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1 Terapia delle anemie emolitiche autoimmuni: attualità e prospettive Alberto Zanella Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano RIASSUNTO Le anemie emolitiche autoimmuni (AEA) sono un gruppo eterogeneo di affezioni relativamente rare causate dalla presenza di anticorpi reattivi contro le emazie autologhe, e pertanto caratterizzate dalla positività del test dell’antiglobulina diretto (TAD). Possono essere idiopatiche o secondarie, e vengono distinte in “calde”, “fredde” (sindrome da agglutinine fredde ed emoglobinuria parossistica a frigore) o “miste”, in base alle proprietà termiche dell’autoanticorpo. Un ulteriore categoria di AEA è rappresentata dalle forme “atipiche” (AEA TAD-negative, AEA da anticorpi IgM caldi), segnalate con sempre maggior frequenza sia in adulti che in bambini. L’emolisi all’esordio può essere di intensità variabile, da fulminante a moderata o completamente compensata. Il trattamento delle AEA è ancora non “evidence based” (non basato sull’evidenza), per la quasi totale assenza di studi randomizzati. La terapia di prima linea per le AEA calde è rappresentata dai corticosteroidi, che sono efficaci nel 70-85% dei pazienti e devono essere lentamente scalati sino alla sospensione in 6-12 mesi. Per I casi refrattari/recidivi, l’attuale sequenza del trattamento di seconda linea è rappresentata da splenectomia (efficace in circa 2/3 dei casi ma con una presunta quota di guarigione del 20%), rituximab (efficace in ~80-90% dei casi), e quindi dagli immunosoppressori (azatioprina, ciclofosfamide, ciclosporina, micofenolato mofetile). Terapie addizionali sono le immunoglobuline e.v., il danazolo, il plasma-exchange, nonché l’alemtuzumab e la ciclofosfamide ad alti dosi come ultime opzioni. Con l’accrescere dell’esperienza col rituximab, è verosimile che l’uso di questo farmaco venga anticipato nel trattamento delle AEA, prima dei più tossici immunosoppressori e, in alcuni casi, prima della splenectomia o addirittura in prima linea. Per quanto riguarda la sindrome da agglutinine fredde, il rituximab è oggi raccomandato come trattamento di prima linea. Infine, l’utilizzo degli inibitori del complemento di recente sviluppo può avere un ruolo potenziale nel trattamento delle forme gravi di AEA complemento-mediate. INTRODUZIONE Le anemie emolitiche autoimmuni (AEA) sono un gruppo eterogeneo di affezioni relativamente rare causate da autoanticorpi reattivi contro le emazie autologhe, con una incidenza stimata negli adulti di 0.8-3 x105/anno, una prevalenza di 17:100.000 ed una mortalità dell’ 11% [1,2]. Possono essere idiopatiche (50%) o secondarie a sindromi linfoproliferative (20%), malattie autoimmuni (20%), infezioni e tumori [3]. La AEA è molto rara nell’infanzia e fanciullezza (0.2 x 105/anno) [4], ove è primaria nel 37% ed associata a disordini immunitari nel 53% dei casi; la mortalità è minore nei bambini (4%), ma sale al 10% se l’anemia emolitica si accompagna a trombocitopenia immune (Sindrome di Evans) [5]. Le AEA vengono classificate, in base alle proprietà termiche dell’autoanticorpo, come “calde”, “fredde” [che comprendono la sindrome da agglutinine fredde e la emoglobinuria parossistica a frigore] o “miste”. La diagnosi è usualmente semplice, basata sulla presenza di anemia emolitica e sulla evidenza sierologica di autoanticorpi eritrocitari identificabili mediante il test dell’antiglobulina diretto (TAD). Nella AEA “calde”, il TAD è tipicamente positivo con antisieri anti-IgG (ed anti C3d in alcuni casi). Le forme “fredde” sono usualmente dovute ad IgM, ed il TAD è positivo per il C3d, poichè gli anticorpi IgM alla temperatura di 37°C spesso si distaccano dagli eritrociti o vi permangono adesi in minima quantità. È importante ricordare che il TAD può dare falsi risultati negativi dovuti ad autoanticorpi IgA (non evidenziabili dalla maggior parte dei reagenti polispecifici routinari), ad IgG a bassa affinità, o ad IgG adese alle emazie in quantità inferiori alla soglia di sensibilità del test. Nelle prime due condizioni, l’uso di antisieri monospecifici anti-IgA e soluzioni a bassa forza ionica o lavaggi a freddo possono positivizzare il TAD; piccole quantità di IgG adese agli eritrociti possono essere evidenziate impiegando tecniche più sensibili del tradizionale test in provetta, quali il TAD in microcolonna, fase solida, ELISA, citofluorimetria, e in cultura con stimolazione mitogenica (MS-DAT) [6]. Infine, ci sono rari casi di AEA causate da IgM “caldi” che possono richiedere test speciali (Dual Direct Antiglobulin Test) [7] per essere diagnosticate, e che sono caratterizzate da emolisi più grave ed elevata mortalità. Non ostante i numerosi test oggi disponibili, circa il 10% delle AEA risultano TAD-negative, e la diagnosi viene fatta per esclusione di altre cause di emolisi e sulla risposta clinica alla terapia. Queste forme “atipiche”, identificate con crescente frequenza sia nei bambini che negli adulti, possono rappresentare un problema diagnostico critico e causare ritardi terapeutici [1,8,9]. L’AEA può svilupparsi gradualmente, con concomitante compenso fisiologico, o presentare un esordio fulminante con anemizzazione estrema. Le manifestazioni cliniche sono determinate dalla presenza o meno di una patologia sottostante e di co-morbidità, nonché dalla entità e dal tipo di emolisi le quali dipendono principalmente dalle caratteristiche dell’autoanticorpo. In particolare, le forme da autoanticorpi IgM caldi presentano una emolisi più grave ed una più elevate mortalità (sino al 22%) rispetto a tutti gli altri tipi di AEA [8]. Merita di essere ricordato inoltre che il grado di anemia dipende anche dalla efficacia della risposta eritroblastica: infatti i pazienti con reticolocitopenia, rilevabile nel 20% degli adulti [10] e nel 39% dei bambini [5], può richiedere un supporto trasfusionale molto elevato e rappresentare una vera emergenza medica [11]. Il trattamento della AEA è ancora oggi basato sulla esperienza anziché sulla “evidenza”, essendoci un solo studio randomizzato [12] e pochi trials prospettici di fase 2 [13-17]. Considereremo brevemente le attualità e le prospettive terapeutiche di queste affezioni, con particolare attenzione ai pazienti con AEA idiopatica refrattaria alla terapia tradizionale. 2 AEA DA AUTOANTICORPI CALDI Il trattamento tradizionale delle AEA calde include corticosteroidi, splenectomia e farmaci immunosoppressori convenzionali. Negli ultimi anni, alcune nuove terapie si sono rese disponibili e si sono dimostrate efficaci. Queste sono primariamente usate in pazienti che non possono essere candidati alla splenectomia, che non rispondono o recidivano dopo l’intervento, ed in coloro che necessitano di dosi di steroide eccessivamente alte per mantenere adeguati livelli emoglobinici. Terapia di prima linea Corticosteroidi C’è uniforme accordo che i corticosteroidi rappresentino il trattamento di prima linea per i pazienti con AEA da autoanticorpi caldi, sebbene il loro uso sia basato sulla esperienza anziché sull’evidenza, in quanto l’informazione disponibile in letteratura sulla loro efficacia è limitata e non supportata da trials clinici [1,18,19]. I corticosteroidi, usualmente il prednisone, vengono somministrati alle dosi iniziali di 1.0-1.5 mg/kg/die per 1-3 settimane sino a stabilizzare l’emoglobina sopra i 10 g/dL; la risposta avviene soprattutto durante la seconda settimana e, se non si registra nessuno o solo un minimo miglioramento nella terza settimana, si assume che questa terapia sia inefficace. Dopo stabilizzazione dell’emoglobina, il cortisone dovrebbe essere gradualmente e lentamente ridotto di 10-15 mg alla settimana sino al raggiungimento di una dose giornaliera di 20-30 mg, poi di 5 mg ogni 1-2 settimane sino alla dose di 15 mg, e successivamente di 2.5 mg ogni 2 settimane con l’obiettivo di giungere alla sospensione del farmaco.. Sebbene si sia tentati di discontinuare il trattamento steroideo più rapidamente, i pazienti con AEA dovrebbero essere trattati per un minimo di 3 o 4 mesi con basse dosi di prednisone (<10 mg/die) [1]; di fatto c’è evidenza che i pazienti che ricevono basse dosi di corticosteroidi per più di 6 mesi hanno una minore incidenza di ricadute ed una maggior durata di remissione di quelli che sospendono il farmaco prima di tale termine [20]. Inoltre, l’inizio precoce della terapia steroidea correla con una minore probabilità di recidiva [18]. E’ utile ricordare che i pazienti con AEA in terapia steroidea prolungata dovrebbero essere trattati con bifosfonati, vitamina D, calcio ed acido folico [2]. Pazienti con emolisi particolarmente acuta ed anemia molto grave, o casi complessi come la sindrome di Evans, possono richiedere la somministrazione di metilprednisolone a 100-200 mg/die per 10-14 giorni o 250-1000 mg/die per 1-3 giorni, sebbene la terapia steroidea ad alte dosi nella AEA sia stata descritta essenzialmente in case reports [21, 22]. La terapia steroidea di prima linea è usualmente efficace nel 70-85% dei casi; tuttavia, solo un terzo di essi rimane in remissione a lungo termine dopo la sospensione del farmaco, un ulteriore 50% richiede dosi di mantenimento, e circa il 20-30% ulteriori terapie di seconda linea. Non è noto quanti pazienti adulti vengano guariti dalla sola terapia steroidea, ma si stima che ciò accada in meno del 20% dei casi [2]. E’ doveroso ricordare che I pazienti che non rispondono alla terapia di prima linea devono essere rivalutati dal punto di vista diagnostico per una possibile malattia sottostante, poiché AEA associate a neoplasie maligne, a colite ulcerosa, a teratomi ovarici benigni, o forme da autoanticorpi IgM caldi sono spesso refrattarie allo steroide [2]. Terapia di seconda linea Una volta presa la decisione di iniziare un trattamento di seconda linea ci sono