La rivoluzione di velluto dell`ortografia bolognese: da tre a uno

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La rivoluzione di velluto dell`ortografia bolognese: da tre a uno
La rivoluzione di velluto dell’ortografia
bolognese: da tre a uno
Daniele Vitali
Responsabile del sito
<http://www.bulgnais.com>
Sommario
La letteratura bolognese è iniziata nella seconda metà del ’500, ma
fino al tardo ’800 non si è sviluppata una grafia adatta a un uso più vasto.
Dopo la nascita della glottologia, un vocabolario del 1901 e un altro del
1967 hanno proposto una grafia scientifica, adeguata al complesso sistema
vocalico bolognese, cui però gli autori hanno preferito una grafia divulgativa povera di segni diacritici. Solo in seguito a uno studio sulla fonetica
bolognese effettuato in ambiente accademico nel 1995 è stato possibile
proporre una grafia fonetica adatta a diversi scopi, tanto che è stata usata
per il più recente dizionario bolognese, per un sito Internet, per corsi di
lingue e per numerose pubblicazioni. Grazie alle sue caratteristiche, ma
anche e soprattutto grazie alla sua applicazione pratica, questa ≪ortografia lessicografica moderna≫ ha guadagnato terreno, e viene ora usata dalla
maggioranza degli autori.
Parole chiave: Bolognese, ortografia, fonetica, standardizzazione, dialettologia.
... al bolognese bisognerebbe un alfabeto
di 40 o 50 o più segni.
(G. Leopardi, Zibaldone)
1
La questione dell’ortografia
Osservando lo stesso testo scritto in diverse lingue, ad esempio su un pacchetto
di biscotti, ci divertiamo in molti a riconoscere di quali lingue si tratta. Ciò
è possibile grazie al diverso aspetto grafico di ciascuna. In Italia vengono
individuati abbastanza facilmente l’inglese, il francese, il tedesco e lo spagnolo,
ma vi sono spie anche per tutte le altre lingue che si possono trovare in un testo
del genere: per tacere di arabo e russo, che fanno uso di alfabeti diversi dal
nostro, il polacco è identificabile per la * e la Ãl, l’ungherese ha tante dieresi e
accenti, l’albanese varie ë e q, il finnico abbonda di ää e di kk, lo svedese ha la
å, il danese la ø e cosı̀ via.
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Questa riconoscibilità grafica, unita al fatto che a scuola prima di studiare
la grammatica della propria lingua si comincia con l’alfabeto, fa sı̀ che generalmente si attribuisca molta importanza all’ortografia, non soltanto per scrivere
correttamente, ma anche per motivi identitari, come prova l’abbandono dell’alfabeto cirillico e il ritorno a quello latino da parte di alcune lingue dell’exURSS: è il caso dell’azero, per sottolineare la somiglianza col turco, o del ceceno,
lingua di un paese brutalmente occupato dalla Russia.
Naturalmente, l’ortografia non è che un aspetto assai superficiale del problema: il fatto che a livello psicologico sia molto importante il suo aspetto grafico
non significa che la scelta di un alfabeto o dell’altro tocchi la sostanza, cioè la
struttura, di una lingua. La prova è fornita proprio da quelle che hanno cambiato più volte alfabeto: i già citati turco, azero e ceceno si scrivevano in passato
con caratteri arabi, poi il turco passò all’alfabeto latino nel 1928 e l’azero e il
ceceno fecero lo stesso per imitazione negli anni Venti del Novecento. Successivamente Stalin impose il cirillico, scelta che come si diceva è stata rovesciata
negli anni Novanta. Altre lingue, ad es. il calmucco o l’abcaso, hanno cambiato
sistema grafico ancora più volte.
Lingue che non cambiano alfabeto, come il russo saldamente ancorato al
cirillico o il tedesco scritto da tempo con l’alfabeto latino, possono però subire
delle riforme ortografiche: per il russo citiamo almeno quelle volute da Pietro
il Grande e da Lenin, per il tedesco notiamo la riforma 1998-2005, diretta da
una commissione di linguisti e ormai passata malgrado proteste iniziali piuttosto
vivaci capeggiate da alcuni quotidiani1 . Anche l’Académie Française aveva provato a modificare leggermente l’ortografia francese nel 1991, con un’abolizione
di dieresi e circonflesso subito ritirata perché vista da tanti francesi addirittura
come un tradimento della patria.
Se l’aspetto grafico desta tanto vivaci discussioni per lingue ufficiali di lunga
tradizione come il francese o il tedesco, che dispongono di apparati statali e
mediatici in grado di aiutare non poco l’unificazione dell’ortografia, è facile immaginare come la questione possa risultare incandescente nel caso delle lingue
minoritarie.
Si sa che l’unificazione della lingua scritta, ortografia compresa, a partire
dall’inizio del Novecento ha aiutato molto la sopravvivenza del catalano, che oggi
anzi è in piena rinascita. È risaputo anche che l’euskara batua del dopo-Franco
ha consentito alle autorità del Paese Basco spagnolo di tradurre in pratica la
forte volontà politica di rilanciare la lingua della loro comunità autonoma, e un
esempio molto recente ci è offerto dal rumantsch grischun del linguista Heinrich
Schmid che, accolto all’inizio come un ibrido parlato da nessuno, si è pian piano
affermato consentendo alla Svizzera, nel 1996, di conferire al romancio lo status
di lingua ufficiale alla pari con tedesco, francese e italiano, progetto risultato
impossibile finché vi erano cinque norme scritte. Inutile dire che tanto ritardo ha
1 Cf. l’articolo di Daniele Vitali sull’ortografia tedesca e il problema generale dell’ingegneria
linguistica e della standardizzazione ortografica, pubblicato su Tracce, rivista dei traduttori
italiani della Commissione europea:
http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/trac1400.pdf
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nuociuto molto alla lingua, causandone un forte indebolimento e una notevole
frammentazione geografica.
