva guardato senza parlare e senza una lacrima, quando le aveva messi in mano i documenti di viaggio. Aveva capito il messaggio ma era stata con lui troppi anni per non sapere che non erano lacrime che lui voleva. Aveva preparato i bagagli e, quando era stato il momento, aveva chiuso la loro casa, senza rimpianto. Sarebbe tornata là sa sola e solo allora avrebbe avuto forse voglia di piangere per quello spettro della terra che si stava preparando ad affrontare l’ultimo pozzo, uno spettro senza un nome, come tutti quelli che, ad ogni turno, si calano nel buio senza sapere quale luce li attenda. Natura del testo: racconto di pura invenzione