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CORSO 20103 / IL DIRITTO DEL POPOLO DI DIO: I FEDELI, LE PERSONE E LE ASSOCIAZIONI NELLA CHIESA
Prof. PATRICK VALDRINI / ANNO ACCADEMICO 2011-2012
PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE
ANNO ACCADEMICO 2011-2012
PROF. P A T R I C K V A L D R I N I
IL DIRITTO DEL POPOLO DI DIO: I FEDELI
LE PERSONE E LE ASSOCIAZIONI NELLA
CHIESA
(Appunti per il Corso 20103)
Alcuni canoni in lingua italiana saranno citati nelle dispense (traduzione non
approvata solo ad usum privatum).
Sarà però necessario usare il Codice di diritto canonico in lingua latina e in
lingua italiana (traduzione approvata) durante il corso.
(Indirizzo del Professore: Casa Paolo VI, via della Scrofa, 70, 00186
Roma, tel. Portineria 06 698 619)
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CORSO 20103 / IL DIRITTO DEL POPOLO DI DIO: I FEDELI, LE PERSONE E LE ASSOCIAZIONI NELLA CHIESA
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INDICE DEL CORSO 20103
I. LE PERSONE NEL CIC DEL 1983
A) Persona, fedele e appartenenza alla Chiesa Cattolica.
a) Fedele, cristiano, Ecclesia Christi ed Ecclesia cattolica.
b) Can. 96: condizioni d’esercizio dei doveri e diritti o quidem eorum condicione.
c) Can. 96: condizioni d’esercizio dei doveri e diritti o quatenus in ecclesiastica
sunt communione.
d) Can. 96: condizioni d’esercizio dei doveri e diritti o nisi obstet lata legitime
sanctio.
e) I catecumeni.
B) I doveri e i diritti di tutti i fedeli.
a) Stato delle persone e organizzazione della Chiesa.
b) Distinzione chierici-laici e organizzazione della Chiesa.
c) Quadro d’esercizio dei doveri e diritti.
d) Fedeli e pastori nell’esercizio dei doveri e diritti.
e) Libertà e diritti protetti specificamente dalla Chiesa.
f) Doveri nei confronti della Chiesa.
C) I doveri e i diritti dei fedeli laici.
a) Fedeli, laici e chierici.
b) La missione dei laici.
c) Diritti e doveri dei laici.
D) I ministri consacrati o chierici.
a) La formazione dei chierici.
b) Incardinazione e escardinazione dei chierici.
c) Doveri e diritti dei chierici.
d) Perdita dello stato clericale.
II. LE PERSONE GIURIDICHE E LE COMUNITÀ ASSOCIATIVE
a) Le associazioni di fedeli.
b) Associazioni private e pubbliche nel CIC del 1983.
c) Le associazioni private.
d) Le associazioni pubbliche.
e) Categorie d’associazione.
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PREMESSA
Le lezioni sui fedeli commentano i canoni del libro II del CIC 1983,
cioè i cc. 204-293 (si aggiunge il Can. 96 del libro I – Norme
generali - sull’acquisizione dello statuto di persona fisica) e i cc.
298-329 del CIC 1983. Contengono la legislazione codiciale sul
diritto di tutti i fedeli, sui fedeli laici, sui ministri sacri o fedeli
chierici e sulle associazioni di fedeli. È la seconda parte del corso
dedicato al “Diritto del Popolo di Dio” (corso 20103). La prima parte
commentava i canoni sulla “Costituzione gerarchica della Chiesa”
(corso 2010 e dispense). I canoni sui fedeli che “medianti voti o altri
vincoli, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, … sono consacrati a
Dio” (Can. 207 § 2) sono commentati nel corso 20106. Nel corso sui
fedeli, saranno menzionati i canoni del CCEO corrispondenti ai
canoni del Codice latino, tenendo presente che un corso della
facoltà è dedicato loro (corso 20117).
Il corso sui fedeli è fondamentale per tre motivi principali:
a) Un motivo istituzionale che riguarda l’acquisizione dello statuto di
persona o di fedele della Chiesa cattolica e le sue conseguenze. Si
tratta delle questioni di libertà di aderire alla Chiesa e degli statuti
che ricevono le persone che, essendo battezzate, non sono membri
della Chiesa cattolica (membri delle Chiese e comunità ecclesiali
che non sono in comunione con la Chiesa cattolica), della libertà di
abbandonare o di perdere lo statuto di membro in comunione con
la Chiesa cattolica. Mentre il diritto canonico definisce gli statuti
stabili (in senso giuridico della parola) nell’ordinamento ecclesiale,
condizione essenziale perché sia esercitata la giurisdizione
ecclesiastica sui membri, i legami tra fedeli e Chiesa o tra fedeli e
comunità che fanno parte della sua organizzazione (diocesi,
parrocchie…) diventano meno stabili (in senso sociologico della
parola) a causa della mobilità delle persone, della debolezza dei
legami istituzionali e del modo individuale di concepire
l’appartenenza alla Chiesa.
b) Un secondo motivo di natura filosofico-giuridica riguarda la
nozione di diritti e doveri dei fedeli, cioè lo statuto e le capacità
giuridiche delle persone diventate fedeli. Tutte le società moderne
descrivono i diritti e doveri dei loro cittadini e, per la maggior parte,
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riconoscono i diritti dell’uomo. Ma, riguardo la Chiesa e il suo
ordinamento, si deve chiedere se i fedeli membri della Chiesa
cattolica godano degli stessi doveri e diritti che hanno i cittadini o
sono diversi o altri, al punto di parlare di uno statuto specifico dei
fedeli diversi da quello del cittadino delle società politiche civili.
Verrà affrontata la questione della libertà del fedele
nell’ordinamento canonico, della sua autonomia, dello suo spazio
di azione nei confronti dei titolari della potestà di governo. Poi
saranno presentati gli insiemi di doveri e diritti delle due categorie
di fedeli, laici e chierici, che saranno anche da capire a partire del
loro senso rispetto all’acquisizione di statuti specifici accanto a
quello di fedele.
c) Il terzo motivo di natura ecclesiologica interessa la questione
sempre presente della natura cioè del carattere specifico della
Chiesa cattolica come società organizzata e regolata dal diritto. La
sua finalità è la “salvezza delle anime” per la quale riceve dal Cristo
una funzione mediatrice della grazia di Dio da esercitare e vivere
nella storia (LG 8). Perciò ciò che studieremo durante il corso sarà
naturalmente collegato con gli altri libri del CIC 1983, soprattutto
il diritto dell’organizzazione della chiesa (posto e ruolo delle
persone con i loro statuti diversi nelle comunità gerarchiche), ma il
corso avrà sempre come domanda di fondo, senza trattarla
esplicitamente, la questione molto dibattuta tra canonisti ed
ecclesiologi del fondamento del diritto canonico o della sua natura
particolare accanto agli ordinamento giuridici statuali.
I. Le persone nel CIC del 1983
1. Le persone nel CIC del 1917. Il libro II del CIC del 1917 (De
personis) inizia direttamente dal Can. 87 che definisce l’origine
della personalità giuridica nella Chiesa, cioè il battesimo.
Can. 87. Baptismate homo constituitur in Ecclesia Christi
persona cum omnibus christianorum iuribus et officiis,
nisi, ad iura quod attinet, obstet obex, ecclesiasticae
communionis vinculum impediens, vel lata ab Ecclesia
censura.
Poi, si limita ad una esposizione dei diversi elementi che
trasformano la condizione canonica delle persone fisiche (età,
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domicilio, consanguineità, affinità, rito) delle categorie di persone
morali, della legislazione sugli atti giuridici e, senza transizione, al
Can. 107, dichiara che per istituzione divina, ci sono nella Chiesa
chierici distinti dai laici e che gli uni e gli altri possono essere
religiosi.
Can. 107. Ex divina institutione sunt in Ecclesia clerici a
laicis distincti, licet non omnes clerici sint divinae
institutionis; utrique autem possunt esse religiosi.
Nel CIC 1917, la presentazione della legislazione sulle persone era
processionale (Beyer). L’uomo diventa persona dal battesimo. Poi ci
sono tre categorie fondamentali di persone nella Chiesa,
nell’ordine, i chierici, i religiosi e i laici. Per un lungo tratto di 379
canoni, si presenta la legislazione sui chierici. Segue un insieme di
195 canoni destinati ai religiosi. Alla fine, vengono i laici che
beneficiano in questa parte di 53 canoni, di cui 51 che trattano
delle associazioni. Di fatto due li riguardano in senso proprio: uno
per stabilire il loro diritto fondamentale di ricevere dal clero i beni
spirituali necessari alla loro salvezza, l’altro per proibire loro di
portare l’abito clericale.
La presentazione del libro II del CIC 1917 è rivelatrice1. La presentazione
delle persone è fatta non solo gerarchicamente ma, come ha notato la
commissione di revisione del Codice, offre un’ottica stratificata delle
relazioni tra le persone. I chierici sono pastori, votati alle funzioni sacre, i
laici sono oggetti dell’azione dei pastori, i religiosi si trovano in un piano
intermedio tra i chierici e i laici. Questa considerazione dà ragione ai
giudizi spesso severi nei confronti di questo Codice che viene accusato di
presentare un’ immagine della Chiesa fatta in primo luogo dal clero. La
“sistematica” del libro fa apparire la supremazia del chierico e mette in
risalto il rapporto d’ineguaglianza che lega le persone. Il criterio
d’organizzazione della legislazione consiste, innanzitutto, nel mettere da
un lato coloro che esercitano una missione ufficiale nella Chiesa e
dall’altro coloro che non lo possono fare. Appaiono qui le conseguenze di
1
Liber secundus. De personis (CIC 1917).
Pars prima.
De clericis (379 canoni).
Sectio i. de clericis in genere.
Sectio ii. de clericis in specie.
Pars secunda. de religiosis (195 canoni).
Pars tertia. de laicis (53 canoni).
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una costruzione dell’insieme legislativo in riferimento alle tesi del diritto
pubblico ecclesiastico del XIX secolo, che fondavano tra i membri una
disuguaglianza, considerando la Chiesa come una società giuridicamente
perfetta (societas iuridice perfecta)2, in cui coloro che governavano
godevano nei confronti degli altri delle tre potestà: legislativa, giudiziaria
e esecutiva.
2. Il CIC del 1983. In rapporto al CIC del 1917, il CIC del 1983
presenta il diritto delle persone in modo rinnovato. Il titolo del libro
II, Il Popolo di Dio, ripreso dal titolo della Costituzione conciliare del
Vaticano II sulla Chiesa, indica già che questo diritto è presentato
come parte dell’insieme istituzionale, al quale queste persone
appartengono e che formano. Il piano del libro e la sua sistematica,
vale a dire il modo secondo il quale la materia è organizzata, sono
rivelatori di una concezione dei rapporti giuridici tra le persone. La
legislazione tratta, innanzitutto, cioè all’inizio del libro II, dei fedeli
(statuto e obblighi e diritti), designazione giuridica dei battezzati,
poi dei laici (obblighi e diritti) e alla fine dei chierici (obblighi e
diritti). I membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita
apostolica, quelli che il Can. 207 presenta come quelli che, “con la
professione dei consigli evangelici mediante voti o altri vincoli sacri
sono consacrati a Dio, chiamati anche “religiosi”, avranno un posto
particolare dopo il titolo dedicato alle associazioni e il diritto della
costituzione gerarchica della Chiesa, in rapporto alla loro
specificità nella Chiesa (cc. 573 e succ.). Confrontando l’indice del
libro I del CIC 1917, si avverte un cambiamento assai importante.
Vedere sotto l’indice del libro II del CIC 1983:
2
Nel suo commentario, il più autorevole su questa parte del CIC 1917, G.
Michiels – era professore del Pontificio Istituto Romano Utriusque Iuris - inizia
la sua presentazione della legislazione così: “cum Ecclesia sit societas perfecta
visibilis externa ordinis supernaturalis, a Christo Domino positive instituta
ideoque propriis normis, ab ipso Fundatore positis, ordinata, ad Eam nemo
pertinere potest, neque proindi, juxta antea dicta “persona” esse “in ea”, seu
capax jurium et officiorum huic societati praecisive propriorum subjectum,
nisi adimpleat conditiones ad hoc a Christo statutas”. G. Michiels, Principia
generalia de personis in Ecclesia. Commentarius libri II Codicis juris canonici.
Canones praeliminares 87-106, Edito altera, Desclée et socii, 1955, p. 13. Nel
CIC del 1917 e nei suoi commenti, è messo in rilievo il carattere di codice di
diritto pubblico della societas perfecta ecclesiastica. Il can. 87 fa parte del libro
sulle persone (de personis) del CIC 1917 che contiene canoni che, nel codice
del 1983 saranno raggruppati nel libro primo sulle norme generali e distaccati
da un nuovo libro sulle persone (infra p. 38 e succ.).
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Libro II
Il Popolo di Dio
Parte I
I fedeli cristiani
Titolo I. Obblighi e diritti di tutti i fedeli
Titolo II. Obbglighi e diritti dei fedeli laici.
Titolo III. I ministri sacri o chierici
.../…
Parte II
La costituzione gerarchica della Chiesa
Parte III
Gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica
La novità di questa presentazione concerne sia in una
strutturazione diversa dell’insieme dei canoni sulle persone, che
nell’introduzione di una legislazione riguardante il fedele come tale,
statuto antecedente alla distinzione tra le tre categorie di fedeli. Lo
statuto è assente formalmente dal CIC del 1917. Dà al diritto delle
persone nel CIC 1983 un referente obbligatorio antecedente ad ogni
categoria giuridica. Inoltre, oggetto di novità, mentre i redattori
hanno tenuto un canone essenziale per lo statuto di persona nel
libro I sulle norme generali (il Can. 96 che corrisponde al Can. 87
del CIC 1917) e i canoni generali che concernono le condizioni
dell’esercizio delle capacità ricevute nel battesimo (i cc. 97-112 CIC
1983 che corrispondono ai cc.88-98 del CIC 1917), la legislazione
sulle categorie di persone (obblighi e diritti dei chierici, laici e
religiosi) è stata inserita in un libro specifico sulle persone distinto
dalle norme generali3. Ogni commento del CIC 1983 mette in
risalto questo fatto nuovo. Però rimangono valide e sempre attuali
le domande sull’interesse del nuovo indice che chiaramente cambia
l’indice del CIC 1917 ma ne sembra ancora molto dipendente.
Sappiamo che l’indice del CIC è stato discusso al momento della
revisione del Codice. C’erano due correnti principali: la prima
voleva riprendere la sistematica della Lumen Gentium e inserire un
primo libro dal titolo De christifidelibus et eorum statu in Ecclesia,
definendo gli statuti dei fedeli, laici, chierici e religiosi tenendo
conto del loro contesto ecclesiologico specifico nella Chiesa
particolare e universale; l’altra voleva costruire il CIC sul binomio
Parola e sacramento, consentendo, in un primo libro dedicato al
battesimo e alla cresima, di trattare dello statuto dei laici e religiosi
e, in un secondo libro, di trattare dell’ordine, quindi, dei chierici e
3
Il CCEO ha scelto un’altra presentazione senza che appaiano chiaramente le
ragioni della ripartizione tra i titoli. Ricordo che non è diviso in libri ma in titoli. Il
titolo I è dedicato ai fedeli e ai loro obblighi e diritti. Poi la legislazione che fa parte delle norme
generali del CIC 1983 è posta ai titoli XIX, XX XXI e XXIX.
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della struttura gerarchica della chiesa. Il CCEO ha scelto un modo
assolutamente diverso nel presentare la materia. Inizia dallo
statuto dei fedeli, poi viene presentata l’organizzazione delle chiese
sui iuris, poi vengono i canoni sui chierici, i laici, i monaci e gli altri
religiosi e membri degli altri istituti di vita consacrata, le
associazioni di fedeli e, più avanti, i canoni di profilo giuridico
riguardanti le persone fisiche4.
A. Persona, Fedele e appartenenza alla Chiesa Cattolica
a) Fedele, cristiano, Ecclesia Christi ed Ecclesia Cattolica.
Can. 204 - § 1. I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo
mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi
nel modo loro proprio dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo,
sono chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica propria di
ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel
mondo.
§ 2. Questa Chiesa, costituita e ordinata nel mondo come società,
sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal successore di Pietro e dai
Vescovi in comunione con lui.
** Can. 204 - § 1. Christifideles sunt qui, utpote per baptismum Christo
incorporati, in populum Dei sunt constituti, atque hac ratione muneris Christi
sacerdotalis, prophetici et regalis suo modo participes facti, secundum propriam
cuiusque condicionem, ad missionem exercendam vocantur, quam Deus Ecclesiae
in mundo adimplendam concredidit.
§2. Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinatasubsistit in
Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius comunione gubernata.
Nel Can. 204, il termine fedele è usato in un senso specifico.
Questo canone, probabilmente tra i più fondamentali di tutto il
Codice, apre il Libro II. Non è proprio destinato alla presentazione
del diritto riguardante la condizione giuridica delle persone in
generale, come fanno i canoni 96-123 del libro sulle norme generali
(età, uso della ragione, legame delle persone a un territorio,
consanguineità, affinità, appartenenza a una chiesa rituale), ma lo
statuto delle categorie di fedeli (doveri e diritti)5. Il canone definisce
uno statuto comune ai battezzati che appartengono alla Chiesa,
acquisito nel battesimo o atto sacramentale fonte dello statuto del
fedele.
Il Can. 204 descrive le due conseguenze giuridiche fondatrici dello
statuto dei fedeli inerenti al suo statuto di battezzato: 1)
4
Un libro spiaga le scelte dei redattori del CIC 1983 che consiglio di leggere perché è di un
grande aiuto per capire quanto la legislazione vigente è il risultato di compromessi tra i
componenti delle commissioni di revisone del CIC 1917. J. Beyer, Dal Concilio al Codice. Il
nuovo Codice e le istanze del Concilio Vaticano II, EDB, 1984, pp. 139.
5
LEF
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l’appartenenza alla Chiesa popolo di Dio. È la conseguenza di un
primo effetto del battesimo che, in termini teologici, ripresi dal
canone, si presenta come l’incorporazione al Cristo, testa e unità
del corpo che egli costituisce con tutti i battezzati o Popolo di Dio
costituito da Cristo. 2) La capacità derivante dall’incorporazione a
Cristo di esercitare la missione affidata a tutto il corpo come
partecipazione alle funzioni di Cristo: funzione sacerdotale,
funzione profetica e funzione regale. Vedere alcuni brani del
Catechismo della Chiesa cattolica:
1267: Il Battesimo ci fa membra del Corpo di Cristo. “Siamo membra
gli uni degli altri” (cf. Ef 4,25 ). Il Battesimo incorpora alla Chiesa. Dai
fonti battesimali nasce l'unico popolo di Dio della Nuova Alleanza che
supera tutti i limiti naturali o umani delle nazioni, delle culture, delle
razze e dei sessi: “In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo
Spirito per formare un solo corpo” (cf. 1Cor 12,13 ).
1268: I battezzati sono divenuti “pietre vive per la costruzione di un
edificio spirituale, per un sacerdozio santo” (cf. 1Pt 2,5 ). Per mezzo del
Battesimo sono partecipi del sacerdozio di Cristo, della sua missione
profetica e regale, sono “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione
santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere
meravigliose di lui” che li “ha chiamati dalle tenebre alla sua
ammirabile luce” (cf.1Pt 2,9 ). Il Battesimo rende partecipi del
sacerdozio comune dei fedeli.
1269: Divenuto membro della Chiesa, il battezzato non appartiene più
a se stesso, [cf. 1Cor 6,19 ] ma a colui che è morto e risuscitato per
noi [cf. 2Cor 5,15 ]. Perciò è chiamato a sottomettersi agli altri, [cf. Ef
5,21; cf. 1Cor 16,15-16 ] a servirli [cf. Gv 13,12-15 ] nella comunione
della Chiesa, ad essere “obbediente” e “sottomesso” ai capi della
Chiesa, [cf. Eb 13,17 ] e a trattarli “con rispetto e carità” [cf. 1Ts 5,1213 ]. Come il Battesimo comporta responsabilità e doveri, allo stesso
modo il battezzato fruisce anche di diritti in seno alla Chiesa: quello di
ricevere i sacramenti, di essere nutrito dalla Parola di Dio e sostenuto
dagli altri aiuti spirituali della Chiesa [Cf ConCan. Ecum. Vat. II,
Lumen gentium, 37; cf. Codice di Diritto Canonico, 208-223; Corpus
Canonum Ecclesiarum Orientalium, 675, 2].
Appartenenza alla Chiesa e capacità di partecipare alla missione
costituiscono l’essere cristiano. Il modo tripartito di presentazione
delle funzioni del Cristo, entrato nella teologia cattolica nel XVIII
secolo, poi usato dall’enciclica Mystici corporis di Pio XII, è stato
ripreso dal Concilio Vaticano II6. Ogni fedele, in virtù della sua
appartenenza alla Chiesa, esercita la missione affidata a tutta la
Chiesa e ciò nell’ordine delle tre funzioni, l’insegnamento quando
6
Per quelli che vogliono studiare l’origine e l’evoluzione della presentazione tripartita
delle funzioni di Cristo (e che sanno leggere il tedesco), vedere Ludwig Schick, Das
Dreifache Amt Christi und der Kirche. Zur Enststehung und Entwicklung det Trilogien,
Verlag Peter Lang GMBH, Frankfurt am Main, Berna, 1982, p. 180 (Pontificia Università
Gregoriana. Facultas iuris canonici).
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dovrà cooperare in diversi modi all’annuncio della Parola di Dio
(munus docendi), la santificazione, particolarmente attraverso la
vita sacramentale (munus sanctificandi) ed infine il disegno di
raccolta dell’umanità nell’unità di cui fa parte la funzione di governo
della Chiesa (munus regendi). Il Libro II del CIC del 1983 descrive i
doveri e i diritti concreti, di cui il fedele è titolare e che mettono in
opera questa capacità. Il legame tra Chiesa Cattolica e fedele
emerge dal contenuto del Can. 204 disposto in due paragrafi: nel
primo sono descritti i due elementi costitutivi della nozione di
fedele che abbiamo riportato sopra (appartenenza alla Chiesa e
partecipazione alle funzioni di Cristo); il secondo paragrafo
stabilisce che, se il battesimo è ricevuto nella Chiesa Cattolica o se
le persone già battezzate sono ricevute in Essa, cioè nella Chiesa di
Cristo realizzata pienamente nella Chiesa Cattolica, le persone
sono dette, secondo l’uso del termine nel CIC, battezzate nella
Chiesa Cattolica (Can. 11). Il CIC 1983 le chiama anche “cattoliche”
cioè persone che hanno ottenuto, mediante il battesimo, lo statuto
di persona nella Chiesa Cattolica nella quale sussiste la Chiesa di
Cristo7.
2. Persona, cristiano e fedele. Il Can. 96 del libro sulle norme
generali contiene un’altra descrizione del legame tra battesimo e
acquisizione di uno statuto giuridico nella Chiesa senza che il
canone usi il termine fedele (è stato giustamente accennato dalla
dottrina che il Can. 204 e il Can. 96 sono stati redatti da gruppi
diversi al momento della redazione degli schemi del CIC). Di fatto, il
CCEO non ha un canone corrispondente al Can. 96 del CIC della
Chiesa latina, ma ha solo ripreso il Can. 204 nel suo Can. 7.
Can. 96 - Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di
Cristo e in essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai
cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri, in quanto
sono nella comunione ecclesiale e purché non si frapponga una
sanzione legittimamente inflitta.
** Can. 96. Baptismo homo Ecclesiae Christi incorporatur et in eadem
constituitur persona, cum officiis et iuribus quae christianis, attenta
quidem eorum condicione, sunt propria, quatenus in ecclesiastica sunt
communione et nisi obstet lata legitima sanctio.
Si parla intanto esplicitamente dell’acquisizione, in diritto, di una
personalità giuridica nella Chiesa di Cristo (in essa costituito
persona) fondata sulla ricezione del sacramento del battesimo. Non
7
(vedere lo studio di P. Erdö, Il cattolico, il battezzato e il fedele in piena comunione con
la Chiesa Cattolica. Osservazioni circa la nozione di “cattolico” nel CIC (a proposito dei cc.
11 e 96), in Periodica, 86, 1997, p. 213-240).
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c’è una differenza tra il Can. 96 e il Can. 204 riguardante il
contenuto. Invece, lo stile del Can. 96 è più giuridico e lo stile del
Can. 204 più ecclesiologico. Il Can. 96 parla dell’uomo che,
incorporato alla Chiesa di Cristo, riceve lo statuto di persona fisica
distinto dallo statuto di persona giuridica (personalità), e
acquisisce i doveri e i diritti dei cristiani (capacità giuridica). Il Can.
204 descrive, invece, lo statuto del fedele, equivalente a quello
descritto dal Can. 96 (l’uomo battezzato diventa persona fisica che
è detta fedele), presentando esplicitamente gli effetti del battesimo
rispetto alla missione della Chiesa nell’ordine dei tria munera (la
persona fisica, o fedele, riceve una capacità giuridica o è titolare di
doveri e diritti da esercitare come partecipazione ai munera
docendi, santificandi e gubernandi della Chiesa). Stante i due
approcci diversi dei canoni, il Can. 96 è comunque necessario
accanto al Can. 204: dice che le conseguenze giuridiche
dell’esercizio della capacità del battezzato possono essere diverse,
cioè, la capacità giuridica essendo acquisita, la capacità di
esercitare o capacità di agire doveri e diritti nella Chiesa è diversa
secondo la condizione di ognuno, quidem eorum condicione (1),
secondo il loro rapporto alla comunione della Chiesa, quatenus in
ecclesiastica sunt communione (2) e secondo le eventuali sanzioni
che sono state inflitte loro, nisi obstet lata legitime sanctio (3). La
dottrina classica distingueva la capacità giuridica di esercitare
doveri e diritti acquisita radicaliter (o la capacità uguale acquisita
da ogni battezzato validamente) e la capacià giuridica diversa nei
battezzati o acquisita actualiter, cioè dipendente dalle condizioni o
circostanze nelle quali è esercitata (capacità più o meno estesa o
ristretta). Bisogna imparare a memoria alcune parole o espressioni
essenziali dal contenuto diverso: battezzato, fedele, capacità
giuridica, capacià di agire radicaliter e actualiter.
b) Condizioni d’esercizio dei doveri e diritti. Can. 96: quidem
eorum condicione (tenuta presente la loro condizione).
L’inciso rinvia ai canoni che riguardano le circostanze, sempre
qualificate giuridicamente, che affettano lo statuto delle persone
fisiche e degli statuti diversi dei fedeli. Il CIC parla di condizione
giuridica o canonica senza dare indicazioni utili per definirla (la
stessa espressione esiste nel Can. 204: secondo la condizione
propria di ciascuno). Non si tratta della sola capacità giuridica
d’esercitare i doveri e i diritti dei fedeli, ricevuta nel battesimo e
legata radicaliter allo statuto di persona, fondamento indelebile
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della condizione canonica (quando la persona è stata battezzata
nella Chiesa Cattolica o in una Chiesa o comunità ecclesiale che
non è in comunione con la Chiesa Cattolica). Si tratta dell’insieme
delle situazioni giuridiche o canoniche che determinano l’esercizio
di doveri e di diritti (capacità di agire): a) lo statuto di fedele o
battezzato nella Chiesa cattolica con i doveri e diritti descritti nei
cc. 208-223 (vedere infra p. 30 e succ.); b) uno dei tre stati
fondamentali dei fedeli, chierici, laici o membro di un istituto di
vita consacrata che comportano doveri e diritti specifici Can. 207
(vedere infra p. xxx e succ.); c) una situazione canonica dovuta a
fatti e atti giuridici, legislativi o amministrativi, che determinano
l’uso di doveri e diritti e che si aggiungono alle due determinazioni
precedenti (ad esempio: sacerdote/parroco, laico/membro di un
istituto secolare, chierico/membro di un istituto di vita
consacrata/ membro di un’associazione pubblica/ cappellano,
laico nello stato matrimoniale…). Non è possibile togliere il
battesimo, il quale è indelebile, e neanche la capacità d’esercitare i
doveri e i diritti. Invece, il diritto consente che sia determinato in
via generale (legislativa) o modificato in via individuale
(amministrativa) il loro esercizio o l’estensione della loro titolarità
in funzione delle diverse situazioni nelle quali si trovano le persone.
Così si crea la condizione canonica di una persona. La condizione
può essere imposta dal diritto (ad es. diritto determinante lo
statuto dei chierici, cf cc. 233-289) o dovuta a un titolare della
potestà di governo (ad. es. nomina di un laico a un ufficio
ecclesiastico, Can. 1421 § 2 ) o scelta da una persona stessa (ad es.
appartenenza a una comunità associativa, cf. Can. 298).