Che per fermare l’arretramento di una lingua minoritaria sia necessario trovare una forma interdialettale, che consenta ai parlanti dei diversi dialetti di
capirsi fra loro senza ricorrere alla lingua maggioritaria causa dell’arretramento,
appare insomma evidente. Eppure spesso non si è riusciti non solo a trovare
una norma unica, ma nemmeno un’ortografia unificata che consentisse, se
non di parlarsi, almeno di leggersi fra locutori di dialetti diversi. Se l’occitano
è riuscito nell’impresa, non si può dire altrettanto del sardo, la cui unificazione
ortografica è stata intrapresa alle fine degli anni Novanta ma non ha ancora
superato lo stadio delle discussioni, molto accese, fra gli specialisti2 . Una soluzione è stata trovata solo da poco per il ladino dolomitico, dove un progetto
analogo a quello dei romanci, avviato all’inizio degli anni Novanta, ha consentito di stampare la prima grammatica di ladino standard. Intanto, sia il sardo
sia il ladino dolomitico hanno continuato ad arretrare rispetto all’italiano, pur
partendo entrambi dalla vantaggiosissima situazione, impensabile per i baschi,
di un 80 % circa della popolazione che parlava uno dei dialetti delle rispettive lingue negli anni Settanta. Diciamo questo nella consapevolezza che la sola
unificazione ortografica non basta ad assicurare la sopravvivenza di una lingua,
che dipende anzitutto da fattori sociolinguistici e dalla volontà dei parlanti, e
anche nella coscienza degli sforzi a volte clamorosi compiuti dai vari movimenti
per la tutela delle rispettive lingue.
Veniamo ora alla particolare vicenda del bolognese, e alla sua particolare
situazione sociolinguistica. Parlato ancora dalla maggioranza della popolazione
fino agli anni Sessanta, il bolognese ha vissuto un rapidissimo e travolgente
regresso a partire dal boom economico, fino alla situazione attuale in cui le
giovani generazioni spesso non sono nemmeno in grado di capirlo, le generazioni
intermedie lo conoscono passivamente ma non lo usano praticamente mai e gli
anziani preferiscono mantenerlo tra le mura domestiche, rinunciando, almeno in
città, a utilizzarlo in pubblico.
Questi sviluppi sociolinguistici sfavorevoli non significano però che la voce del
bolognese si sia spenta: consapevoli della situazione, diversi studiosi e divulgatori fin dagli anni Sessanta, e poi per tutto l’arco degli anni Settanta e Ottanta,
hanno continuato a scrivere libri per salvarne il ricordo, fissando vocaboli, fraseologia, analizzando anche le varianti sociologiche, professionali, generazionali
ecc. Il lavoro di questi autori, come Alberto Menarini e Luigi Lepri, è stato
reso possibile fra l’altro dal loro inserimento in una comunità che non ha mai
interrotto l’uso del dialetto, e che ha continuato a utilizzarlo, oltre che nei ritrovi privati, anche in pubblico, rappresentando commedie teatrali, recitando
versi, cantando canzoni, pubblicando perfino alcuni libri di racconti in prosa.
2 Cf. le pagine sul multilinguismo della rappresentanza della Commissione europea a Milano. Vi è riportata la discussione sulla standardizzazione del sardo, coi seguenti link:
<http://www.uemilano.it/multilinguismo/pdf/lsu.pdf> documento sulla ≪Limba Sarda
Unificada≫ della Regione Sardegna;
<http://www.uemilano.it/multilinguismo/emendamenti bolognesi.html> relativi emendamenti proposti dal linguista Roberto Bolognesi.
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Va osservato en passant che, grazie all’importanza della città di Bologna, il dialetto bolognese gode di una tradizione lessicografica e letteraria non del tutto
trascurabile nel panorama dialettale italiano, tradizione che ha contribuito al
mantenersi di un certo fermento anche in tempi sfavorevoli.
Nella seconda metà degli anni Ottanta si è potenziato il filone musicale, con
l’emergere di alcuni nuovi talenti fra i quali spicca Fausto Carpani, figura a un
tempo di cantautore e studioso che ha inaugurato diverse attività innovative
(completo rinnovamento della canzone dialettale, il primo CD bolognese cui
ne sono seguiti molti altri, un periodico stampato in proprio interamente in
bolognese con un numero di abbonati sempre crescente). Nel corso degli anni
Novanta si è prodotta un’ulteriore svolta con l’apparire di nuovi studi (cf. sotto)
e, nel 1999, la nascita di un sito Internet (Al Sı̂t Bulgnaiṡ ‘Il Sito Bolognese’)3 ,
sviluppatosi in poco tempo in un portale praticamente completo sulle varie
attività in cantiere. Il Sito ha anche promosso il Primo corso di bolognese,
tenuto da Roberto Serra in un teatro cittadino, con folta partecipazione di
giovani desiderosi di apprendere il dialetto da zero, non avendo potuto acquisirlo
per trasmissione diretta. Accanto a questi giovani ha partecipato al Corso l’altra
realtà sociolinguistica del bolognese di oggi: diversi anziani che, parlandolo
già, volevano imparare a scriverlo e sistematizzare a livello teorico le proprie
conoscenze morfologiche e sintattiche, oltre a quarantenni e cinquantenni ansiosi
di rinfrescare le proprie conoscenze.
Per tutte queste attività occorreva un modo di scrivere il bolognese che rispondesse a diverse esigenze, prima fra tutte quella di superare l’occasionalità
per cui ciascun autore aveva il proprio sistema, non sempre coerente da una
pagina all’altra della stessa pubblicazione. Altre esigenze erano la rispondenza alla reale pronuncia, sapendo che le pronunce possibili del dialetto sono
diverse a seconda della provenienza (almeno centro cittadino, campagna occidentale, settentrionale, orientale, montagna media, montagna alta) e dell’età,
e una relativa semplicità dei segni impiegati, sapendo però che il bolognese
cittadino odierno ha 16 fonemi vocalici, contro i 7 dell’italiano.
