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Vol. 1 - Anno 2012 - Numero 1
ISSN: 2240-7863
Verona, 05/01/2012
Damiano Bondi
L’esperienza impura
Intervento di risposta a Roberta De Monticelli
Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona – Italy Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione? Fogli Campostrini L’ESPERIENZA IMPURA INTERVENTO DI RISPOSTA A ROBERTA DE MONTICELLI Damiano Bondi “Quale esperienza?”. La domanda che dà il titolo al nostro convegno, e alla pubblicazione
degli Atti che meritevolmente ne seguono, è tanto interessante quanto paradossale: in
effetti, se vi fosse davvero un’esperienza autentica, “pura”, del divino, che senso avrebbe
chiedersi quale questa sia? Chiedersi quale sia non presuppone forse il ruolo essenziale di
una “mediazione” filosofico-concettuale che denoterebbe l’esperienza stessa? Ma
quest’ultima, allora, sarebbe sempre (soltanto) esperienza?
Tale dilemma riflette, in fondo, il dramma stesso dell’esistenza umana, tesa tra
l’attestazione di una realtà e l’attesa di un senso compiuto per essa. Tra il già e il non
ancora, nell’«hic et nunc su cui la nostra speranza si fonda», come ha scritto Denis de
Rougemont1. Un fondamento, dunque, che pur nella sua natura esperienziale si connota
sempre come “simbolico”, allusivo, mai “puro”, sempre disvelante e velante al tempo
stesso: in definitiva, un presupposto che richiede una “speranza”, una scommessa.
Ovvero una fede.
Si tratta allora, come scrisse Paul Ricoeur, di «esplicitare tali presupposti, enunciarli come
credenza, elaborare la credenza come scommessa e tentare di recuperare la scommessa
nella comprensione»2. Questo, secondo me, è il compito di una filosofia della religione,
anche dell’esperienza religiosa, che si voglia intellettualmente onesta.
In particolare, ritengo che un approccio filosofico al tema dell’esperienza religiosa non
possa prescindere dal riconoscimento di un proprium cristiano, che si delinea secondo due
direttrici fondamentali e interrelate: da una parte l’esperienza dell’assenza di Dio dal
mondo naturale e dall’universo sociale (secondo le analisi, tra gli altri, di René Girard),
dall’altra quella della Sua presenza come Persona che si rivela alla persona, al singolo
uomo, riconducendolo così alla sua dimensione comunitaria soltanto in quanto essere
unico, libero e responsabile dei suoi atti: in questo senso, mi sembrano preziosissimi i
rilievi di Roberta de Monticelli sul concetto di “persona” in Max Scheler, delineato in
rapporto ai termini di “vocazione” e “atto di fede”3.
1
D. de Rougemont, L’Amour et l’Occident, Librairie PLON, Paris 1939, 1956², 1972³ ; trad. it. L’Amore e
l’Occidente, BUR, Milano 2006 (RCS 1977¹), p. 378.
2
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 664.
3
Vedi il saggio in questo volume.
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Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona – Italy Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione? Fogli Campostrini Un altro grande autore personalista, Denis de Rougemont (caro a me quanto Scheler a De
Monticelli), scrive in proposito che «persona e vocazione non sono affatto separabili»4,
giacché «la persona [...] è l’uomo libero e legato alla comunità attraverso una vocazione
singolare, che lo distingue dalla massa e allo stesso tempo lo lega alla comunità nella
quale è il solo responsabile del suo specifico modo di essere con tutti»5. Ritengo che
questa sia la cornice ermeneutico-concettuale più adatta per comprendere le
considerazioni scheleriane sulla Gesamtperson, ovvero sulla dimensione collettivocomunitaria dell’esistenza personale, fondata sull’unicità del singolo individuo libero e
responsabile. (Ed è forse proprio per questo suo accento propriamente personalistico che
Scheler vedeva con sospetto la riduzione trascendentale husserliana, preferendo rimanere
ancorato soltanto a quella eidetica: difatti l’“Io puro”, fine e presupposto della riduzione
trascendentale, non è forse un io impersonale?)