A proposito dei fatti giuridici che determinano l’uso di doveri e diritti, vedere il
corso sulle “norme generali”, Libro I, Can. 97-112: in modo generale, il CIC
determina
quattro
condizioni
concernenti
la
personalità
canonica,
modificandola, diminuendola ed accrescendola:
a) L’età: l’età determina l’applicazione di un buon numero di canoni del CIC,
notoriamente nel diritto penale e processuale. Di qui l’importanza concessa alle
regole che riferiscono alla maggiore età e quelle che presentano i doveri e i diritti
spettanti ai minori. Secondo il CIC, la persona è maggiorenne a 18 anni
compiuti. Il bambino (infans) è il minore che non ha raggiunto l’età di 7 anni. E
a questa età che è raggiunta l’età della ragione. Il minore dipende dall’autorità
genitoriale o da un tutore, salvo eccezione derivante dal diritto divino stesso e
dal diritto canonico. Le regole sottostanti alla nomina, alla costituzione, alla
determinazione dei loro diritti, devono essere prese dal diritto civile del paese,
salvo il caso in cui il diritto canonico ne decidesse altrimenti. Per ragioni di
opportunità valutate in modo discrezionale, il vescovo potrebbe stabilire regole
proprie.
b) Il domicilio e il quasi domicilio: La determinazione del domicilio o del quasi
domicilio e l’importanza di un insieme di disposizioni concernenti la residenza
delle persone fisiche (Can. 100-107) sono rese necessarie in virtù della carica
pastorale, per la quale la Chiesa ricerca la stabilità. Ad esempio: la
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determinazione delle regole di competenza per i tribunali. Quelle che riguardano
i soggetti di atti giuridici come nel caso di leggi emanate in un territorio, quelle
riferite all’esercizio del governo o il diritto di eleggere o ancora la validità e la
somministrazione dei sacramenti sono legate allo stato della persona secondo il
luogo dove si trova. La distinzione tra domicilio e quasi domicilio si basa
sull’intenzione della persona che si traduce in una determinazione diversa del
tempo in cui vuole risiedere in un dato luogo. Si parla di domicilio e si dà ad
una persona il nome di incola, quando questa risiede in un luogo da cinque
anni, salvo imprevisti, in modo definitivo. Si parla di quasi domicilio quando la
persona, chiamata questa volta advena, risiede in un luogo da tre mesi con
l’intenzione, salvo imprevisti, di risiedervi tre mesi. Coloro che sono fuori dal
loro domicilio o dal loro quasi domicilio, ma lo conservano, sono detti forestieri e
coloro che non hanno né domicilio né quasi domicilio, sono detti girovaghi. Lo
scopo di questa condizione canonica è descritto nel Can. 107, che designa per
ognuno il proprio parroco e il proprio ordinario. Il Codice conserva, per
l’esercizio della giurisdizione ecclesiastica, una prevalenza stretta della
territorialità nell’organizzazione della Chiesa latina, soprattutto nella
costituzione di queste istituzioni; poiché esistono parrocchie e diocesi non
territoriali, il diritto canonico mantiene il principio dell’acquisizione di un
domicilio o di un quasi domicilio mediante la residenza in un territorio. Le
persone che appartengono a diocesi o a parrocchie personali dipendono per
l’esercizio della carica personale dal loro parroco o vescovo, ma acquistano un
domicilio o quasi domicilio nei quali risiederanno. I membri degli istituti
religiosi e delle Società di vita apostolica, in virtù della forma di vita stabile che
la Chiesa riconosce loro e dell’incorporazione di cui beneficiano, acquistano
domicilio e quasi-domicilio in un modo particolare (Can.103). Pur dipendendo
dai loro superiori, vale a dire i propri Vescovi ordinari, il luogo in cui è situata la
casa nella quale dimorano, è il loro domicilio, e la casa nella quale risiedono
temporaneamente, determina l’acquisizione del quasi-domicilio. Il Codice
definisce anche le regole d’acquisizione di un domicilio o quasi-domicilio quando
non si verifica. Il Codice definisce anche le regole d’acquisizione di un domicilio
o quasi-domicilio quando non si verifica il criterio di residenza in un luogo: per i
minori e coloro che sono posti sotto tutela o curatela (Can.105): domicilio o
quasi-domicilio non dipendono dal loro luogo di residenza. Acquistano quello
della persona a cui il minore è affidato o quello del tutore o curatore. Dopo 7
anni, il minore può acquistare un quasi-domicilio o, emancipato secondo il
diritto, un domicilio. Riguardo ai coniugi (Can.104), la regola è quella del
domicilio o quasi-domicilio comune; tuttavia in caso di separazione o per una
giusta causa, ognuno potrebbe avere un proprio domicilio o quasi-domicilio.
c) Consanguineità, affinità e adozione. La condizione canonica delle persone
dipende anche dai loro reciproci legami. Questi legami sono innanzitutto quelli
di sangue (Can.108). Dal secolo VIII, il diritto canonico basava la
determinazione della consanguineità sul modo di calcolo o computo germanico.
Con il codice del 1983, è reintrodotto il computo romano, usato prima del secolo
VIII. Contandosi la consanguineità mediante linee e gradi, essa viene stabilita in
linea retta contando tanti gradi quante sono le generazioni, escluso il
capostipite. In linea collaterale, s’applica lo stesso principio: escludendo il
capostipite, si addizionano le due linee contando tanti gradi quante sono le
persone. L’affinità in sè non comporta legami di sangue, ma viene da una
parentela acquisita. Nasce da un matrimonio valido, anche non consumato,
creando legami tra il marito e i consanguinei della moglie e viceversa. Infine, i
legami che nascono dall’adozione sono determinati dalla legge civile in vigore nel
paese, cosicché i figli adottivi, secondo la legge civile, sono considerati come figli
legittimi di coloro che li hanno adottati.
d) L’iscrizione a una Chiesa rituale. La condizione canonica delle persone
differisce secondo la loro appartenenza alla Chiesa latina o ad una delle chiese
orientali unite a Roma. Il Codice del 1917 parlava di “diversi riti cattolici”
(Can.98). Il Codice del 1983 parla di Chiese rituali autonome (Can.111-112).
L’espressione è più ricca ed evita il rischio di confusione inerente al termine
stesso, abitualmente applicato nella Chiesa latina a riti liturgici diversi dal rito
latino, come lo erano il rito ambrosiano a Milano o il rito gallicano e, all’interno
del rito latino stesso, a pratiche liturgiche particolari. La Chiesa rituale
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autonoma determina un’appartenenza, di cui il battesimo è l’origine, che
comporta gli effetti giuridici, legati alla condizione delle persone che
appartengono a queste chiese. Il carattere determinante del battesimo si
evidenzia nella regola del Can.112 §2 : l’uso anche prolungato di ricevere i
sacramenti secondo il rito di una Chiesa rituale autonoma non comporta
l’iscrizione a questa chiesa. Peraltro, si può notare che non è più il rito nel quale
è celebrato il battesimo che determina la Chiesa rituale autonoma
d’appartenenza come era il caso secondo il Codice del 1917, ma piuttosto il
diritto stesso che prescrive a quale Chiesa rituale autonoma il battezzato debba
essere scritto.
c) Can. 96: condizioni d’esercizio dei doveri e diritti o
quatenus in ecclesiastica sunt communione (in quanto sono
nella comunione ecclesiastica).
1. Dal CIC 1917 al CIC del 1983. Le persone possono usare i
doveri e diritti per i quali hanno ricevuto la capacità giuridica in
quanto sono nella comunione ecclesiastica. Questo modo di parlare
dell’esercizio più o meno esteso dei doveri e diritti riferito alla
comunione è nuovo nella legislazione della Chiesa. Nel canone
corrispondente al CIC del 1917, si diceva che un uomo, tramite il
battesimo, era costituito persona nella Chiesa, a meno che un obex
ecclesiasticae communionis vinculum impediens, vale a dire un
ostacolo giuridico, non impedisse il legame di comunione
ecclesiastica (Can. 87 CIC 1917). L’obex esisteva non appena si
riceveva il battesimo in un’altra Chiesa o in un’altra comunità non
cattolica come le comunità protestanti o le Chiese ortodosse
(impediente il vincolo della comunione) o, dopo la ricezione del
battesimo nella Chiesa Cattolica, con una sanzione di scomunica
da parte dell’autorità per eresia, apostasia o scisma. L’obex non
toglieva i diritti ricevuti (radicaliter) nel battesimo, ma il loro uso
(actualiter) per motivo di scomunica cioè, nel senso della nozione
del CIC del 1917, di esclusione dalla communio fidelium. Secondo il
Can. 12 del vecchio Codice, però, quelli che non erano battezzati
nella Chiesa Cattolica erano sottomessi alle leggi ecclesiastiche
sulla scia dell’affermazione del Concilio di Trento: “haereticis
Ecclesias subditi sunt e legibus ecclesiasticis tenentur” (cc. 7 e 8).
La questione è stata affrontata in un modo diverso soprattutto
dopo la pubblicazione dell’enciclica di Pio XII Mystici corporis del 29
giugno 1943. Essa esprime ufficialmente lo sforzo della dottrina
ecclesiologica di mettere in risalto l’idea di Chiesa Corpo mistico
per superare l’assimilazione della Chiesa a una società, quindi la
riduzione del criterio di appartenenza alla Chiesa a un legane
giuridico. Pur affermando comunque che la Chiesa Cattolica
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romana è il Corpo di Cristo, affronta la questione dell’appartenenza
alla Chiesa dichiarando:
(Enciclica Mystici corporis, n. 21, testo latino in AAS, 35, 1943, p. 202: In
realtà, tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente
(reapse) quelli che ricevettero il lavacro della rigenerazione, e professando
la vera Fede, né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla
compagine di questo Corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono
separati dalla legittima autorità. "Poiché — dice l’Apostolo — in un solo
spirito tutti noi siamo stati battezzati per essere un solo corpo, o giudei o
gentili, o servi, o liberi" (I Cor. XII, 13). Come dunque nel vero ceto dei
fedeli si ha un solo Corpo, un solo Spirito, un solo Signore e un solo
Battesimo, così non si può avere che una sola Fede (cfr. Eph. IV, 5), sicché
chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio,
ritenersi come etnico e pubblicano (cfr. Matth. XVIII, 17). Perciò quelli che
son tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere
nell’unita di tale Corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito).
Come scrive R. Coronelli: “Per quanti non appartengono
all’organismo della Chiesa, e quindi non possono oggettivamente
godere della pienezza dei doni e degli aiuti spirituali che essa mette
a disposizione dei suoi membri, si afferma un non meglio precisato
legame di ordinazione inscio quodam desiderio ac voto al Corpo
mistico del Redentore, che mentre da un lato implica una reale
distanza dall’essere membro effettivo della Chiesa, dall’altro
suggerisce l’esistenza di un certo qual rapporto con la Chiesa
stessa per ogni uomo che perviene alla salvezza; ciò che è
sufficiente a salvaguardare il rispetto della tradizionale opinione
extra Ecclesiam nulla salus o della salvezza mediante la Chiesa”8.
Il testo dell’enciclica sarà l’inizio di una nuova ricerca nel campo
canonico, in coincidenza con gli studi ecclesiologici, per trattare
della questione dello statuto giuridico delle persone che non sono
esclusivamente (reapse) membri della Chiesa. Ad esempio, W.
Onclin dichiarò che ci sono due appartenenze: l’una alla società
ecclesiastica, alla quale aggrega il battesimo; l’altra al Corpo
mistico che può non essere realizzata perché manca degli elementi
essenziali, cioè perché l’incorporazione alla Chiesa non è piena.
Mörsdorf pure distinse l’appartenenza di un membro della Chiesa
dovuta al battesimo (Konstitutionelle Gliedschaft) e l’appartenenza
di fatto (tätige Gliedschaft) a causa dei legami che hanno con gli
8
R. Coronelli, Linee di sviluppo della dottrina in tema di appartenenza alla Chiesa: dal
CIC/1917 al CIC/1983 in Periodica, 89, 2000, p. 211: L’Enciclica affronta anche il
problema dell’appartenenza dei peccatori alla Chiesa. Sono realmente membri della
Chiesa, ma deboli (vedere ibid, p. 212).
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elementi del Corpo mistico9. Dopo il Concilio Vaticano II, è la
Lumen gentium e altri testi conciliari ad avere ispirato il nuovo
vocabolario usato nel Can. 96 del CIC del 1983 (“in quanto sono
nella comunione della Chiesa”). Esso esprime l’ecclesiologia del
Concilio Vaticano II, che consente di descrivere la Chiesa come una
comunione e tenta di discostarsi da un approccio troppo giuridico
all’istituzione ecclesiale, pur affermando che essa è una società
(LG, 8).
2. Casi dei fedeli che hanno ricevuto il battesimo in un’altra
Chiesa o in una comunità ecclesiale non cattolica. Non sono
nella piena comunione della Chiesa coloro che hanno ricevuto
validamente il battesimo in un'altra Chiesa o una comunità
ecclesiale non cattolica. Infatti, dopo il Concilio Vaticano I, il CIC
non considera più come responsabili di una divisione, quindi
scismatici o eretici (scomunicati), i cristiani nati in comunità la cui
scissione con la Chiesa Cattolica è consumata e con la quale cerca
d’intrattenere relazioni ecumeniche.
UR, 3. In questa Chiesa di Dio una e unica sono sorte fino dai
primissimi tempi alcune scissioni (15), condannate con gravi parole
dall'Apostolo (16) ma nei secoli posteriori sono nate dissensioni più
ampie, e comunità considerevoli si staccarono dalla piena
comunione della Chiesa Cattolica, talora per colpa di uomini di
entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella
fede di Cristo in tali comunità, non possono essere accusati di
peccato di separazione, e la Chiesa Cattolica li circonda di fraterno
rispetto e di amore. Coloro infatti che credono in Cristo ed hanno
ricevuto validamente il battesimo, sono costituiti in una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa Cattolica.
Sicuramente, le divergenze che in vari modi esistono tra loro e la
Chiesa Cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche della
disciplina, sia circa la struttura della Chiesa, costituiscono non
pochi impedimenti, e talvolta gravi, alla piena comunione ecclesiale.
Al superamento di essi tende appunto il movimento ecumenico.
Nondimeno, giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a
Cristo (17) e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e
dai figli della Chiesa Cattolica sono giustamente riconosciuti quali
fratelli nel Signore (Vedere in allegato tutto il brano e altri della LG).
9
Vedere G. Michiels, Principia …, op. cit. p. 22, nota 1. Espone la tesi di Mörsdorf ma nota che
il vocabolario utilizzato , cioè membrum della Chiesa non è quello del Can. 87 del CIC 1987.
Esso aggiunge comunque che“ ad normam canonis 87 sane Baptismate homo radicitus
constituitur in Ecclesia Christ persona e fit Ecclesiae Catholicae subditus, non autem Ecclesiae
membrum “. Compare che la Mystici Corporis introduce un modo ecclesiologico di determinare
lo statuto di membro appartenente alla Chiesa. Michiels insite sul fatto che l’atto di eresia,
scisma ed apostasia è verificato externe et formaliter. Quindi non è, dice, il carattere delittuoso
che porta all’obex ma il fatto materiale-oblectivum della separazione (ibid., p. 23).
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Il Can. 205, direttamente ripreso dalla Cost. Lumen gentium
dell’ultimo concilio, descrive la piena comunione come un’unione
con Cristo nell’insieme visibile della Chiesa, mediante i legami della
professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico, che
sono “i beni” che Cristo ha lasciato alla Chiesa come mezzi di
salvezza.
Can. 205 - Su questa terra sono nella piena comunione della
Chiesa Cattolica quei battezzati che sono congiunti con Cristo nella
sua compagine visibile, ossia mediante i vincoli della professione di
fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico
** Can. 205. Plene in communione Ecclesiae catholicae his in terris sunt illi
baptizati, qui in eius compage visibili cum Christo iunguntur, vinculis nempe
professionifidei sacramentorum et ecclesiastici regiminis.
L’Ecclesia Christi sussiste nella Chiesa Cattolica e al di fuori della
Chiesa Cattolica. Dove si è ricevuto il battesimo valido, si trovano
elementi di santificazione. Mediante il battesimo, l’uomo appartiene
alla Chiesa (incorporato) e riceve una capacità di esercitare doveri e
diritti, ma c’è una graduazione nell’appartenere alla compagine
visibile della Chiesa Cattolica (in piena comunione o non in piena
comunione) secondo il riconoscimento dei tre vincoli necessari per
raggiungere la salvezza e presenti nella Chiesa Cattolica (vedere lo
statuto diverso e da non confondere dei fedeli che sono nella piena
comunione, ma che non sono in comunione perfetta, Can. 916). In
conseguenza, lo statuto dei cristiani che non sono nella piena
comunione della Chiesa Cattolica comporta, a causa della
“comunione non piena”, non più la sottomissione a tutte le leggi
ecclesiastiche (Can. 11 CIC 1983) come voleva il CIC del 1917
(Can. 12 CIC 1917), ma, oltre la sottomissione al diritto divino e al
diritto naturale, doveri e diritti specifici (capacità di agire): Can.
869 § 2, Can. 844, Can. 874 § 2, Can. 463 § 3, Can. 383 § 3, 528 §
1, Can. 825, Can. 1124-1129, Can. 1170, Can. 118310.
CAN. 11: Alle leggi puramente ecclesiastiche sono tenuti i
battezzati nella Chiesa Cattolica o in essa accolti, e che godono di
sufficiente uso di ragione e, a meno che non sia disposto
espressamente altro dal diritto, hanno compiuto il settimo anno.
CAN. 11. Legibus mere ecclesiasticis tenentur baptizati in Ecclesia catholica vel in
eandem recepti, quique sufficienti rationis usu gaudent et, nisi aliud iure
expresse caveatur, septimum aetatis annum expleverunt.
10
Per persona giuridica acattolica, vedere P. Gismondi, La capacità giuridica degli
acattolici, in Acta Congressus internationalis iuris canonici (Romae, in aedibus Pont.
Universitatis Gregorianae 25-30septembris 1950), Officium Libri Catholici, Romae, 1953,
p. 130-145 (Ephemerides Iuris Canonici).
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3. Casi dei fedeli battezzati nella Chiesa cattolica che non sono
nella piena comunione. Non sono più nella piena comunione della
Chiesa i fedeli battezzati nella Chiesa cattolica che sono stati
dichiarati colpevoli di un delitto contro l’unità della Chiesa che
separa dalla piena comunione. Il libro sulle sanzioni e il libro sulla
funzione d’insegnamento presentano tre delitti che separano dalla
piena comunione con la Chiesa (Can. 1364 § 1 e Can. 751) e
comportano ipso facto la scomunica quando sono riunite le
condizioni dell’applicazione e della dichiarazione delle pene (Can.
1321 e succ.): l’apostasia, vale a dire il rigetto totale della fede
cattolica con un atto formale, l’eresia o l’ostinata negazione dopo la
ricezione del battesimo di una verità che deve essere creduta di
fede divina e cattolica o il dubbio ostinato su queste verità e lo
scisma che consiste nel rifiutare la sottomissione al Pontefice
Romano o la comunione con i membri della Chiesa che a lui sono
sottomessi.
Can. 751 - Viene detta eresia, l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto
il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e
cattolica, o il dubbio ostinato su di essa; apostasia, il ripudio totale
della fede cristiana; scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo
Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti.
Can. 1364 - § 1. L’apostata, l’eretico e lo scismatico incorrono nella
scomunica latae sententiae, fermo restando il disposto del Can. 194, §
1, n. 2; il chierico inoltre può essere punito con le pene di cui al Can.
1336, § 1, nn. 1, 2 e 3.
** Can. 751. Dicitur haeresis, pertinax, post receptum baptismum, alicuius
veritatis divina et catholica credendae denegatio, aut de eadem quintum saltem
aetatis annum; qui matrimonio coniunctus est, schisma, subiectionis Summo
Pontifici aut communionis cum Ecclesiae membris eidem subditis detrectatio.
** Can. 1364 §1. Apostata a fide, haereticus vel schismaticus in
excommunicationem latae sententiae incurrit, firmo praescripto Can. 194, §1,
n. 2; clericus praeterea potest poenis, de quibus in Can. 1336, §1, nn. 1, 2 et 3,
puniri.
Ogni delitto è conseguenza di un atto di volontà che manifesta nel
foro esterno la negazione o il rifiuto volontario di uno dei legami
d’unità nell’insieme visibile della Chiesa. In ragione di ciò, sono
incorsi nella pena di scomunica, che può essere dichiarata, pena
prevista in questi casi di delitto che li priva dell’uso dei loro doveri
e diritti nella Chiesa Cattolica. La scomunica in quei casi allontana
dalla piena comunione ecclesiastica (ma non è il caso della
scomunica in quanto tale che può essere inflitta o dichiarata a
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fedeli che rimangono nella piena comunione, vedere più avanti). I
fedeli non sono più considerati come facenti parti della comunità
dei fedeli, ma, mantenendo il loro statuto fondamentale di
battezzati nella Chiesa Cattolica con capacità giuridica di esercitare
(radicaliter) la missione affidata da Cristo (Can. 11), resta loro il
diritto di ritornare nella comunione della Chiesa, dove potranno
ritrovare il pieno esercizio (actualiter) dei doveri e diritti del loro
statuto giuridico di fedele (capacità di agire) senza essere tenuti,
come i battezzati in un’altra Chiesa o comunità non cattoliche ad
essere ricevuti in essa. Il loro ritorno nella Chiesa
corrisponderebbe, in effetti, alla rimozione della censura di
scomunica (Can. 1354 e succ.) .
d) Can. 96: condizioni d’esercizio dei doveri e diritti o nisi
obstet lata legitime sanctio (purché non si frapponga una
sanzione legittimamente inflitta).
1. Casi delle persone che hanno ricevuto una sanzione
canonica (non per eresia, scisma o apostasia). Accanto alla
scomunica per delitto contro l’unità della Chiesa che dà ad un
fedele
uno statuto specifico perché non è più nella piena
comunione, possono essere inflitte o dichiarate dall’autorità altre
sanzioni, che privino dell’uso di certi diritti e doveri (capacità di
agire e non capacità giuridica). Le diminuzioni dello statuto
giuridico del fedele gli impediscono di far uso di diritti e doveri
come stabilisce il CIC nel Libro VI sulle pene: a) le censure o la
scomunica, l’interdizione o la sospensione; b) le pene espiatore, o
altre pene precisate in un precetto penale o di un giudice. Ci sono
canonisti che estendono la parola sanzione ad altre decisioni fuori
dell’applicazione del diritto penale, cioè disciplinari. In questo caso,
sarebbero inserite nel concetto di sanzioni anche le decisioni che
modificano l’uso dei doveri e diritti di una persona anche se non
sono penali (ad.es. Can. 805, Can. 1741, 1°, Can. 193, Can. 305 §
1, Can. 974…). Sia che il termine “sanzione” abbia senso stretto o
senso ampio, (noi siamo per il senso stretto a causa
dell’importanza del Can. 96 che tratta della riduzione della
capacità di agire), comunque le persone sono nella comunione della
Chiesa con uno statuto specifico che impedisce di esercitare i
doveri e i diritti della loro condizione canonica; anche scomunicate
(tranne per eresia, apostasia o scisma), sono nella comunione della
Chiesa.
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2) Il dibattito sull’abbandono della Chiesa per un “atto
formale”.
(1) Dalla promulgazione del CIC del 1983 al M.P. Omnium in mentem
di Benedetto XVI (15 dicembre 2009). Dopo la promulgazione del
CIC, una discussione si è sviluppata in seno alla canonistica sul
senso da dare: 1) all’espressione “atto formale” usata da tre canoni
riguardanti la dispensa della forma canonica del matrimonio data a
un battezzato, cioè tre eccezioni alla disposizione del Can. 11; 2) ad
altre espressioni che affrontano i casi di abbandono della Chiesa
Cattolica o di staccamento dalla comunione della Chiesa.
I tre canoni riguardanti la forma della celebrazione del matrimonio
canonico erano:
(Testo dei tre canoni prima della modifica dal M.P Omnium in
mentem del 15 dicembre 2009).
Can. 1086 - § 1. E’ invalido il matrimonio tra due persone, di cui
una sia battezzata nella Chiesa Cattolica o in essa accolta e non
separata dalla medesima con atto formale, e l’altra non battezzata.
Can. 1117 - La forma qui sopra stabilita deve essere osservata se
almeno una delle parti contraenti il matrimonio è battezzata nella
Chiesa Cattolica o in essa accolta e non separata dalla medesima
con atto formale, salve le disposizioni del Can. 1127, § 2.
Can. 1124 - Il matrimonio fra due persone battezzate, delle quali
una sia battezzata nella Chiesa Cattolica o in essa accolta dopo il
battesimo e non separata dalla medesima con atto formale, l’altra
invece sia iscritta a una Chiesa o comunità ecclesiale non in piena
comunione con la Chiesa Cattolica, non può essere celebrato senza
espressa licenza della competente autorità.
Gli altri canoni (6 canoni) che menzionano un distacco dalla Chiesa
senza parlare di atto formale sono:
(Il testo dei canoni che non è stato modificato dal M.P. Omnium in
mentem del 15 dicembre 2009).
Can. 171 - § 1. Sono inabili a dare il voto:
4° colui che si è staccato notoriamente dalla comunione della Chiesa.
Can. 194 - § 1. E’ rimosso dall’ufficio ecclesiastico per il diritto
stesso:
2° chi ha abbandonato pubblicamente la fede cattolica o la comunione
della Chiesa;
Can. 316 - § 1. Non può essere validamente accolto nelle
associazioni pubbliche chi ha pubblicamente abbandonato la fede
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cattolica, chi si è allontanato dalla comunione ecclesiastica e chi è
irretito da una scomunica inflitta o dichiarata.
Can. 694 - § 1. Si deve ritenere dimesso dall’istituto, per il fatto
stesso, il religioso che:
1° abbia in modo notorio abbandonato la fede cattolica;
Can. 1071 - § 1. Tranne che in caso di necessità, nessuno assista
senza la licenza dell’Ordinario del luogo:
4° al matrimonio di chi ha notoriamente abbandonato la fede
cattolica;
Le espressioni sono molto diverse e non parlano di atto formale:
distacco notorio dalla comunione, abbandono pubblico della fede
cattolica o della comunione della Chiesa, allontanamento dalla
comunione ecclesiastica, irritamento da una scomunica inflitta o
dichiarata, abandono in modo notorio della fede cattolica.
(2) Posizione nel 2006 del Pontificio Consiglio per i testi legislativi. Il
Pontificio Consiglio per i testi legislativi non ha dato
un’interpretazione autentica ma un parere sui canoni che erano
difficili da interpretare e davano luogo a giurisprudenze diverse
all’occasione di domanda di dichiarazioni di nullità di matrimoni.
Secondo il parere, erano i tre delitti di eresia, di apostasia e di
scisma che dovevano essere qualificati di “actus formalis
defectionis ab Ecclesia catholica”, avendo conseguenze sullo
statuto del fedele al momento della celebrazione del matrimonio.
Questi tre casi erano considerati come distinti dai canoni in cui si
parla dell’abbandono della fede cattolica e non riguardanti una
perdita “formalmente individuabile” della comunione con la
Chiesa Cattolica.
I punti salienti della lettera sono:
- Una considerazione sul testo del nuovo CIC 1983: il testo
riconosce che l’actus defectionis ab Ecclesia è “un concetto nuovo
nella legislazione canonica e diverso dalle altre modalità piuttosto
“virtuali” (basate cioè su comportamenti) di abbandono “notorio” o
semplicemente “pubblico” della fede (cfr. cann. 171, § 1, 4°; 194, §
1, 2°; 316, § 1; 694, § 1, 1°; 1071, § 1, 4° e § 2), circostanze in cui i
battezzati nella Chiesa Cattolica o in essa accolti sono tenuti alle
leggi meramente ecclesiastiche (cfr. Can. 11)”.
- Una determinazione dei criteri per qualificare un atto di formale
defectio dalla Chiesa: il Pontificio consiglio decise che “l’abbandono
della Chiesa Cattolica perché possa essere validamente configurato
come un vero actus formalis defectionis ab Ecclesia, anche agli
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effetti delle
concretizzarsi
cattolica; b)
decisione; c)
competente di
eccezioni previste nei predetti canoni, deve
nella: a) decisione interna di uscire dalla Chiesa
attuazione e manifestazione esterna di questa
recezione da parte dell’autorità ecclesiastica
tale decisione”.
- Una riflessione sul contenuto dell’atto: “ un tale atto formale di
defezione non ha soltanto un carattere giuridico-amministrativo
(l’uscire dalla Chiesa nel senso anagrafico con le rispettive
conseguenze civili), ma si configura come una vera separazione
dagli elementi costitutivi della vita della Chiesa. Suppone quindi un
atto di apostasia, eresia o scisma.
- Una considerazione riguarda la forma dell’atto: a) “l’atto giuridicoamministrativo dell’abbandono della Chiesa di per sé non può
costituire un atto formale di defezione nel senso inteso dal CIC,
giacché potrebbe rimanere la volontà di perseverare nella
comunione della fede. Deve trattarsi, pertanto, di un atto giuridico
valido posto da persona canonicamente abile e in conformità alla
normativa canonica che lo regola (cfr. cann.124-126). Tale atto
dovrà essere emesso in modo personale, cosciente e libero. b)
L’eresia formale o (ancor meno) materiale, lo scisma e l’apostasia
non costituiscono da soli un atto formale di defezione, se non sono
concretizzati esternamente e se non sono manifestati nel modo
dovuto all’autorità ecclesiastica). c) Perché l’atto sia detto formale (
“si richiede … che l’atto venga manifestato dall’interessato in forma
scritta, davanti alla competente autorità della Chiesa Cattolica:
ordinario o parroco proprio, al quale unicamente compete giudicare
l’esistenza o meno nell’atto di volontà del contenuto espresso”.
- Una precisazione sui due elementi esterno e interno: Di
conseguenza, soltanto la coincidenza dei due elementi – il profilo
teologico dell’atto interiore e la sua manifestazione nel modo così
definito – costituisce l’actus formalis defectionis ab Ecclesia
catholica, con le relative sanzioni canoniche (cfr. Can. 1364, § 1).
- Inoltre, come chiedono sempre le persone che rivendicano l’atto
formale, il Pontifico Consiglio raccomanda all’autorità competente
di provvedere “perché nel libro dei battezzati (cfr. Can. 535, § 2)
venga fatta l’annotazione con la dicitura esplicita di avvenuta
“defectio ab Ecclesia catholica actu formali”.
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- Infine, il testo ribadisce un elemento teologico e canonico
essenziale riguardante la portata giuridica dell’atto formale:
“rimane, comunque, chiaro che il legame sacramentale di
appartenenza al Corpo di Cristo che è la Chiesa, dato dal carattere
battesimale, è un legame ontologico permanente e non viene meno
a motivo di nessun atto o fatto di defezione.
- In questi casi, la stessa autorità ecclesiastica competente
provvederà perché nel libro dei battezzati (cfr. Can. 535, § 2) venga
fatta l’annotazione con la dicitura esplicita di avvenuta “defectio ab
Ecclesia catholica actu formali”.
(3) Decisione del M.P. Omnium in mentem di Benedetto XVI del 15
dicembre 2009: la soppressione della menzione dell’atto formale nei
canoni riguardanti il matrimonio. Alla fine del 2009, Benedetto XVI
ha promulgato un M.P. che porta un cambiamento dei tre canoni
che menzionavano l’atto formale con la conseguenza di dispensare
della forma canonica del matrimonio. Dopo avere ricordato la
competenza della suprema autorità della chiesa nell’approvare e
definire i requisiti per la validità dei sacramenti, il papa invoca
quattro motivi che segnano le difficoltà di applicazione dei tre
canoni (117, 1086 e 1124).