La molteplicità delle esigenze aveva portato alla nascita, dall’Ottocento in
poi, di tre filoni ortografici diversi:
1. L’ortografia letteraria. Il primo autore a scrivere in bolognese fu il
persicetano Giulio Cesare Croce (1550-1609). Datando le sue opere a un
periodo in cui il sistema fonetico bolognese era radicalmente diverso da
quello odierno, figlio della rapida evoluzione dei secoli successivi, quest’ortografia è inutilizzabile per le fasi ulteriori, come rilevava già nell’Ottocento Carolina Coronedi Berti che, nell’introduzione al suo Vocabolario
bolognese italiano (1869-1874), scriveva: ≪Che l’ortografia sia stata finora
convenzionale non solo nel nostro dialetto, ma ancora in diversi altri, è un
fatto di cui ci fanno accorti i moderni studi filologici, [...] ed è avvenuto
dall’avere gli scrittori in dialetto italianizzato il dialetto nel quale hanno
scritto, tramutando la parlata del popolo, eterno conservatore della lingua,
in una parlata direi più civile e più accosta all’italiano. Ben è vero che la
3 Al
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pronuncia di un dialetto presenta alla scrittura immense difficoltà, per la
contrazione delle voci e per molte graduazioni di suoni, che volendoli pure
far comprendere, pare non ti bastino le lettere dell’intero alfabeto italiano;
[...] ma d’altra parte, se la scrittura di un dialetto non sarà intesa da chi
non sia dello stesso paese, colla scrittura il dialetto stesso non sarà che
male interpretato. [...] Trovare perciò un’ortografia che rendesse facile la
lettura, e più che sia possibile giusto il suono della pronuncia, toglierle i segni convenzionali per quanto si può, i quali impediscono massime a chi non
sia del paese, non solo di poter leggere la scrittura come si conviene, ma di
poterla comprendere, mi parve argomento degno di attenzione e di studio.
[...] È perciò ch’io mi diedi cura di trovare un’ortografia che rendesse le
voci alla semplicità che escono dalla bocca del volgo, lasciando che la si
scostasse quanto occorresse dall’ortografia italiana, a contrario delle antecedenti che la seguivano. Cosı̀ invece, p. es. di scrivere burrasca, secondo
il suono fonico scrivo burasca, dona invece di donna, dunzèla piuttosto di
dunzèlla [...]. Per sommo difetto oltre i molti segni, le passate ortografie
avevano quello di tramutar spesso le vocali l’una per l’altra, come p. es. si
scriveva numer invece di nomer, nuvla per novla, nuvel per novel, punt in
luogo di pont, zuventù per zuventò come chiaramente si pronuncia. E tutti
questi scambi di lettere rendendo diversa la scrittura dal modo di pronunziarla, faceva sı̀ che chiunque avesse tentato leggerla senza conoscere le
convenzioni, trovava inciampi e ad ogni parola commetteva errori≫. Le
critiche della Coronedi, probabilmente ingiuste verso il Croce, erano però
assai calzanti se riferite agli autori del suo secolo e d’inizio Novecento, che
pronunciavano all’incirca come lei: l’esigenza ≪psicografica≫ di avvicinare
la scrittura bolognese a quella dell’italiano causava grafie che distorcevano
sensibilmente la vera pronuncia, come in autori molto importanti della
tradizione bolognese quali il commediografo Alfredo Testoni (1859-1931)
e il cantautore Carlo Musi (1851-1920). Anche nel loro caso, alcune caratteristiche grafiche sono dovute alla pronuncia bolognese dell’epoca, ma
gli esempi dati dalla Coronedi rendono l’idea di come la grafia letteraria,
malgrado il prestigio che ancora oggi la rende usata nell’ambiente dei copioni teatrali, sia inutilizzabile a fini didattici e divulgativi per un pubblico
sempre più di madrelingua italiana e che non può, dunque, reinterpretare
ogni parola prima di riuscire a riconoscerla. Per questo motivo, non vi è
autore letterario o studioso che abbia utilizzato quest’ortografia in tempi
recenti.
2. L’ortografia lessicografica. Chiamiamo cosı̀ quest’ortografia in quanto
le sue massime espressioni sono il dizionario di Gaspare Ungarelli del 1901
e quello di Pietro Mainoldi del 1967, ma il fondamento del sistema si deve
alla nascita della glottologia e agli studi di fonetica di Alberto Trauzzi e
Augusto Gaudenzi, che introdussero segni ≪esotici≫ come ad es. la å e la
s, z ed n col puntino: cusén ‘cuscino’ vs. cuṡén ‘cugino’; znèr ‘cenare’ vs.
żnèr ‘gennaio’; galéṅna ‘gallina’, lóṅna ‘luna’ vs. panna ‘penna’. L’uso
integrale dei simboli della glottologia italiana come si presentava a inizio
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Novecento sembrò esagerato al Mainoldi che, pur mantenendo i segni già
detti e i circonflessi per le vocali lunghe, riuscı̀ però a creare un sistema
non più soltanto scientifico, ma che poteva anche aspirare ad essere utilizzato come sistema ortografico (e infatti, anche se un po’ confusamente,
fu adottato da alcuni poeti). Scrive il Mainoldi nell’introduzione all’opera
propedeutica al suo dizionario, il Manuale dell’odierno dialetto bolognese
del 1950: ≪Il problema pratico della grafia del dialetto bolognese non è
di facile soluzione, anzitutto perché le vocali toniche hanno anche suoni che non esistono nella lingua italiana: si tratta di usare una scrittura
che da un lato non sia troppo complicata, dall’altro non troppo lontana
dalla pronuncia. [...] Ma il problema principale, che s’impone se si vuol
rendere agevole la lettura degli scritti dialettali, è un altro: l’abbandono
del sistema attualmente in uso che s’ispira alla corrispondenza della grafia
al termine italiano anziché alla pronuncia dialettale. [...] Purtroppo gli
autori che hanno scritto in dialetto bolognese nell’ultimo mezzo secolo, se
hanno abbandonato le difficili grafie antiche, cioè precedenti alla Coronedi
Berti, non hanno però seguito che parzialmente le sue esortazioni, sicché permane a tutt’oggi la consuetudine di una scrittura che chiameremo
“etimologica”, p. es. con l’uso della doppia consonante ove è in italiano e contrariamente alla pronuncia dialettale (scrivendo matta in luogo
di mâta), o con alterazioni delle vocali con notazioni arbitrarie, come à
per e aperto quando nel vocabolo italiano corrispondente vi è a, cosı̀ è
per a quando in italiano vi è e, ed ù per o chiuso quando in italiano vi
è u. Vediamo p. es. scritto il titolo di una nota commedia del Testoni
“Quella ch’fa el cart” (quella che fa le carte, l’indovina) mentre la grafia
più vicina alla pronuncia è “qualla ch’fa al chèrt”. Noi dunque insistiamo
per una trascrizione che sia il più possibile aderente alla reale pronuncia,
svincolandosi dal legame etimologico, che riteniamo non debba prevalere,
mentre è la realtà della pronuncia che deve essere principalmente presa di
mira. Limiteremo il più possibile i segni diacritici, riducendoli, per quanto
riguarda le vocali, agli accenti ed all’å, già proposta per il nostro dialetto
dal Gaudenzi e dall’Ungarelli: è del resto una lettera di uso corrente in
altre lingue e la sua opportunità per il dialetto bolognese è paragonabile
a quella p. es. dell’ü nella trascrizione dei dialetti lombardi. È vero che la
limitazione dei segni diacritici non ci consentirà di rendere alla perfezione
tutti i suoni del dialetto, ma ci avvicineremo ben più che col sistema in
uso, e il lettore petroniano potrà agevolmente aggiungere quelle inflessioni
del suono che sfuggono alla grafia, non ostacolato dallo sforzo di leggere a
per e e viceversa!≫.