varie opzioni, ancorché la splenectomia ed il rituximab siano i soli trattamenti di seconda linea con una comprovata efficacia a breve termine [2]. Splenectomia La splenectomia è comunemente ritenuta essere il più efficace trattamento convenzionale di seconda linea da proporre ai pazienti con AEA da autoanticorpi caldi che non rispondono o sono intolleranti ai corticosteroidi o che richiedono una dose di prednisone di mantenimento superiore a 10 mg/die, ed a coloro con molteplici recidive [2]. Tuttavia, la sua efficacia non è mai stata confrontata con quella di altri approcci di seconda linea, e non sono disponibili dati convincenti sulla durata della remissione dopo splenectomia [1]. I fattori in favore della splenectomia come migliore terapia di seconda linea includono la rapidità nonché la buona percentuale di risposta iniziale, una remissione parziale o completa ottenendosi infatti in circa i 2/3 dei casi (3882% in funzione della percentuale di forme secondarie che sembrano meno responsive di quelle idiopatiche [23]). Inoltre, un numero sostanziale di pazienti rimane in remissione per anni senza trattamento farmacologico, con una percentuale di guarigione che presumibilmente raggiunge il 20% [2,24,25]. E’ utile ricordare che anche i pazienti con emolisi persistente o ricorrente dopo splenectomia spesso richiedono dosi di steroide minori rispetto a prima dell’intervento [2]. Un inconveniente della splenectomia è la mancanza di affidabili predittori di esito, la sua efficacia non essendo correlata alla durata della malattia, alla risposta agli steroidi né all’entità del sequestro splenico [26]. Inoltre, la splenectomia può essere associata a complicanze chirurgiche (quali embolia polmonare, sanguinamento intraaddominale, ascessi addominali, ematomi della parete addominale), sebbene l’intervento per via laparoscopica abbia ridotto il rischio chirurgico rispetto alla tecnica convenzionale (0.5-1.6% vs 6%) [27]. La più temibile complicanza della splenectomia è rappresentata dalla sepsi da batteri incapsulati, con un rischio del 3.3%-5% ed una mortalità sino al 50% [28,29], anche dopo la introduzione della vaccinazione preoperatoria anti-pneumococchi, meningococchi ed hemophilus. Il ruolo e l’efficacia della profilassi antibiotica al riguardo rimangono non chiariti, e non tutti i clinici la raccomandano [1,30]. Infine, rischi addizionali minimi ma non marginali includono il tromboembolismo e la ipertensione polmonare [31,32]. La frequenza della splenectomia negli adulti non è nota [2]; in una ampia serie pediatrica di 256 AEA (99 dei quali con sindrome di Evans) l’intervento chirurgico era stato effettuato nel 13.9% dei casi [5]. Va ricordato che sebbene l’incidenza delle infezioni sia simile nei bambini e negli adulti, la mortalità sembra essere più elevata nei primi (1.7% vs 1.3%) [28]. Rituximab Il rituximab, anticorpo monoclonale diretto contro l’antigene CD20 espresso sulle cellule B, è stato ampiamente utilizzato con successo nel trattamento delle AEA alla dose standard di 375 mg/mL alla settimana per 4 settimane, sebbene i risultati dei vari studi siano difficilmente confrontabili in assenza di comuni criteri di risposta. Recenti revisioni [33,34] ne attestano l’efficacia sia nelle AEA calde che nella sindrome da agglutinine fredde, con una risposta complessiva (OR) mediana ed una percentuale di risposte complete (CR) maggiore nelle prime (OR 83-87%, CR 54-60% vs OR 58%, CR 4.5%) ed una sopravvivenza libera da malattia del 72% ad un anno e 56% a due anni [35]. Il rituximab si è dimostrato efficace sia nelle AEA idiopatiche che secondarie, incluse quelle associate a malattie autoimmuni, linfoproliferative ed a trapianto di midollo 3 [33,34,36-39]. Le risposte al trattamento sono indipendenti da precedenti terapie [36,37] ed Il tempo alla risposta varia considerevolmente, alcuni pazienti rispondendo molto rapidamente ed altri impiegando settimane o perfino mesi per raggiungere la risposta massima [37,40]; in un recente studio retrospettivo multicentrico il tempo alla risposta era di 1 mese dall’inizio del trattamento nell’87.5% e 3 mesi nel 12.5% dei pazienti [41]. E’ importante ricordare che il ritrattamento con rituximab è usualmente efficace [37,41,42], anche se ripetuto più volte [36,37]. Una remissione durevole a distanza di cinque anni dal terzo trattamento con rituximab è stata recentemente segnalata [43]. Il rituximab si è anche dimostrato efficace nella sindrome di Evans, con una OR dell’ 83% (66% CR) [44]; la risposta è anche maggiore (sino al 94%) considerando le più recenti e numerose serie [34]. Il trattamento è efficace anche nei bambini [45], e nella sindrome di Evans secondaria a malattie linfoproliferative o ad altri disordini dell’ autoimmunità [46,47]. Una recente meta analisi di 21 studi sull’uso del rituximab nelle AEA ne ha confermato l’efficacia e la sicurezza [48]. Il trattamento con rituximab è ben tollerato