- Il primo motivo è “l’esperienza di questi anni (che) ha mostrato …
che questa nuova legge ha generato non pochi problemi pastorali.
Anzitutto è apparsa difficile la determinazione e la configurazione
pratica, nei casi singoli, di questo atto formale di separazione dalla
Chiesa, sia quanto alla sua sostanza teologica sia quanto allo
stesso aspetto canonico.”
- Il secondo motivo riguarda a) l’azione pastorale: “Infatti si
osservava che dalla nuova legge sembravano nascere, almeno
indirettamente, una certa facilità o, per così dire, un incentivo
all’apostasia in quei luoghi ove i fedeli cattolici sono in numero
esiguo, oppure dove vigono leggi matrimoniali ingiuste, che
stabiliscono discriminazioni fra i cittadini per motivi religiosi”. b) La
prassi dei tribunali davanti alla difficoltà dei “ritorni” dei battezzati
che, dopo il fallimento di un primo matrimonio, desideravano
contrarre un secondo matrimonio.
- Il terzo e ultimo motivo veniva dall’applicazione dei canoni
in
concreto dai fedeli : “… omettendo altro, moltissimi di questi
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matrimoni diventavano di fatto per la Chiesa matrimoni cosiddetti
clandestini.
Dopo consultazione delle conferenze episcopali e della
Congregazione per la dottrina della fede, il papa ha deciso di
abrogare l’eccezione alla norma generale del Can. 11, quindi di
abolire la “regola introdotta nel corpo delle leggi canoniche
attualmente vigente”: “Stabiliamo quindi di eliminare nel medesimo
Codice le parole: “e non separata da essa con atto formale” del Can.
1117, “e non separata da essa con atto formale” del Can. 1086 § 1,
come pure “e non separata dalla medesima con atto formale” del
Can. 1124”.
Il nuovo testo dei tre canoni è:
(attenzione ! Se il vostro Codice è stato pubblicato prima del M.P. Omnium in mentem,
non dimenticate di cambiare i canoni !!!!!)
Can. 1086 - § 1. E’ invalido il matrimonio tra due persone, di cui una sia
battezzata nella Chiesa Cattolica o in essa accolta e l’altra non battezzata.
CAN. 1117 - La forma qui sopra stabilita deve essere osservata se almeno
una delle parti contraenti il matrimonio è battezzata nella Chiesa Cattolica
o in essa accolta, salve le disposizioni del Can. 1127, § 2.
Can. 1124 - Il matrimonio fra due persone battezzate, delle quali una sia
battezzata nella Chiesa Cattolica o in essa accolta dopo il battesimo, l’altra
invece sia iscritta a una Chiesa o comunità ecclesiale non in piena
comunione con la Chiesa Cattolica, non può essere celebrato senza
espressa licenza della competente autorità.
** Can. 1086 § 1: Matrimonium inter duas personas, quarum altera sit baptizata in
Ecclesia catholica vel in eandem recepta, et altera non baptizata, invalidum est.
Can. 1117: Statuta superius forma servanda est, si saltem alterutra pars
matrimonium contrahentium in Ecclesia catholica baptizata vel in eandem recepta
sit, salvis praescriptis Can. 1127, § 2.
** Can. 1124: Matrimonium inter duas personas baptizatas, quarum altera sit in
Ecclesia catholica baptizata vel in eandem post baptismum recepta, altera vero
Ecclesiae vel communitati ecclesiali plenam communionem cum Ecclesia catholica
non habenti adscripta, sine expressa auctoritatis competentis licentia prohibitum
est.
(4) Situazione dopo la promulgazione del M.P. Omnium in mentem.
1. Oggi l’atto formale di uscita dalla piena comunione della Chiesa
Cattolica non è più menzionato nel CIC come caso consentendo la
non imposizione dell’obbligo della forma canonica del matrimonio a
battezzati nella Chiesa Cattolica. Secondo il Can. 11, tutti i
battezzati nella Chiesa Cattolica (anche quelli, battezzati nella
Chiesa Cattolica, che non sono più nella piena comunione per
motivi di delitto di eresia, di apostasia o di scisma - che può essere
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dichiarato - oppure sono oggetti di una sanzione che cambi
l’esercizio dei doveri e diritti) sono tenuti ad osservare le leggi
ecclesiastiche. Quindi, il CIC vigente non presenta più eccezioni
all’obbligo del Can. 11 contrariamente ai 3 canoni del CIC prima
della promulgazione del M.P. Omnium in mentem riguardanti la
forma canonica del matrimonio (atto formale di uscita dalla
Chiesa).
2. Rimangono solamente i canoni citati (5 canoni sopra p. 15)
secondo i quali i casi di abbandono pubblico o notorio della fede
cattolica o di distacco pubblico o notorio dalla comunione
ecclesiastica portano conseguenze sullo statuto di una persona
nella Chiesa (capacità di voto, esercizio dei doveri e diritti
dell’ufficio, accettazione come membro di un associazione pubblica,
diritto di rimanere in un istituto, diritto di assistere a un
matrimonio).
3. I canoni si applicheranno nei casi previsti dal libro sulle sanzioni
cioè i delitti dai quali risulta la perdita della piena comunione
ecclesiastica. Si può dire che i delitti di apostasia, eresia e scisma
sono atti formali pubblici di abbandono della fede cattolica o di
distacco dalla comunione della Chiesa, i quali, quindi, sono
indirettamente menzionati, senza l’affermazione della formalità. Se
si tratterà, però, di una scomunica – dichiarata o non dichiaratala formalità sarà garantita dall’applicazione del libro sulle sanzioni.
4. Ma ci sono casi nei quali un fedele ha pubblicamente
abbandonato la fede cattolica o si è distaccato notoriamente dalla
comunione della Chiesa senza che sia formalmente sancito da una
sanzione in applicazione dei cc. 1321 e succ. Ad esempio, quando
un fedele è apostata, eretico o scismatico senza essere scomunicato
perché non può essere punito (Can. 1323) o quando il delitto non è
compiuto (Can. 1330). Sarà sempre difficile qualificare tali atti che
possono essere solo atteggiamenti o dichiarazioni o volontà
manifestata pubblicamente ma non oggetto di sanzione, che
segnano un distacco dai tre vincoli di comunione. Il CIC vigente
però prevede conseguenze canoniche nei 6 canoni menzionati (Can.
171 § 4, Can. 194 § 2, Can. 316 § 1, Can. 694 § 1, Can. 1071, §1).
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c) I catecumeni.
1. Capacità del non battezzato. Il Can. 96 parla dell’uomo che
diventa persona: attraverso il battesimo, l’essere umano è
costituito come persona nella Chiesa di Cristo con gli obblighi e i
diritti propri dei cristiani. La dottrina ha dibattuto sul punto per
sapere se si potesse riconoscere uno statuto di persona nella
Chiesa prima che uno fosse battezzato. Per la scuola laica italiana,
alla metà del secolo scorso e nel commentare il Can. 87 del CIC del
1917 che, almeno su questo punto dice la stessa cosa del Can. 96
del CIC vigente, era ovvio che i non battezzati, senza essere membri
della Chiesa Cattolica, dovessero essere riconosciuti come persone
in virtù della loro condizione umana, come gli stranieri sono capaci
di possedere e acquistare diritti soggettivi in un ordinamento nel
quale non hanno lo statuto di cittadino. In questo caso, i non
battezzati ricevono una capacità giuridica di personae extra
Ecclesiam, cioè doveri e diritti, specifica opinione alla quale si
opponevano alcuni canonisti. Ancora dopo la promulgazione del
CIC del 1983, vi sono autori che riconoscono la personalità e la
capacità di agire con titolarità di diritti prima che un uomo sia
battezzato (ad es. G. Lo Castro). Una lettura del Can. 11 del CIC
del 1983 consente di concludere che un uomo, non membro della
Chiesa e, quindi, non essendo incorporato alla Chiesa di Cristo con
i doveri e i diritti propri ai cristiani, è soggetto del diritto naturale.
Inoltre, nel CIC vigente, il non battezzato è titolare di diritti: Can.
383 § 4, Can. 748 § 1 e Can. 771 § 2, Can. 771 § 2, Can. 1086,
Can. 1142, Can. 1170, Can. 1476, ai quali si aggiunge il diritto alla
libertà religiosa. Inoltre, vedremo più avanti il caso dei catecumeni.
Non essere favorevole al riconoscimento della personalità dei non
battezzati significa leggere il Can. 96 in modo stretto, restringendo
l’applicazione del diritto canonico alla comunità creata dal
battesimo e capace di vivere nel nuovo statuto dato dal
sacramento. Una tale concezione riguarda la natura del diritto
canonico e l’ampiezza della sua applicazione.
2. Uno statuto di catecumeno nella Chiesa. I catecumeni non
sono persone fisiche nella Chiesa Cattolica e non ricevono una
capacità giuridica come l’ottengono coloro che hanno ricevuto il
battesimo da usare secondo la loro condizione giuridica. Ricevono,
tuttavia, uno statuto giuridico particolare o speciale, perché la
Chiesa li considera già come suoi (Can. 206). Non sono membri
della Chiesa come dimostra il fatto che dovrebbero chiedere la
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dispensa di disparità di culto se dovessero contrarre matrimonio
con parte cattolica.
Can. 206 - § 1. Per titolo particolare sono legati alla Chiesa i
catecumeni, coloro cioè che, mossi dallo Spirito Santo, chiedono
con intenzione esplicita di essere incorporati ad essa e di
conseguenza, per questo desiderio, come pure per la vita di fede,
di speranza e di carità che essi conducono, sono congiunti alla
chiesa, che già ne cura come suoi.
§ 2. La Chiesa dedica una cura particolare ai catecumeni, e
mentre li invita a condurre una vita evangelica e li introduce alla
celebrazione dei riti sacri, già ad essi elargisce diverse prerogative
che sono proprie dei cristiani.
** Can. 206- §1. Speciali ratione cum Ecclesia conectuntur
catechumeni, qui nempe, Spiritu Sancto movente, explicita
voluntate ut eidem incorporentur expetunt, ideoque hoc ipso voto,
sicut et vita fidei, spei et caritatis quam agunt, coniunguntur cum
Ecclesia, quae eos iam ut suos fovet.
§2. Catechumenorum specialem curam habet Ecclesia quae, dum
eos ad vitam ducendam evangelicam invitat eosque ad sacros ritus
celebrandos introducit, eisdem varias iam largitur praerogativas,
quae christianorum sunt propriae.
A partire della legislazione del CIC del 1917, si poteva stabilire che
i catecumeni beneficiavano di un certo statuto giuridico, senza che
per questo fosse loro destinato un canone. Il Concilio Vaticano II ne
parla esplicitamente, riconoscendo che essi sono uniti alla Chiesa e
che deve essere chiaramente stabilito uno statuto giuridico:
LG, 14: I catecumeni che per impulso dello Spirito Santo
desiderano ed espressamente vogliono essere incorporati alla
Chiesa, vengono ad essa congiunti da questo stesso desiderio, e
la madre Chiesa li avvolge come già suoi con il proprio amore e
con le proprie cure” (Lumen gentium 14).
AG, 14: Coloro che da Dio, tramite la Chiesa, hanno ricevuto il
dono della fede in Cristo (74), siano ammessi nel corso di
cerimonie liturgiche al catecumenato. Questo, lungi dall'essere
una semplice esposizione di verità dogmatiche e di norme
morali, costituisce una vera scuola di formazione, debitamente
estesa nel tempo, alla vita cristiana, in cui appunto i discepoli
vengono in contatto con Cristo, loro maestro. Perciò i
catecumeni siano convenientemente iniziati al mistero della
salvezza ed alla pratica della morale evangelica, e mediante dei
riti sacri, da celebrare successivamente (75), siano introdotti
nella vita religiosa, liturgica e caritativa del popolo di Dio. In
seguito, liberati grazie ai sacramenti dell'iniziazione cristiana dal
potere delle tenebre (76), morti e sepolti e risorti insieme con il
Cristo (77), ricevono lo Spirito di adozione a figli (78) e celebrano
il memoriale della morte e della resurrezione del Signore con
tutto il popolo di Dio. È auspicabile una riforma della liturgia del
tempo quaresimale e pasquale, perché sia in grado di preparare
l'anima dei catecumeni alla celebrazione del mistero pasquale,
durante le cui feste essi per mezzo del battesimo rinascono in
Cristo. Questa iniziazione cristiana nel corso del catecumenato
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non deve essere soltanto opera dei catechisti o dei sacerdoti, ma
di tutta la comunità dei fedeli, soprattutto dei padrini, in modo
che i catecumeni avvertano immediatamente di appartenere al
popolo di Dio. Essendo la vita della Chiesa apostolica, è
necessario che essi imparino a cooperare attivamente
all'evangelizzazione ed alla edificazione della Chiesa con la
testimonianza della vita e con la professione della fede. Infine,
nel nuovo Codice dovrà essere più esattamente definito lo stato
giuridico dei catecumeni. Essi infatti sono già uniti alla Chiesa
(79), appartengono già alla famiglia del Cristo (80), e non è raro
che conducano già una vita ispirata alla fede, alla speranza ed
alla carità.
Il CIC, in questa prospettiva e in applicazione di queste direttive,
dedica loro un canone nella parte che introduce la legislazione dei
fedeli.
3. L’elemento volontario quale fondamento dello statuto di
catecumeno. Nel Can. 206, sono evidenziati: 1) l’elemento
volontario del legame dei catecumeni con la Chiesa; 2)
contestualmente, la manifestazione di questa volontà quale prova
visibile nella loro vita cristiana o elemento regolamentare. Di fatto,
si può dare un’attenzione particolare all’uso delle forme attive
usate dal testo del canone: i catecumeni “chiedono con intenzione
esplicita di essere incorporati” (Vedere le traduzioni del brano del
canone in francese: “qui demandent volontairement et
explicitement à lui être incorporés”. Spagnolo: “Solicitàn
esplicitamente ser incorporados”. Tedesco: “die, vom Heiligen Geist
geleitet, mit erklärtem Willen um Aufnahme in sie bitten”. Inglese:
“who ask by explicit choice under the influence of the Holy Spirit to
be incorporated into the Church”). L’elemento volontario è
comunque menzionato nel Can. 865, che tratta delle condizioni
perché un adulto possa ricevere il battesimo: “Affinché un adulto
possa essere battezzato, è necessario che abbia manifestato la
volontà di ricevere il battesimo”. Riguardo all’elemento
regolamentare, il Can. 206 segna che al fondamento volontario
dello statuto giuridico dei catecumeni si aggiungono delle
condizioni oggettive per l’acquisizione dello statuto: i catecumeni, a
causa del loro desiderio d’incorporazione alla Chiesa, “conducono
una vita di fede, di speranza e di carità”. Quelle condizioni saranno
necessarie per battezzare un adulto. Ancora una volta, si può
rilevare che, per segnare il ruolo della volontà del catecumeno, il
Can. 206 usa una forma attiva. Solo la forma passiva riguarda la
menzione del battesimo, tramite il quale i catecumeni potranno
“essere incorporati”. La loro volontà (con il rispetto dell’elemento
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regolamentare) consente di fondare lo statuto di catecumeno. La
volontà, invece, è una condizione per ricevere il battesimo, ma il
fondamento dello statuto del battezzato è l’opera di Dio nella
persona che riceve il sacramento. Non è irrilevante al riguardo il
paragonare l’uso delle forme verbali nei due paragrafi del canone
206 e nei canoni che trattano del battesimo. Perché i catecumeni,
“mossi dallo Spirito Santo”, manifestano la loro volontà di essere
incorporati alla Chiesa, “conducono” prima del battesimo una vita
di fede, di speranza e di carità. Invece, nel Can. 204, i fedeli sono
“incorporati al Cristo”, “sono costituiti popolo di Dio”, “resi
partecipi” delle funzioni di Cristo e, alla fine, “sono chiamati a
esercitare la missione che Dio ha affidato alla Chiesa”. Nello stesso
modo, il Can. 849 recita: “Il battesimo, porta dei sacramenti,
necessario di fatto o almeno nel desiderio per la salvezza, mediante
il quale gli uomini vengono liberati dai peccati, sono rigenerati come
figli di Dio e, configurati a Cristo con un carattere indelebile,
vengono incorporati alla Chiesa, è validamente conferito soltanto
mediante il lavacro di acqua vera e con la forma verbale stabilita”.
Il raffronto del Can. 206 sui catecumeni con il Can. 204 e il Can.
849, che trattano del fedele battezzato, mostra chiaramente
l’articolazione tra l’elemento volontario che fa entrare nella chiesa e
il fatto che, appartenendo alla Chiesa, il fedele è incorporato a
Cristo e indotto ad aderire alla comunità nella quale riceve una
missione. L’elemento volontario e le condizioni di vita (mosso dallo
Spirito Santo – movimento della persona – vita trasformata) sono
necessarie per costruire l’appartenenza speciale che la Chiesa
accorda ai catecumeni, cioè come fondamento costitutivo e
preparatorio all’appartenenza che è opera di Dio nell’atto
battesimale.
4. Effetti statutari: le prerogative e il dovere della Chiesa. Il
CIC manifesta la specificità dello statuto giuridico del catecumeno
e probabilmente la preponderanza data all’elemento volontario
nella sua acquisizione, chiamando prerogative i diritti che essa
riconosce loro. Quanto ai doveri, essi sono un invito a condurre
una vita evangelica. È così messa in evidenza una distinzione con
lo statuto giuridico del battezzato, per una ragione tanto giuridica
quanto teologica: il battezzato acquisisce uno statuto sacramentale
di cui Dio è l’autore con la mediazione della Chiesa. Il catecumeno
acquisisce uno statuto non sacramentale datogli dalla Chiesa in
attesa dello statuto di battezzato. Così recita il Can. 788 § 1:
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Can. 788 - § 1. Quelli che avranno manifestato la volontà di
abbracciare la fede in Cristo, compiuto il tempo del
precatecumenato, siano ammessi con le cerimonie liturgiche al
catecumenato, e i loro nomi siano scritti nell’apposito libro.
** Can. 788 - §1. Qui voluntatem amplectendi fidem in Christum
manifestaverint, expleto tempore praecatechumenatus, liturgicis
caeremoniis admittantur ad catechumenatum, atque eorum
nomina scribantur in libro ad hoc destinato.
Le prerogative dei catecumeni riguardano, in primo luogo, la loro
formazione a ciò che il CIC chiama il loro apprendimento della vita
cristiana”. Vedere il Can. 788 § 2:
Can. 788 - § 2. I catecumeni, per mezzo dell’istruzione e del tirocinio
della vita cristiana, siano adeguatamente iniziati al mistero della
salvezza e vengano introdotti a vivere la fede, la liturgia, la carità del
popolo di Dio e l’apostolato.
** Can. 788 - § 2. Catechumeni, per vitae christianae institutionem
et tirocinium, apte initientur mysterio salutis atque introducantur in
vitam fidei, liturgiae et caritatis populi Dei atque apostolatus
.
Non hanno diritti, termine usato dal CIC per qualificare le azioni
che ogni battezzato può attuare nella Chiesa una volta ricevuto il
battesimo (Can. 209 e successivi). Non sono totalmente sotto la
giurisdizione della Chiesa (vedere Can. 11 riguardo i battezzati
nella Chiesa Cattolica), ma sono oggetti della “cura particolare”
della Chiesa Cattolica (il testo latino del canone dice specialis cura
come all’inizio del Can. 206 dice speciali ratione). Se il catecumeno
non ha diritti, la Chiesa ha un dovere nei loro confronti. Essa li
considera “come già suoi”. Sono “congiunti alla Chiesa”
(coniunguntur cum Ecclesia, quae eos iam ut suos fovet) per due
motivi: hanno manifestato il desiderio di essere incorporati alla
Chiesa e conducono già una vita di fede, di speranza e di carità.
Oltre alla formazione, che è loro dovuta (il Can. 788 § 1 e § 2
dicono: “siano ammessi”, “ siano adeguatamente iniziati”, “vengano
introdotti”), nel Can. 383 § 4 è chiesto al vescovo diocesano di
considerare loro come “affidati a sé nel Signore”. Due prerogative si
riferiscono all’esercizio del culto della Chiesa: essi possono ricevere
benedizioni (Can. 1170) e, per il funerali, devono essere considerati
come i fedeli (Can. 1183 § 1). Infine, le conferenze dei vescovi
potrebbero determinare certe prerogative non previste dal CIC. Ma
potrebbero pure determinare obblighi.
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B) I doveri e i diritti di tutti i fedeli
1. Una lista di doveri e diritti. Il progetto di una legge
fondamentale o, secondo l’espressione del papa Paolo VI, un
“codice fondamentale”, che contenga il diritto costitutivo della
Chiesa, permise che fosse elaborata una lista di diritti e doveri
fondamentali che formano lo statuto giuridico di ogni battezzato.
Tale lista, nuova perché non esisteva l’equivalente nel Codice del
1917, fu lungamente discussa sia nelle forme che nel contenuto. Le
decisioni di rinviare la pubblicazione della legge fondamentale ad
una data successiva fece di conseguenza rientrare questi canoni
nel corpo dell’ultimo progetto preparatorio del Codice ed integrare
nella parte dedicata ai fedeli. Questa riorganizzazione tardiva della
materia sembrava dare minore valore a tali norme, data
l’importanza che presentava la promulgazione d’una legge
fondamentale per un’introduzione nell’ordinamento canonico del
principio di gerarchia delle norme. Benché attualmente questi
canoni figurino nel Codice allo stesso rango degli altri canoni, si
deve concedere loro un posto preminente in virtù del loro carattere
particolare, generalmente considerato come fondamentalmente
legato allo statuto del fedele. L’assenza di diritto costituzionale
formale nel Codice potrebbe trovare qui una spiegazione. Alcuni
canoni sono costitutivi del diritto delle istituzioni e delle persone.
Contenendo elementi senza i quali l’istituzione ecclesiastica
perderebbe il suo carattere specifico, figurano come riferimento,
quando si tratta d’interpretare le leggi, di applicarle o di liberare la
loro coerenza.
2. Posizioni dottrinali sui doveri e diritti. Nella redazione dei
titoli successivi destinati alle liste dei doveri e diritti, la legge
fondamentale parlava di diritti prima di menzionare i doveri e
qualificava questi come fondamentali. Dopo l’integrazione della lista
nel Codice, la redazione del titolo segna da una parte la priorità dei
doveri sui diritti, dall’altra l’abbandono del termine fondamentale.
a) Questa trasformazione corrisponde alla concezione di una parte
della dottrina, che, al momento della revisione del Codice, chiede,
considerando insufficiente la trasformazione della sistematica di
pensiero del Codice attuale, che il diritto sia interamente
sottomesso al principio ecclesiologico della comunione, come
criterio epistemologico fondante della differenza tra il diritto
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canonico e gli altri diritti. Tale principio, detto pure d’immanenza,
consiste nel richiedere che venga tolto dal Codice tutto ciò che
rinvia ad una concezione societaria della Chiesa, che
organizzerebbe quest’ultima a partire da concetti e categorie
giuridiche propri ad ogni società giuridicamente perfetta (com’è lo
Stato e come lo faceva il cosiddetto “diritto pubblico ecclesiastico”).
In questa prospettiva, l’applicazione del principio d’immanenza
avrebbe imposto che tutti gli elementi costitutivi della Chiesa
trovassero un’unità strutturale, di cui la comunione fosse il criterio
di realizzazione. In tal modo, ogni antinomia, soprattutto individuopotere, che facesse preesistere il fedele alla Chiesa ed ogni
prospettiva
funzionale,
si
troverebbero
superate
dalla
partecipazione di ogni elemento alla realtà di comunione della
Chiesa. Per cui, secondo questi autori, la priorità data ai doveri sui
diritti e l’abbandono della qualifica che dava loro la legge
fondamentale eliminano la conflittualità strutturale (anche se di
fatto essa è possibile ed esiste) del rapporto fedele-gerarchia,
soggiacente al contrario, al rapporto cittadino-stato, determinato
dalla preesistenza della persona umana e dall’urgenza di garantire
uno spazio autonomo all’individuo. Si tratta, dunque, di un
approccio del concetto di diritto del fedele in un modo autonomo, a
partire da una riflessione ecclesiologica, che non ha niente a che
vedere con le prospettive societarie dei diritti moderni e il loro
sviluppo.
Vedere quale esempio la posizione di E. Corecco in Considerazioni
sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella chiesa e
nella società. Aspetti metodologici della questione, in E. Corecco, Ius
et communio. Scritti di diritto canonico, a cura di Graziano
Borgonovo e Arturo Cattaneo. PIEMME, 1997, p. 245-278: 1.
Nell’ordinamento costituzionale dello Stato moderno, la nozione di
diritto fondamentale significa originariamente due cose: la
preesistenza della persona come soggetto giuridico nei confronti
dello Stato e, in conseguenza, la garanzia di uno spazio di
autonomia per l’individuo. 2. La struttura costituzionale della
Chiesa Cattolica non ha come scopo quello di garantire la
realizzazione dei diritti dei fedeli, ma lo scopo della costituzione
della Chiesa è di garantire che la Parola e i Sacramenti celebrati
oggi nella Chiesa sono ancora la stessa Parola e gli stessi
Sacramenti istituiti da Cristo. 3. I diritti specifici dei cristiani non
sono preesistenti alla Chiesa, ma, conferiti da Essa mediante il
battesimo e gli altri sacramenti. 4. Il concetto di autonomia
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individuale derivante dai diritti fondamentali non è applicabile alla
Costituzione della Chiesa per analogia con quello che il carattere
fondamentale del diritto implica nelle società moderne. 5. Il
concetto di comunione spiega il modo con cui è capito il rapporto
tra individuo e collettività.
b) Anche se meno condivisa oggi, un’altra posizione dottrinale va
menzionata, perché consente di porre un problema teorico
fondamentale riguardante la natura societaria della Chiesa. C’è chi
vorrebbe sottomettere la Chiesa ai diritti fondamentali dell’uomo in
virtù del principio secondo il quale tutte le società organizzate,
dov’è esercita una potestà, devono rispettare questi diritti. Le
persone vanno protette. In questo caso la Chiesa dovrebbe ricevere
i diritti definiti per tutti gli uomini. Una tale posizione dottrinale
parte da un principio: la Chiesa è una comunità come le altre e,
comunque, non sfugge al dovere di riconoscere ai fedeli, che sono
come i cittadini delle società politiche, una protezione contro
l’esercizio della potestà ecclesiastica.
c) Altre posizioni dottrinali si richiamano ad una concezione della
Chiesa quale società specifica, il cui scopo è unico rispetto agli
scopi delle società statali. È voluta da Cristo quale comunità, in cui
i battezzati ricevono la grazia di Dio mediante i sacramenti,
dovendo realizzare nella storia il progetto divino di radunare tutti
gli uomini sotto il Figlio di Dio. Le persone giuridicamente collocate
come fedeli, godono, in virtù di una comune condizione, di
uguaglianza di dignità e d’azione e ricevono uno statuto giuridico
comune fatto di doveri e diritti dovuti a tutti. Questo tratto
specifico comporta come conseguenza il porre le persone in un
rapporto assolutamente diverso nei confronti della missione
affidata da Cristo alla sua Chiesa. Il battesimo, atto giuridico
fondamentale d’acquisizione della condizione canonica di persone e
d’incorporazione al Popolo di Dio, attribuisce il dovere e il diritto di
lavorare, affinché il messaggio divino di salvezza raggiunga sempre
di più incessantemente tutti gli uomini di ogni tempo e
dell’universo intero. Dalla natura di società della Chiesa, deriva il
concetto di doveri e diritti riconosciuti al fedele, persona umana
che ha ricevuto il battesimo. La specificità della Chiesa rispetto alle
comunità politiche, stabilita dalla maggior parte degli autori come
elemento fondamentale della loro tesi, non ha per conseguenze il
cercare un concetto essenzialmente diverso o sui generis di diritti e
doveri, ma di società diversa stante la sua natura e le sue finalità
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salvifiche e escatologiche (già e non ancora). Perciò il battezzato ha
in primis doveri e diritti naturali che la Chiesa riceve (ad. es. il
diritto di associazione, il diritto di scegliere liberamente uno stato
di vita, il diritto alla libertà religiosa….) e che il fedele accetta di
attuare nel nuovo quadro ecclesiologico, in cui è stato accolto
(autolimitazione). Ha in secundis altri doveri e diritti propri
scaturiti dal battesimo e dagli altri sacramenti in virtù della natura
e della finalità specifica della Chiesa. È il ruolo del magistero
ecclesiastico di esprimere o elaborare i doveri e i diritti delle
persone nella Chiesa. A questo punto è importante ricordare che è
necessario che il diritto canonico dia una priorità ai doveri rispetto
ai diritti. La Chiesa è organizzata gerarchicamente senza che la
distinzione chierici-laici del Can. 207 sia una ripresa della
distinzione tra gli statuti diversi e inuguali delle società
democratiche con la loro prospettiva funzionale. Alcuni fedeli
ricevono una partecipazione specifica alla missione di Cristo. Da
questo, si deduce che i doveri e i diritti dei fedeli non possono
essere espressi senza che sia valutata la possibilità che essi
concorrano a promuovere l’identità o la natura comunionale e il
bene comune della chiesa.
a) Stati delle persone e partecipazione alla missione della
Chiesa.
1. Eguaglianza tra i fedeli: l’inciso del Can. 208. La
partecipazione comune dei fedeli all’apostolato è presentata dal
Can. 208 come una “cooperazione all’edificazione del Corpo di
Cristo”.
Can. 208 - Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in
Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e
per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del Corpo di
Cristo, secondo la condizione e i compiti propri di ciascuno.
** Can. 208 - Inter christifideles omnes, ex eorum quidem in
Christo regeneratione, vera viget quoad dignitatem et actionem
aequalitas, qua cuncti, secundum propriam cuiusque condicionem
et munus, ad aedificationem Corporis Christi cooperantur.