3. L’ortografia divulgativa. Messa a punto da A. Menarini a partire dal
1964 e portata avanti con poche modifiche da L. Lepri a partire dal 1986,
tale ortografia accoglie alcuni elementi dell’ortografia lessicografica, come
le consonanti col puntino, di cui due come si è visto consentono la differenziazione tra fonemi diversi, ma elimina ≪le lettere che la stessa lingua
[cioè l’italiano] ormai ripudia≫, ad es. i circonflessi, lasciando al raddoppio
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grafico delle consonanti successive il compito di segnalare la non lunghezza
delle vocali (infatti, in bolognese dopo vocale lunga si ha sempre consonante breve e viceversa per cui, anziché scrivere sâc ‘sacco’ vs. sacc ‘secco’
come Mainoldi, Menarini si limitava a sac vs. sacc. Questo sistema non
consentiva però di distinguere fra sô ‘suo’ e só ‘su’, ragion per cui L. Lepri
ha reintrodotto i circonflessi in posizione finale di parola). Per ulteriore
semplificazione, l’ortografia divulgativa sfruttava certe convergenze fonologiche createsi nel bolognese del centro urbano: poiché oggi gli antichi
mäint ‘mente’ e måunt ‘monte’, passando per gli stadi mänt e månt, sono
diventati entrambi mant, cosı̀ venivano scritti, lasciando al contesto il compito di distinguere, analogamente a quanto succede nel parlato. Questa
soluzione non consentiva però di uscire dalle mura cittadine, oltre le quali
le vecchie realizzazioni si sono in gran parte conservate (ä = ≪a tendente
ad e ≫, non segnata nemmeno da Mainoldi, å = ≪a tendente ad o ≫). Tale
sistema semplificato è servito per la stesura di diversi libri e rubriche fisse
sui giornali ma, malgrado la sua facilità, non si è mai generalizzato.
Nel 1994 chi scrive, terminata da poco la propria tesi di laurea sulle lingue
caucasiche e da tempo la lettura del Manuale di Mainoldi, decise di applicare al
bolognese ciò che aveva imparato all’università e, conosciuto L. Lepri unanimemente indicato da tutti i parlanti come il più competente dialettofono cittadino
vivente, lo sottopose a numerose sedute di registrazione, scoprendo che, oltre
che un rappresentante del dialetto urbano (poi battezzato moderno standard
intramurario, minoritario anche in città per l’afflusso di dialettofoni da altre
parti della provincia ma rimasto la variante più prestigiosa anche agli occhi di
questi ultimi), è anche ben capace di riflessioni metalinguistiche e indisponibile
a integrare le proprie conoscenze con supposizioni e congetture. Insomma, il
parlante ideale, che ha cosı̀ fatto da soggetto principale delle successive ricerche,
che pure hanno tenuto conto dell’odierna stratificazione e della varietà dialettale
dell’area bolognesofona (con le varianti suddette: almeno tre rami di campagna
e due di montagna, uno dei quali assai eccentrico). Le registrazioni furono poi
sottoposte a Luciano Canepari, professore di fonetica all’università di Venezia.
Da questa collaborazione nacque l’articolo ≪Pronuncia e grafia del bolognese≫4 ,
comprensivo di una proposta di grafia rigorosamente fonetica, che teneva conto della necessità di semplificare ma anche di rispettare un’equivalenza uno a
uno tra fonemi e grafemi (compresi i digrammi e i trigrammi). Fra le proposte, quella di scrivere ganba, itagliàn, Germâgna ‘gamba, italiano, Germania’
in ossequio alla reale pronuncia, anche laddove l’ortografia lessicografica e quella divulgativa, per tacere di quella testoniana, avevano scritto gamba, italiàn,
Germânia.
Appariva evidente che, data la natura dell’articolo, questo da solo non sarebbe bastato a determinare un riorientamento degli autori, e purtuttavia mi
dedicai a trascrivere vari testi secondo quelle nuove proposte, arrivando rapidamente a un parziale riallineamento con l’ortografia lessicografica. In pratica,
laddove le scelte di Mainoldi, per quanto apparentemente strane (come nel caso
4 Pubblicato
sulla Rivista Italiana di Dialettologia 19, 1995, pp. 119-164.