e nella maggioranza dei casi non sono riportati eventi avversi, esclusi quelli correlati alla infusione [37,42,49]. Il farmaco ha un ben consolidato profilo di sicurezza (eventi infettivi in circa il 7%), sebbene siano stati riportati rari casi di encefalopatia progressiva multifocale, per lo più in condizioni oncoematologiche, riattivazioni dell’epatite B ed altre infezioni virali [33,34]. Per prevenire la riattivazione dell’epatite B sia dopo rituximab che dopo terapia steroidea prolungata si raccomanda oggi la profilassi antivirale [50]. Nel tentativo di minimizzare gli effetti collaterali e di ridurre i costi, il rituximab è stato utilizzato con efficacia a basse dosi (100 mg dose fissa/settimana per 4 settimane) in alcuni pazienti con AEA refrattari al trattamento steroideo convenzionale, in monoterapia [51] o in combinazione con alemtuzumab [15]. In un più recente studio prospettico di fase 2 il rituximab a bassa dose associato a prednisone come terapia di prima o seconda linea si è dimostrato capace di indurre una risposta complessiva dell’ 89% (risposta completa 67%) [16] con il 68% di sopravvivenza libera da malattia a 36 mesi ed un consistente risparmio di steroide [17]. Infine, un recente studio randomizzato di fase 3 ha mostrato che ~70% dei pazienti trattati in prima linea con glucocorticoidi e rituximab erano ancora in remissione a 36 mesi, a confronto del ~45% di quelli trattati con soli steroidi [12]. Se confermate, tali osservazioni suggerirebbero un uso più precoce di questo farmaco nello scenario terapeutico della AEA. E’ utile infine segnalare che un recente studio retrospettivo multicentrico ha dimostrato che la associazione di rituximab con bendamustina ha consentito di ottenere una risposta complessiva dell’ 81% in 26 pazienti con AEA associata a leucemia linfatica cronica [52]. Farmaci Immunosoppressori Prima della introduzione del rituximab nella terapia delle AEA, l’azatioprina (100-150 mg/die) e la ciclofosfamide (100 mg/die) erano spesso utilizzate come trattamento di seconda linea in base alla “buona” risposta (40%-60% dei casi) desunta dalla letteratura iniziale, sebbene una successiva analisi critica avesse dimostrato una verosimile efficacia in meno di 1/3 dei pazienti [1,2]. La ciclosporina A è stata usata con successo in un limitato numero di pazienti [1,24]: in particolare, una terapia prolungata con ciclosporina ha indotto remissione completa in 3 su 4 pazienti con grave AEA da autoanticorpi caldi refrattari a precedenti trattamenti [53]. In associazione con prednisone e danazolo, la ciclosporina si è dimostrata inoltre capace di migliorare la percentuale di risposte complete in 18 casi di AEA calde confrontati con 26 casi trattati con solo prednisone e danazolo (89% vs 58%), e di ridurre le recidive [54,55]. I dati sull’uso del micofenolato mofetile in pazienti con AEA calda refrattaria sono limitati: remissione complete e buone risposte parziali sono state riportate in tutti i casi adulti trattati (9 forme idiopatiche e 2 secondarie a lupus eritematoso sistemico) [56-59]. Il farmaco si è dimostrato efficace nelle citopenie immuni refrattarie (9 AEA) nei bambini con sindrome linfoproliferativa autoimmune, dei quali 12/13 hanno risposto con la cessazione di altri farmaci immunosoppressori o con una netta riduzione del loro dosaggio [60]; il trattamento è stato ben tollerato in tutti i pazienti. E’ stato suggerito che questo farmaco potesse essere incluso nell’arsenale terapeutico delle citopenie immune refrattarie, come opzione di risparmio di steroide [25]. Recentemente, il micofenolato mofetile è stato anche usato con successo in associazione col rituximab in un caso di AEA refrattaria post-trapianto ematopoietico [61]. Altre opzioni Il danazolo, steroide anabolizzante sintetico con lievi proprietà androgene, è stato utilizzato con successo in 28 pazienti con AEA in concomitanza o in successione agli steroidi, dimostrando però minor efficacia nelle forme refrattarie o recidive delle quali solo il 43% raggiungevano la remissione completa [62]. In un’altra serie di 17 casi trattati con danazolo più prednisone, una ottima risposta veniva ottenuta in terapia di prima linea (8/10), mentre il trattamento era meno efficace (3/7) nei pazienti recidivati o refrattari [63]. Al contrario, un più recente studio retrospettivo ha evidenziato che l’aggiunta del danazolo allo steroide non dava sostanziali vantaggi né in termini di risposta che di durata del trattamento [64]. Le immunoglobuline e.v. (IVIG) sono frequentemente usate nelle AEA, da sole o in combinazione con prednisone [65] ed in particolare nei bambini, probabilmente a causa della loro comprovata efficacia nella trombocitopenia autoimmune idiopatica, e per la relativa bassa incidenza di effetti collaterali in confronto ad altre opzioni terapeutiche; tuttavia il loro uso è controverso soprattutto per la esiguità delle casistiche riportate [1,24]. Una buona risposta è stata ottenuta in 5 pazienti con AIHA calde ricorrenti associate a CLL [66], il recupero dei livelli di emoglobina essendo più rapido associando al prednisone alte dosi di IVIG. In uno studio retrospettivo di 73 pazienti [67], si osservava una risposta nel 40% dei casi, ma solo il 15% raggiungevano valori di emoglobina > 10 g/dL; la risposta era maggiore nei bambini (54%). In recenti linee guida l’uso delle IVIG nel trattamento delle in AEA non viene raccomandato, ammettendone l’uso in circostanze di particolare criticità [68]. Il plasma exchange è stato utilizzato come misura ”temporizzatrice” in un numero relativamente limitato di pazienti con AEA calda grave, bambini e adulti, nei quali l’anemia non poteva essere stabilizzata con la sola terapia steroidea e trasfusionale [1]. Gli effetti favorevoli, se presenti, sono solitamente di breve durata; la concomitante terapia con corticosteroidi e farmaci immunosoppressori rende peraltro spesso difficile definire il contributo di questa procedura all’esito clinico. McLeod e coll [69] hanno riesaminato 17 casi di AEA calde trattate con plasma exchange concludendo che la procedura sembrava stabilizzare la malattia ed aumentare la efficienza della trasfusione di sangue solo nei casi con emolisi fulminante, ma non in altri pazienti acuti. Uno studio retrospettivo monocentrico casocontrollo non ha dimostrato che il plasma exchange aumenti 4 l’efficienza della trasfusione di emazie nelle AEA gravi [70]. In un riassunto delle attuali categorie di indicazione approvato dalla American Association of Blood Banks e dalla American Society for Apheresis, il plasma exchange per le AEA viene considerato come una indicazione di categoria III (“heroic or last–ditch effort on behalf of a patient”) [71]. Trattamenti di “ultima scelta” La ciclofosfamide ad alte dosi (50 mg/kg/die per 4 giorni) seguita da fattore di crescita granulocitario si è dimostrata efficace nell’ottenere la remissione completa in 5/8 pazienti con AEA calda altamente refrattaria [72]. Più recentemente, è stato riportato che il trattamento con ciclofosfamide 1 g/mese per quattro mesi consecutivi ha indotto una risposta completa in 8/17 e parziale in 9/17 pazienti con AEA refrattaria a più linee terapeutiche [73]. L’alemtuzumab, anticorpo monoclonale umanizzato anti-CD52, è risultato efficace in una piccola serie di pazienti affetti da AEA idiopatica refrattaria, con remissione completa in 13/16, inclusi 3 casi pediatrici [25,74,75]; tuttavia, per la sua elevata tossicità, è considerato una opzione di ultima scelta nei casi di AEA idiopatica grave non rispondente a nessun altro trattamento [2]. L’alemtuzumab è risultato efficace in 11/12 casi di AEA secondaria a leucemia linfatica cronica (LLC) e refrattaria a corticosteroidi, splenectomia e rituximab, suggerendo che il suo uso potrebbe essere considerato anche prima del rituximab nelle AEA calde associate a LLC in progressione [24,76,77,78]. L’ofatumumab, anticorpo monoclonale diretto contro un epitopo del CD20 diverso da quello del rituximab, è stato recentemente usato con successo in un caso di AEA calda associata a LLC refrattaria al rituximab [79]. Trapianto di cellule staminali eritropoietiche Le Informazioni sul trapianto di cellule staminali eritropoietiche nelle AEA calde è limitata a singoli casi o a piccole serie, più frequentemente sindromi di Evans [1,80,81], con quote di remissione completa di circa il 60% nel trapianto allogenico el 50% nell’autologo. L’analisi dei dati di 36 pazienti con citopenie refrattarie (di cui 7 AEA e 7 sindromi di Evans) incluse nel Registry of the European Group of Blood and Marrow Transplantation ha evidenziato una remissione continua in 1/7 trapianti autologi e in 3/7 allogenici, con una mortalità correlata al trapianto di circa il 15% [81,82]. Terapia di supporto I pazienti con AEA possono necessitare la trasfusione di eritrociti concentrati per mantenere valori accettabili di emoglobina, fintantoché trattamenti più specifici manifestino la loro efficacia. La decisione di trasfondere dovrebbe dipendere non tanto dai livelli emoglobinici quanto dalle condizioni cliniche del paziente, dalla presenza di eventuali comorbidità (in particolare malattie ischemiche cardiache o pneumopatie gravi), dalla acutezza dell’esordio, dalla rapidità di progressione dell’anemia, dalla presenza di emoglobinuria o emoglobinemia o di altri segni di emolisi grave [1]. La trasfusione di sangue non dovrebbe mai essere negata a pazienti in condizioni cliniche critiche non ostante la incompatibilità sierologica poiché gli autoanticorpi caldi sono frequentemente panreattivi. Concentrati eritrocitari ABO- ed RhDcompatibili possono comunque essere trasfusi in sicurezza in casi urgenti qualora la presenza di alloanticorpi (riscontrabili nel 12%40% delle AEA [1]) possa essere ragionevolmente esclusa sulla base della pregressa storia trasfusionale