Nel Codice il termine “cooperazione” può avere il senso di
partecipazione alla missione della Chiesa. Nel Can.208, ha un
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senso preciso che gli dà l’importante inciso “secondo la condizione
e la funzione propria di ciascuno”. Quest’inciso è stato oggetto di
discussioni dottrinali nel momento della revisione del Codice. In
effetti, con l’inciso, il canone afferma che tutti i fedeli sono uguali
nella dignità e nell’azione, ma questa uguaglianza lascia intatta la
differenza di cooperazione all’edificazione del Corpo di Cristo,
secondo lo stato nel quale si trovano dette persone. Alcuni fecero
notare che l’inciso trasformava lo spirito del testo conciliare,
riferimento del canone, poiché sostituiva l’aggettivo “comune” che,
nel testo, qualificava il termine “azione”. I fedeli erano dunque detti
attivi, ma ineguali. Inoltre, si aggiungeva che, in tal modo, il
canone dimostrava la sua dipendenza dalle tesi del diritto pubblico
ecclesiastico (messa in rilievo dell’aspetto societario della Chiesa)
che, d’altronde, si voleva superare. L’inciso è stato mantenuto fino
alla redazione finale. Come spiegarlo se non con la volontà
manifesta di proteggere il concetto stesso dell’uguaglianza tra
fedeli? In effetti, il termine uguaglianza rinvia a una nozione chiave
dell’idea stessa di democrazia, che evoca lo statuto di ogni persona
di fronte al potere. In tale modo l’uguaglianza, che deriva
dall’incorporazione al Cristo mediante il battesimo, non dovrebbe
permettere con la redazione del Can.208, di assimilare: 1) il fedele
al cittadino, 2) il potere a una rappresentazione, 3) la Chiesa ad una
democrazia.
2. Tre stati fondamentali (Can. 207).
della partecipazione all’interno della
affrontato senza che si sia esaminato
canonico lega l’esercizio e l’acquisizione
stato delle persone.
Il problema fondamentale
Chiesa non può essere
il modo in cui il diritto
delle funzioni ufficiali allo
Can. 207 - § 1. Per istituzione divina vi sono nella Chiesa i ministri
sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli poi
sono chiamati anche laici.
§ 2. Dagli uni e dagli altri provengono fedeli i quali, con la
professione dei consigli evangelici mediante voti o altri vincoli
sacri, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo
speciale a Dio e danno incremento alla missione salvifica della
Chiesa; il loro stato, quantunque non riguardi la struttura
gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia alla sua vita e alla sua
santità.
** Can. 207 - §1. Ex divina institutione, inter christifideles sunt in Ecclesia
ministri sacri, qui in iure et clerici vocantur; ceteri autem et laici
nuncupantur.
§2. Ex utraque hac parte habentur christifideles, qui professione
consiliorum evangelicorum per vota aut alia sacra ligamina, ab Ecclesia
agnita et sancita, suo peculiari modo Deo consecrantur et Ecclesiae
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missioni salvificae prosunt; quorum status, licet ad hierarchicam Ecclesiae
structuram non spectet, ad eius tamen vitam et sanctitatem pertinet.
Il Can. 207 distingue 3 stati: clericale, laicale e lo stato di quelli
che hanno fatto la professione dei consigli evangelici mediante voti
o altri vincoli sacri riconosciuti e sanciti dalla Chiesa. La parola
stato è anche usata per descrivere lo stato dei laici che vivono nel
matrimonio (stato coniugale) (Can. 226 § 1).
a) Distinzioni tra stato personale e statuto di funzione. Il canonista
spagnolo Fornés ha studiato la storia della parola stato. Già era
usata dal diritto romano che lo distingueva dalla parola ordo. La
prima riguardava la capacità giuridica delle persone, cioè i suoi
doveri e i suoi diritti. Questa capacità era stabile. L’ordo si riferiva
alle persone che compivano una funzione pubblica. San Tommaso
pure distingueva le due nozioni: lo stato è ciò che riguarda la
persona in un modo permanente, l’ordo non riguarda la persona in
modo che essa possa lasciare l’ordo senza perdere il suo stato. Oggi
vige ancora questa distinzione che, tuttavia, non è espressa come
tale nel CIC del 1983. Lo stato può essere detto personale quando
si riferisce alle capacità (doveri e diritti) acquistate stabilmente da
una persona mediante un atto sacramentale (battesimo, cresima,
ordinazione presbiterale o consacrazione episcopale, matrimonio) o
non sacramentale (voti o vincoli sacri). In conseguenza, sono stati
personali: lo stato di chierico, lo stato di laico, lo stato di membro
d’istituto di vita consacrata. Si può, inoltre, parlare dello statuto
funzionale o di funzione quando si riferisce ai doveri e diritti
acquisiti per compiere un incarico che sia un ufficio ecclesiastico
(Can. 145) con potestà di governo o meno o una delega (Can.131 §
1)11. Ad esempio, si può parlare del chierico (che ha doveri e diritti
in virtù dello stato personale), nominato parroco (che ha doveri e
diritti in virtù dello statuto di funzione in questo caso legati
all’ufficio ecclesiastico di parroco) o cappellano (che ha doveri e
diritti in virtù dello statuto di funzione). Un laico (stato personale)
può essere nominato giudice (statuto di funzione) o economo
diocesano (statuto di funzione). Un membro d’istituto di vita
consacrata (stato personale) può ricevere l’incarico di superiore
dell’istituto (statuto di funzione). Il Can. 207 § 1 affronta la
distinzione tra i due stati di chierici e di laici facendo riferimento
implicito alla costituzione gerarchica della Chiesa, la quale dà delle
capacità diverse ai chierici e ai laici.
11
Rimandiamo al corso sulle Norme generali, il commento della parte che riguarda l’ufficio
ecclesiastico.
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b) La distinzione tra gli stati. Il Can. 207 del CIC vigente ha
stranamente ripreso senza modificarlo il Can. 107 del CIC del
1917. Esso era ancora sulla scia del pensiero del periodo iniziato
nel XII secolo. Secondo Fornés, tra il XII secolo e il XVIII secolo, c’è
stato un trasferimento progressivo del concetto di status personale
dal “settore privato” al “settore pubblico” o costituzionale della
Chiesa. Nella cristianità, c’erano due ordines o funzioni, quelli
riservati ai chierici e quelli riservati ai laici, facendo si che la
società fosse divisa tra persone, esercitanti funzioni diverse, perché
avevano degli statuti personali diversi per diventare poi il proprio di
una societas inequalis.
Poi, all’epoca di Suarez, è nata la
distinzione tra status communis (clericale e laicale) e status
perfectionis, che distingue, da un lato, i chierici e i laici, dall’altro,
quelli che hanno pronunciato i voti. Lo stato di perfezione
“determinat, perficit ac elevat statum vitae christianae: et omnis
status qui aliquid altius vel aliquid aupereragationis addit illi generi
vitae comunis, sub statu perfectionis comprehenditur”. Il Can. 207 §
2, come i canoni che riguardano la vita consacrata, ha
abbandonato questa distinzione. Di fatto, definendo quello che è lo
statuto dei consacrati a Dio, il canone recita che “quantunque non
riguarda la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia
alla sua vita e alla sua santità”. Anche il Can. 574 affronta la
questione in un modo differente.
Can. 574 - § 1. Lo stato di coloro che professano i consigli
evangelici in tali istituti appartiene alla vita e alla santità della
Chiesa e deve perciò nella Chiesa essere sostenuto e promosso da
tutti.
§ 2. A questo stato alcuni fedeli sono da Dio chiamati con speciale
vocazione, per usufruire di un dono peculiare nella vita della
Chiesa e, secondo il fine e lo spirito del proprio istituto, giovare alla
sua missione di salvezza.
** Can. 574 - §1. Status eorum, qui in huiusmodi institutis consilia
evangelica profitentur, ad vitam et sanctitatem Ecclesiae pertinet,
et ideo ab omnibus in Ecclesia fovendus et promovendus est.
§2. Ad hunc statum quidam christifideles specialiter a Deo
vocantur, ut in vita Ecclesia peculiari dono fruantur et, secundum
finem et spiritum instituti, eiusdem missioni salvificae prosint.
b) Distinzione chierici-laici e organizzazione della Chiesa.
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Considerando la legislazione attuale della Chiesa, si considera
un’organizzazione delle funzioni che sia indipendente dello stato
clericale o laicale delle persone, in modo che il principio di
uguaglianza delle persone abbia come conseguenza il situarle in
una priorità funzionale rispetto all’acquisizione del potere.
1. L’organizzazione della Chiesa nel Codice 1917. Il concetto di
organizzazione della Chiesa, sul quale si fondava il Codice del
1917, poggiava sulla priorità data allo stato clericale. Il diritto
stabilisce, infatti, un rapporto stretto, vale a dire esclusivo, tra la
funzione esercitata nella Chiesa e lo statuto giuridico o sociale del
chierico che lo esercita. Così, in materia d’organizzazione della
Chiesa, non solo lo stato e lo statuto delle persone avevano un
ruolo di primaria importanza, ma addirittura lo stato clericale, vale
a dire lo stato personale di coloro che, secondo il Can.108 e
successivi, potevano pretendere alla qualifica di chierici. Per questo
il Codice del 1917 non permetteva ai laici di acquisire “uffici
ecclesiastici”, vale a dire esercitare le funzioni ufficiali comprese nel
senso stretto del Can.145 (CIC 1917). In tali condizioni,
l’organizzazione della Chiesa, in altri termini l’organizzazione delle
diverse funzioni all’interno della Chiesa, ricalcava perfettamente la
gerarchia tra i chierici, gerarchia d’ordine quando si considerava il
potere che veniva dall’ordinazione, gerarchia di giurisdizione
quando si parlava della diversa estensione dei poteri di governo e di
magistero
ricevuti
nella
missione
canonica
proveniente
dall’autorità.
2. Stato clericale e ufficio nel Codice del 1917. Il fatto d’aver
dedicato una così gran parte del libro ai chierici era una
conseguenza della concezione dell’organizzazione della Chiesa, di
cui abbiamo appena parlato. Infatti, questi canoni trattavano sia lo
statuto giuridico dei chierici, che i problemi inerenti
all’organizzazione della Chiesa in quanto tale. Nella prima parte, il
Codice esaminava i “chierici in generale” (Can. 208-214 CIC 1917).
Vi si davano le regole concernenti la loro incardinazione, i loro
diritti, i loro obblighi e logicamente, gli uffici ecclesiastici in questa
parte del canone, poiché i chierici erano i soli a poter assolvere
simili funzioni ufficiali (Can. 118 CIC 1917).
** Can. 118 CIC 1917. Soli clerici possunt potestatem sive ordinis
sive iurisdictionis ecclesiasticae et beneficia ac pensiones
ecclesiasticas obtinere.
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Era logico non parlarne altrove. Allo stesso modo, la seconda parte
conteneva una descrizione delle diverse funzioni che formavano
l’organizzazione della Chiesa e dello statuto dei chierici che lo
esercitavano. Questa descrizione figurava sotto il titolo “i chierici in
particolare” (Can. 215-486 CIC 1917), fatto che manifestava
chiaramente che stato clericale e ufficio erano legati a tal punto da
far coincidere il quadro dell’organizzazione della Chiesa con la
descrizione dello statuto dei chierici che esercitavano le funzioni.
3. L’organizzazione della Chiesa nel Codice del 1983. Il piano
del Libro II del Codice del 1983 dimostra che la concezione
dell’organizzazione della Chiesa è evoluta, in particolare il legame
esclusivo tra questa e lo stato clericale. La vecchia presentazione,
che riduceva l’organizzazione della Chiesa alla gerarchia tra i
membri del clero, è scomparsa. Il nuovo Libro II, che abbiamo già
descritto sopra, oltre alle parti inerenti alla descrizione degli stati e
statuti giuridici delle persone, contiene una parte dedicata alla
“costituzione gerarchica della Chiesa”. Il fatto di aver distaccato la
presentazione dell’organizzazione della Chiesa, da una parte, quella
dello stato clericale, dall’altra parte, quella che tratta in generale
dello stato delle persone, dimostra che si tende a concepire
quest’organizzazione in un modo più funzionale.
4. Organizzazione della Chiesa e stato delle persone. In effetti,
la struttura del Libro II del Codice attuale è interessante perché
situa l’organizzazione della Chiesa in un’altra prospettiva rispetto a
quella contenuta nel Codice del 1917. La descrizione
dell’organizzazione uffici, consigli e organi, che formano la
costituzione gerarchica della Chiesa, deve occupare un posto
secondario, poiché ogni distinzione tra le persone deve essere
collocata in rapporto all’uguaglianza fondamentale, che deriva dalla
condizione giuridica comune del fedele. Ciò evita che sia
dimenticato e messo da parte (allontanato) il principio costitutivo
della partecipazione di tutti alla missione della Chiesa. Sciolta da
un rapporto esclusivo con i chierici, la costituzione gerarchica
tende a diventare una gerarchia di funzioni più che una gerarchia
di persone. Ma, ed è questo il punto in cui il diritto canonico
presenta una concezione propria dell’organizzazione della Chiesa,
non è possibile affermare che il Codice presenti l’organizzazione
della Chiesa in una prospettiva solamente funzionale. Infatti, non
stacca interamente l’organizzazione delle funzioni ecclesiastiche
dallo stato delle persone che devono esercitare tali funzioni.
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L’evoluzione consiste, dunque, nel fatto che è stato abbandonato il
rapporto tra organizzazione della Chiesa e stato clericale, ma non
tra organizzazione della Chiesa e stato delle persone. In altri
termini, gli uffici che fanno parte della costituzione gerarchica della
Chiesa non possono essere assolti dai fedeli indipendentemente dal
loro stato.
5. Il Sacramento dell’ordine. Il ruolo sostenuto dal Sacramento
dell’ordine è all’origine di questa concezione. Questo sacramento,
dice il Can. 1008 (modificato nel M.P. Omnium in mentem del 15
dicembre 2009), costituisce alcuni fedeli ministri consacrati e
deputati ad essere pastori del Popolo di Dio.
Can. 1008 - Con il Sacramento dell’ordine per divina istituzione
alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale
vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che
sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con
nuovo e peculiare titolo.
** Can. 1008 - Sacramento ordinis ex divina institutione inter
christifideles quidam, charactere indelebili quo signantur, constituuntur
sacri ministri, qui nempe consecrantur et deputantur ut, pro suo quisque
gradu, novo et peculiari titulo Dei il populo inserviant.
Il termine “deputantur” del Can. 1008 è giuridico (vedere la
traduzione debole sopra del termine “deputantur” nel Can. 1008 in
italiano). Rinvia all’utilizzazione del termine nel Can. 225 §1 che
concerne tutti i fedeli “deputati da Dio all’apostolato in virtù del
battesimo e della cresima”. In entrambi i casi, la delega è d’ordine
sacramentale. Per quanto riguarda i ministri consacrati, essa è
fondata su una partecipazione specifica alle tre grandi funzioni del
Cristo. Riguardo i vescovi e i sacerdoti, il canone 1009 § 3 precisa
chiaramente che questa partecipazione è realizzata “ nella persona
di Cristo Capo”, il che significa che tra la partecipazione fondata
sul battesimo e quella fondata sull’ordinazione esiste una
differenza essenziale. L’inciso era stato volutamente valorizzato nel
testo del Can. 1008 prima del cambiamento voluto dal M.P.
Omnium in mentem mediante l’aggiunta tardiva di questo inciso
(vedere il testo infra n° 7). La storia della redazione del canone
mostra, in effetti, che essa è entrata nel testo preparatorio nel
1978, per evitare, dice il relatore della commissione, il pericolo di
un potere troppo grande esistente nel Popolo di Dio, sottratto ai
vescovi e il pericolo di far scomparire la differenza, che non è
distinzione, tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio
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ministeriale. A ciò s’aggiungeva il termine “pastore”, al quale il
Codice attribuisce un significato specifico in seguito al decreto
Christus Dominus del Concilio Vaticano II. Questo termine è un
attributo del ministero gerarchico e si sono rifiutati di dargli la
grande portata, che avrebbe permesso di integrare coloro che
operavano alla missione pastorale, come i laici che hanno ricevuto
un ministero.
6. Il Sacramento dell’ordine e l’organizzazione della Chiesa.
Questo spiega perché, nel Codice attuale, alcuni uffici sono
dedicati alla realizzazione della partecipazione specifica ricevuta nel
Sacramento dell’ordine e, a questo titolo, riservati a coloro che
hanno ricevuto il Sacramento dell’ordine. È il caso degli uffici di
governo o di partecipazione al governo, oppure di delegati sapendo
che la ricerca dottrinale sullo statuto di questi ultimi non è chiusa.
È anche il caso degli uffici “che si occupano interamente delle
anime, il cui espletamento richiede l’esercizio dell’ordine
sacerdotale” che non potrebbero essere validamente attribuiti a chi
non è ancora investito del sacerdozio (Can.150).
Can. 150 - L’ufficio che comporta la piena cura della anime, ad
adempiere la quale si richiede l’esercizio dell’ordine sacerdotale,
non può essere conferito validamente a colui che non è ancora
stato ordinato sacerdote.
** Can. 150 - Officium secumferens plenam animarum curam, ad quam
adimplendam ordinis sacerdotalis exercitium requiritur, ei qui sacerdotio
nondum auctus est valide conferri nequit.
Quest’ultimi sono coloro che detengono l’incarico pastorale stabile
di una comunità gerarchica, come l’incarico di vescovo diocesano o
di parroco in una parrocchia. Bisogna aggiungere, infine, alcuni
uffici circoscritti ad una parte dell’incarico pastorale, come il
cappellano di un particolare gruppo di fedeli (Can.564), o uffici che
necessitano, per essere esercitati della ricezione degli ordini per
amministrare i sacramenti, come il canonico penitenziere di una
diocesi (Can.508).
7. I diaconi. Il M.P. Omnium in mentem del 15 dicembre 2009
(testo in latino in fine delle dispense, allegato III) ha cambiato il
Can. 1008 promulgato nel 1983 che recitava:
Can. 1008 (oggi soppresso) Con il Sacramento dell’ordine per divina
istituzione alcuni tra i fedeli mediante il carattere indelebile con il
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quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che
sono consacrati e destinati a pascere il popolo di Dio, adempiendo
nella persona di Cristo Capo, ciascuno nel suo grado, le funzioni di
insegnare, santificare e governare.
Il M.P. ha promulgato un nuovo canone:
Nuovo testo del canone promulgato dal M.P. Omnium in mentem (15 dicembre
2009). Attentione ! Controllate se il vostro CIC ha inserito il nuovo testo del
canone.
Can. 1008 - § 3. Coloro che sono costituiti nell’ordine dell’episcopato o
del presbiterato ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona
di Cristo Capo, i diaconi invece vengono abilitati a servire il popolo di
Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità.
Il nuovo testo promulgato corrisponde meglio al brano conciliare
riguardante il diaconato: «In un grado inferiore della gerarchia
stanno i diaconi ai quali vengono imposte le mani “non per il
sacerdozio ma per il servizio”. Sostenuti dalla grazia sacramentale,
in comunione con il vescovo e col suo presbiterio, essi sono al
servizio del popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e
della carità» (LG, 29). Secondo il Can. 1008, promulgato nel 1983,
il diacono riceveva la capacità di esercitare una funzione in persona
Christi capitis senza introdurre una distinzione tra esso e il vescovo
e il sacerdote. Così faceva il Catechismo della Chiesa Cattolica nel
suo numero 1582. Giovanni Paolo II aveva modificato il brano del
catechismo dopo la sua pubblicazione. La Commissione teologica
internazionale aveva pure fatto riflessioni dalle quali s’ispira il M.P.
del 15 dicembre 2009, Omnium in mentem. Esso reinserisce nel
CIC una concezione del diaconato come grado del Sacramento
dell’ordine, dando la capacità di servire il popolo di Dio, ma senza
essere una partecipazione al sacerdozio di Cristo e senza ricevere
un ministero di presidenza esercitato in persona Cristi capitis, il
quale rimane il proprio dei fedeli che hanno ricevuto il sacerdozio
in ragione del ruolo particolare del sacramento dell’eucaristia.
Invece, il diacono attua la missione di servizio del popolo, come
ordinato, capace di (abile a) ricevere uffici o missioni “nella
diaconia della liturgia, della parola e della carità”. Il nuovo Can.
1008 ha abbandonato la menzione dei tria munera, sia quando
parla della consacrazione e della deputazione dei fedeli che
ricevono il Sacramento dell’ordine per il servizio (contrariamente al
vecchio Can. 1008 del CIC del 1983), sia quando descrive nel Can.
1009 l’abilitazione dei diaconi a servire il popolo di Dio.
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8. I laici e l’organizzazione della Chiesa. La concezione
dell’organizzazione della Chiesa aggiornata a partire dal Libro II del
Codice dà la possibilità ai laici di adempiere ad uffici o esercitare
incarichi nei limiti esposti sopra. Questa situazione non è soltanto
il frutto di un’evoluzione dottrinale. Si spiega anche attraverso la
storia recente dello sviluppo delle funzioni, ministeri o uffici
esercitati da laici prima della promulgazione del Codice. Per motivi
si supplenza dei chierici impediti o diventati meno numerosi,
alcuni laici sono stati autorizzati ad eseguire dei compiti, cioè ad
adempiere uffici fino a quel momento riservati ai chierici. Spesso le
autorizzazioni erano temporanee e dovevano essere applicate in
circostanze definite. Ma, in altri casi, la supplenza era meno
chiara, se non assente, come nel Motu proprio di Paolo VI Ministeria
quaedam del 15 agosto 1972 (in Ench. Vaticanum, 4, n. 1479-1770)
che, trasformando l’organizzazione degli ordini minori mediante i
quali si diventava chierici, creava due uffici liturgici, lettori e
accoliti, e invitava le conferenze episcopali a proporre la creazione
di altri uffici, in cui, questa volta, non si parlava più di supplenza,
ma si studiasse la questione nella prospettiva di una missione
affidata ai laici.
9. Questa pratica contribuì molto a rendere manifesto che le
funzioni ufficiali nella Chiesa, soprattutto l’ufficio ecclesiastico,
non erano più esclusivamente legati allo stato clericale e, per
natura, non erano più estranei alla condizione laicale. Essa trova il
primo termine nel Codice del 1983. Al Can. 228, si dichiara che i
laici, ritenuti “idonei”, possono essere chiamati ad adempiere ad
uffici e funzioni ecclesiastiche; quanto a coloro di cui è stata
riconosciuta la “competenza”, essi possono essere periti (esperti)
nei consigli. Oltre a questo canone generale, altri precisano che i
laici possono essere chiamati ad esercitare funzioni specifiche per
l’esercizio delle tre funzioni. È il caso del Can. 759, in cui si
dichiara che i laici “possono essere chiamati a cooperare con il
Vescovo ed i preti nell’esercizio del Ministero della Parola”. È,
altresì, il caso del Can. 129, § 2 per la funzione del governo e del
Can. 230 per la funzione della santificazione, in cui si ritrovano,
tra l’altro, i due ministeri liturgici di accolito e lettore. Ma resta
fermo il principio che, al di fuori delle riserve fatte dalla legislazione
sugli uffici che spettano ai chierici, esiste una libertà di
attribuzione di incarichi o uffici che può riguardare sia i chierici
che i laici, essendo una questione d’opportunità la scelta del
legame tra stato della persona ed incarico da adempiere.
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Can. 228 - § 1. I laici che risultano idonei, sono giuridicamente abili ad essere assunti
dai sacri Pastori in quegli uffici ecclesiastici e in quegli incarichi che sono in grado di
esercitare secondo le disposizioni del diritto.
§ 2. I laici che si distinguono per scienza adeguata, per prudenza e per onestà, sono
idonei a prestare aiuto ai Pastori della Chiesa come esperti o consiglieri, anche nei
consigli a norma del diritto.
** Can. 228- §1. Laici qui idonei reperiantur, sunt habiles ut a sacris Pastoribus ad illa
officia ecclesiastica et munera assumantur, quibus ipsi secundum iuris praescripta
fungi valent.
§2. Laici debita scientia, prudentia et honestate praestantes, habiles sunt tamquam
periti aut consiliarii, etiam in consiliis ad normam iuris, ad Ecclesiae Pastoribus
adiutorium praebendum.
Can. 129 - § 1. Sono abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per
istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono
insigniti dell’ordine sacro, a norma delle disposizioni del diritto.
§ 2. Nell’esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del
diritto.
** Can. 129 §1. Potestatis regiminis, quae quidem ex divina institutione est in Ecclesia
et etiam potestas iurisdictionis vocatur, ad normam praescriptorum iuris, habilis sunt
qui ordine sacro sunt insigniti.
§2. In exercitio eiusdem potestatis, christifideles laici ad normam iuris cooperari
possunt.
Can. 230 - § 1. I laici di sesso maschile, che abbiano l’età e le doti determinate con
decreto dalla Conferenza Episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il
rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti; tuttavia tale conferimento non
attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della Chiesa.
§ 2. I laici possono assolvere per incarico temporaneo la funzione di lettore nelle azioni
liturgiche; cosí pure tutti i laici godono della facoltà di esercitare le funzioni di
commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto.
§ 3. Ove le necessità della Chiesa lo suggeriscano, in mancanza di ministri, anche i
laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè
esercitare il ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il
battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto.
** Can. 230 §1. Viri laici, qui aetate dotibusque pollent Episcoporum conferentiae
decreto statutis, per ritum liturgicum praescriptum ad ministeria lectoris et acolythi
stabiliter assumi possunt; quae tamen ministeriorum collatio eisdem ius non confert
ad sustentationem remunerationemve ab Ecclesia praestandam.
§ 2. Laici ex temporanea deputatione in actionibus liturgicis munus lectoris implere
possunt; item omnes laici muneribus commentatoris, cantoris aliisve ad normam iuris
fungi possunt.
§3. Ubi Ecclesiae necessitas id suadeat, deficientibus ministris, possunt etiam laici,
etsi non sint lectores vel acolythi, quaedam eorundem officia supplere, videlicet
ministerium verbi exercere, precibus liturgicis praeesse, baptismum conferre atque
sacram Communionem distribuere, iuxta iuris praescriptas.
Can. 759 - I fedeli laici, in forza del battesimo e della confermazione, con la parola e
con l’esempio della vita cristiana sono testimoni dell’annuncio evangelico; possono
essere anche chiamati a cooperare con il Vescovo e con i presbiteri nell’esercizio del
ministero della parola.
** Can. 759 - Christifideles laici, vi baptismatis et confirmationis, verbo et vitae
christianae exemplo evangelici nuntii sunt testes; vocari etiam possunt ut in exercitio
ministerii verbi cum Episcopo et presbyteris cooperantur.
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c) Quadro d’esercizio dei doveri e diritti.
1. I doveri e i diritti descritti nel CIC, cioè nella la lista dei Can.
208-223, non sono presentati in un ordine che riveli una volontà di
classificazione secondo la loro importanza. I più importanti, che
trovano un fondamento diretto nel battesimo e che appartengono
allo statuto di fedele, sono il dovere al quale è legato un diritto
descritto sorprendentemente nella parte dedicata al laico (Can. 225
§ 1), ma di fatto attribuito a tutti i fedeli e ripreso nel Can. 211.
Can. 225 - § 1. I laici, dal momento che, come tutti i fedeli, sono
deputati da Dio all’apostolato mediante il battesimo e la
confermazione, sono tenuti all’obbligo generale e hanno il diritto
di impegnarsi, sia come singoli sia riuniti in Associazioni, perché
l’annuncio della salvezza venga conosciuto e accolto da ogni uomo
in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora maggiormente in
quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il
Vangelo e conoscere Cristo se non per mezzo loro.
** CAN. 225 § 1 - Laici, quippe qui uti omnes christifideles ad apostolatum
a Deo per baptismum et confirmationem deputentur, generali obligatione
tenentur et iure gaudent, sive singuli sive in consociationibus coniuncti,
allaborandi ut divinum salutis nuntium ab universis hominibus ubique
terrarum cognoscatur et accipiatur; quae obligatio eo vel magis urget iis in
adiunctis, in quibus nonnisi per ipsos Evangelium audire et Christum
cognoscere homines possunt.
Can. 211 - Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi
perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre piú fra
gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.
** Can. 211 - Omnes christifideles officium habent et ius allaborandi ut
divinum salutis nuntium ad universos homines omnium temporum ac
totius orbis magis magisque perveniat.
È legato a questo diritto-dovere l’obbligo “di sforzarsi di condurre
una vita santa” e di “promuovere la nascita e la santificazione
continua della Chiesa” (Can. 210). Dopo avere stabilito il principio
di uguaglianza fra tutti i fedeli, il Codice fa seguire questa
enunciazione dalla dichiarazione d’obbligo di mantenere nello
stesso modo d’agire la comunione con la Chiesa (Can. 209), cioè
imposizione-obbligo a tutti i fedeli. Quanto all’ultimo canone (Can.
223), esso presenta il limite dell’esercizio dei diritti, facendo
riferimento al bene comune della Chiesa, di cui “i fedeli, sia
individualmente che raggruppati in Associazioni, devono tener
conto” (autolimitazione dovuta ai fedeli). Per di più aggiunge, in
considerazione del bene comune, “spetta all’autorità ecclesiastica
regolare l’esercizio dei diritti propri ai fedeli” (limitazione da parte
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dell’autorità). Questi tre canoni sono fondamentali. È pertanto da
loro che i diritti e doveri dei fedeli devono essere capiti ed
interpretati.
2. Dovere di comunione con la Chiesa. La comunione forma un
quadro generale d’esercizio dei diritti e doveri che s’impone a tutti.
Can. 209 - § 1. I fedeli sono tenuti all’obbligo di conservare sempre,
anche nel loro modo di agire, la comunione con la Chiesa.
§ 2. Adempiano con grande diligenza i doveri cui sono tenuti sia nei
confronti della Chiesa universale, sia nei confronti della Chiesa
particolare alla quale appartengono, secondo le disposizioni del
diritto.
Can. 210 - Tutti i fedeli, secondo la propria condizione, devono
dedicare le proprie energie al fine di condurre una vita santa e di
promuovere la crescita della Chiesa e la sua continua santificazione.
** Can. 209 § 1. Christifideles obligatione adstringuntur, sua quoque ipsorum
agendi ratione, ad communionem semper servandam cum Ecclesia.
§2. Magna cum diligentia officia adimpleant, quibus tenentur erga Ecclesiam
tum universam, tum particularem ad quam, secundum iuris praescripta,
pertinent.
** Can. 210. Omnes christifideles, secundum propriam condicionem, ad
sanctam vitam ducendam atque ad Ecclesiae incrementum eiusque iugem
sanctificationem promovendam vires suas conferre debent.
Il canone parla d’obbligo, dimostra, pertanto, l’importanza della
volontà nell’appartenere alla Chiesa. Sul piano giuridico, il rispetto
dell’obbligo di mantenere la comunione è valutato nel foro esterno.