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di ali ôv ‘le uova’, pronunciato in realtà ≪egliôv ≫), apparivano giustificabili dal
punto di vista fono-morfologico, le lasciai immutate, a volte anche reinterpretandole. Mainoldi scriveva ad esempio maint ‘mente’ e månt ‘monte’, nonché rivoluziån ‘rivoluzione’, laddove l’odierno intramurario standard pronuncia rispettivamente mänt/mant, mant/mänt e rivoluziän, rimasti però maint/mäint/mänt,
må(u)nt/mò(u)nt e rivoluziå(u)n/rivoluziò(u)n in campagna. Pensai che än e
ån potessero indicare ciascuno una gamma di sequenze di suoni imparentate fra
loro ed evolutivamente procedenti dalla stessa origine, e che tali suoni, in una
scrittura orientata sull’intramurario ma interdialettale, potessero mantenersi
distinti graficamente con la regola implicita per cui, in città, si possono oggi confondere. Nasceva cosı̀ la grafia lessicografica moderna, il cui primo utilizzo
pratico fu il Dizionario italiano-bolognese, bolognese-italiano, di Daniele Vitali e
L. Lepri, pubblicato in formato tascabile da Vallardi nel 1999 (con una seconda
edizione ampliata nel 2000). Questo lavoro, contenendo molta più fraseologia
del dizionario del Mainoldi da cui aveva preso le mosse, fu l’occasione di valutare
la validità di molte scelte, in particolare in materia di apostrofo e di spaziatura
fra parole, dal momento che nella frase i diversi elementi lessicali e grammaticali
interagiscono subendo varie modifiche per prostesi, epentesi, epitesi, aferesi, sincope, apocope ecc. Risultò che l’ortografia funzionava, ma c’era da temere che
la sua ricchezza di segni, se avrebbe probabilmente aiutato la lettura da parte
dei giovani italofoni, avrebbe però complicato la scrittura da parte degli anziani
dialettofoni, meno abituati ad astrarre dall’ortografia italiana. Ci aspettavamo
anche un certo rifiuto per scelte ≪antiscolastiche≫ come ganba e itagliàn, dovuto all’interiorizzazione delle sgridate della maestra delle elementari al momento
in cui, imparando a scrivere l’italiano, gli scolari bolognesi commettono proprio
≪errori≫ del genere, che rispecchiano semplicemente il vero modo di pronunciare
anche l’italiano da parte di chi è cresciuto a Bologna (e non solo a Bologna).
Un secondo banco di prova della moderna ortografia lessicografica è stato
il Sito Bolognese, in cui vari testi, anche di una certa lunghezza, vengono
presentati in dialetto con traduzione italiana a fronte. È probabile che il Sito
abbia incoraggiato l’allineamento di vari autori alla moderna ortografia lessicografica, vista la rapidità con cui tale fenomeno si è verificato, ma è ipotizzabile,
dato che non tutte le persone coinvolte sono attivi utilizzatori di Internet, che
il fenomeno sia anzitutto figlio dell’autorità del vocabolario tascabile, arrivato
a ben 32 anni di distanza dal Mainoldi e firmato da una persona stimata come
L. Lepri, e dunque facilmente suscettibile di essere considerato un po’ ≪l’ultima
parola≫ anche in materia di ortografia. È possibile che un aiuto sia venuto anche
dall’introduzione al dizionario che, esponendo a volo d’uccello la grammatica del
bolognese, spiega il perché delle diverse scelte ortografiche.
L’introduzione stessa riconosce l’esistenza dell’ortografia divulgativa e la dichiara implicitamente adatta a ogni uso non lessicografico, eppure nei due anni
successivi alla prima edizione del vocabolario tascabile si è potuta osservare,
dalle colonne della rubrica tenuta sul quotidiano La Repubblica da L. Lepri, un
progressivo e rapido passaggio alla grafia lessicografica anche per un uso decisamente divulgativo. Successivamente, il Sito ha cominciato a ricevere vari
messaggi di autori dialettali, alcuni alle prime armi col computer, che tramite
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una costante consultazione del vocabolario tascabile si stavano allineando a propria volta. Il 2 gennaio del 2000 L’Avvenire ha pubblicato un componimento
bolognese del 1954 ritrovato negli archivi e dedicato alla consacrazione di S.
Petronio, ritrascritto dall’anonimo giornalista in un modo che mostra chiaramente, fra varie scelte personali e disparate, la consultazione del vocabolario
tascabile per rendere varie parole: sänper, itaglièna, anbiziån (‘sempre, italiana,
ambizione’, cf. Mainoldi saimper, italièna, ambiziån). Dall’agosto 1999 alla fine
del 2002 sono almeno otto (più del 60 % del totale) i libri bolognesi di nuova
pubblicazione che adottano l’ortografia lessicografica, a volte con preventiva richiesta di correzione a chi scrive o a R. Serra, altre volte saltando tale passaggio
ma comunque con risultati che mostrano una lusinghiera comprensione della
filosofia generale che presiede all’ortografia. A questi libri vanno aggiunti il già
citato periodico (Al Pånt dla Biånnda ‘Il Ponte della Bionda’), i CD e le cassette musicali di F. Carpani e l’adozione della moderna ortografia lessicografica
da parte del Corso di bolognese tenuto al teatro Alemanni, dove si è potuto
constatare come il sistema, con la sua corrispondenza uno a uno tra fonemi e
grafemi, sia utile a fini didattici.
Un risultato particolarmente lusinghiero è poi che sia stato pienamente recepito il messaggio dell’interdialettalità: dal 1998 Tiziano Casella tiene un corso
di dialetto a Budrio, insegnando la propria variante della campagna orientale
(galı̂na e lûna corrispondono qui agli intramurari galéṅna e lóṅna). Già orientato verso le scelte di Mainoldi, il corso budriese ha poi adottato l’ortografia
del vocabolario tascabile, con la novità della ä per la ≪a tendente ad e ≫ (cioè
una e aperta breve, non rappresentabile come è, segno già impegnato per la e
aperta lunga). Se in bolognese intramurario la ä ha oggi una distribuzione molto
ridotta (essenzialmente, laddove nella campagna occidentale si ha ain o äin),
in budriese la sua frequenza è molto maggiore, poiché ricorre anche laddove il
bolognese ha da sempre an: a panza, canta, banca ‘pancia, canta, banca’ della
città e della campagna occidentale corrispondono in budriese le stesse parole
con e aperta breve, rese correttamente con la ä: pänza, cänta, bänca.
Assicurata l’interdialettalità, occorrerà spiegare meglio agli utenti l’intergenerazionalità dell’ortografia: il moderno standard intramurario tende infatti
ad accorciare le vocali lunghe in fine di parola, per cui ad es. faṡû, fradı̂ ‘fagioli, fratelli’ si pronunciano oggi più spesso faṡù, fradı̀. In considerazione del
fatto che fuori città il fenomeno non è arrivato ovunque, la moderna ortografia
lessicografica mantiene la scelta di Mainoldi del circonflesso finale, per indicare una lunghezza presente anche nel bolognese vecchio. Naturalmente, tale ortografia intende soprattutto dare un quadro di riferimento improntato
ad alcuni princı̀pi, non già imporre nei dettagli una serie di regole vincolanti:
di conseguenza, ciascun autore desideroso di usare la grafia lessicografica potrà tranquillamente scrivere faṡù o fradı̀, purché ciò rispecchi la sua effettiva
pronuncia.