e gravidica [83]. Nei casi meno urgenti è consigliabile la esecuzione di una fenotipizzazione estesa e la selezione di unità eritrocitarie fenotipicamente compatibili per la trasfusione [84]. In alcuni pazienti, al fine di escludere la concomitante presenza di alloanticorpi possono rendersi necessarie procedure più complesse, quali l’autoassorbimento a caldo o l’assorbimento allogenico [1]. La presenza di alloanticorpi non rilevati può essere la causa di una accentuazione della emolisi a seguito della trasfusione di emazie, che può essere erroneamente attribuita ad una esacerbazione della malattia [1]. Nel caso la specificità dell’autoanticorpo sia ben definita (più frequentemente nell’ambito del sistema Rh), è ancora dibattuto se sia preferibile ignorarla o rispettarla nella selezione delle unità da trasfondere, in quanto il secondo approccio implicherebbe la somministrazione di emazie contenenti antigeni che il paziente non possiede con rischio di immunizzazione. Alcuni autori raccomandano di ignorare la specificità dell’autoanticorpo in quanto non sarebbe convincentemente comprovato che la trasfusione di emazie antigene-negative risulti in una aumentata sopravvivenza eritrocitaria [85]; inoltre, alcuni dati suggeriscono che i pazienti con AEA avrebbero una aumentata propensità a sviluppare alloanticorpi eritrocitari a seguito della trasfusione di emazie [1]. Ignorare la specificità dell’autoanticorpo si è comunque dimostrato essere un approccio sicuro ed efficace in un elevatissimo numero di trasfusioni [86,87]. In ogni caso, la trasfusione di emazie “meno incompatibili” si è dimostrata essere efficace e sicura in una ampia serie di pazienti con AEA [88]. Al fine di minimizzare i rischi di reazioni febbrili non emolitiche dovute ad anticorpi anti-leucocitari, nei pazienti con AEA vengono oggi usualmente trasfuse emazie leucodeplete. Quanto al volume da trasfondere, è opportuno ricordare che la ipertrasfusione dovrebbe essere evitata sia per ragioni emodinamiche, in particolare nei pazienti anziani, sia per la comparsa di emoglobinemia ed emoglobinuria frequentemente non dovuta a alloimmunizzazione (come spesso si è portati a pensare) ma piuttosto all’aumento della massa totale di emazie passibili di distruzione. Non solo si dovrebbe limitare la quantità di eritrociti da trasfondere, ma questi dovrebbero anche essere infusi lentamente, possibilmente senza eccedere 1 mL/kg/h [1]. E’ inoltre utile ricordare che gli inibitori della C1-esterasi potrebbero avere un potenziale terapeutico nel controllo della emolisi complemento-indotta delle emazie trasfuse in pazienti con AEA [89]. Infine, la somministrazione di eritropoietina si è dimostrata efficace in pazienti con AEA refrattaria, soprattutto in presenza di reticolocitopenia [90-92]. Il meccanismo con cui gli agenti stimolatori dell’eritropoiesi migliorano l’emolisi nella AEA non è ancora completamente chiarito;: oltre ad aumentare la produzione di eritrociti e a prolungarne la sopravvivenza, essi sembrerebbero anche inibirne la morte programmata (eriptosi) [92]. AEA DA AUTOANTICORPI FREDDI La decisione di trattare un paziente con sindrome da agglutinine fredde (Cold Agglutinin Disease, CAD) dovrebbe essere riservata ai casi con anemia sintomatica, trasfusionedipendenti e/o con sintomi circolatori invalidanti. Infatti, forme asintomatiche di CAD non gravi possono richiedere solo protezione dal freddo, e supporto trasfusionale occasionale durante l’inverno [1,93,94]. La trasfusione di globuli rossi può essere effettuata senza rischi nella CAD, a condizione di osservare appropriate precauzioni; in particolare, il paziente e le estremità scelte per la trasfusione dovrebbero essere tenute al caldo ed è raccomandato l’uso di riscaldatori sulla linea di infusione. Va inoltre evitata la somministrazione di liquidi freddi e di prodotti emoderivati ad alto contenuto plasmatico [1,94,95]. In una recente analisi retrospettiva di 89 patients, il 40% avrebbero ricevuto trasfusioni nel corso della loro malattia, e l’ 82% una terapia farmacologica [94]. 5 Per quanto riguarda la terapia di prima linea, la risposta agli steroidi non è mai stata supportata da studi sistematici ed il loro uso è ancora controverso, essendo efficaci in una piccola frazione dei casi (14-35%) e richiedendo dosi di mantenimento inaccettabilmente elevate [1,93,94,96,97]. Pertanto questo trattamento, sebbene ancora ampiamente usato nella pratica clinica, è attualmente scoraggiato. Per quanto concerne i farmaci citotossici immunosoppressori, la monoterapia con clorambucil o ciclofosfamide si è dimostrata di qualche beneficio in piccole serie (16% dei casi) [1,97,98], mentre risposte non convincenti si sono ottenute nei pochi pazienti trattati con azatioprina [97,99] ed interferone-α o basse dosi di cladribina [100]. La splenectomia è usualmente inefficace [1,94], la clearance degli eritrociti opsonizzati con C3b avvenendo