Ora, libertà e responsabilità, se legate alla vocazione, vanno di pari passo, e insieme
definiscono la persona. Sempre Rougemont, in questo senso, scrive: «non vi è persona
senza un Dio che interpella»6. Dunque, non vi è persona senza un Dio personale, che
chiama e perciò fonda la persona umana come un tu capace di rispondere liberamente
(ecco in che senso responsabilità e libertà sono legate) a tale chiamata, attraverso un atto
di fede. Ma questo “Dio personale” che “chiama” l’uomo, che lo cerca, non è forse il Dio
del cristianesimo? L’«ardua tesi scheleriana» ricordata da De Monticelli, per cui la “verità
metafisica” coincide con la “verità personale” non risulterà comprensibile e asseribile
soltanto entro un contesto religioso in cui proprio la “verità metafisica” (Dio) si è fatta
“verità personale” (Cristo, che proclama “Io sono la Verità”)? E dunque, il «bene in sé per
me» non sarà il riflesso di quel “sommo Bene in sé” che si fa “per noi” e “come noi”
nell’Incarnazione? Ritengo dunque che parlare di esperienza religiosa in quanto
esperienza eminentemente “personale”, anche in senso mistico, sia valido soltanto a
condizione che tale esperienza venga concepita non soltanto come “esperienza che l’uomo
fa di Dio”, o “della divinità”, ma anche come “esperienza che Dio, in quanto persona, fa
dell’uomo”7.
4
D. de Rougemont, Politique de la Personne, Editions “Je Sers”, Paris 1934, pp. 52-53.
L’Amore e l’Occidente cit., p. 463.
6
D. de Rougemont, L’aventure occidentale de l’homme, L’Age de l’Homme, Lausanne 2002 (Albin Michel,
5
Paris 1957¹), p. 33.
Circa la mistica, mi sembra fruttuosa, in questo senso, la distinzione operata da Rougemont in L’Amour et
l’Occident tra «mistica unitiva» e «mistica epitalamica»: mentre la prima – che annovera ad esempio, tra i
propri esponenti, Meister Eckhart – anela all’annullamento dell’io attraverso la fusione totale con il divino, la
seconda invece mirerebbe ad un “matrimonio spirituale”, ovvero ad una com-unione in cui si manterrebbe
l’“infinita differenza qualitativa” (e ontologica) tra Creatore e creatura, come testimoniato da alcune folgoranti
pagine di Teresa d’Avila, la quale considerava autentiche soltanto le visioni che la spingevano a meglio amare
nel mondo. Potremmo allora chiederci se l’esperienza religiosa buddhista, ad esempio, non vada inquadrata
entro la cornice della “mistica unitiva”, in quanto “esperienza” di un nirvana impersonale in cui
annullare/fondere il proprio io scopertosi anâtman, ovvero parimenti impersonale: è per questo, del resto,
che G. Bonola la definisce «redenzione senza redentore» (cfr. G. Bonola, Il paradosso della liberazione dal
male nel buddhismo, in Id. et alii, Religioni e Salvezza, Atti dell’VIII Convegno Annuale dell’Associazione
Italiana di Filosofia della Religione, a cura di G. Cunico & H. Spano, Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli
2010, pp. 45-79).
7
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Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona – Italy Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione? Fogli Campostrini Vorrei approfondire ulteriormente la questione. De Monticelli nel suo intervento ha
affermato che «la religiosità [...] in tutte le culture, anche quelle arcaiche e primitive,
corrisponde a un livello di maturazione della sensibilità assiologica che è il più alto, cioè il
più libero, il meno legato ai meccanismi [...] della sopravvivenza sociale, e in questo
senso, virtualmente, il più personale». La questione solleva molti dubbi, soprattutto alla
luce della teoria mimetica sviluppata in questi anni da René Girard. Come è noto, difatti,
secondo Girard ogni società umana si fonda su di una violenza originaria: gli uomini si
troverebbero inizialmente (potremmo dire “naturalmente”, ovvero prima di ogni sistema
culturale) in uno stato hobbesiano di “tutti contro tutti”: il loro «desiderio mimetico», cioè,
li porterebbe dapprima a desiderare di possedere ciò che l’altro ha, e in seguito a voler
entrare in possesso di quella «pienezza d’essere» che ognuno vede incarnata nell’altro in
quanto «modello-ostacolo». Ora, la dinamica originata dal parossismo mimetico di questo
«desiderio triangolare» genera, per Girard, una spirale di violenza che culmina in uno
stato di indifferenziazione reciproca, da cui gli uomini possono uscire soltanto
individuando una vittima contro cui schierarsi unanimemente, accusandola di essere la
vera responsabile della crisi violenta scatenatasi: puntando così tutti il dito contro un solo
individuo, passando cioè dal “tutti contro tutti” al “tutti contro uno”, gli uomini
esorcizzerebbero la propria violenza polarizzandola su di un «capro espiatorio», la cui
morte rappresenterebbe quella «differenzia originaria» (da una parte gli accusatori,
dall’altra la vittima) che è matrice stessa del sociale in quanto «sistema di differenze», e
insieme anche del religioso: l’evento catartico, infatti, assume una valenza sacra, diviene
cioè un “sacri-ficio”. Riportando, con la propria morte, la pace nella comunità, prima
lacerata dalla violenza mimetica indifferenziante, la vittima stessa viene così ad assumere
i caratteri di una divinità. Più precisamente, essa viene assimilata a un Dio della Violenza,
tremendum et fascinans, direbbe Rudolf Otto: un Dio che ha il potere di gettare gli uomini
nel caos, e allo stesso tempo è il solo in grado di riportare la pace, restando tuttavia
indissolubilmente legato ad una sua presunta “colpa” iniziale (un “peccato originale” che
ne giustifica l’uccisione). In seguito, ogni volta che la comunità si ritroverà in situazioni di
crisi, perpetuerà simbolicamente la prima uccisione eleggendo una nuova vittima come
sacrificio per la divinità capace di riportare l’ordine, e contemporaneamente elaborando un
mito di fondazione di questa stessa comunità che veli ed esprima al tempo stesso il
meccanismo sacrificale originario.