È parere di chi scrive che il rapido diffondersi dell’ortografia lessicografica
fra gli autori, e il sempre maggiore allineamento sui suoi princı̀pi da parte di
coloro che l’hanno già adottata, sia frutto della rispondenza di tale ortografia
alle esigenze precedentemente individuate, ma anche che un ruolo importante sia
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stato svolto proprio dalla non prescrittività dell’ortografia, diffusasi quietamente
tramite l’esempio e la divulgazione.
Certo, si tratta di sviluppi proponibili come esempio solo in situazioni sociolinguisticamente simili, ad es. laddove un idioma minoritario non abbia la
fortuna di possedere un’accademia o un’autorità regionale che lo spalleggi. Ci è
comunque sembrato interessante esporre l’esperienza in corso a Bologna, nella
speranza che ciò possa essere d’aiuto anche ad altre realtà analoghe.
Nota – Presentiamo la scrittura degli esempi dati da Coronedi Berti e Mainoldi secondo l’ortografia lessicografica moderna: burâsca,
dòna, dunżèla, nómmer, nóvvla, nóvvel, pónt, żuventó; mâta, qualla
ch’fà äl chèrt.
2
Pronuncia e grafia
La grafia del dizionario si sforza di essere il più aderente possibile ai fatti fonetici del dialetto della città di Bologna e di quelli della campagna occidentale,
i più simili al dialetto cittadino e penetrati in massa in città nel corso di questo secolo. Ciò ha significato da un lato utilizzare la grafia dei due più grandi
vocabolari moderni, vale a dire l’Ungarelli (1901), e il Mainoldi (1967), che
ne accoglie i princı̀pi riducendo il numero dei segni diacritici, dall’altro rompere con la stessa tradizione lessicografica (e con quella dei vari autori dialettali,
spesso allergici ai diacritici) laddove questa non aveva tenuto conto di alcune
particolarità fonetiche dei dialetti gallo-italici, e si era troppo appiattita sull’italiano: potrà sembrar strano, all’inizio, veder scritto ganba per ‘gamba’, eppure
è proprio cosı̀ che tutti pronunciano a Bologna. Potranno sorprendere anche
itagliàn o comugnån per ‘italiano, comunione’, ma queste due parole vengono proprio pronunciate con gli stessi suoni di batâglia (a differenza del plurale
batâli ) e râgn, ‘battaglia, ragno’, per cui se l’ortografia vuol essere coerente e
non ricalcata sull’italiano cosı̀ si devono scrivere.
Allo stesso modo, è dovuto solo a ragioni storiche se in italiano si scrive
‘cuore’ ma ‘squadra’, e ‘acqua’ ma ‘soqquadro’: seguire simili convenzioni, in
un idioma che non ne è una corruzione ma un semplice cugino con una storia
evolutiva diversa, significa complicare le cose più che semplificarle, come dimostra la discordanza fra gli autori nello scrivere le forme derivate: chi usa la c nel
singolare e la q nel plurale, baciâcla ‘chiacchierone’ e baciâquel, chi usa la q in
entrambi i casi, chi addirittura usa la q con una u all’esponente per mostrare
che quest’ultima al singolare non si pronuncia! Noi useremo solo la c: baciâcuel,
scuèdra, âcua, ‘chiacchieroni, squadra, acqua’, per mostrare che il suono è lo
stesso. Si è deciso però di cedere alla tradizione grafica mantenendo la q in inizio di parola, per conservare l’immediata riconoscibilità di vari pronomi, avverbi
e aggettivi interrogativi. Questo ha significato registrare quattro parole sia sotto la Q che sotto la C, a causa dell’oscillazione nella pronuncia (semivocalica
o vocalica) della u: quêrc’ e cuêrc’ ‘coperchio’ (in teoria era possibile usare la
q in alternanza con la c anche in posizione centrale di parola, per mostrare la
c Romania Minor
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differenza fra l’uso semivocalico e quello vocalico della u: ad es. âqua ma zircuı̂t,
si è però rinunciato a farlo, perché questo non avrebbe risolto il problema nel
caso di altre consonanti: una soluzione universale sarebbe stata l’adozione di un
ulteriore diacritico: âcua, zircüı̂t, afetüåuṡ, püı̂gla, il che non pareva opportuno).
Il parlante genuino, anche se non ha mai visto il bolognese scritto, una volta
comprese queste regole può trovare a colpo sicuro qualunque parola registrata
nel dizionario: non altrettanto sarebbe successo se si fossero adottate regole
non fonetiche, né sarebbe stato di molto aiuto seguire l’ortografia dei vecchi
testi, dal momento che questi riportano, ad es., la dizione Bulògna dove oggi
si pronuncia Bulåggna o Bulaggna. Ciò non significa affatto che non esista una
grafia bolognese moderna, seria e adatta a scopi divulgativi: elaborata da Alberto Menarini, essa non solo esiste, ma certo non si sogna di risparmiare i segni
speciali ṡ, ż, ṅ, che anche il nostro vocabolario naturalmente accoglie5 . In più
si è seguita la passata, e motivata, tradizione lessicografica nell’uso dell’accento
non solo per indicare la posizione dello stesso e l’apertura delle vocali, ma
anche per indicarne la lunghezza. Fra i segni adottati figurano anche la tradizionale å e la nuova ä, utili per mostrare le varianti di pronuncia dei dialetti
rustici, che distinguono fra i tre tipi di a breve, e la pronuncia cittadina, che
non lo fa più se non in singole parole. Quei segni rappresentano anche un’utile
indicazione morfologica: sapendo che å viene da un’antica o aperta privata
dell’elemento labiale, e pertanto fa ó chiusa al plurale e u in posizione atona,
non ci sarà più bisogno di specificare che il plurale di biånd ‘biondo’ è biónd e il
diminutivo biundén. Questo ha permesso di limitare la parte grammaticale del
dizionario all’indispensabile. Per saperne di più sulla grammatica del bolognese
si consiglia il Manuale dell’odierno dialetto bolognese 6 . I criteri di base seguiti
per la grafia fonetico-interdialettale sono enunciati nell’articolo di L. Canepari
e D. Vitali ≪Pronuncia e grafia del bolognese≫7
Diamo ora le corrispondenze approssimative dei segni usati per il bolognese.