L’obbligo si riferisce, comunque, al foro interno o foro della
coscienza, ma l’allontanamento o mancanza di adesione interna, se
non si manifestano nel foro esterno e non sono qualificati dal
diritto o dall’autorità, non comportano effetti giuridici nell’esercizio
dei diritti e doveri. In compenso, com’è dimostrato nel commento
dei cc. 96 e 205, fuori dalla comunione con la Chiesa, nelle
condizioni stabilite da questi canoni, l’esercizio dei doveri e diritti
derivanti dal battesimo non potrebbe più essere rivendicato. Il
rifiuto o la negazione, mediante un atto esterno, di uno degli
elementi sui quali si fonda la comunione della Chiesa,
comporterebbe l’allontanamento da questa comunione. Ma il
dovere di comunione con la Chiesa obbliga anche a fare di questa
un elemento abituale dell’esercizio dei diritti e doveri, con la carità
e la solidarietà (Can. 223, § 1). Questo dovere è generale e, come
tale, appare più come un dovere morale, che come un obbligo
giuridico. Per questo motivo per rispettarlo e per metterlo in pratica
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è necessario poterlo inserire nelle istituzioni, in cui il legame con la
Chiesa e i suoi membri sia organicamente realizzato.
3. Il bene comune. Il bene comune di cui parla il Can. 223 è una
realtà che s’integra in tutto il diritto canonico come una dinamica,
che ha come scopo il garantire la comunione della Chiesa e il
realizzare le condizioni per l’edificazione del Corpo di Cristo, di cui
parla il Can. 208.
Can. 223 - § 1. Nell’esercizio dei propri diritti i fedeli, sia come singoli
sia riuniti in Associazioni, devono tener conto del bene comune della
Chiesa, dei diritti altrui e dei propri doveri nei confronti degli altri.
§ 2. Spetta all’autorità ecclesiastica, in vista del bene comune,
regolare l’esercizio dei diritti che sono propri dei fedeli.
** Can. 223 § 1. In iuribus suis exercendis christifideles tum singuli tum in
consociationibus adunati rationem habere debent boni communis Ecclesiae
necnon iurium aliorum atque suorum erga alios officiorum.
§2. Ecclesiasticae auctoritati competit, intuitu boni communis, exercitium
iurium, quae christifidelibus sunt propria, moderari.
A tale proposito la definizione soddisfa di più lo spirito giuridico del
termine comunione. La lista dei doveri e dei diritti è chiara
partendo dal bene comune della Chiesa, di cui i fedeli devono e
possono assicurare la promozione. Raramente definita come tale al
di fuori del Can. 223, § 2, benché tutti i fedeli, secondo la propria
condizione, ne siano responsabili, la considerazione del bene
comune spiega che il diritto stabilisce doveri e non soltanto diritti e
impone limiti d’azione alle persone. Il diritto canonico appare così,
dice Paolo VI, “come una legge che promuove e protegge, che
equilibra, nel miglior modo possibile, considerati i limiti della
nostra condizione umana, i diritti e i doveri corrispettivi, la libertà e
la responsabilità, la dignità della persona, e le sovrane esigenze del
bene comune”. È il caso di tutti i doveri e diritti che in modo diretto
o indiretto implicano la partecipazione alla realizzazione della
missione affidata alla Chiesa.
d) Fedeli e pastori nell’esercizio dei doveri e diritti.
1. Doveri e diritti nei confronti dei pastori. I due primi paragrafi
dei cc. 212 e 213 determinano alcuni doveri e diritti concernenti il
rapporto dei fedeli con i pastori della Chiesa.
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Can. 212 - § 1. I fedeli, consapevoli della propria responsabilità, sono tenuti a
osservare con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, perché
rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono come
capi della Chiesa.
§ 2. I fedeli hanno il diritto di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie
necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri.
** Can. 212 § 1. Quae sacri Pastores, utpote Christum repraesentantes, tamquam fidei
magistri declarant aut tamquam Ecclesiae rectores statuunt, christifideles, propriae
responsabilitatis conscii, christiana oboedientia prosequi tenentur.
§2. Christifidelibus integrum est, ut necessitates suas, praesertim spirituales, suaque
optata Ecclesiae Pastoribus patefaciant.
Can. 213 - I fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti
dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai
sacramenti.
** Can. 213 - Ius est christifidelibus ut ex spiritualibus Ecclesiae bonis, praesertim ex
verbo Dei et sacramentis, adiumenta a sacris Pastoribus accipiant.
Il modo, in cui sono redatti questi canoni, dà l’impressione di
ristabilire un’opposizione fra chierici e laici o di ridurre la figura del
fedele a quella del laico, due tendenze, tuttavia, che il Codice in
questa nuova parte vuole superare. La questione poggia
interamente sulla materia dei doveri e diritti che sono oggetto di
una definizione. Bisogna, in effetti, far vedere che, se l’esistenza di
questi doveri o diritti non dipende dai pastori, la loro esecuzione
non può essere fatta senza il loro intervento, in nome della
missione pastorale ricevuta e che, in materia, essi stessi sono
tenuti ai doveri e ai diritti che si chiede loro di regolare. È il caso
del Can. 213 che determina il diritto dei fedeli di ricevere, da parte
dei pastori, l’aiuto che proviene dai beni spirituali della Chiesa. È
anche il caso del secondo paragrafo del Can. 212: “i fedeli”,
dichiara, “hanno la libertà di far conoscere ai pastori della Chiesa i
loro bisogni, soprattutto spirituali, come pure i loro desideri”.
Questa libertà trova radice nell’appartenenza alla Chiesa, che
autorizza i fedeli in quanto suoi membri, a chiederle di
assumersene i bisogni. Tale richiesta si rivolge ai pastori, poiché
l’accesso alle aspirazioni necessita decisioni di governo, che
rientrano nel campo dell’esercizio del potere ricevuto.
2. L’obbedienza ai pastori. Il canone parla dell’obbedienza
cristiana a ciò che i pastori consacrati, come rappresentanti di
Cristo, dichiarano in quanto maestri della fede o decidono in
quanto capi della Chiesa (Can. 212, § 1). All’inizio, menziona la
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propria responsabilità di ogni fedele per mettere in risalto che
l’appartenenza alla Chiesa richiede da parte del fedele un’adesione
al magistero della chiesa riguardante la sua costituzione gerarchica
e una consapevolezza delle conseguenze per il suo atteggiamento
nei confronti di quelli che hanno ricevuto l’incarico particolare di
agire in nome della Chiesa. Il canone fa in primo luogo allusione
all’attività dottrinale del Supremo Pontefice e del Collegio dei
Vescovi come pure dei Vescovi in comunione con il Capo del
collegio e i suoi membri. I Can. 752 e 753 parlano, secondo i casi,
di “sottomissione religiosa dell’intelligenza e della volontà” e di
“reverenza religiosa dello Spirito”. Non è il caso di questo canone
che parla dell’obbedienza come lo fa il Can. 754 che parla
dell’obbligo “di osservare le costituzioni e i decreti che la legittima
autorità della chiesa propone per esporre una dottrina e per
proscrivere opinioni erronee”. Il Can. 754 colloca l’atteggiamento
obbligatoriamente richiesto nell’ambito della funzione governativa
esercitata dai pastori (ordine governativo) e non del contenuto della
loro dichiarazione (adesione dei fedeli al Magistero) (vedere la
differenza di uso delle parole tra il Can. 752 e il Can. 754).
L’obbedienza consiste nel rispettare il diritto di coloro che
esercitano la carica ecclesiale di scrutare, annunciare ed esporre
fedelmente il “deposito della fede” affidato da Cristo alla Chiesa,
anche per la quale i pastori hanno ricevuto una missione
particolare (vedere il Can. 1371: § 1. Sia punito con una giusta
pena 1° chi…insegna una dottrina condannata dal Romano
Pontefice o dal Concilio ecumenico o respinge pertinacemente la
dottrina di cui nel Can. 150 § 2 o nel Can. 752 ed ammonito dalla
Sede apostolica o dall’ordinario non ritratta. 2° chi in altro modo
non obbedisce alla sede apostolica o al superiore che
legittimamente gli comanda o gli proibisce e dopo l’ammonizione
persiste nella sua disobbedienza.) La non sottomissione e la non
osservanza di queste decisioni sarebbero atti di rifiuto della
funzione e del potere dati per diritto ai pastori. Ciò è confermato
dalla fine del Can. 212 che riguarda la potestà di governo dei
pastori (… o dispongono come capi della chiesa).
e) Libertà e diritti protetti specificamente dalla Chiesa.
1. La libertà d’opinione. La terza parte del Can. 212 è
abitualmente considerata come una legislazione sulla libertà
d’opinione nella Chiesa.
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Can. 212. § 3. In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui
godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai
sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di
renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi
e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la
dignità della persona.
** Can. 212 § 3- Pro scientia, competentia et praestantia quibus pollent, ipsis ius est,
immo et aliquando officium, ut sententiam suam de hisquae ad bonum Ecclesiae
pertinent sacris Pastoribus manifestent eamque, salva fidei morumque integritate ac
reverentia erga Pastores, attentisque communi utilitate et personarum dignitate, ceteris
christifidelibus notam faciant.
Questa libertà appartiene ad ogni fedele, anche se è detto che essa
dev’essere esercitata secondo la scienza, la competenza e il
prestigio di cui godono i fedeli. Il canone ne fa anche un dovere
perché riguarda il bene della Chiesa. L’esercizio della libertà di
opinione deve tenere conto dell’utilità comune e della dignità delle
persone. I limiti imposti sono quelli che legano tutti i fedeli della
Chiesa, l’integrità della fede e dei costumi, ma anche il rispetto
della missione specifica dei pastori. Lo stabilire questi limiti dà
credito alla tesi secondo la quale certi diritti dei fedeli sono ricevuti
all’interno del diritto canonico, cosicché tale libertà sarebbe la
conseguenza della ricezione all’interno dell’ordinamento canonico
della libertà d’opinione riconosciuta a ogni uomo che fa parte di
una società umana. Questa concezione collega, dunque, la libertà
d’opinione al fatto di essere membro della Chiesa e carica di diritto
il mettere concretamente in opera tali affermazioni. Si deve
d’altronde distinguere la libertà d’opinione e la questione
dell’opinione pubblica nella Chiesa (vedere sul punto, P. Valdrini,
Opinione pubblica, sensus fidelium e diritto canonico, in Il diritto
ecclesiastico, 108, 1997, p. 89-102).
2. Diritto al rito e alla propria spiritualità. Stando ai termini del
Can. 214, i fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo le
disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi pastori della
Chiesa e alla propria spiritualità.
Can. 214 - I fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo le
disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori della Chiesa e di
seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla
dottrina della Chiesa.
** Can. 214 - Ius est christifidelibus, ut cultum Deo persolvant iuxta praescripta proprii
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ritus a legitimis Ecclesiae Pastoribus approbati, utque propriam vitae spiritualis formam
sequantur, doctrinae quidem Ecclesiae consentaneam.
I commentatori del Codice danno generalmente al termine rito una
grande estensione. Si potrebbe, infatti, pensare che il canone si
dovrebbe applicare unicamente nella Chiesa Cattolica latina poiché
esistono in essa, oltre al rito romano, alcuni riti come l’ambrosiano
o il rito mozarabico, ai quali si aggiungono il rito straordinario o il
rito anglicano approvato dalla Santa Sede. La lettura dei canoni del
Codice che fanno allusione a questi diversi riti, notoriamente nella
parte riguardante la somministrazione e la ricezione dei
Sacramenti, autorizza a dare ragione ai commenti. Tale diritto
riguarda, quindi, tanto i fedeli delle Chiese orientali, dette rituali
(vedere il Can. 28 del CCEO), che quelli della Chiesa latina, che
godono di un rito appropriato. Si deve aggiungere che il rendere un
culto a Dio, secondo le disposizioni del proprio rito, deve essere
“approvato dai legittimi pastori”. Il diritto non dà la possibilità di
esercizio senza che i pastori abbiano valutato l’attuazione del
diritto. Ad esempio, sarà necessario che, in una chiesa particolare,
ci sia un numero sufficiente di fedeli per creare una comunità con
uso di un rito specifico approvato. Per quanto riguarda il seguire
un proprio metodo di vita spirituale, anche in questo caso, la
libertà costitutiva riconosciuta al fedele sarà esercitata con rispetto
della dottrina della Chiesa.
3. Libertà d’associazione. I fedeli possono esercitare
individualmente o riuniti in associazioni la missione ricevuta nel
battesimo.
Can. 215 - I fedeli hanno il diritto di fondare e di dirigere liberamente
Associazioni che si propongono un fine di carità o di pietà, oppure Associazioni
che si propongono l’incremento della vocazione cristiana nel mondo; hanno
anche il diritto di tenere riunioni per il raggiungimento comune di tali finalità.
** Can. 215 - Integrum est christifidelibus, ut libere condant atque moderentur
consociationes ad fines caritatis vel pietatis, aut ad vocationem christianam in mundo
fovendam, utque conventus habeant ad eosdem fines in communi persequendos.
La realizzazione della missione in forma individuale è allo stesso
tempo un dovere e un diritto, ma, in forma associata, essa si basa
sulla libertà di “fondare e dirigere Associazioni aventi come scopo
la carità o la pietà oppure destinate a promuovere la vocazione
cristiana nel mondo”, cioè finalità specifiche della Chiesa e ciò
significa che i fedeli dovrebbero realizzare scopi che non sono
propri alla Chiesa, usando il diritto di associazione nelle società
dove sono. La libertà di riunirsi per perseguire unitamente gli
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stessi fini è protetta e regolata al tempo stesso. La protezione della
libertà individua già nel riconoscimento legislativo della libertà di
azione e di iniziativa; essa sarà anche indirettamente protetta dalla
possibilità offerta a tutti i fedeli di difendersi dalla violazione dei
loro diritti. Ma essa è regolata nel momento in cui, in applicazione
di un insieme legislativo completo vertente sull’esercizio del diritto
di associazione, i fedeli non possono realizzare la loro volontà di
partecipazione senza rispettare alcune condizioni, che diano
all’autorità il diritto di riconoscimento o di approvazione del modo
in cui detta libertà è messa in pratica. Il Can. 216 dichiara in modo
generale che nessuna attività può avvalersi della qualifica di
“cattolica” senza il consenso dell’autorità ecclesiastica.
4. Diritto all’educazione cristiana. Per realizzare la vocazione
cristiana, ricevuta nel battesimo, i fedeli godono anche del diritto
all’educazione cristiana.
Can. 217 - I fedeli, in quanto sono chiamati mediante il battesimo a condurre
una vita conforme alla dottrina evangelica, hanno diritto all’educazione
cristiana, con cui possano essere formati a conseguire la maturità della
persona umana e contemporaneamente a conoscere e a vivere il mistero della
salvezza.
** Can. 217 - Christifideles, quippe qui baptismo ad vitam doctrinae evangelicae
congruentem ducendam vocentur, ius habent ad educationem christianam, qua ad
maturitatem humanae personae prosequendam atque simul ad mysterium salutis
cognoscendum et vivendum rite instruantur.
Questo diritto è il complemento del dovere di condurre una vita
conforme alla dottrina del Vangelo, che la Chiesa lega direttamente
all’esercizio dell’attività missionaria dei fedeli. Dovere e diritto in
quanto tali non sono che la conseguenza del dovere assegnato alla
Chiesa di fare tutto il possibile, affinché le persone beneficino delle
migliori condizioni per esercitare la missione. Alcuni canoni
legiferano con maggiore precisione su questo diritto, in modo che,
se non ne fosse tenuto conto, la sua non realizzazione colpirebbe
direttamente il bene delle persone chiamate ad “acquistare la
maturità della persona umana e contestualmente a conoscere e a
vivere il mistero della salvezza”. Colpirebbe indirettamente anche il
bene comune della Chiesa, perché la partecipazione di tutti i fedeli
alla missione è l’elemento principale di questo bene comune.
5. Libertà di ricerca. La stessa volontà d’equilibrio tra protezione
del bene comune della Chiesa e regolazione dell’attività dei fedeli
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riguarda la libertà di ricerca di coloro che si dedicano alle
discipline sacre.
Can. 218 - Coloro che si dedicano alle scienze sacre godono della giusta libertà
di investigare e di manifestare con prudenza il loro pensiero su ciò di cui sono
esperti, conservando il dovuto ossequio nei confronti del magistero della
Chiesa.
** Can. 218 - Qui disciplinis sacris incumbunt iusta libertate fruuntur inquirendi
necnon mentem suam prudenter in iis aperiendi, in quibus peritia gaudent, servato
debito erga Ecclesiae magisterium obsequio.
Questo diritto è fondamentale, sia per assicurare il progresso della
conoscenza nelle materie riguardanti la fede e la morale, che per
riconoscere il ruolo delle scienze sacre nell’esercizio della funzione
magistrale stessa. Tale libertà è detta “giusta”, in virtù dei limiti
provenienti dal diritto dei pastori di assicurare il rispetto del
Magistero (Can. 752). Il canone non parla di questo diritto, ma
contiene l’obbligo di rispetto del Magistero da parte di colui che fa
ricerca. Sono state definite regole simili riguardo a opinioni
espresse da persone competenti in una materia in cui esercitano la
libertà di scienza: “coloro che si dedicano alle discipline sacre
godono di una giusta libertà di espressione, prudente, della loro
opinione nelle materie in cui sono competenti”. Qui, ancora, dovere
e diritto sono indissolubilmente legati. Il dovere dei ricercatori e
insegnanti è definito in modo generale nel canone che dovrebbe
chiarire il Libro III sulla funzione d’insegnamento della Chiesa. Il
rapporto con il Magistero dipende dal contenuto dei testi proposti.
La regolazione di questa libertà fondamentale di ricerca e di
espressione delle opinioni è dovuta all’esercizio della funzione
magisteriale propria dei pastori. Spetta a questi ultimi non solo
conoscere l’unità della fede, ma anche garantire ai fedeli un
insegnamento della Chiesa che, giuridicamente, possiede un
carattere pubblico, vale a dire ufficiale, senza tuttavia che ricerche
condotte a titolo di pubblica missione siano fatte al di fuori del
confronto con il Magistero o espresse senza che sia riconosciuta la
sua preponderanza.
6. Libertà di scelta di uno stato di vita. I fedeli godono della
scelta di uno stato di vita senza che debba essere imposto loro
obbligo alcuno.
Can. 219 - Tutti i fedeli hanno il diritto di essere immuni da qualsiasi
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costrizione nella scelta dello stato di vita.
** Can. 219 - Christifideles omnes iure gaudent ut a quacumque coactione sint immunes
in statu vitae eligendo.
Questa libertà è codificata nelle parti legislative riguardanti gli
impegni negli stati principali di chierici, nei membri di un istituto o
di una Società di vita apostolica e nell’acquisizione dello stato
matrimoniale. Il campo d’esercizio di questa libertà è
volontariamente limitato dall’assenza di costrizioni sulle persone
così che non possa essere rivendicato un diritto ad acquisire i due
stati essenziali di consacrato e chierico per i quali,
tradizionalmente, la legislazione lascia all’autorità competente
interessata il potere discrezionale di accettare o rifiutare persone
che si presentano.
7. Diritto alla giustizia ecclesiastica. In materia di protezione dei
diritti, il diritto canonico fa riferimento a un’antica tradizione che
Graziano ha raccolto in una celebre formula “parem esset iura
condere nisi qui ea tueatur”, secondo la quale è inutile dare diritti
alle persone se nello stesso tempo non si dà loro il mezzo di
difendere la loro violazione. Questo principio è rispettato, come
mostra il Can. 1400 che introduce la legislazione del Libro VII.
Esso presenta il sistema ecclesiastico detto di doppia giurisdizione:
ordinaria, per difendere i diritti propri e degli altri fedeli,
amministrativa, per presentare ricorsi contro la violazione dei
diritti da parte dell’autorità, che esercita il potere esecutivo. Un
diritto fondamentale della persona è d’altra parte menzionato come
tale e beneficia di una protezione speciale, il diritto alla
reputazione. Il CIC 1983 dichiara:
Can. 220 - Non è lecito ad alcuno ledere illegittimamente la buona fama di cui
uno gode, o violare il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità.
Can. 221 - § 1. Compete ai fedeli rivendicare e difendere legittimamente i diritti
di cui godono nella Chiesa presso il foro ecclesiastico competente a norma di
diritto.
§ 2. I fedeli hanno anche il diritto, se sono chiamati in giudizio dall’autorità
competente, di essere giudicati secondo le disposizioni di legge, da applicare
con equità.
§ 3. I fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche, se non a
norma di legge.
** Can. 220 - Nemini licet bonam famam, qua quis gaudet, illegitime laedere,
nec ius cuiusque personae ad propriam intimitatem tuendam violare.
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** Can. 221 §1. Christifidelibus competit ut iura, quibus in Ecclesia gaudent,
legitime vindicent atque defendant in foro competenti ecclesiastico ad normam
iuris.
§2. Christifidelibus ius quoque est ut, si ad iudicium ab auctoritate competenti
vocentur, iudicentur servatis iuris praescriptis, cum aequitate applicandis.
§3. Christifidelibus ius est, ne poenis canonicis nisi ad normam legis
plectantur.
I giudizi nella Chiesa si fanno secondo una procedura stabilita di
cui ogni fedele può esigere l’applicazione. Il Codice parla di
un’applicazione “con equità”. Questa menzione lascia pensare che
il rigore nel diritto non debba mai essere ricercato in se stesso, ma
debba essere sottoposto al principio canonico della priorità del
bene della persona. Lo stesso principio del rispetto del diritto deve
essere applicato nell’uso del diritto penale verso le persone.
f) Doveri nei confronti della Chiesa.
1. Doveri di solidarietà. Lo sviluppo del bene comune impone che
ogni fedele partecipi all’instaurazione dei mezzi d’azione apostolica
della Chiesa. La sovvenzione ai bisogni della Chiesa è un dovere,
che il Can. 222, § 1 applica non soltanto all’apostolato e alle opere
caritatevoli, ma anche al farsi carico dei ministri della Chiesa.
Can. 222- § 1. I fedeli sono tenuti all’obbligo di sovvenire alle
necessità della Chiesa, affinché essa possa disporre di quanto è
necessario per il culto divino, per le opere di apostolato e di carità e
per l’onesto sostentamento dei ministri.
§ 2. Sono anche tenuti all’obbligo di promuovere la giustizia sociale,
come pure, memori del comandamento del Signore, di soccorrere i
poveri con i propri redditi.
** Can. 222 § 1. Christifideles obligatione tenentur necessitatibus
subveniendi Ecclesiae, ut eidem praesto sint quae ad cultum divinum, ad
opera apostolatus et caritatis atque ad honestam ministrorum
sustentationem necessaria sunt.
§ 2. Obligatione quoque tenentur iustitiam socialem promovendi necnon,
praecepti Domini memores, ex propriis reditibus pauperibus subveniendi.
Alcuni avrebbero preferito che questo canone avesse un contenuto
più specificamente ecclesiastico, in cui apparisse l’obbligo di
condivisione fatto ai cristiani. In questo spirito lo stesso canone
sviluppa il dovere di promozione della giustizia sociale mediante
una partecipazione finanziaria dei fedeli a delle azioni, in
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particolare verso i poveri. L’esistenza di un simile dovere nello
statuto giuridico dei fedeli è valorizzata dalla dottrina, poiché
questa affermazione mostra che il bene comune della Chiesa non è
scindibile dal bene comune della società.
C) I doveri e i diritti dei fedeli laici
a) Fedeli, laici, chierici.
1. Laici e chierici. Il Codice non dà nessuna definizione del laico.
Sta dunque alla dottrina il mettere in chiaro elementi che
compongono la figura giuridica di questa particolare categoria di
fedeli. Nella parte riferita agli obblighi e diritti dei laici, otto canoni
descrivono il loro statuto giuridico (cc. 224-231). Altri sono dispersi
nei libri del Codice. Per chi vuol mostrare il modo in cui il Codice
presenta i rapporti tra chierici e laici, il Can. 207, § 1 serve
abitualmente come riferimento (vedere sopra). Tratta direttamente
la distinzione tra le due categorie di persone, fondando nel diritto
divino l’esistenza di ministri consacrati o chierici: “Gli altri”, dice,
“sono chiamati laici”. L’aspetto marginale del posto assegnato ai
laici in rapporto ai chierici non sfugge generalmente a nessuno. Il
fatto di prendere nella dovuta considerazione la seconda parte del
canone, nella quale lo stato di consacrato mediante voti o altri
legami riconosciuti o approvati è presentato come essenziale alla
vita della Chiesa; favorisce, è vero, un approccio più positivo alla
distinzione chierici-laici. Da un lato, questo fatto mostra che ogni
distinzione tra le persone è secondaria in rapporto alla condizione
giuridica fondamentale del fedele, dall’altro, ricorda che i rapporti
tra le persone nella Chiesa non si riducono alle relazioni chiericilaici. Tuttavia, anche se si può ammettere, a partire da questo
fatto, che la struttura della Chiesa è “carismatico-istituzionale”
(attenersi al solo primo paragrafo del canone equivarrebbe a
presentare la Chiesa come società ineguale), rimane posto il
problema, poiché molti avrebbero preferito che il cambiamento di
sistematica del Libro II si traducesse in un modo più positivo di
parlare dei laici sul loro rapporto con i chierici.
2. Il laico: un non ordinato. La possibile cattiva accoglienza del
Can. 207, § 1 viene dal modo in cui il Codice è stato redatto, che
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necessita da parte della dottrina l’istituzione di un legame tra
canoni dispersi. In questo canone, che distingue i ministri
consacrati e “gli altri”, l’elemento prevalente della distinzione è lo
statuto sacramentale degli ordinati. Com’è stato dimostrato sopra,
a proposito del concetto canonico di organizzazione della Chiesa, lo
statuto dei ministri consacrati, che contiene la capacità di
esercitare certe funzioni nella Chiesa, è fondato sulla ricezione del
Sacramento dell’ordine. La redazione del Can. 1008 è rilevante:
mediante il Sacramento dell’ordine, dice, “alcuni tra i fedeli” sono
costituiti ministri consacrati. Anche se prima di essere chierici
questi fedeli sono appartenuti allo stato laicale, il Codice non dice
“certi laici”. Lo stato laicale non è, dunque, il grado inferiore di una
gerarchia tra due stati canonici, ma uno stato di pieno diritto che
indica la condizione giuridica del fedele. Lo statuto dei laici,
proveniente dal battesimo, è, dunque, uno statuto sacramentale,
che si distingue dallo statuto acquisito col Sacramento dell’ordine.
La prospettiva del canone è in primo luogo “funzionale”, nel senso
in cui la diversa partecipazione alle funzioni del Cristo data ad
alcuni fedeli, attraverso il Sacramento dell’ordine, pone anche in
uno stato. Dal punto di vista della cooperazione alla missione,
questo stato permette che sia realizzata una partecipazione
specifica alla missione ricevuta da ogni battezzato. È, dunque, la
redazione del primo paragrafo del canone che si presta a
confusione, più che il suo significato che può essere formulato in
questo modo: nella Chiesa, alcuni fedeli sono ordinati, altri no.
3. Laico e fedele. Si pone una questione che riguarda la relazione
tra lo stato di fedele e lo stato di laico. Un modo di considerare
questa relazione potrebbe portare a pensare che il laico sia un
“semplice fedele”, che, in quanto tale, realizza la figura giuridica
puramente simbolica del fedele. In questo caso, nonostante
l’introduzione di questa nuova figura giuridica, si ritroverebbe
mascherato il binomio o dualismo esclusivo chierico-laico. Il testo
del Codice permette di risolvere la questione. Il Can. 224, che
segue direttamente i canoni che descrivono lo statuto giuridico
(doveri e diritti) dei fedeli e introduce l’insieme legislativo riferito ai
laici, dichiara che:
Can. 224 - I fedeli laici, oltre agli obblighi e ai diritti che sono
comuni a tutti i fedeli e oltre a quelli che sono stabiliti negli altri
canoni, sono tenuti agli obblighi e godono dei diritti elencati nei
canoni del presente titolo.
Can. 224 - Christifideles laici, praeter eas obligationes et iura, quae
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cunctis christifidelibus sunt communia et ea quae in aliis canonibus
statuuntur, obligationibus tenentur et iuribus gaudent quae in
canonibus huius tituli recensentur.
I laici ricevono, dunque, uno statuto giuridico specifico, che
arricchisce lo statuto legato alla condizione di battezzato. Il loro
statuto è costituito da una parte, dai doveri e diritti ricevuti nel
battesimo, dall’altra, dai doveri e diritti provenienti dalla loro
condizione specifica di laico, che, per essere realizzata, non
richiede, al di fuori del battesimo, la ricezione d’altri sacramenti.
Laico è dunque la condizione comune del fedele nella quale si entra
tramite il battesimo, senza che questa condizione sia oggetto di
altra scelta o successiva da parte della persona, né di chiamata da
parte della Chiesa, contrariamente allo statuto del chierico, la cui
origine diretta è la ricezione del Sacramento dell’ordine che
modifica lo statuto fondamentale ricevuto nel battesimo.
b) La missione dei laici.
1. La missione dei laici. Il Can.225 § 1 si rivolge tanto ai laici che
ai fedeli. Contiene la descrizione generale della missione che spetta
loro, cioè lavorare affinché il messaggio divino della salvezza sia
conosciuto e ricevuto da tutti gli uomini in tutta la terra.
Can. 225 - § 1. I laici, giacché, come tutti i fedeli, sono deputati
da Dio all’apostolato mediante il battesimo e la confermazione,
sono tenuti all’obbligo generale e hanno il diritto di impegnarsi,
sia come singoli sia riuniti in Associazioni, perché l’annuncio
della salvezza venga conosciuto e accolto da ogni uomo in ogni
luogo; tale obbligo li vincola ancora maggiormente in quelle
situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e
conoscere Cristo se non per mezzo loro.