primariamente nel fegato, ancorché si sia dimostrata occasionalmente efficace in rari casi di CAD IgG-mediata. Infine, l’uso della eritropoietina, ampiamente impiegata negli USA ma non così spesso in Europa, non è ancora sostenuto da prove di efficacia basate sull’evidenza [94]. La disponibilità del rituximab negli ultimi 10-15 anni ha sostanzialmente cambiato la terapia della CAD, essendo questo farmaco diretto contro il clone patogenetico di cellule B, evidenziabile nella maggior parte dei pazienti mediante tecniche citofluorimetriche e/o immunoistochimiche [94,97,101]. Numerosi case reports e alcuni studi prospettici non controllati hanno dimostrato che il farmaco è efficace a dose standard in circa il 60% dei pazienti con una durata di risposta di circa 1 anno [13,14,33,34]; il tempo mediano di risposta è di 1-2 mesi, e l’efficacia si riconferma anche dopo più ritrattamenti nei casi recidivati. Il rituximab è ora raccomandato come terapia di prima linea della CAD [93], ancorché le remissioni complete e prolungate siano rare [101]. L’associazione di rituximab con fludarabina orale (40 mg/m2 nei giorni 1–5) aumenta sia la percentuale di risposta (76% dei casi) che la sua durata (mediana 6.5 anni) [102]; poiché tuttavia la tossicità ematologica e le complicanze infettive sono comuni, questo regime è suggerito nei casi refrattari ad 1-2 cicli di rituximab [94]. In una più recente analisi retrospettiva di 89 pazienti la durata di risposta mediana al rituximab è risultata essere di 2 anni [101]. La plasmaferesi può essere efficace nelle crisi emolitiche acute e prima di interventi chirurgici richiedenti ipotermia [103,104], sebbene il suo effetto sia temporaneo. Per quanto riguarda i nuovi approcci sperimentali, effetti positivi sono stati ottenuti con bortezomid, un inibitore del proteasoma 26S, in due casi di AEA IgM-mediata [105], e più recentemente in una grave AEA post-trapianto allogenico [106]. Merita inoltre di essere menzionato il possibile utilizzo degli inibitori del complemento nel trattamento delle forme gravi di AEA complemento-mediate: questo approccio potrebbe contribuire non solo ad arrestare o rallentare l’emolisi, e quindi a migliorare la sopravvivenza dei globuli rossi, ma anche a limitare i possibili effetti proinfiammatori dei prodotti di attivazione del complemento. Due casi sono stati efficacemente trattati con l’eculizumab, anticorpo monoclonale anti-C5 il cui uso è autorizzato nel trattamento della emoglobinuria parossistica notturna [107, 108]. In una serie più recente l’eculizumab è stato utilizzato in due pazienti refrattari a 5 linee di trattamento inducendo remissione clinica in uno di essi, ancorchè il contributo dei singoli farmaci fosse difficile da stabilire [91]. Queste osservazioni necessitano tuttavia di conferma in trials prospettici. Va infine ricordato che un altro anticorpo, il TNT003 inibitore della serina protease C1s , si è dimostrato efficace nel prevenire l’emolisi in vitro indotta da autoanticorpi di un paziente affetto da CAD [109]. Non esiste terapia basata sull’evidenza per la CAD secondaria a malattie neoplastiche o infettive. Generalmente, il trattamento della malattia di base si accompagna alla risoluzione dell’emolisi, soprattutto nelle patologie linfoproliferative e nella polmonite da mycoplasma [1, 95]. La associazione con terapia corticosteroiea è ancora dibattuta, in particolare nella CAD secondaria ad infezioni [1,15, 95]. Il loro uso è suggerito nelle forme più gravi o nel caso di mancato miglioramento spontaneo entro pochi giorni. La emoglobinuria parossistica a frigore (PCH) è caratterizzata da emolisi intravascolare acuta mediata dalla emolisina bifasica di Donath–Landsteiner, che si lega agli eritrociti a bassa temperatura e provoca emolisi a 37°C; gli autoanticorpi sono quasi sempre IgG tranne rare eccezioni [110], e sono diretti contro antigeni del sistema gruppo-ematico P. In passato, la PCH era prevalentemente associata alla sifilde, mentre oggi insorge comunemente a seguito di infezioni virali e batteriche, inclusa la polmonite da mycoplasma [1]. La PCH è usualmente una malattia a risoluzione spontanea, sebbene siano stati riportati casi mortali [111]; i pochi casi gravi possono richiedere trasfusioni e trattamento steroideo, la cui efficacia è difficilmente valutabile per la natura transitoria dell’emolisi [1]. L’eculizumab è stato riportato essere inefficace in un caso di PCH refrattario agli steroidi associato a mieloma [112]. AEA DA AUTOANTICORPI MISTI Circa il 7-8% delle anemie emolitiche autoimmuni presentano le caratteristiche sierologiche della AEA da autoanticorpi caldi in associazione alle tipiche caratteristiche sierologiche della CAD (autoanticorpi freddi ad alto titolo con elevata ampiezza termica), e sono pertanto classificate come forme miste [1, 113]. Cautela deve essere posta nella diagnosi di tali forme, spesso effettuata sulla base di studi