2.1
Vocali
In bolognese si distingue fra vocali accentate brevi e lunghe. Le lunghe durano
il doppio delle brevi.
ı̂
é
ê
i lungo
e chiuso breve
e chiuso lungo
è
ä
â
e aperto lungo
e aperto breve (a tendente ad e)
a lungo
5 D.
Vitali & L. Lepri (2000).
Mainoldi, Mareggiani, Bologna, 1950.
7 op. cit.
6 Pietro
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lı̂ber ‘libro’
métter ‘mettere’
mêter, mêder ‘metro, mietere’
mèder ‘madre’
bän ‘bene’
râta ‘salita’
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à
a breve
å
o aperto breve senza arrotondamento delle labbra (a tendente
ad o)
o semiaperto lungo
o chiuso lungo
o chiuso breve
u lungo
ò
ô
ó
û
casàtt ‘cassetto’ (l’accento
non si segna sui monosillabi chiusi: can, rà ‘cane,
re’)
bån ‘buono’
còl, tòr ‘collo, toro’
côl, tôr ‘cavolo, prendere’
tóff ‘puzza’
ligûr ‘ramarro’
La lettera ò indica un suono che, presente nei dialetti rustici (dove può essere
anche aperto o molto aperto), ha avuto una vicenda complessa in città: per
riassumere, ci sono oggi parole che accettano solo ô lungo e chiuso, come in fiôl
o nôv ‘figlio, nuovo’, e altre che, a seconda dei parlanti, possono avere ô oppure
ò oppure oscillare. Nel nostro dizionario tali parole sono state indicate con ò
per indicare la possibilità, ma non l’obbligo, di pronunciarle con o semiaperta
o aperta. La distribuzione è quella dei dialetti rustici, dove però spesso sono
assenti le coppie di parole che, in alcuni parlanti cittadini, fanno di ò un fonema
(cf. schema): infatti in campagna (e non solo) ‘prendere’ si dice tûr, e ‘cavolo’
è spesso chèvol. Va aggiunto che ò in fine di parola è molto spesso breve; anche
le altre vocali lunghe possono abbreviarsi nella stessa posizione.
La lettera å nella pronuncia cittadina è di solito, oggi, una a vera e propria,
mentre nelle varianti rustiche continua generalmente a stare fra a ed o. Sempre
la pronuncia cittadina tende a fondere insieme ån e än, cosı̀ di solito non si
distingue fra månt ‘monte’ e mänt ‘mente’. Le vocali å ed ä sono sempre
accentate (tranne che nell’apposizione sgnär e nell’articolo äl ), e cosı̀ i dittonghi
åu e ai (in campagna spesso ou e äi ), per cui non viene indicato alcun accento
grafico. Quando ai è atono, ciò è indicato dall’accento su di un’altra vocale, ad
es. maicàtt ‘zotico’. Parole come såuranómm ‘soprannome’ sono composte, ma
l’accento vero cade sul secondo elemento (cioè su ó).
Nel bolognese cittadino odierno non sono previste e ed o accentate aperte e
brevi, per cui per le parole di origine straniera abbiamo usato ä nel primo caso
(tä ‘tè’) e ò nel secondo, mostrandone la brevità col raddoppio della consonante
successiva, dato che a vocale breve segue sempre consonate lunga nella stessa
parola (spòrrt ‘sport’, parola la cui origine straniera è testimoniata dalla variante
spórrt, più rispondente alle regole fonetiche del bolognese genuino).
La lettera ä è usata anche nell’articolo plurale femminile, che alcuni pronunciano e aperto e altri a: äl gâti ‘le gatte’. In bolognese cittadino ricorre poi
davanti ad n laddove in campagna è rimasto il vecchio gruppo -äin o -ain (dänt
‘dente’), e anche nel gruppo -iån: rivoluziån si pronuncia cioè rivoluziän in città
ma ancora rivoluziån, o -ziåun o -zioun etc. in campagna. Si sono usati anche i
segni á, per la seconda persona singolare dell’imperativo (vá “va’, vai”, mentre
al và “egli va”), e ı̀ e ù, per assimilare graficamente le parole non genuinamente
bolognesi entrate nell’uso: ad es. cı̀nno ‘bambino’, che è bolognese (cén ‘piccoc Romania Minor
°
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lo’) filtrato dall’italiano locale. In bolognese cittadino, infatti, i e u accentate
brevi non sono previste.
Infine, al bolognese cittadino dièvel, òmen, quèder ‘diavolo, uomo, quadro’
di solito corrisponde in campagna dièval, òman, quèdar.
2.2
Consonanti
cia ce ci cio
ciu
ca che chi co
cu
gia ge gi gio
giu
ga ghe ghi go
gu
j
n
come in italiano. Lo stesso suono, in fine di parola o davanti
a consonante, è indicato con -c’,
-cc’
come in it. Lo stesso suono,
in fine di parola o davanti a
consonante, è indicato con -c, -cc
come in it. In fine di parola o
davanti a consonante: -g’, -gg’
come in it. In fine di parola o
davanti a consonante: -g, -ggsi segna fra due vocali per i
semivocalico
nn
indica il suono alveolare (come in
it. nano) davanti a vocale e dopo
vocale lunga: cân ‘canne’; indica invece il suono velare (come in
it. tengo) davanti a consonante:
canvèr ‘canapaia’. Dopo vocale accentata breve si ha n velare
lungo
n alveolare lungo
ṅn
q
n velare + n alveolare
usato solo in inizio di parola
s
sempre sordo (come in it. sasso). La s bolognese è alveolare (con la punta della lingua fra
s e sc italiani) e con le labbra
arrotondate
sempre sonoro (come in it.
sbarco)
s + c’
z sorda. Come l’inglese thing, ma
la punta della lingua è dietro ai
denti inferiori
ṡ
s-c
z
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inbac’lèr, mócc’ ‘rabberciare, mucchio’
vâc, plócc ‘mucche, chiasso’
g’détta, dågg’ ‘disdetta,
dodici’
brèg, a dégg ‘pantaloni,
dico’
tâja ‘taglia’, tajja ‘teglia’
ma a tâi, tai ‘io taglio,
teglie’
can, påndg, scaldén ‘cane,
topo, scaldino’
i scaldénn, panna, pann
‘scaldarono, penna, penne’
galéṅna ‘gallina’
quâter ‘quattro’, ma âcua
‘acqua’
cusén ‘cuscino’
cuṡén ‘cugino’
s-ciavvd ‘insipido’
znèr ‘cenare’
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ż
gn
z sonora. Come l’ingl. that, ma
la punta della lingua è dietro i
denti inf.