** Can. 225 § 1 - Laici, quippe qui uti omnes christifideles ad
apostolatum a Deo per baptismum et confirmationem
deputentur, generali obligatione tenentur et iure gaudent, sive
singuli sive in consociationibus coniuncti, allaborandi ut
divinum salutis nuntium ab universis hominibus ubique
terrarum cognoscatur et accipiatur; quae obligatio eo vel magis
urget iis in adiunctis, in quibus nonnisi per ipsos Evangelium
audire et Christum cognoscere homines possunt
Si ritrova qui, formulato meglio, l’enunciato del canone 211, dal
contenuto simile, relativo allo statuto dei fedeli. Il Codice non fa
nessuna distinzione formale riguardo ai luoghi d’esercizio della
missione, fatto che autorizzerebbe non solo a separare la missione
esercitata nel mondo e nella Chiesa, ma anche a rinchiudere il
laico nella laicità e il chierico nel sacro. Su questo punto il Codice
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presenta una concezione dell’apostolato in cui, non essendo
dissociati Chiesa e mondo, è ripresa una nozione sviluppata spesso
dal Magistero ordinario dei Papi. Questa è ancora una
conseguenza, che appare nella redazione del testo codificato,
dell’affermazione del Can. 208, secondo il quale i fedeli, mediante il
battesimo, sono uguali nella loro cooperazione all’edificazione del
Corpo del Cristo.
2. La missione nel mondo. Nella realizzazione della missione
affidata alla Chiesa, viene assegnata, tuttavia, una prevalenza alla
missione dei laici nel mondo, per la quale, il Can.225 § 2 parla di
(un) dovere particolare.
Can. 225 § 2. Sono tenuti anche al dovere specifico, ciascuno
secondo la propria condizione, di animare e perfezionare l’ordine
delle realtà temporali con lo spirito evangelico e in tal modo di
rendere testimonianza a Cristo, particolarmente nel trattare tali
realtà e nell’esercizio dei compiti secolari.
** Can. 225 § 2. Hoc etiam peculiari adstringuntur officio,
unusquisque quidem secundum propriam condicionem, ut
rerum temporalium ordinem spiritu evangelico imbuant atque
perficiant, et ita specialiter in iisdem rebus gerendis atque in
muneribus saecularibus exercendis Christi testimonium
reddant.
Senza che l’azione nell’ambito secolare sia riservata ai laici, essa è
un dovere che spetta loro personalmente. Tale dovere deve essere
capito nel senso di dovere specifico rispetto ai fedeli che
appartengono ad un altro stato, in particolare i chierici. Costoro,
come fedeli, avranno anche una missione da compiere nel mondo,
ma limitata dall’ingresso in una condizione, il cui statuto contiene
un’altra preponderanza. Ognuno secondo la propria condizione,
dice il canone, i “ laici” sono anche tenuti al particolare dovere
d’impregnare di spirito evangelico, di perfezionare l’ordine
temporale e di rendere così testimonianza al Cristo, sopratutto
nella gestione di quell’ordine e nel compimento degli incarichi
secolari. Il Codice non menziona luoghi di realizzazione della
missione nel mondo. Testo legislativo, che lascia al magistero il
compito di dare le precisazioni indispensabili, esso si limita ad una
affermazione generale del dovere e del diritto che spetta più
specificamente ai laici e definisce le loro condizioni d’esercizio.
LG, 31: Col nome di laici si intende qui l'insieme dei cristiani ad
esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito
nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo
col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi
partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la
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loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i membri
dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose
del secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la
loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente
al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in
modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e
offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è
proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e
ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i
diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita
familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono
da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento,
alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la
guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo
agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e
col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose
temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte
e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore
e Redentore.
c) Diritti e doveri dei laici.
1. Diritto alla libertà del cittadino. Il Can. 227 richiama il diritto
dei fedeli laici di vedersi riconosciuta nell’ambito della società, la
libertà che appartiene a tutti i cittadini.
Can. 227 - E’ diritto dei fedeli laici che venga loro riconosciuta
nella realtà della città terrena quella libertà che compete ad ogni
cittadino; usufruendo tuttavia di tale libertà, facciano in modo che
le loro azioni siano animate dallo spirito evangelico e prestino
attenzione alla dottrina proposta dal magistero della Chiesa,
evitando però di presentare nelle questioni opinabili la propria
opinione come dottrina della Chiesa.
** Can. 227 - Ius est christifidelibus laicis, ut ipsis agnoscatur ea
in rebus civitatis terrenae libertas, quae omnibus civibus competit;
eadem tamen libertate utentes, curent ut suae actiones spiritu
evangelico imbuantur, et ad doctrinam attendant ab Ecclesiae
magisterio propositam, caventes tamen ne in quaestionibus
opinabilibus propriam sententiam uti doctrinam Ecclesiae
proponant.
Questa rivendicazione si rivolge alla Chiesa e sopratutto si applica
alle relazioni tra laici e pastori. La Chiesa, dichiara la Costituzione
Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, “perseguendo la finalità
salvifica che le è propria, non comunica soltanto all’uomo la vita
divina, (essa) diffonde anche, e in certo modo, nel mondo intero, la
luce che questa vita divina irradia... Così, per ciascuno dei suoi
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membri come per tutta la comunità che forma, la Chiesa crede di
poter largamente contribuire a umanizzare sempre di più la
famiglia degli uomini e la sua storia” (GS, 40 c). I laici, ai quali
spettano personalmente, benché non esclusivamente, le professioni
ed attività “secolari” (GS, 43 b), godono di una libertà di scelta e di
una autonomia d’azione, la cui origine va ricercata nel modo in cui
la Chiesa concepisce il suo ruolo nel mondo. L’istituzione di questo
diritto è, dunque, non soltanto la conseguenza del dovere
particolare dei laici di agire nell’ambito temporale, ma si inserisce
nella logica di un’idea conciliare dei rapporti della Chiesa con la
comunità politica.
2. L’esercizio della libertà riconosciuta ai laici dev’essere
articolato con una necessaria attenzione alla dottrina sociale
presentata dal magistero della Chiesa. Parlando di attenzione, il
Codice scarta i termini quali rispetto o obbedienza, che dal punto
di vista giuridico, esigerebbero dalle persone l’applicazione di
principi definiti dal Magistero. Il riconoscimento di una libertà dei
laici nel campo temporale comporta il diritto di accettare il
principio dell’esercizio autonomo delle loro responsabilità, alla luce
del Magistero in materia sociale. I laici devono aspettarsi dai
pastori, dice il Concilio Vaticano II, “luci e forze spirituali”. Essi
non pensino, tuttavia, che i loro pastori abbiano una competenza
tale da poter fornire loro la soluzione concreta e immediata. Da una
parte, dai doveri e diritti ricevuti nel battesimo, dall’altra, dai
doveri e diritti provenienti dalla loro condizione specifica di laico,
che, per essere realizzata, non richiede, al di fuori del battesimo, la
ricezione d’altri sacramenti. Laico è, dunque, la condizione comune
del fedele nella quale si entra tramite il battesimo, senza che
questa condizione sia oggetto di scelta da parte della persona, né di
chiamata da parte della Chiesa, contrariamente allo statuto del
chierico, la cui origine diretta è la ricezione del Sacramento
dell’ordine che modifica lo statuto fondamentale ricevuto nel
battesimo.
3. Doveri nello stato coniugale. Benché il matrimonio possa
essere stato contratto dai diaconi permanenti, che, con
l’ordinazione, appartengono alla categoria dei chierici, un canone
dell’insieme legislativo sui laici è dedicato al “dovere di lavorare
all’edificazione del Popolo di Dio attraverso il matrimonio e la
famiglia” (Can. 226). Il diritto canonico parla di “stato
matrimoniale” (Can.1063) o di “stato coniugale” (Can.226). La
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nozione di stato si riferisce al carattere stabile dei doveri e diritti
reciproci acquisiti nel matrimonio. Si entra nello stato e si esce
dallo stato matrimoniale secondo le condizioni determinate dal
diritto e quando si è pronunziata la Chiesa. Per quanto riguarda la
responsabilità delle persone che sono nello stato matrimoniale, il
canone parla di vocazione e d’impegno nell’edificazione del polpolo
di Dio. Sono qui prese in esame le tre grandi funzioni affidate alla
Chiesa e alle quali partecipa ogni fedele, come mostrano alcuni
canoni sparsi, che riprendono questi obblighi e questi diritti.
Questi canoni, in virtù della concezione della famiglia sviluppata
dal Magistero della Chiesa, legano l’esercizio delle tre funzioni
senza peraltro disgiungerle. Cosicché, è detto nel paragrafo
secondo dello stesso canone, l’incarico dell’insegnamento del
messaggio evangelico appartiene specificamente ai genitori.
Can. 226 - § 1. I laici che vivono nello stato coniugale, secondo la
propria vocazione, sono tenuti al dovere specifico di impegnarsi,
mediante il matrimonio e la famiglia, nell’edificazione del popolo di
Dio.
§ 2. I genitori, poiché hanno dato ai figli la vita, hanno l’obbligo
gravissimo e il diritto di educarli; perciò spetta primariamente ai
genitori cristiani curare l’educazione cristiana dei figli secondo la
dottrina insegnata dalla Chiesa.
** Can. 226 § 1. Qui in statu coniugali vivunt, iuxta propriam
vocationem, peculiari officio tenentur per matrimonium et familiam
ad aedificationem populi Dei allaborandi.
§ 2. Parentes, cum vitam filiis contulerint, gravissima obligatione
tenentur et iure gaudent eos educandi; ideo parentum
christianorum imprimis est christianam filiorum educationem
secundum doctrinam ab Ecclesia traditam curare
Spetta loro “in primo luogo, aggiunge, assicurare l’educazione
cristiana dei figli secondo la dottrina trasmessa dalla Chiesa.
L’incarico di santificare, che qui è da intendersi in un senso largo
come partecipazione alla comunicazione della vita divina, per la
quale lo statuto di ogni categoria di fedeli è definito, spetta, in
parte, ai laici, ma soprattutto ai genitori, ai quali si chiede di vivere
la loro vita di coniugi “in uno spirito cristiano” e di dare
“un’educazione cristiana ai figli” (Can.835 § 4). Infine, l’esercizio
della carica “regale” del Cristo diventa per i genitori un “obbligo
molto grave” contestualmente al diritto di educare i figli.
4. Diritto e dovere riguardanti la formazione dottrinale. Il Can.
217 definisce già il diritto dei fedeli a un’educazione cristiana nella
quale figura la formazione dottrinale. Il Can. 229 affronta
direttamente il dovere e il diritto dei laici ad acquisire la
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conoscenza della dottrina, di cui rileva il carattere indispensabile
per la vita cristiana e l’apostolato. In questa parte generale, il
Codice parla di un mezzo per una conoscenza “ più profonda” della
dottrina, senza togliere altri mezzi lasciati a discrezione delle
persone, sulle quali incombe la responsabilità di vegliare
sull’applicazione di questi doveri e diritti.
Can. 229 - § 1. I laici, per essere in grado di vivere la dottrina
cristiana, per poterla annunciare essi stessi e, se necessario,
difenderla, e per potere inoltre partecipare all’esercizio
dell’apostolato, sono tenuti all’obbligo e hanno il diritto di acquisire
la conoscenza di tale dottrina, in modo adeguato alla capacità e
alla condizione di ciascuno.
§ 2. Hanno anche il diritto di acquistare quella conoscenza piú
piena delle scienze sacre che viene data nelle università e facoltà
ecclesiastiche o negli istituti di scienze religiose, frequentandovi le
lezioni e conseguendovi i gradi accademici.
§ 3. Cosí pure, osservate le disposizioni stabilite in ordine alla
idoneità richiesta, hanno la capacità di ricevere dalla legittima
autorità ecclesiastica il mandato di insegnare le scienze sacre.
** Can. 229 § 1. Laici, ut secundum doctrinam christianam vivere valeant,
eandemque et ipsi enuntiare atque, si opus sit, defendere possint, utque in
apostolatu exercendo partem suam habere queant, obligatione tenentur et
iure gaudent acquirendi eiusdem doctrinae cognitionem, propriae
uniuscuiusque capacitati et condicioni aptatam.
§ 2. Iure quoque gaudent pleniorem illam in scientiis sacris acquirendi
cognitionem, quae in ecclesiasticis universitatibus facultatibusve aut in
institutis
scientiarium
religiosarum
traduntur,
ibidem
lectiones
frequentando et gradus academicos consequendo.
§ 3. Item, servatis praescriptis quoad idoneitatem requisitam statutis,
habiles sunt ad mandatum docendi scientias sacras a legitima auctoritate
ecclesiastica recipiendum.
Il mezzo è l’acquisizione di conoscenza e di gradi accademici nelle
università, facoltà e istituti che hanno ricevuto competenza per
insegnare le scienze sacre e assegnare diplomi di laurea. I laici non
sono tenuti fuori dall’insegnamento delle scienze sacre, poiché
hanno le capacità di ricevere un incarico di insegnamento. Il
termine “capacità” indica l’importanza attribuita a questo diritto e
nello stesso tempo i suoi limiti. L’insegnamento delle scienze sacre
non è riservato ai chierici, ma non esiste il diritto ad ottenere un
mandato. L’assegnazione di un incarico, più che altro
discrezionale, dovrebbe essere soggetta a una valutazione
dell’idoneità dei candidati, senza che il fatto di possedere le
condizioni richieste obblighi l’autorità a riconoscere il pieno
esercizio della capacità.
5. Diritto e dovere per i laici che esercitano un servizio nella
Chiesa. Il Can. 231 considera il caso particolare dei laici, che sono
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chiamati ad adempiere alcune funzioni nella Chiesa, in modo
temporaneo o permanente. Queste funzioni sono chiamate
“servizio” dal Codice nell’intento di ricoprire ogni forma di
partecipazione alla missione della Chiesa, che sia stata affidata
dall’autorità in vista di una finalità spirituale o temporale.
Can. 231 - § 1. I laici, designati in modo permanente o temporaneo
ad un particolare servizio della Chiesa, sono tenuti all’obbligo di
acquisire la adeguata formazione, richiesta per adempiere nel modo
dovuto il proprio incarico e per esercitarlo consapevolmente,
assiduamente e diligentemente.
§ 2. Fermo restando il disposto del Can. 230, § 1, essi hanno diritto
ad una onesta remunerazione adeguata alla loro condizione, per
poter provvedere decorosamente, anche nel rispetto delle
disposizioni del diritto civile, alle proprie necessità e a quelle della
famiglia; hanno inoltre diritto che si garantiscano la previdenza
sociale, le assicurazioni sociali e l’assistenza sanitaria.
** Can. 231 §1. Laici, qui permanenter aut ad tempus speciali
Ecclesiae servitio addicuntur, obligatione tenentur ut aptam
acquirant formationem ad munus suum debite implendum
requisitam, utque hoc munus conscie impense et diligenter
adimpleant.
§ 2. Firmo praescripto Can. 230, §1, ius habent ad honestam
remuerationem suae condicioni aptatam, qua decenter, servatis
quoque iuris civilis praescriptis, necessitatibus propriis ac familiae
providere valeant; itemque iis ius competit ut ipsorum praevidentiae
et securitati sociali et assistentiae sanitariae, quam dicunt, debite
prospiciatur.
Un dovere generale di formazione appropriata è imposto alle
persone che rivestono queste funzioni, come pure l’obbligo di
svolgere il loro compito con coscienza. Ne vengono loro alcuni
diritti sociali: hanno diritto a una remunerazione, che permetta
loro di provvedere decentemente ai loro bisogni e a quelli delle loro
famiglie. La Chiesa è tenuta in questo punto a rispettare le
disposizioni del diritto civile. Le persone utilizzate allo scopo di
esercitare funzioni direttamente pastorali, come i catechisti
permanenti o i laici che servono negli ospedali e nelle scuole,
devono ricevere una “nomina” allo scopo di definire il compito
affidato. La Chiesa dà priorità a questa lettera di missione su un
eventuale contratto di lavoro, essendo i due atti di natura diversa.
La nomina è un atto amministrativo, il cui autore è il vescovo
diocesano o un titolare della potestà di governo. Un contratto è un
atto, la cui forza obbligante viene dalla volontà reciproca delle
persone. I laici che assicurano un servizio nella Chiesa hanno
diritto anche alla previdenza sociale e all’applicazione delle regole
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di garanzia in caso di malattia o d’incapacità. Il canone deve essere
applicato nell’ambito del diritto statale di ogni paese.
D) I ministri consacrati o chierici
Il Codice dedica 60 canoni alla legislazione speciale sui chierici.
Questo numero di canoni, cospicuo rispetto alla legislazione sui
fedeli e sui laici, è dovuto al fatto che i fedeli acquistano uno
statuto particolare con l’ordinazione. I chierici acquistano il diritto
a una partecipazione specifica alle tre funzioni affidate alla Chiesa
e, a questo titolo, sono oggetto di una particolare attenzione del
diritto nella loro formazione, nel loro legame con la Chiesa, nei loro
doveri e diritti ed anche, poiché sono in uno stato in cui sono
entrati volontariamente, nella loro uscita dallo stato clericale.
Quest’insieme ha trovato un posto eminente nel Libro II. Sarebbe
stato difficile per i redattori del Codice continuare a far figurare
questo corpo di canoni prima di quelli riguardanti i laici, dato il
cambiamento da apportare rispetto al Codice del 1917. La
dinamica del Can. 208, che situa le relazioni tra le persone in una
prospettiva d’uguaglianza e investe ognuna delle parti,
evidenziando il carattere costitutivo di ogni stato per la
realizzazione della missione della Chiesa, doveva essere visibile nel
piano.
a) La formazione dei chierici.
1. Formazione alla missione. Il Codice afferma il “ diritto proprio
ed esclusivo” (Can.232) della Chiesa di formare coloro che sono
destinati ad essere chierici.
Can. 232 - La Chiesa ha il dovere e il diritto proprio ed esclusivo di
formare coloro che sono destinati ai ministeri sacri.
** Can. 232. Ecclesia officium est atque ius proprium et exclusivum
eos instituendi, qui ad ministeria sacra deputantur.
Il Codice del 1917, che ricordava già la libertà di formazione dei
chierici, aveva fatto figurare 20 canoni dedicati ai seminari nella
parte che trattava il Magistero ecclesiastico. Si considerava
all’epoca che la formazione data ai chierici preparasse sopratutto
alla funzione di insegnare e predicare. Il Codice del 1983, malgrado
alcune esitazioni dei redattori, ha riunito questi canoni a quelli che
riguardanti i chierici e ha permesso che lo scopo della formazione
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apparisse più legato all’esercizio delle tre cariche della Chiesa. La
descrizione della formazione rimane generale. Il Codice è, su questo
punto, una “legge quadro”, che necessita l’intervento d’altri
legislatori; questi, promulgando un diritto particolare, dovrebbero
definire le regole di formazione e i programmi di studio, come fatto
per l’Italia.
2. I Seminari. La preparazione all’esercizio delle cariche
ecclesiastiche si fa nei seminari maggiori e minori. Quest’ultimi, o
istituzioni analoghe, non sono obbligatori ma sono mantenuti e
incoraggiati per incrementare vocazioni (Can. 234) mediante una
formazione religiosa particolare, unita ad un insegnamento
scientifico e umanistico.
Can. 234 - § 1. Si mantengano, dove esistono, e si favoriscano i
seminari minori o altri istituti simili; in essi, allo scopo di
incrementare le vocazioni, si provveda a dare una particolare
formazione religiosa insieme con una preparazione umanistica e
scientifica; anzi, se lo ritiene opportuno, il Vescovo diocesano
provveda all’erezione del seminario minore o di un istituto analogo.
§ 2. A meno che in casi determinati le circostanze non suggeriscano
diversamente, i giovani che intendono essere ammessi al sacerdozio
siano forniti della stessa formazione umanistica e scientifica con la
quale i giovani di quella regione vengono preparati a compiere gli
studi superiori.
** Can. 234 - § 1. Serventur, ubi exsistunt, atque foveantur
seminaria minora aliave instituta id genus, in quibus nempe,
vocationum fovendarum gratia, provideatur ut peculiaris formatia
religiosa una expedire iudicaverit Episcopus dioecesanus, seminarii
minoris similisve instituti erectioni prospiciat.
§ 2. Nisi certis in casibus adiuncta suadeant, iuvenes quibus animus
est ad sacerdotium ascendere, ea ornentur humanistica et scientifica
formatione, qua iuvenes in sua quisque regione ad studia superiora
peragenda praeparantur.
In compenso, i seminari maggiori sono obbligatori. Devono essere
istituiti in linea di massima in ogni diocesi, da una parte, perché
permettono ai futuri chierici di avere già delle relazioni con la
Chiesa particolare e il presbiterio nel quale dovranno lavorare,
dall’altra, perché l’esistenza di un seminario in una diocesi
favorisce la nascita di vocazioni, di cui il Codice del 1983 rende
direttamente responsabile la comunità dei fedeli. Su questo piano, i
canoni del Codice applicano le domande formulate dal Concilio
Vaticano II nel decreto Optatam totius. La Chiesa, si diceva, non
vuole abbandonare “l’esperienza dei secoli trascorsi” pur
riconoscendo la necessità di un adattamento delle regole in
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funzione delle trasformazioni del tempo presente e della diversità
dei popoli e delle regioni.
Estratto della Costituzione Pastorem Dabo vobis
(Enchiridion Vaticanum, 13, n° 1444-1454)
n° 60-61
60. La necessità del Seminario Maggiore — e dell'analoga Casa
religiosa — per la formazione dei candidati al sacerdozio,
autorevolmente affermata dal Concilio Vaticano II,382 è stata
riaffermata dal Sinodo con queste parole: « L'istituzione del
Seminario Maggiore, come luogo ottimo di formazione, è
certamente da riaffermarsi quale normale spazio, anche
materiale, di una vita comunitaria e gerarchica, anzi quale casa
propria per la formazione dei candidati al sacerdozio, con
superiori veramente consacrati a questo ufficio. Questa
istituzione ha dato moltissimi frutti lungo i secoli e continua a
darli in tutto il mondo ».383
Il seminario si presenta sì come un tempo e uno spazio; ma si
presenta soprattutto come una comunità educativa in cammino:
è la comunità promossa dal Vescovo per offrire a chi è chiamato
dal Signore a servire come gli apostoli la possibilità di rivivere
l'esperienza formativa che il Signore ha riservato ai Dodici.
…/…
L'identità profonda del seminario è di essere, a suo modo, una
continuazione nella Chiesa della comunità apostolica stretta
intorno a Gesù, in ascolto della sua Parola, in cammino verso
l'esperienza della Pasqua, in attesa del dono dello Spirito per la
missione. Una simile identità costituisce l'ideale normativo che
stimola il seminario, nelle più diverse forme e nelle molteplici
vicissitudini, che in quanto istituzione umana registra nella
storia, a trovare una concreta realizzazione, fedele ai valori
evangelici ai quali si ispira e capace di rispondere alle situazioni
e necessità dei tempi.
Il seminario è, in se stesso, un'esperienza originale della vita
della Chiesa: in esso il Vescovo si rende presente attraverso il
ministero del rettore e il servizio di corresponsabilità e di
comunione da lui animato con gli altri educatori, per la crescita
pastorale e apostolica degli alunni. I vari membri della comunità
del seminario, riuniti dallo Spirito in un'unica fraternità,
collaborano, ciascuno secondo il proprio dono, alla crescita di
tutti nella fede e nella carità, perché si preparino
adeguatamente al sacerdozio e quindi a prolungare nella Chiesa
e nella storia la presenza salvifica di Gesù Cristo, il buon
Pastore.
Già sotto un profilo umano, il Seminario Maggiore deve tendere
a diventare « una comunità compaginata da una profonda
amicizia e carità, così da poter essere considerata una vera
famiglia che vive nella gioia ». Sotto il profilo cristiano, il
seminario si deve configurare, continuano i Padri sinodali, come
« comunità ecclesiale », come « comunità dei discepoli del
Signore nella quale si celebra la stessa Liturgia (che permea la
vita di spirito di preghiera), formata ogni giorno nella lettura e
nella meditazione della Parola di Dio e con il sacramento
dell'Eucaristia e nell'esercizio della carità fraterna e della
giustizia, una comunità nella quale, nel progresso della vita
comunitaria e nella vita di ciascun suo membro, risplendono lo
Spirito di Cristo e l'amore verso la Chiesa ». …/…
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61. Il seminario è, dunque, una comunità ecclesiale educativa,
anzi una particolare comunità educante. Ed è il fine specifico a
determinarne
la
fisionomia,
ossia
l'accompagnamento
vocazionale dei futuri sacerdoti, e pertanto il discernimento
della vocazione, l'aiuto a corrispondervi e la preparazione a
ricevere il Sacramento dell’ordine con le grazie e le
responsabilità proprie, per le quali il sacerdote è configurato a
Gesù Cristo Capo e Pastore ed è abilitato e impegnato a
condividerne la missione di salvezza nella Chiesa e nel mondo.
b) Incardinazione ed escardinazione dei chierici.
1. L’incardinazione è il legame mediante il quale un chierico
s’inserisce in una diocesi, una prelatura personale, un istituto di
vita consacrata o una Società di vita apostolica. Questo legame è
conseguenza dell’ordinazione al diaconato, in modo che nessun
chierico possa essere detto “acefalo” o “ senza legame”:
Can. 265 - Ogni chierico deve essere incardinato o in una Chiesa
particolare o in una Prelatura personale oppure in un istituto di vita
consacrata o in una società che ne abbia la facoltà, in modo che non
siano assolutamente ammessi chierici acefali o girovaghi.
** Can. 265 Quemlibet clericum oportet esse incardinatum aut alicui
Ecclesiae particulari vel praelaturae personali, aut alicui instituto vitae
consecratae vel societati hac facultate praeditis, ita ut clerici acephali seu
vagi minime admittantur.
2. La nozione d’incardinazione. L’incardinazione non è definita
nel Codice. Il suo significato emerge dal paragone dei canoni attuali
con quelli del Codice del 1917. Nel vecchio Codice, era sopratutto
l’aspetto disciplinare dell’incardinazione ad essere sottolineato,
dando un carattere preponderante al legame gerarchico che essa
creava tra l’incardinato e il superiore. Tale concezione si spiega
sopratutto con la storia dell’istituzione. Il Codice del 1917
rinforzava, codificandolo, il desiderio del Concilio di Trento di
assicurare la stabilità dei chierici, perché a partire dal XII secolo, la
pratica delle ordinazioni assolute e l’introduzione dei titoli di
ordinazione detti “del patrimonio” e del “beneficio”, che limitavano
il servizio del chierico e determinavano i suoi mezzi di sussistenza,
avevano permesso una grande mobilità o facilità di passaggio tra le
diocesi. Il mantenimento dei titoli di ordinazione nel vecchio Codice
scindeva l’aspetto disciplinare dell’incardinazione dal servizio nella
diocesi. L’ingresso dei due titoli detti “del servizio della diocesi” e
“della missione” e sopratutto il fatto che, in pratica, essi si siano
progressivamente imposti per soppiantare i vecchi titoli, hanno
contribuito a spostare la preponderanza data fino ad allora al
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legame gerarchico derivante dall’incardinazione. Nel Codice del
1983, la preponderanza è data alla relazione di servizio stabilita
dall’incardinazione, la quale, per realizzarsi, deve passare
attraverso l’istituzione di un legame gerarchico con un superiore.
3. Il Concilio Vaticano II ha descritto questo legame di servizio
unicamente per i sacerdoti. L’incardinazione trova un senso e un
fondamento nella partecipazione al sacerdozio di Cristo in modo
che essa appaia come la realizzazione, in una istituzione, di una
“missione di salvezza di proporzioni universali”.
PO 10 b: Inoltre, le norme sull'incardinazione e l'escardinazione
vanno riviste in modo che quest’antichissimo istituto, pur rimanendo
in vigore, sia però più rispondente ai bisogni pastorali di oggi. E lì
dove ciò sia reso necessario da motivi apostolici, si faciliti non solo
una distribuzione funzionale dei presbiteri, ma anche l'attuazione di
peculiari iniziative pastorali in favore di diversi gruppi sociali in certe
regioni o nazioni o addirittura continenti.
A questo titolo, lo scopo o fondamento dell’incardinazione riguarda
pure i sacerdoti membri di Istituti di vita consacrata, di Società di
vita apostolica o di Prelature personali, non incardinati nelle
diocesi. Le loro attività apostoliche, partecipando alla missione
propria dell’istituzione nella quale sono entrati, sono la
realizzazione della “preoccupazione di tutte le Chiese” legata
all’ordinazione. Quindi tutti i sacerdoti, “sia diocesani che religiosi”
afferma il Concilio Vaticano II, partecipano in unione col vescovo,
all'unico sacerdozio di Cristo e lo esercitano con lui. Pertanto, essi
sono costituiti provvidenziali cooperatori dell'ordine episcopale.
Nell'esercizio del sacro ministero il ruolo principale spetta ai
sacerdoti diocesani, perché, essendo essi incardinati o addetti ad
una Chiesa particolare, si consacrano tutti al suo servizio, per la
cura spirituale di una porzione del gregge del Signore. Perciò, essi
costituiscono un solo presbiterio ed una sola famiglia, di cui il
vescovo è come il padre. Questi, per poter meglio e più giustamente
distribuire i sacri ministeri tra i suoi sacerdoti, deve poter godere
della necessaria libertà nel conferire gli uffici e i benefici; ciò
comporta la soppressione dei diritti e dei privilegi che in qualsiasi
modo limitino tale libertà” (CD, 28).
4. Il passaggio da una diocesi ad un’altra. Il principio di stabilità
dei chierici molto garantito nel Codice del 1917, rendeva difficile il
passaggio da una diocesi ad un’altra. Diverse situazioni pastorali
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alla metà di quel secolo avevano mostrato la mancanza di elasticità
delle regole del Codice del 1917 nel rispondere ai nuovi bisogni. Per
dar loro un grado giuridico, il legislatore era stato costretto a
trovare alcune soluzioni giuridiche originali. Il Concilio Vaticano II
ha chiesto che si adattasse ai bisogni pastorali attuali questa
“vecchissima istituzione”. Le nuove regole (cc.267-272), riprese dal
M.P. di Paolo VI “Ecclesiae sanctae” (6 agosto 1966), pur
mantenendo il principio di stabilità, facilitano il passaggio da una
diocesi ad un’altra e sopratutto offrono diverse possibilità che
esistono, come nel vecchio Codice, di ricorrere all’escardinazione.