sierologici inadeguati [114], e si tende oggi a ritenere che le AEA miste siano meno frequenti di quanto ritenuto in passato [115]; Petz e coll. [1] hanno riportato che il 35% dei pazienti con AEA calde hanno agglutinine fredde reattive a 20 °C, che sono tuttavia clinicamente insignificanti nella maggior parte dei casi (solo il 5% reagivano a 37 °C). I pazienti con AEA miste sembrerebbero avere un esordio più grave rispetto alle altre forme sierologiche e necessitare di più linee terapeutiche, incluse splenectomia, immunosoppressori e rituximab [91]. GRAVITA CLINICA ALL’ESORDIO, TIPO SIEROLOGICO E RISPOSTA ALLA TERAPIA Prima di concludere, sembra utile citare il recente studio del gruppo cooperativo italiano GIMEMA [91], che ha retrospettivamente analizzato la maggiore casistica di AEA sino ad ora riportata in letteratura, perché fornisce uno spaccato realistico delle caratteristiche sierologiche, cliniche e della risposta al trattamento di queste patologie. Dei 308 casi di AEA idiopatica seguiti per un periodo mediano di 33 mesi (range 12372), il 60% erano calde, il 27% CAD, l’8% miste ed il 5% atipiche. Le ultime due categorie presentavano comunemente un esordio più grave (livelli di emoglobina < 6 g/dL, frequente reticolocitopenia). Una consistente parte dei pazienti con AEA da autoanticorpi caldi avevano ricevuto solo terapia steroidea di prima linea, mentre i pazienti con forme miste ed atipiche spesso necessitavano di più linee terapeutiche, incluse splenectomia, immunosoppressori e rituximab. L’incidenza cumulativa delle recidive era più elevata nei casi più gravi (hazard ratio 3.08; 95% CI, 1.44-6.57 per livelli di Hb <6 g/dL; p<.001). Gli eventi trombotici erano associati con livelli di Hb <6 g/dL all’esordio. Predittori di esito fatale erano le infezioni gravi, particolarmente 6 nei pazienti splenectomizzati, l’insufficienza renale acuta, la sindrome di Evans, ed il pluritrattamento (4 o più linee terapeutiche). E’ opportuno rammentare che, come sottolineato in una recente revisione di casi di AEA particolarmente critici [116], la pronta identificazione delle forme potenzialmente più gravi e letali all’interno di una patologia assai eterogenea richiede particolare attenzione ed esperienza ed è essenziale ai fini dell’esito clinico. CONCLUSIONI L’arsenale terapeutico oggi disponibile per le AIHA refrattarie allo steroide è certamente più ampio che nel passato; tuttavia, non sono ancora stati effettuati trials clinici controllati che possano guidare la scelta del trattamento [26]. È opinione corrente che la sequenza della terapia di seconda linea delle AIHA calde dovrebbe essere la splenectomia, il rituximab e quindi gli altri farmaci immunosoppressivi, la scelta delle terapie di seconda linea essendo comunque dipendente dalla esperienza personale del medico, dalla età e dalle eventuali comorbidità del paziente, e dalle sue preferenze [2,26]. Tuttavia, nella pratica clinica il rituximab viene usato sempre più spesso prima della splenectomia, particolarmente nei casi più gravi e nei bambini di età <5-6 years (www.AIEOP.org, Raccomandazioni per la gestione dell’ AIHA nel bambino). L’algoritmo terapeutico delle AIHA calde adottato nella nostra istituzione viene illustrato nella Figura 1. Con l’evoluzione dell’esperienza con rituximab ed una più precisa definizione delle dosi ottimali e della durata del trattamento, è verosimile che l’uso di questo farmaco venga posizionato più precocemente nella linea terapeutica, prima dei più tossici immunosoppressori ed in luogo della splenectomia in alcuni casi, o addirittura in prima linea [117]. Per quanto riguarda la CAD, il rituximab è ora raccomandato come terapia di prima linea. E’ verosimile che gli inibitori del complemento possano avere un ruolo nel controllo della emolisi grave complemento-mediata [118]. Figura 1. Algoritmo terapeutico per le AEA da autoanticorpi caldi nell’adulto. Abbreviazioni usate: RS, risposta sostenuta, definita come mantenimento nel tempo di livelli di Hb >10 g/dL; NR, non risposta; AZA, azatioprina; CyA, ciclosporinaA; CTX, ciclofosfamide MMF, micofenolato mofetile; PEX, plasma exchange; IVIG, immunoglobulin e-v. 7 BIBLIOGRAFIA [1] [2] [3] [4] [5] [6] [7] [8] [9] [10] [11] [12] [13] [14] [15] [16] [17] [18] [19] Petz LD, Garratty G. Immune Hemolytic Anemias. 2nd ed. Philadelphia: Churchill Livingstone; 2004. Lechner K, U Jager U. How I treat autoimmune hemolytic anemias in adults. Blood 2010;16:1831-1838. Valent P, Lechner K. Diagnosis and treatment of autoimmune haemolytic anaemias in adults: a clinical review. Wien Klin Wochenschr. 2008; 120:136-151. Silberstein LE, Cunningham MJ. Autoimmune Hemolytic Anemias. In: Hillyer CD, Silberstein LE, Ness PM, Anderson KC, Roback JD (eds): Blood Banking and Transfusion Medicine. Basic Principles and Practice. 2nd ed. Philadelphia: Churchill Livingstone, 2007. 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