come in italiano
gli
come in italiano
g-li
come in it. negligente
żnèr ‘gennaio’
mugnèga
‘albicocca’,
Bulåggna ‘Bologna’
ṡbaglièr
‘sbagliare’,
Emégglia ‘Emilia’
neg-ligiänt
Dopo vocale breve si ha sempre consonante lunga, dopo vocale lunga si ha
sempre consonante breve: sacc, sâc ‘secco, sacco’. Parole come peppacûl ‘fifa’
sono composte, il che spiega l’allungamento consonantico in una posizione che di
solito non lo prevede. Infatti in bolognese le consonanti sono lunghe solo dopo
vocale breve anche se, per influenza dell’italiano, in molte parole è leggermente
allungata la consonante della prima sillaba atona laddove l’italiano prevede una
doppia: immażinèr, illuminaziån ‘immaginare, illuminazione’. Poiché la situazione è fluida e i dizionari tendono a fare testo per chi li usa, il nostro non tiene
conto di questo fenomeno. Per lo stesso motivo si è trascurata la pronuncia di
n, dopo vocale accentata breve e prima di consonanti anteriori quali d, ż, come
alveolare lunga anziché come velare: ad es. tannda ‘tenda’, che si indica col
tradizionale tanda 8 .
Alle tipiche sequenze cittadine odierne -éṅna, -åṅna e -óṅna corrispondono
di solito, nei dialetti rustici occidentali, dei dittonghi + na, es. mulṡéina, sfrunblåuna, lóuna ‘morbida, girovaga, luna’, e in alcune varianti ciò avviene anche
al maschile: mulṡéin, sfrunblåun.
In alcune parole c’ e g’ possono essere scritti ts, ds e dṡ: tstón = c’tón,
dscårrer = c’cårrer, dṡdétta = g’détta ‘testoni, parlare, sfortuna’, rispecchiando
cosı̀, con l’etimologia, alcune pronunce. Si è data la preferenza alle forme etimologiche, tranne che nei numeri e in alcune forme del verbo dı̂r, che si pronunciano
similmente dappertutto: óng’, dågg’, al gé ‘undici, dodici, disse’.
La sequenza li nei sintagmi äli ôv, däli ôv e simili si legge come gli di ṡbaglièr :
≪degliôv ≫. La palatalizzazione di l e n è frequente anche davanti al pronome i :
al i à détt ch’an i vâg pió si legge ≪agliadétt ch’agnivâg pió ≫ (= ‘gli ha detto
che non ci vado più’). Si è scelto però di scriverli con le parole staccate fra loro
per mostrare meglio la funzione morfologica di ciascuna, cosa importante in un
idioma cosı̀ ricco di pronomi e particelle.
2.3
L’apostrofo
Si usa per indicare la caduta di una vocale in fine di parola: s’a l savêva, ch’al
séppa, l’ôca, lı̂ l’é (apocope di se, che, la, la) ‘se l’avessi saputo, che sappia, l’oca,
lei è’. La caduta di vocali iniziali o centrali non viene indicata graficamente:
8 Questa scelta di semplificazione non è stata apprezzata dagli utenti della grafia, e pertanto abbandonata dopo aver constatato la positiva accoglienza riservata al vocabolario e le
contestuali proteste su casi come tanda, per cui sul Sito Bolognese si trova oggi tannda.
c Romania Minor
°
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d avréll, l èṡen, ló l é, csa vût (aferesi di ed, al, al, sincope di cusa) ‘d’aprile,
l’asino, lui è, cosa vuoi’.
N.B. – Nel corpo del nostro dizionario, le vocali coi diacritici vengono insieme alle stesse semplici, per cui ad es. i lemmi mo, mô, mò
compaiono in stretta successione (l’esigenza di usare i diacritici risulta evidente dal fatto che parole di significato diverso si differenziano
solo per le caratteristiche della vocale accentata, cf. anche mèl, mêl
‘male, miele’, o per la sonorità, come in fûs ‘fòssi’ e fûṡ ‘fuso’, o per
la posizione dell’accento, come in pı̂gher e pighèr ‘pigro, piegare’).
Invece, j è data dopo i.
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Riferimenti bibliografici
[1] Canepari, Luciano; Vitali, Daniele (1995): ≪Pronuncia e grafia del
bolognese≫. Rivista Italiana di Dialettologia 19: 119-164.
[2] Coronedi Berti, Carolina (1985): Vocabolario bolognese italiano. Bologna:
Forni. [2 volumi, rist. anast. dell’edizione di Bologna, Monti 1869-1874]
[3] Gaudenzi, Augusto (1989): I suoni, le forme e le parole dell’odierno dialetto
della città di Bologna. Studio seguito da una serie di antichi testi bolognesi
inediti in latino, in volgare, in dialetto. Bologna: Forni. [rist. anast. dell’ediz.
1889]
[4] Lepri, Luigi (1986): Dialetto bolognese ieri e oggi. Raffronti fra vocaboli.
Bologna: Tamari.
[5] Mainoldi, P. (1950): Manuale dell’odierno dialetto bolognese. Suoni e segni,
Grammatica - Vocabolario. Bologna: Mareggiani.
[6] — (1996): Vocabolario del dialetto bolognese. Bologna: Forni. [Rist. anast.
dell’edizione di Bologna, 1967]
[7] Menarini, Alberto (1964): Bolognese invece. Bologna: ALFA.
[8] Trauzzi, Alberto (1901): ≪Sulla fonetica e sulla morfologia del dialetto≫.
In: G. Ungarelli [ed.]: Vocabolario del dialetto bolognese. Bologna: Zamorani
e Albertazzi.
[9] Ungarelli, Gaspare (1901) Vocabolario del dialetto bolognese. Bologna:
Zamorani e Albertazzi.
[10] Vitali, Daniele; Lepri, Luigi (2000):
bolognese-italiano. Milano: A. Vallardi.
Dizionario italiano-bolognese
c Romania Minor
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