Can. 268 - § 1. Il chierico che si trasferisce legittimamente dalla
propria Chiesa particolare in un’altra, dopo cinque anni viene
incardinato in quest’ultima per il diritto stesso, purché abbia
manifestato per iscritto tale intenzione sia al Vescovo diocesano
della Chiesa ospite, sia al Vescovo diocesano proprio e purché
nessuno dei due abbia espresso un parere contrario alla richiesta
entro quattro mesi dalla recezione della lettera.
§ 2. Con l’ammissione perpetua o definitiva in un istituto di vita
consacrata o in una società di vita apostolica, il chierico che a
norma del Can. 266, è incardinato in tale istituto o società, viene
escardinato dalla propria Chiesa particolare.
Can. 272 - L’Amministratore diocesano non può concedere
l’escardinazione e l’incardinazione, come pure la licenza di
trasferirsi in un’altra Chiesa particolare, se non dopo un anno di
sede episcopale vacante e col consenso del collegio dei consultori.
** Can. 268 § 1. Clericus qui a propria Ecclesia particulari in
aliam legitime transmigraverit, huic Ecclesiae particulari,
transacto quinquennio, ipso iure incardinatur, si talem
voluntatem in scriptis manifestaverit tum Episcopo dioecesano
Ecclesiae hospitis tum Episcopo dioecesano proprio, neque horum
alteruter ipsi contrariam scripto mentem intra quattuor menses a
receptis litteris significaverit.
§2. Per admissionem perpetuam aut definitivam in institutum
vitae consecratae aut in societatem vitae apostolicae, clericus qui,
ad normam Can. 266, §2, eidem instituto aut societati
incardinatur, a propria Ecclesia particulari excardinatur.
** Can. 272 - Excardinationem et incardinationem, itemque
licentiam ad aliam Ecclesiam particularem transmigrandi
concedere nequit Administrator dioecesanus, nisi post annum a
vacatione sedis episcopalis, et cum consensu collegii consultorum.
5. L’escardinazione. L’escardinazione è l’iscrizione in un’altra
Chiesa particolare, dopo aver ottenuto dal vescovo della diocesi
dove si è incardinati, una lettera che autorizzi il passaggio al
servizio dell’altra Chiesa e dopo avere ricevuto dal vescovo della
diocesi, in cui ci si propone di essere incardinati, una lettera detta
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“d’incardinazione” (Can. 267). La validità della procedura
dell’incardinazione, quindi, e dell’escardinazione dipende da questo
scambio di lettere. L’escardinazione segue ipso facto l’ottenimento
dell’incardinazione richiesta. Il Can. 270 presenta l’escardinazione
come un diritto del chierico incardinato, senza tuttavia usare il
termine.
Can. 270 - L’escardinazione può essere lecitamente concessa solo
per giusti motivi, quali l’utilità della Chiesa o il bene del chierico
stesso; tuttavia non può essere negata se non in presenza di gravi
cause; però il chierico che ritenga gravosa la decisione nei suoi
confronti e abbia trovato un Vescovo che lo accoglie, può fare
ricorso contro la decisione stessa.
** Can. 270. Excardinatio licite concedi potest iustis tantum de
causis, quales sunt Ecclesiae utilitas aut bonum ipsius clerici;
denegari autem nonpotest nisi exstantibus gravibus causis; licet
tamen clerico, qui se gravatum censuerit et Episcopum
receptorem invenerit, contra decisionem recurrere.
Il Codice mantiene l’equilibrio tra i motivi di un’accettazione e i
motivi di un rifiuto da parte dell’autorità. L’escardinazione, dice,
può essere lecitamente concessa solo per giusta causa, come
l’utilità della Chiesa o il bene del clero stesso. Può essere rifiutata
solo in caso di gravi motivi. È, inoltre, permesso ad un chierico che
si consideri leso e che abbia trovato un vescovo che lo riceva di
ricorrere contro la decisione. Tale possibilità di ricorso rivela
l’esistenza di un diritto, ma le condizioni di ottenimento
dell’escardinazione indicano che l’esercizio di questo diritto è
oggetto di una regolazione, che lega il chierico richiedente
all’autorità. L’accesso ad una richiesta d’escardinazione non è,
dunque, un favore, ma la conseguenza di un giudizio dell’autorità,
di cui un ricorso potrebbe verificare la giustizia.
6. Nel Can. 269, che definisce il diritto del vescovo che incardina,
l’incardinazione che comporta l’effetto d’escardinazione ha più
l’aspetto di un favore.
C. 269. - Il Vescovo diocesano non proceda all’incardinazione di
un chierico se non quando: 1° ciò sia richiesto dalla necessità o
utilità della sua Chiesa particolare e salve le disposizioni del
diritto riguardanti l’onesto sostentamento dei chierici; 2° gli consti
da un documento legittimo la concessione dell’escardinazione e
inoltre abbia avuto opportuno attestato da parte del Vescovo
diocesano di escardinazione, se necessario sotto segreto, sulla
vita, sui costumi e sugli studi del chierico; 3° il chierico abbia
dichiarato per iscritto al Vescovo diocesano stesso di volersi
dedicare al servizio della nuova Chiesa particolare a norma del
diritto.
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** Can. 269. Ad incardinationem clerici Episcopus dioecesanus ne
deveniat nisi: (1) necessitas aut utilitas suae Ecclesiae particularis
id exigat, et salvis praescriptis honestam sustentationem
clericorum respicientibus; (2) ex legitimo documento sibi
constiterit de concessa excardinatione, et habuerit praeterea ab
Episcopo dioecesano excardinanti, sub secreto si opus sit, de
clerici vita, moribus ac studiis opportuna testimonia; (3) clericus
eidem Episcopo dioecesano scripto declaraverit se novae Ecclesiae
particularis servitio velle addici ad normam iuris.
Essa è certamente sottoposta alla raccolta d’elementi procedurali
indispensabili affinché possa essere presa la decisione, come
l’esistenza del documento legittimo che prova che è concessa
l’escardinazione oppure la dichiarazione scritta del chierico che
afferma di voler assumere servizio nella nuova Chiesa particolare.
È anche determinata dal bisogno o dall’utilità della Chiesa
particolare che deve procedere all’incardinazione e alle possibilità
di offrire mezzi di sussistenza al chierico. Ma non v’è nulla di
definitivo in materia di ricorsi. Il vescovo può esercitare su questo
punto un potere discrezionale che lo porterà ad accettare o rifiutare
la richiesta che gli è stata fatta.
7. Permesso di passare per un tempo determinato ad un’altra
Chiesa particolare. I chierici incardinati possono chiedere il
permesso di passare, per un certo periodo di tempo, al servizio di
un’altra Chiesa particolare, pur mantenendo il legame
d’incardinazione con la Chiesa particolare di origine. Poiché tale
legame crea dei diritti, questi dovrebbero essere mantenuti durante
la loro assenza. Si tratta, tuttavia, di un favore che non è
determinato da alcuna condizione di ottenimento. Tuttavia, una
volta ottenuta, essa può, mediante convenzioni, creare dei diritti. Il
vescovo conserva il diritto di richiamare il chierico, “per una giusta
causa” dice il Can. 271 § 3, rispettando le convenzioni passate e
l’equità naturale.
8. In compenso, nel caso in cui il passaggio a un’altra Chiesa
particolare fosse motivata dalla necessità di esercitare il ministero
in una regione in grave penuria di sacerdoti, il vescovo che deve
rilasciare il permesso dovrebbe prendere in considerazione, questa
volta, la situazione della sua Chiesa particolare. Bisognerebbe che
il rifiuto fosse motivato da uno stato di necessità della Chiesa
particolare (Can. 271 § 1) o da una mancanza d’attitudine del
chierico.
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Can. 271 - § 1. Al di fuori di una situazione di vera necessità per
la propria Chiesa particolare, il Vescovo diocesano non neghi la
licenza di trasferirsi ai chierici che sappia preparati e ritenga
idonei ad andare in regioni afflitte da grave scarsità di clero, per
esercitarvi il ministero sacro; provveda però che, mediante una
convenzione scritta con il Vescovo diocesano del luogo a cui sono
diretti, vengano definiti i diritti e i doveri dei chierici in questione.
§ 2. Il Vescovo diocesano può concedere ai suoi chierici la licenza
di trasferirsi in un’altra Chiesa particolare per un tempo
determinato, rinnovabile anche piú volte, in modo però che i
chierici rimangano incardinati nella propria Chiesa particolare e,
se vi ritornano, godano di tutti i diritti che avrebbero se avessero
esercitato in essa il ministero sacro.
§ 3. Il chierico che è passato legittimamente ad un’altra Chiesa
particolare, rimanendo incardinato nella propria Chiesa, per
giusta causa può essere richiamato dal proprio Vescovo
diocesano, purché siano rispettate le convenzioni stipulate con
l’altro Vescovo e l’equità naturale; ugualmente, alle stesse
condizioni, il Vescovo diocesano dell’altra Chiesa particolare
potrà, per giusta causa, negare al chierico la licenza di un
‘ulteriore permanenza nel suo territorio.
** Can. 271 § 1. Extra casum verae necessitatis Ecclesiae particularis
propriae, Episcopus dioecesanus ne deneget licentiam transmigrandi
clericis, quos paratos scit atque aptos aestimet qui regiones petant gravi
cleri inopia laborantes, ibidem sacrum ministerium peracturi; prospiciat
vero ut per conventionem scriptam cum Episcopo dioecesano loci, quem
petunt, iura et officia eorundem clericorum stabiliantur.
§2. Episcopus dioecesanus licentiam ad aliam Ecclesiam particularem
transmigrandi concedere potest suis clericis ad tempus praefinitum,
etiam pluries renovandum, ita tamen ut iidem clerici propriae Ecclesiae
particulari incardinati maneant, atque in eandem redeuntes omnibus
gaudeant iuribus, quae haberent si in ea sacro ministerio addicti
fuissent.
§3. Clericus qui legitime in aliam Ecclesiam particularem transierit
propriae Ecclesiae manens incardinatus, a proprio Episcopo dioecesano
iusta de causa revocari potest, dummodo serventur conventiones cum
altero Episcopo initae atque naturalis aequitas; pariter, iisdem
condicionibus servatis, Episcopus dioecesanus alterius Ecclesiae
particularis iusta de causa poterit eidem clerico licentiam ulterioris
commorationis in suo territorio denegare.
9. Incardinazione a pieno diritto. Infine, l’incardinazione in
un’altra Chiesa particolare potrebbe essere effetto di una
manifestazione della volontà d’un chierico già passato a questa
chiesa, in cui avesse esercitato un ministero da almeno cinque
anni compiuti. L’incardinazione a pieno diritto fa seguito alla
domanda scritta del chierico e al tacito consenso dei due vescovi
interessati in un lasso di tempo di quattro mesi.
Can. 268 - § 1. Il chierico che si trasferisce legittimamente dalla
propria Chiesa particolare in un’altra, dopo cinque anni viene
incardinato in quest’ultima per il diritto stesso, purché abbia
manifestato per iscritto tale intenzione sia al Vescovo diocesano
della Chiesa ospite, sia al Vescovo diocesano proprio e purché
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nessuno dei due abbia espresso un parere contrario alla richiesta
entro quattro mesi dalla recezione della lettera.
§ 2. Con l’ammissione perpetua o definitiva in un istituto di vita
consacrata o in una società di vita apostolica, il chierico che a
norma del Can. 266, è incardinato in tale istituto o società, viene
escardinato dalla propria Chiesa particolare.
** Can. 268 §1. Clericus qui a propria Ecclesia particulari in aliam legitime
transmigraverit, huic Ecclesiae particulari, transacto quinquennio, ipso
iure incardinatur, si talem voluntatem in scriptis manifestaverit tum
Episcopo dioecesano Ecclesiae hospitis tum Episcopo dioecesano proprio,
neque horum alteruter ipsi contrariam scripto mentem intra quattuor
menses a receptis litteris significaverit.
§ 2. Per admissionem perpetuam aut definitivam in institutum vitae
consecratae aut in societatem vitae apostolicae, clericus qui, ad normam
Can. 266, §2, eidem instituto aut societati incardinatur, a propria Ecclesia
particulari excardinatur.
Questo caso illustra meglio la flessibilità del diritto attuale in
materia e la possibilità che offre di far fronte ai problemi nuovi di
mobilità nell’esercizio delle cariche pastorali.
c) Doveri e diritti dei chierici.
Lo statuto giuridico dei chierici stabilisce una legislazione di diritti
e doveri nell’intento di garantire la specificità dell’esercizio del
ministero sacro dei chierici. Questo statuto è quello dei ministri
della Chiesa. Contrariamente a ciò che il Codice dichiarava a
proposito di quello dei laici, questo statuto non si aggiunge
integralmente a quello del fedele. I doveri e i diritti dei fedeli
rimangono acquisiti nel battesimo, ma alcuni saranno adattati,
modificati o vietati all’esercizio, a causa delle cariche particolari
che spettano ai chierici. La lista dei doveri e dei diritti (cc. 273-289)
è meno lunga di quella fornita dal vecchio Codice e non entra in
altrettanti dettagli. Bisogna vedervi un eccesso di prudenza del
diritto, che vuole evitare che le prescrizioni diventino caduche con
il tempo, come per alcune del Codice del 1917. Perché più che dalla
determinazione dei doveri e dei diritti, dipende anche dalla
competenza di legislatori particolari e soprattutto dai vescovi
diocesani.
1. Dovere d’obbedienza. Il primo canone dell’insieme legislativo
(Can. 273) comincia con il ricordare l’obbligo per tutti i chierici, di
manifesta “reverenza” ed “obbedienza” verso il Pontefice romano ed
il proprio ordinario. Tale dovere fa già parte dello statuto giuridico
dei fedeli (Can. 212 § 1). Qui, esso è l’applicazione dell’obbedienza
dovuta ai pastori, ma, questa volta, riguarda i fedeli che hanno,
con l’ordinazione, un legame specifico con i vescovi ed il Papa,
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essendo gli uni e gli altri, con cariche specifiche, ministri del
Popolo di Dio. Il contenuto del Can. 274 § 2 s’inserisce in questa
linea. I chierici sono tenuti ad accettare e ad adempiere fedelmente
gli incarichi che l’ordinario ha affidato loro. Quest’obbligo è
conseguenza della loro incardinazione. Il canone parla d’obbligo o
di dovere di adempiere un ufficio, non di un diritto. Lo si faceva a
partire dal penultimo schema preparatorio del Codice attuale. Le
discussioni, cui ha dato luogo il progetto di soppressione di questo
canone, dimostrano che s’è voluto scartare il termine “diritto”, per
evitare le ambiguità riguardanti la comprensione del ministero
nella Chiesa e l’atteggiamento dei chierici nei suoi riguardi.
2. Doveri che riguardano le condotte e la vita personale. Lo
statuto giuridico dato ai chierici mira all’imposizione di una
condotta e di una vita personale in rapporto con la missione “in
nome della Chiesa”, che è loro affidata. Essi hanno il dovere, come
tutti i fedeli, di condurre una vita santa, ma per ogni chierico esiste
un motivo particolare per perseguire la santità, poiché è consacrato
a Dio a nuovo titolo con la ricezione del Sacramento dell’ordine
(Can. 276). Il celibato, al quale si devono attenere, li unisce
“facilmente al Cristo con un amore indiviso” e permette loro di
“consacrarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini” (Can.
277). Essi devono condurre una vita semplice e povera, legata alla
loro diocesi (cc. 282 e 283). Inoltre, essi devono astenersi da tutto
quello che non si addice allo stato clericale (Can. 285). Il diritto
d’associazione è loro riconosciuto come ad ogni fedele, ma le
raccomandazioni del Codice indicano che si tiene al fatto che essi
privilegino l’ingresso in associazioni, i cui statuti siano stati
approvati dall’autorità e i cui scopi siano in relazione con l’esercizio
del loro ministero e con il loro statuto di ordinati. Infine, si
proibisce loro di fondare e di partecipare ad associazioni, il cui
scopo e l’azione siano incompatibili con lo stato clericale e possono
intralciare l’adempimento dell’incarico che è stato loro affidata
(Can. 278).
3. Doveri e diritti di funzione. I doveri e diritti dei chierici, che
riguardano la loro vita personale e la loro condotta, si capiscono
già in relazione alle funzioni che la Chiesa chiede loro di esercitare.
Certi obblighi e certi diritti, ma soprattutto le interdizioni, hanno
un rapporto più diretto con lo sviluppo e la garanzia dell’esercizio
del ministero sacro. Così l’obbligo di proseguire gli studi o di
frequentare cicli di conferenze (Can. 279), il diritto ad una
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remunerazione (Can. 281), l’obbligo di portare l’abito clericale (Can.
284), il divieto di rivestire cariche pubbliche, che comportino una
partecipazione all’esercizio del potere civile (Can. 285 § 3), il
divieto, senza il consenso dell’ordinario, di gestire beni
appartenenti ai laici o di rivestire cariche secolari, che comportino
l’obbligo di rendere conto (Can. 285 § 4), il divieto di prendere parte
attiva nella direzione delle associazioni sindacali o nei partiti
politici, a meno che un giudizio dell’autorità non stabilisca che un
simile impegno sia necessario alla difesa dei diritti della Chiesa o
alla promozione del bene comune (Can. 287 § 2); infine, il divieto di
entrare come volontari nell’esercito, non addicendosi il servizio
militare permanente allo stato clericale (Can. 289). Questi divieti
sono riserve fatte dal diritto alla libertà d’azione legata allo statuto
di fedeli, riserve che, come emerge, dal contenuto di ogni canone,
possono essere sciolte dall’Ordinario, mediante una dispensa, che
concede, al chierico che lo richiede, la possibilità di agire contro il
diritto o al di fuori del diritto.
4. Doveri e diritti dei diaconi permanenti. I diaconi permanenti
sono chierici. Lo statuto descritto sopra è loro applicabile. Non
sono tenuti al celibato, tuttavia, la loro situazione è particolare in
rapporto agli altri chierici, cosicché un certo numero di obblighi
non li riguarda. Pertanto, non sono tenuti a portare l’abito
clericale, possono rivestire cariche pubbliche con partecipazione al
potere civile e non rientrano nell’interdizione riguardante la
gestione dei beni, i legami finanziari o l’esercizio delle cariche che
comportino l’obbligo di rendere conto (Can. 288). La loro
remunerazione dipende dalla loro condizione ministeriale nella
Chiesa. È stabilito il principio secondo il quale ogni diacono
permanente, interamente consacrato al ministero ecclesiastico,
riceva una remunerazione, ma se esercita una professione civile o
riceve una remunerazione per una professione esercitata in
precedenza, non riceverà niente dalla Chiesa (Can. 283 § 3). Qui,
inoltre, bisognerà tener conto delle situazioni particolari, che
dipendono da un giudizio dell’autorità, e che potrebbe a sua volta
dar luogo a decisioni o regolamenti particolari.
d) Perdita dello stato clericale.
Il Codice del 1917 parlava di riduzione del chierico allo
stato laicale. Il nuovo vocabolario indica meglio che si
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tratta della perdita degli obblighi e diritti propri dello stato
clericale e, contestualmente, di un ritorno allo stato
laicale, in cui si trovava il chierico prima della sua
ordinazione.
Can. 290 - La sacra ordinazione, una volta validamente ricevuta,
non diviene mai nulla. Tuttavia il chierico perde lo stato clericale:
1° Per sentenza giudiziaria o decreto amministrativo con cui si
dichiara l’invalidità della sacra ordinazione;
2° mediante la pena di dimissione irrogata legittimamente;
3° per rescritto della Sede Apostolica; tale rescritto viene concesso
dalla Sede Apostolica ai diaconi soltanto per gravi cause, ai
presbiteri per cause gravissime.
Can. 291 - Oltre ai casi di cui al Can. 290, n. 1, la perdita dello
stato clericale non comporta la dispensa dall’obbligo del celibato:
questa viene concessa unicamente dal Romano Pontefice.
Can. 292 - Il chierico che a norma del diritto perde lo stato
clericale, ne perde insieme i diritti e non è tenuto ad alcun obbligo
di tale stato, fermo restando il disposto del Can. 291; gli è proibito
di esercitare la potestà di ordine, salvo il disposto del Can. 976;
con ciò egli è privato di tutti gli uffici, di tutti gli incarichi e di
qualsiasi potestà delegata.
Can. 293 - Il chierico che ha perduto lo stato clericale non può
essere nuovamente ascritto tra i chierici, se non per rescritto della
Sede Apostolica.
** Can. 290 - Sacra ordinatio, semel valide recepta, numquam irrita fit.
Clericus tamen statum clericalem amittit:
(1) sententia iudiciali aut decreto administrativo, quo invaliditas sacrae
ordinationis declaratur;
(2) poena dimissionis legitime irrogata;
(3) rescripto Apostolicae Sedis; quod vero rescriptum diaconis ob graves
tantum causas, presbyteris ob gravissimas causas ac Apostolica Sede
conceditur.
** Can. 291 - Praeter casus de quibus in Can. 290, n. 1, amissio status
clericalis non secumfert dispensationem ab obligatione coelibatus, quae ab
uno tantum Romano Pontifice conceditur.
** Can. 292 - Clericus qui statum clericalem ad normam iuris amittit, cum
eo amittit iura statui clericali propria, nec ullis iam adstringitur
obligationibus status clericalis, firmo praescripto Can. 291; potestatem
ordinis exercere prohibetur, salvo praescripto Can. 976; eo ipso privatur
omnibus officiis, numeribus muneribus e potestate qualibet delegata.
** Can. 293. Clericus qui statum clericalem amisit, nequit denuo inter
clericos adscribi, nisi per Apostolicae Sedis rescriptum.
1. Perdita dello stato clericale. La perdita dello stato clericale
non dev’essere confusa con la dichiarazione d’invalidità
dell’ordinazione.
Un’ordinazione può essere dichiarata invalida con sentenza
giudiziaria, procedura stabilita nel Libro VII (cc. 1708-1712), o con un
decreto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei
sacramenti. In questo caso il chierico, diacono, sacerdote o vescovo,
ritorna laico. Di fatto, la sentenza o il decreto dichiara che la persona
non è mai stata chierico. Perde i suoi doveri e diritti di chierico. La
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perdita dello stato clericale è effetto della sentenza (doppia sentenza
conforme) o del decreto che dichiara l’invalidità dell’ordinazione (Can.
290 1°). Le cause riguardano i soggetti o i mezzi tramite i quali è stato
celebrato il sacramento.
Nel caso di ordinazione valida (Can.290, 2°-3°), la perdita dello
stato clericale, si deve distinguere 3 casi:
1. Caso di una sanzione penale in applicazione delle regole del libro
VI del CIC 1983: una sanzione penale espiatoria ferendae
sententiae, quando c’è un delitto (Can. 1321), può decidere la
dimissione dallo stato clericale (Can. 1364 § 2,Can. 1367 § 1, Can.
1370 § 1, Can. 1387, Can. 1394 § 1, Can. 1395 §1), dopo un
processo giudiziale (Can. 1342 § 2 e Can. 1452 § 1,2°), mai,
secondo il Can. 1342 § 2 CIC del 1983, un decreto extragiudiziale.
2. Caso di un decreto amministrativo emanato dalla Congregazione
per il clero in applicazione di facoltà speciali. In fatti, in deroga al c.
1342 § 2 citato sopra (vietando di portare un decreto
extragiudiziale di dimissione dallo stato clericale), il 18 aprile 2009,
la Congregazione per il clero della Curia romana ha ricevuto dal
Santo Padre (lettera N. 2009 0556) facoltà speciali:
1) la facoltà speciale di trattare e di presentare al Papa, allo scopo di
ricevere l’approvazione specifica della sua decisione, i casi di dimissioni
dallo stato clericale “in poenam” dei chierici che hanno attentato al
matrimonio e che sono colpevoli dei peccati esterni citati nel Can. 1395
§ 1 e 2, al seguito di una procedura amministrativa;
2) la facoltà di intervenire secondo il Can. 1399 per dichiarare sanzioni,
quale la dimissione dello stato clericale, pure dopo una procedura
amministrativa;
3) la facoltà di dichiarare la perdita delle stato clericale dei chierici che
hanno abbandonato il ministero per un periodo superiore a 5 anni
consecutivi sempre per una procedura amministrativa.
3. Caso di una richiesta seguita da un rescritto di dispensa dagli
obblighi e diritti della stato clericale. La richiesta di dispensa è
rivolta alla Santa Sede personalmente da un sacerdote o un
diacono, che chieda di essere dispensato dagli obblighi e diritti
propri dello stato clericale. I motivi devono essere gravi nel caso di
un diacono, gravissimi nel caso di un sacerdote. Dopo
un’istruzione fatta nella diocesi, questa richiesta dev’essere
presentata davanti alla Congregazione per il clero, secondo una
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procedura la cui instaurazione, rivista molte volte, risale a Paolo
VI.
3. Gli effetti della perdita dello stato clericale. L’effetto di tali
decisioni influisce sullo statuto giuridico del chierico. Il suo stato
diventa quello del laico nella Chiesa. Non può più esercitare uffici o
cariche riservati ai chierici, né ricevere deleghe di potere (Can.
292). Nel caso in cui la sua ordinazione restasse valida, non
potrebbe
più
esercitare
i
poteri
sacramentali
ricevuti
nell’ordinazione, salvo il caso in cui, pur non avendone ricevuto la
facoltà, fosse portato ad ascoltare la confessione sacramentale di
una persona in pericolo di morte (Can. 976).
4. La dispensa del celibato non è legata automaticamente alla
perdita dello stato clericale (Can. 291) e dev’essere chiesta
separatamente; lo sarebbe unicamente nel caso di ordinazione
invalida. Prima del 1989, dopo un’istruzione diocesana, la
Congregazione per la dottrina della fede era competente per
ricevere le richieste di dispensa. Dal 1989 al 2005, fu la
Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ad
essere competente. Dal 2005 in poi, è la Congregazione per il clero.
La pratica della Santa Sede è espressa in una lettera circolare della
Congregazione per la dottrina della fede ancora valida (1980).
Nell’esame delle domande che sono indirizzate alla Sede Apostolica,
oltre il caso dei sacerdoti che, avendo abbandonato da molto tempo
la vita sacerdotale, desiderano regolarizzare una situazione
irreversibile, la Congregazione prende in considerazione il caso di
coloro che non avrebbero dovuto ricevere l’ordinazione sacerdotale,
sia perché, ad esempio, è mancata loro la libertà o la responsabilità
necessarie, sia perché i superiori responsabili non hanno saputo
giudicare in tempo opportuno e in modo prudente ed adeguato se il
candidato era veramente adatto a vivere definitivamente nel
celibato consacrato. Una lettera circolare della Congregazione per il
culto divino e la disciplina dei sacramenti (che, come detto sopra,
dal 1989 alle 2005 ha avuto la competenza per ricevere le domande
di perdita dello stato clericale) dà indicazioni complementari per i
richiedenti che non hanno ancora 40 anni compiuti allorché
un’inchiesta d’istruttoria dimostra una particolarità che mette in
luce una situazione fisico-psicologica del richiedente, preliminare e
concomitante alla sua ordinazione (la lettera circolare è applicata
oggi dalla Cong. per il clero).
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Dal 18 aprile 2009, la dispensa del celibato può anche essere
dichiarata dalla Congregazione per il clero, per facoltà speciali,
ricevute dal Papa (vedere sopra n. 1, a) insieme alla dispensa delle
obbligazioni sacerdotali, a seguito di una procedura amministrativa
che impone una sanzione di perdita dello stato clericale. Quando è
concessa la dispensa dal celibato, il chierico perde lo stato clericale
con tutti gli obblighi e doveri, tranne il diritto dei cc. 976 e 986 § 2.
Un vescovo diocesano non può dispensare dal celibato
ecclesiastico, anche, come indica il Can. 87 § 2: “quando sia
difficile il ricorso alla santa Sede e insieme nell’attesa vi sia pericolo
di grave danno”.
II. Le persone giuridiche e le comunità associative.
A) Le associazioni di fedeli.
1. Partecipazione alla missione della Chiesa. Il diritto
d’associazione dei fedeli, radicato nel battesimo (Can. 215), è
costituito dalla nozione di partecipazione alla missione della
Chiesa, che le persone sono chiamate ad esercitare
individualmente o collettivamente (vedere pure il Can. 225 § 1). Il
Can. 298 introduce una parte della legislazione in cui è inquadrato
giuridicamente l’esercizio di questo diritto senza che la legislazione
entri nel dettaglio di prescrizioni che, da quel momento, dipendono
da altri testi legislativi e amministrativi generali o, soprattutto, da
statuti. Secondo i termini stessi del canone introduttivo, chierici o
laici insieme possono associarsi per esercitare attività che rilevano
per le funzioni della Chiesa riguardanti l’insegnamento o il culto o
altre attività d’apostolato, cioè, attività d’evangelizzazione, opere di
carattere religioso o sociale.
Can. 298 - § 1. Nella Chiesa vi sono Associazioni, distinte dagli istituti di vita
consacrata e dalle società di vita apostolica, in cui i fedeli, sia chierici, sia laici
insieme, tendono, mediante l’azione comune, all’incremento di una vita piú
perfetta, o alla promozione del culto pubblico o della dottrina cristiana, o ad
altre opere di apostolato, quali sono iniziative di evangelizzazione, esercizio di
opere di pietà o di carità, animazione dell’ordine temporale mediante lo spirito
cristiano.
** Can. 298 § 1. In Ecclesia habentur consociationes distinctae ab institutis vitae
consecratae et societatibus vitae apostolicae, in quibus christifideles, sive clerici sive
laici sive clerici et laici simul, communi opera contendunt ad perfectiorem vitam
fovendam, aut ad alia apostolatus opera, scilicet ad evangelizationis incepta, ad pietatis
vel caritatis opera exercenda et ad ordinem temporalem christiano spiritu animandum.
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In ogni caso, i fedeli sono portati a creare associazioni di natura
diversa dalle comunità gerarchiche e, come indica il canone, dagli
istituti di vita consacrata e dalle società di vita apostolica.
2. I tre elementi costitutivi delle associazioni. Le comunità
gerarchiche (chiese particolari, parrocchie, cappellanie): 1) sono
sempre istituite dall’autorità; 2) l’appartenenza dei membri è legata
alla realizzazione di un criterio obiettivo (domicilio, uso di una
lingua, rito…); 3) sono organizzate secondo regole determinate dal
diritto universale o particolare, per regolamentare in modo
gerarchico la cura pastorale della comunità nell’ordine dei tria
munera. Le associazioni o comunità associative sono anch’esse
costituite da tre elementi fondamentali, che, di fronte ai tre
elementi ricordati prima, marcano la loro identità giuridica:
1) Esse sono liberamente volute dai fedeli in virtù d’un diritto di
associarsi, che fa parte dello statuto fondamentale dei fedeli.