Secondo questa lettura, qui soltanto abbozzata ma che risulta vieppiù affascinante e
convincente nelle diverse opere girardiane, la religiosità “arcaica” non sarebbe affatto
aliena da «meccanismi di sopravvivenza sociale»: al contrario, essa non sarebbe altro che
un meccanismo la cui unica funzione sarebbe proprio quella di assicurare la sopravvivenza
sociale.
Il cristianesimo, in quest’ottica, rappresenta la morte della religione nel senso sopra
descritto: la rivelazione cristiana svela, decostruendolo, il meccanismo vittimario sotteso
ad ogni sistema mitico-sacrale, e lo fa riproponendone le tappe dal punto di vista
diametralmente opposto a quello di tutti i miti. Così, mentre questi ultimi non sarebbero
altro che sofisticati resoconti dell’uccisione della vittima dal punto di vista degli accusatori,
ovvero narrazioni in cui la vittima è presentata come colpevole di una violenza di cui gli
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Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona – Italy Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione? Fogli Campostrini uomini si dichiarano innocenti, nei Vangeli invece viene presentata la verità di Cristo in
quanto suprema vittima innocente, e allo stesso tempo viene dichiarata la colpevolezza di
tutti gli uomini, che lo hanno messo a morte. Quegli uomini che “non sanno quello che
fanno”… finché Cristo non lo rivela con la sua stessa vita e con la sua morte in Croce.
Il sacrificio di Cristo, così, si inserisce nel solco del sacrificio arcaico e lo annienta: in tal
modo, però, viene annientata anche la funzione sociale di tutti quei sistemi religiosi che
sul misconoscimento “collettivo” del sacrificio si fondavano. Non vi è più alcuna
assicurazione celeste per qualsivoglia stabilità sociale, con il cristianesimo.
Così, se già con l’ebraismo, secondo la lettura di Henry Duméry, il mondo naturale si è
progressivamente disincantato, demitizzato, e Dio è divenuto un Ganz Anders
trascendente che si rivela unicamente attraverso la storia dei suoi rapporti con il Popolo
Eletto8, potremmo dire che il cristianesimo ha continuato e concluso quest’opera di
“secolarizzazione” operando sulla stessa realtà sociale: non c’è nessun popolo eletto, «non
c’è più né giudeo né greco» (Gal 3,28).
In questo senso, e soltanto in questo, la laicità sociale è un valore cristiano.
Ma qual è, allora, il luogo della Rivelazione, in questo universo disincantato? Il luogo è
quello scelto da Dio stesso per incarnarsi: la persona. Unica e irripetibile.
Parafrasando, e con ciò ribaltandone il senso, la famosa formula dei Padri Cappadoci
secondo cui “Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio”, potremmo dire che “Dio si
è fatto uomo perché l’uomo si facesse davvero uomo”, cioè divenisse persona autentica. E
può farlo soltanto attraverso i propri atti di fede, operando così in risposta ad una
vocazione ricevuta.
Max Scheler, in proposito, scrive che «la persona è solo nei suoi atti e grazie ad essi»9, e
che «è solo l’impegno della persona stessa a dischiudere la possibilità di “conoscere”
l’essere dell’Ens a se»10; e, ancora una volta, Rougemont è del tutto consonante a tale
posizione, quando afferma che «l’atto di fede è l’atto che obbedisce ad una verità,
affermata per questo stesso atto»11.
Un atto, per finire, che deve essere inteso anche come “attesa” (nel suo significato
etimologico di “tensione-a”), apertura all’ascolto incessante di quel «richiamo silenzioso in
una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta», come poeticamente
scrive Emmanuel Mounier a proposito della vocazione12.
Ed è qui, secondo me, che si può riscoprire il valore fondamentale della fenomenologia,
mirabilmente definita da De Monticelli, in un suo saggio, come «una filosofia
dell’attenzione»13. Attenzione che dunque, a proposito della religione, si configura anche
come tensione-verso, propensione, se è vero che – come afferma la stessa De Monticelli –
8
Cfr. H. Duméry, Phénoménologie et Religion, Paris 1962, pp. 6-14.
M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Fabbri, Milano 1962, p. 189.
10
Ibid., p. 224.
11
D. de Rougemont, Penser avec les mains, Albin Michel, Paris 1936, p.119.
12
E. Mounier, Le Personnalisme, Sueil, Paris 1949; trad. di A. Gardin, Il personalismo, A.V.E., Roma 1964, p.
68.
13
R. De Monticelli, La fenomenologia come metodo di ricerca filosofica e la sua attualità, p. 46, in
http://www.pdf4free.com.
9
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Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona – Italy Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione? Fogli Campostrini «l’homo religiosus si vive come essenzialmente e primariamente “chiamato”, cercato, e
teso all’ascolto».
Potremmo dunque parafrasare Mounier, il quale diceva che «bisogna essere preparati a
tutto, anche alla felicità»14: noi diremo che «bisogna essere preparati a tutto, anche
all’esperienza»; anche all’esperienza religiosa della vocazione singolare.
E questa preparazione, però, passa necessariamente da un’altra “esperienza”, di carattere
strettamente cristiano: l’esperienza dell’assenza di Dio dal mondo della natura e da quello
sociale15, l’esperienza della realtà ultima della persona in quanto essere libero e
responsabile, aperto alla trascendenza e unico nella sua essenza singolare.
De Monticelli si richiamava, in apertura al suo intervento, al racconto kafkiano “Davanti
alla legge”. Perché il protagonista del racconto non riesce ad entrare nella porta della
Legge? Egli corrompe il guardiano con tutto quello che ha, eppure ancora non basta;
finché, ormai allo stremo delle forze, non gli viene in mente un’unica domanda che finora
non ha posto, né al guardiano né, prima di tutto, a se stesso: in questa domanda, scrive
Kafka, «si condensano tutte le esperienze» di quell’uomo. Egli chiede dunque al
guardiano: «Se tutti gli uomini tendono alla Legge, perché in tutti questi anni nessun altro
è venuto qui a chiederti di entrare?». È in questo momento che il protagonista scopre la
propria singolarità, la propria diversità rispetto a tutti gli altri: perché soltanto io? Perché
proprio io? È in questo momento che in lui muore l’“Io puro” e nasce l’“Io incarnato”, la
persona. La risposta del guardiano, in questo senso, è emblematica: «Nessun altro poteva
entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te». Come dire: questo
ingresso era la tua vocazione, la tua via per la salvezza, che solo tu eri chiamato a
percorrere. Ma non eri preparato per questa “esperienza”, non eri pronto per lanciarti
nell’avventura della tua vita. Hai atteso invano, perché la tua attesa non era “tesa” verso
niente.
14
E. Mounier, Lettere sul dolore, BUR, Milano 2005, p. 40.
L’unica comunità possibile, in un’ottica del genere, è una com-unione di soggetti liberi e responsabili: una
problematica versione della societas christiana.
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Rivista online della Fondazione Centro Studi Campostrini ‐ Verona – Italy Vol. 1 ‐ Anno 2012 ‐ Numero 1 Quale esperienza per la filosofia della religione? Fogli Campostrini Il presente saggio è tratto dal vol.1- dell’anno 2012 - numero 1 della Rivista Online – Fogli Campostrini, edita
dalla Fondazione Centro Studi Campostrini, Via S. Maria in Organo, 4 – 37129 Verona, P. IVA 03497960231
Presidente della Fondazione Centro Studi Campostrini - Rosa Meri Palvarini
Direttore responsabile e scientifico - Massimo Schiavi
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Reg. Tribunale di Verona n. 925 del 12 maggio 2011.
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