All’esercizio di questo diritto potrebbe opporsi la mancanza di
“criteri d’ecclesialità” di un’associazione. L’Esortazione apostolica
sulla vocazione e la missione dei laici, Christifideles laici di
Giovanni Paolo II (1988), presenta tali criteri come i grandi principi
che ogni associazione deve rispettare per essere in comunione con
la Chiesa e collocare la sua azione nella prospettiva della sua
missione.
Giovanni
Paolo
II,
Esortazione
apostolica post-sinodale
Christifidelis laici, in Enchiridion Vaticanum, 11, 1988-1989, n.
1726-1732.
Criteri di ecclesialità per le aggregazioni laicali
30. E' sempre nella prospettiva della comunione e della missione
della Chiesa, e dunque non in contrasto con la libertà associativa,
che si comprende la necessità di criteri chiari e precisi di
discernimento e di riconoscimento delle aggregazioni laicali, detti
anche «criteri di ecclesialità».
Come criteri fondamentali per il discernimento di ogni e qualsiasi
aggregazione dei fedeli laici nella Chiesa si possono considerare,
in modo unitario, i seguenti:
-Il primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità,
manifestata «nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei
fedeli»(109) come crescita verso la pienezza della vita cristiana e la
perfezione della carità(110). In tal senso ogni e qualsiasi
aggregazione di fedeli laici è chiamata ad essere sempre più
strumento di santità nella Chiesa, favorendo e incoraggiando «una
più intima unità tra la vita pratica dei membri e la loro fede»(111).
-La responsabilità di confessare la fede cattolica, accogliendo e
proclamando la verità su Cristo, sulla Chiesa e sull'uomo in
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obbedienza al Magistero della Chiesa, che autenticamente la
interpreta. Per questo ogni aggregazione di fedeli laici dev'essere
luogo di annuncio e di proposta della fede e di educazione ad essa
nel suo integrale contenuto.
-La testimonianza di una comunione salda e convinta, in relazione
filiale con il Papa, perpetuo e visibile centro dell'unità della Chiesa
universale(112), e con il Vescovo «principio visibile e fondamento
dell'unità»(113) della Chiesa particolare, e nella «stima vicendevole
fra tutte le forme di apostolato nella Chiesa»(114).
La comunione con il Papa e con il Vescovo è chiamata ad
esprimersi nella leale disponibilità ad accogliere i loro
insegnamenti dottrinali e orientamenti pastorali. La comunione
ecclesiale esige, inoltre, il riconoscimento della legittima pluralità
delle forme aggregative dei fedeli laici nella Chiesa e, nello stesso
tempo, la disponibilità alla loro reciproca collaborazione.
- La conformità e la partecipazione al fine apostolico della Chiesa,
ossia «l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini e la
formazione cristiana della loro coscienza, in modo che riescano a
permeare di spirito evangelico le varie comunità e i vari
ambienti»(115).
In questa prospettiva, da tutte le forme aggregative di fedeli laici,
e da ciascuna di esse, è richiesto uno slancio missionario che le
renda sempre più soggetti di una nuova evangelizzazione.
- L'impegno di una presenza nella società umana che, alla luce
della dottrina sociale della Chiesa, si ponga a servizio della dignità
integrale dell'uomo.
2) L’appartenenza a queste associazioni è costitutivamente
volontaria e libera. Riguarda tutte le categorie di persone
indipendentemente dal loro stato (chierico, laico e membro di IVC e
di SVA), anche se, come abbiamo visto, l’esercizio di questo diritto
è oggetto d’una regolamentazione per i chierici (Can. 278 § 2 e 3) e
per coloro che fanno parte di istituti di vita consacrata o di società
di vita apostolica.
3) I fedeli possono organizzare liberamente l’associazione secondo
la loro volontà. La dovranno descrivere negli statuti. Qui sarà
prevista la maggiore o minore autonomia d’azione dei fedeli nel
rapporto con la gerarchia. Per questo elemento è importante la
distinzione tra associazione pubblica ed associazione privata,
successivamente analizzata. Come mostreremo in seguito, essa
comprende il fatto di una maggiore o minore regolamentazione da
parte dell’autorità dell’esercizio del diritto d’associazione.
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b) Associazioni private e pubbliche nel Codice del 1983.
1. Classificazione nel CIC del 1917. Benché la legislazione
canonica riguardante le associazioni risalisse proprio al XIII secolo,
il vecchio Codice riprendeva alcuni elementi legislativi contenuti in
testi di diritto moderno, emanati dal Concilio di Trento, da
costituzioni pontificie e da decisioni delle Congregazioni della Curia
romana. In questo Codice, la classificazione delle associazioni si
faceva in funzione dei loro scopi e della loro condizione giuridica.
Pertanto si distinguevano: 1) secondo una prima forma di
classificazione, gli ordini terziari, in cui era ricercata la perfezione
spirituale dei membri, le pie unioni, con lo scopo di svolgere opere
di carità e di pietà, e le confraternite per la promozione del culto
pubblico. 2) secondo un’altra forma di classificazione, le
associazioni erette, sempre dotate di una personalità morale
dall’autorità ecclesiastica e le associazioni approvate dall’autorità,
con o senza personalità morale. In questi due tipi di associazioni,
la gerarchia giocava un ruolo importante, non solo al momento
dell’erezione, ma anche per vigilare l’esercizio delle attività. Ad
esse, si aggiungevano le associazioni raccomandate, il cui statuto
non era chiaro. Infine, benché non menzioniate nel Codice, le
associazioni di fatto, sulle quali l’autorità ecclesiastica non si era
pronunciata. Tra quest’ultime, erano contate le associazioni dette
laiche, vale a dire che si governavano da sole sotto vigilanza della
gerarchia come le ha definite la Resolutio Corrientensis del 13
novembe 1920 (in AAS, 13, 1921, p. 135-141), introducendo
un’altra distinzione tra associazioni ecclesiastiche e associazioni
laiche.
2. La distinzione privata/pubblica del Codice del 1983 è nuova.
Essa presenta due grandi tipi d’associazione: le associazioni
pubbliche (Associazioni erette dall’autorità ecclesiastica) e le
associazioni private (associazioni create con convenzione privata
tra fedeli). Né dal vocabolario del Codice del 1917, né dalla
classificazione che offriva, sono state riprese. Quanto alle due
qualificazioni, pubblica e privata, applicate alle associazioni, esse
non sono definite nel Codice. Si spiega così il fatto che, dalla
promulgazione del nuovo Codice del 1983, la distinzione ha
suscitato gli interrogativi o addirittura le opposizioni della dottrina.
La distinzione trova un quadro legislativo nel libro I sulle norme generali, ai cc. 113-123
sulle persone giuridiche (vedere le dispense del corso 20104 Valdrini/Ripa sulle Norme
generali)
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Raccogliendo l’eredità giuridica romana, il diritto canonico ha, fin delle origini, accoltò la
nozione di personalità morale. Il Codice del 1983, come quello del 1917, definisce le
norme generali che reggono la personalità giuridica, prima d’esporre le regole
concernenti la categoria particolare di persone che costituiscono le associazioni.
Nozione di persona giuridica
Persona morale e persona giuridica: ad immagine della maggior parte dei codici di Stato,
il Codice del 1917 concepiva solo la nozione di persona morale, accanto a quella di
persona fisica. Il Codice del 1983 stabilisce in questo punto una distinzione tra le
persone morali che esistono in virtù del diritto divino (la Chiesa Cattolica e la Sede
apostolica) e le altre persone giuridiche, create da una disposizione del diritto
ecclesiastico. Una simile distinzione è dettata soprattutto da una concezione della Chiesa
organizzata all’immagine delle società civili. Benché faccia capo ad una realtà
comunitaria della Chiesa, evidente nel Codice del 1983, essa è criticata da coloro che,
considerando soprattutto la Chiesa come una comunione, vedono in essa, un riemergere
della scuola di diritto pubblico ecclesiastico e della Chiesa concepita come società
perfetta e la rimproverano di non riconoscere un’esistenza autonoma alle persone
giuridiche, particolarmente alle chiese locali.
Definizione.: per il Can.113 § 2 del Codice del 1983, le persone giuridiche sono dei
soggetti di diritti e di obblighi, il che significa renderle uguali sul piano della capacità
giuridica, alle persone fisiche. Il Codice del 1917 si limitava a distinguere le persone
morali collegiali, come i capitoli, le congregazioni e le associazioni di fedeli, dalle persone
non collegiali, tra cui, le parrocchie, le diocesi, ma anche gli enti benefici e le mense. Il
Codice del 1983 mette un po’ d’ordine in questa classificazione disparata resuscitando la
nozione romana di universitas (insieme). Il Can.115 distingue, infatti, in seno alle
persone giuridiche, gli insiemi di cose, materiali e spirituali, degli insiemi di persone
formati da almeno tre membri. A questa prima distinzione se ne sovrappone una
seconda, tra gli insiemi di persone collegiali e non collegiali. Essa si riferisce al modo in
cui è diretta la persona giuridica. Tutte queste persone giuridiche, qualunque sia il loro
statuto, ricevono la personalità dall’autorità competente solo per finalità che se
accordino con la missione della Chiesa, realmente utili, che evitino gli interessi
individuali e che siano provvista di mezzi sufficienti.
Regime generale: oltre alla definizione delle condizioni in cui sono prese le decisioni di
una persona giuridica di natura collegiale, il Codice del 1983 stabilisce due regole
generali relative alle persone giuridiche: la prima è la necessità di un’approvazione dei
loro statuti da parte dell’autorità competente che precede l’acquisizione della loro
personalità; la seconda riguarda la durata della persona giuridica: se questa è, per sua
natura, perpetua, può tuttavia essere sciolta dall’autorità competente o esserlo
legittimamente se resta inattiva per una durata di cent’anni. A queste regole generali,
s’aggiungono altre regole particolari che regolano le due categorie di persone giuridiche,
pubbliche e private.
3. Persone giuridiche pubbliche e private. Il Can. 116 indica che
esistono due tipi di persone giuridiche: le persone pubbliche e le
persone private. Le prime rivestono, in nome della Chiesa e
nell’ottica del bene pubblico, la carica che è stata loro affidata; le
seconde agiscono a proprio nome e secondo lo scopo prioritario
della loro fondazione, purché quest’ultimo sia in accordo con le
missione della Chiesa. Obbediscono entrambe a regimi diversi.
Le persone giuridiche pubbliche: queste esistono, in effetti, o per
disposizione del diritto, o per decreto speciale dell’autorità
competente. Il loro rappresentante è designato dal diritto
universale o particolare o dagli statuti. Disposizioni precise, infine,
regolano le loro funzioni e divisioni e la devoluzione dei loro beni e
diritti in caso d’estinzione.
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Le persone giuridiche private: al contrario, il regime delle persone
private è lasciato molto più alla libertà dei loro statuti. Pertanto
essi stabiliscono liberamente le loro condizioni di rappresentanza o
di devoluzione dei beni in caso d’estinzione. Solo la creazione della
persona privata suppone l’intervento dell’autorità competente per
decreto speciale. Ma il Codice da se non crea nessuna persona
giuridica privata.
c) Le associazioni private
1. Le associazioni private nel CIC del 1983. La condizione
giuridica abituale di un’associazione è lo statuto d’associazione
privata dovuta alla convenzione tra fedeli, sulla quale interverrà
l’autorità ecclesiastica in un modo descritto dal CIC.
Can. 299 - § 1. I fedeli hanno il diritto di costituire Associazioni,
mediante un accordo privato tra di loro per conseguire i fini di cui
al Can. 298, § 1, fermo restando il disposto del Can. 301, §1.
** Can. 299 § 1. Integrum est christifidelibus, privata inter se conventione
inita, consociationes constituere ad fines de quibus in Can. 298, §1
persequendos, firmo praescripto Can. 301, §1.
Vale a dire che può essere creata ogni specie d’associazione, ma,
come abbiamo detto sopra, nel momento in cui esse rispettano i
“criteri d’ecclesialità”. Sono private, perché il fondamento della loro
esistenza resta la convenzione privata stabilita tra fedeli. Per essere
chiamate private, tali associazioni devono presentare i loro statuti
all’autorità ecclesiastica, affinché essi siano riconosciuti (per le
associazioni private senza personalità giuridica) o approvati (per le
associazioni private con personalità giuridica).
2. Le associazioni di fatto. Se tali associazioni non chiedono il
riconoscimento degli statuti, possono essere dette associazioni di
fatto, benché il CIC non menzioni questa categoria. Alcuni gruppi
sono costituiti e hanno attività nella Chiesa senza avere alcun
riconoscimento canonico. Sembra che tale diritto non possa essere
loro tolto. Il Can. 299 § 3 (vedere sotto), che stabilisce che nessuna
associazione privata è ammessa nella Chiesa a meno che i suoi
statuti non siano riconosciuti dall’autorità competente, non sembra
violato. Questo canone riguarda, in effetti, le associazioni
sottoposte alle condizioni previste nella legislazione, in modo che le
associazioni di fatto non possano pretendere l’applicazione di
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questo diritto. I limiti contenuti nel Can. 301 §1, che determinano
lo statuto pubblico di alcune associazioni in virtù del loro fine,
dovrebbero essere rispettati. Le associazioni di fatto possono quindi
esistere nella Chiesa, senza statuto pubblico né privato, ma nel
quadro d’esercizio del diritto definito dal Codice, però non saranno
riconosciute dall’autorità come lo sono le associazioni private.
3. “In Ecclesia agnoscitur”. Per quanto riguarda le associazioni
private, il Can. 299 § 3 usa due parole. La prima, “agnoscitur”, è
applicata all’associazione. La seconda, recognoscantur, è applicata
agli statuti.
Can. 299 - § 3. Nessuna Associazione privata dei fedeli è
riconosciuta nella Chiesa, se i suoi statuti non sono
esaminati dall’autorità competente.
** Can. 299 - § 3. Nulla christifidelium consociatio
privata in Ecclesia agnoscitur, nisi eius statuta ab auctoritate
competenti recognoscantur.
La traduzione della prima parola (agnoscitur) non può essere
“riconosciuta” nel senso che l’autorità darebbe un diritto di esistere
all’associazione. Il senso è piuttosto sapere che l’associazione esista
come associazione privata e, concretamente, far sì che essa possa
esercitare i diritti definiti alle comunità associative nella diocesi,
sul territorio di una Conferenza episcopale o al livello universale
(ad esempio, partecipare ad un voto per la designazione di membri
di un sinodo diocesano). Un’associazione di fatto esiste nella
Chiesa, anche se l’autorità non la riconosce e, quindi, non potrà
avere tutti i diritti che hanno le associazioni private. La traduzione
del CIC in francese (traduzione della Société internationale de droit
canonique et de législations comparées) della parola agnoscitur è
ambigua: “Aucune association privée de fidèles n’est admise dans
l’Eglise à moins que ses statuts ne soient reconnus par l’autorité
compétente». La parola admise (dal verbo admettre) significa
ammetta, dando l’impressione che l’autorità accetti che
l’associazione possa esistere nella Chiesa (vedere le traduzioni:
spagnola: no se admite, argentina: reconocer, inglese: recognize,
tedesca: anerkannt). Agnoscitur, quindi, significa accettare che
l’associazione esista nella Chiesa con lo statuto canonico di
associazione privata. Vedremo più avanti il problema della
recognitio degli statuti.
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4. Il riconoscimento degli statuti. Il Codice obbliga ogni
associazione a redigere degli statuti. Questi, sull’esempio di quelli
che si esigono per un’associazione civile, devono definire gli scopi o
l’obbiettivo sociale dell’associazione, la sede, il governo e le
condizioni richieste per farne parte e determinare i modi d’azione
del gruppo. Dall’associazione stessa può essere aggiunto un
regolamento che prevede, ad esempio, il modo di fare le assemblee
e il modo pratico di designare le persone per gli incarichi previsti
negli statuti. Per le associazioni private, gli statuti devono essere, a
seconda dei casi, riconosciuti o approvati dall’autorità. Il
riconoscimento è obbligatorio per la costituzione dell’associazione
privata e (vedere sotto) l’approvazione, quando l’associazione chiede
la personalità giuridica. Il riconoscimento dell’autorità consiste
nell’esaminare se le regole statutarie elaborate riguardino degli
elementi che formano l’unità della Chiesa, se gli scopi
dell’associazione, come la partecipazione alla missione della
Chiesa, possano essere realizzate nello statuto di associazione
privata (costituzione), se i membri possano esercitare i loro diritti e
doveri tramite l’organizzazione scelta da fondatori (appartenenza
dei membri e organizzazione). Quest’atto non è discrezionale e non
contiene
un
giudizio
sull’opportunità
di
costituire
quell’associazione, anche se il Codice definisce un diritto
dell’ordinario a vigilare con cura affinché sia evitata la dispersione
delle forze e affinché l’esercizio dell’apostolato sia rivolto al bene
comune (Can. 323 § 2). È interessante studiare i casi di rifiuto di
riconoscimento da parte dell’autorità. Sembra che una decisione di
rifiuto dovrebbe essere motivata e sarebbe oggetto di ricorso
amministrativo e, possibilmente, di ricorso contenziosoamministrativo.
5. Le associazioni con personalità giuridica. Un’altra distinzione
riguarda l’acquisizione della personalità giuridica secondo il diritto.
Un’associazione privata può chiedere il riconoscimento degli
statuti, senza che le sia necessariamente data la personalità
giuridica. Questa dev’essere oggetto di una domanda da parte
dell’associazione stessa e di un decreto formale dell’autorità
competente, dopo avere approvato gli statuti (Can. 322 § 1).
Avendo ottenuto la personalità giuridica, l’associazione non cambia
carattere: resta associazione privata, ma con personalità giuridica.
Se tale associazione privata richiede la personalità giuridica (Can.
322 § 2), gli statuti devono essere approvati (probati).
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Can. 322 - § 1. Un’associazione privata di fedeli può acquistare
personalità giuridica per decreto formale dell’autorità
ecclesiastica competente di cui al Can. 312.
§ 2. Nessuna Associazione privata di fedeli può acquistare
personalità giuridica se i suoi statuti non sono stati approvati
dall’autorità ecclesiastica di cui al Can. 312, § 1; tuttavia
l’approvazione degli statuti non cambia la natura privata
dell’associazione.
** Can. 322 - § 1. Consociatio christifidelium privata personalitatem
iuridicam acquirere potest per decretum formale auctoritatis
ecclesiasticae competentis, de qua Can. 312.
§ 2. Nulla christifidelium consociatio privata personalitatem iuridicam
acquirere potest, nisi eius statuta ab auctoritate ecclesiastica, de qua in
Can. 312, §1, sint probata; statutorum vero probatio consociationis
naturam privatam non immutat.
L’approvazione (probatio), senza possedere un vero carattere
discrezionale, autorizza l’autorità ad esprimere un giudizio sugli
elementi statutari in funzione degli scopi e dell’obbiettivo
dell’associazione. Per l’acquisizione della personalità giuridica
privata, il Codice usa il termine probatio, che si distingue dal
termine approbatio, usato per l’acquisizione della personalità
giuridica pubblica (Can. 314). Corrisponderebbero a due atti di
natura diversa? Il termine, è vero, è usato in modo equivalente in
parti del Codice. Ci si potrebbe augurare, tuttavia, che venga fatta
una distinzione che definisca la differenza tra l’associazione
pubblica e l’associazione privata, avente una personalità giuridica.
Il Can. 322 § 2 dichiara, in effetti, che l’approvazione degli statuti
non modifica la natura privata dell’associazione.
6.
L’autonomia
dell’associazione
privata.
L’autonomia
dell’associazione privata è costitutiva. I fedeli, dice il Can. 321,
dirigono e governano le loro associazioni private secondo le
disposizioni degli statuti. Tuttavia, come tutte le associazioni nella
Chiesa, esse sono sottomesse alla vigilanza dell’autorità
ecclesiastica.
Can. 305 - § 1. Tutte le associazioni di fedeli sono soggette alla
vigilanza dell’autorità ecclesiastica competente, alla quale
pertanto spetta aver cura che in esse sia conservata l’integrità
della fede e dei costumi e vigilare che non si insinuino abusi nella
disciplina ecclesiastica; ad essa perciò spetta il diritto e il dovere
di visitare tali Associazioni, a norma del diritto e degli statuti;
sono anche soggette al governo della medesima autorità secondo
le disposizioni dei canoni seguenti.
§ 2. Sono soggette alla vigilanza della Santa Sede le associazioni
di qualsiasi genere; sono soggette alla vigilanza dell’Ordinario del
luogo le associazioni diocesane e le altre, in quanto esercitano la
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loro azione nella diocesi.
** Can. 305 § 1. Omnes christifidelium consociationes subsunt vigilantiae
auctoritatis ecclesiasticae competentis, cuius est curare ut in iisdem
integritas fidei ac morum servetur, et invigilare ne in disciplinam
ecclesiasticam abusus irrepant, cui itaque officium et ius competunt ad
normam iuris et statutorum easdem invisendi; subsunt etiam eiusdem
auctoritatis regimini secundum praescripta canonum, qui sequuntur.
§ 2. Vigilantiae Sanctae Sedis subsunt consociationes cuiuslibet generis;
vigilantiae Ordinarii loci subsunt consociationes dioecesanae necnon
aliae consociationes, quatenus in dioecesi operam exercent.
Tale influenza è limitata nel suo oggetto e nel suo modo d’azione:
da una parte, mira alla presentazione della fede e dei costumi e alla
sorveglianza sugli abusi, dall’altra, essa agisce secondo il diritto e
gli statuti. Il moderatore o presidente dell’associazione, così come
coloro che formano il consiglio, sono liberamente designati. La
stessa libertà è lasciata alla scelta del consigliere spirituale che
dovrà essere un sacerdote, che eserciti legittimante un ministero
nella diocesi, dice il Can. 324. L’amministrazione dei beni è libera,
ma l’autorità ecclesiastica ha un diritto di vigilanza sull’impiego di
questi beni, che dovrà essere in accordo con gli scopi
dell’associazione e deve vigilare sul loro uso in caso di beni
acquisiti
mediante
donazioni.
Infine,
la
dissoluzione
dell’associazione, si fa secondo gli statuti, cosa che lascia ai
membri la facoltà di deciderla (Can. 326 § 1). L’autorità potrebbe
essere condotta a dissolverla contro la volontà dei suoi membri, se
le sue attività causassero un grave danno alla dottrina o alla
disciplina ecclesiastica o provocassero uno scandalo tra i fedeli.
d) Le associazioni pubbliche.
1. Associazioni erette. Le associazioni saranno pubbliche, se la
loro esistenza non deriverà soltanto dalla volontà dei fedeli che la
compongono, ma da un decreto dell’autorità che le costituisce e dà
loro una personalità giuridica. Il decreto d’erezione costituisce
l’associazione come persona giuridica pubblica in vista
dell’esercizio di una partecipazione pubblica alla missione della
Chiesa. È questa partecipazione pubblica di un gruppo di fedeli,
che si potrebbe chiamare anche, con una certa sfumatura,
ufficiale, che definisce nel modo migliore la natura di questa figura
giuridica. Per capire lo statuto di quest’ultima, ricordiamo che le
comunità gerarchiche (quindi non associative), come le diocesi e la
parrocchia, hanno sempre uno statuto pubblico, perciò godono
dello statuto di persona giuridica pubblica. La qualifica del loro
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statuto deriva dal fatto che la comunità è stata istituita, eretta
dall’autorità. Come esse, ma senza essere comunità gerarchiche, le
associazioni pubbliche sono sempre erette dall’autorità, quindi,
non possono esistere partendo da una semplice convenzione
privata tra i membri come le associazioni private. Però, un canone,
dal contenuto curioso, permette all’autorità, se lo considerasse
necessario, di erigere delle associazioni di fedeli al fine di
perseguire direttamente o indirettamente altri fini spirituali, ai
quali non è stato sufficientemente provveduto dalle iniziative
private (Can. 301 § 2).
Can. 301 § 2. L’autorità ecclesiastica competente, se lo giudica
opportuno, può erigere Associazioni di fedeli anche per il
conseguimento diretto o indiretto di altre finalità spirituali alle
quali non sia stato sufficientemente provveduto mediante
iniziative private.
** Can. 301 § 2. Auctoritas ecclesiastica competens, si id expedire
iudicaverit, christifidelium consociationes quoque erigere potest ad alios
fines spirituales directe vel indirecte prosequendos, quorum consecutioni
per privatorum incepta non satis provisum sit.
È un caso di supplenza. Però l’associazione rimane sempre un
raggruppamento di fedeli che accettano di partecipare alla
missione della Chiesa e perciò ricevono uno statuto di associazione
pubblica. Il fatto che l’autorità possa, in forma suppletiva, fondare
un’associazione pubblica per adempiere una missione, non
trascura il fatto che la partecipazione di gruppi di fedeli alla
missione della Chiesa sia costitutiva. Il principio associativo è salvo
poiché il substrato materiale dell’associazione è il risultato della
volontà dei fedeli d’agire in comune. In effetti, senza questa
volontà, una simile associazione, anche eretta dall’autorità, non
avrebbe ragione d’essere. Se la volontà dei fedeli è necessaria
perché esista e agisca l’associazione, lo statuto pubblico non può
essere acquisito quale conseguenza della volontà dei fedeli, ma
della volontà dell’autorità.
2. “Nomine Ecclesiae”. Le associazioni pubbliche agiscono in
nome della Chiesa (nomine Ecclesiae).
Le persone giuridiche
pubbliche sono degli insiemi di persone o di cose, costituiti
dall’autorità ecclesiastica competente al fine di svolgere in nome
della Chiesa, nei limiti che si sono fissati e secondo le disposizioni
del diritto, l’incarico specifico che è stato loro affidato in funzione
del bene pubblico (Can. 116). In primo luogo, sono le comunità
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gerarchiche. Il loro statuto viene dalle attività che vi si svolgono in
nome della Chiesa, affidate a quel tipo di comunità (in queste
comunità, le tre funzioni d’insegnamento, di santificazione e di
governo sono esercitate insieme) e dalla strutturazione della
partecipazione alle grandi funzioni riservate a un ministro ordinato
(vescovo diocesano o parroco). In secondo luogo, sono le comunità
associative, alle quali è consegnata la qualifica di “pubblico”. Così il
Codice riconosce ad alcune associazioni il fatto d’agire “in nome
della Chiesa”, quindi presenta un modo particolare, collettivo e
ufficiale, di cooperazione dei fedeli nelle attività della Chiesa, in
virtù della capacità ricevuta nel battesimo. Questo modo impegna
la Chiesa e, in certo modo, la gerarchia. Certo, il fatto di riservare
l’espressione “in nome della Chiesa” al modo in cui le associazioni
pubbliche agiscono può essere contestato, poiché tutte le
associazioni, in senso lato, agiscono per il bene della Chiesa.
Bisogna tener presente che l’espressione assume qui un carattere
puramente giuridico e tecnico. Essa non definisce unicamente il
legame con la Chiesa, comune a tutte le associazioni, ma
corrisponde ad un modo di cooperare alla missione propria della
Chiesa, di cui le comunità gerarchiche e le persone che esercitano
funzioni ufficiali (uffici canonici) sono investite di diritto.
L’espressione significa, dunque, che le associazioni pubbliche,
accanto alle comunità gerarchiche, il cui statuto e scopo sono
definiti dal diritto, ricevono un riconoscimento ufficiale del loro
modo di cooperare alla missione della Chiesa e non della gerarchia
come faceva pensare il vecchio vocabolo “mandato”, usato nel
quadro di applicazione delle regole del Codice del 1917.
3) Le finalità specifiche o riservate. Le associazioni pubbliche
possono perseguire delle finalità che portino naturalmente al
conseguimento dello statuto di associazione pubblica. Così
dichiara il Codice al Can. 301 §1 secondo il quale alcune
associazioni dovranno obbligatoriamente essere erette come
associazioni pubbliche, quando il loro scopo è l’insegnamento della
dottrina cristiana, la promozione del culto pubblico o il
perseguimento delle finalità riservate all’autorità ecclesiastica.
Can. 301 § 1. Spetta unicamente all’autorità ecclesiastica
competente erigere Associazioni di fedeli che si propongano
l’insegnamento della dottrina cristiana in nome della Chiesa o
l’incremento del culto pubblico….
** Can. 301 § 1. Unius auctoritatis ecclesiasticae competentis est erigere
christifidelium consociationes, quae sibi proponant doctrinam christianam
nomine Ecclesiae tradere aut cultum publicum promovere,…
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Ma la formula “in nome della Chiesa”, usata dal Can. 116 §1, per
parlare degli insiemi di persone che acquisiscono la personalità
giuridica, permette di stabilire che avrebbero pure un carattere
pubblico le associazioni che impegnano il nome stesso della Chiesa
più delle associazioni private, le quali sono autonome (però sotto la
vigilanza dell’autorità). Così dice la seconda parte del Can. 301 § 1:
Can. 301 - § 1 … oppure che intendano altri fini il cui conseguimento
è riservato, per natura sua, all’autorità ecclesiastica.
** Can. 301- § 1… vel quae alios intendant fines, quorum prosecutio natura
sua eidem auctoritati ecclesiasticae reservatur.
Per questa ragione, come sarà dimostrato in seguito, il carattere
pubblico con le sue importanti conseguenze sull’attività
dell’associazione, comporta un inquadramento giuridico più stretto
del caso di associazioni a carattere privato.
4. Gli statuti e l’organizzazione dell’associazione. Gli statuti
sono approvati al momento dell’istituzione dell’associazione, ma
anche ogni cambiamento apportato negli statuti dovrà essere
oggetto di una nuova approvazione da parte dell’autorità che ha
istituito l’associazione (Can. 314). Le associazioni pubbliche non
godono di un‘autonomia di organizzazione così grande come quella
che spetta alle associazioni private. La ragione dipende dal fatto
che è applicata loro una stretta collaborazione con la missione
ufficiale della Chiesa. Il diritto riconosce loro l’iniziativa di condurre
la loro attività nel quadro dei propri scopi e obiettivi, ma il Can.
315 dichiara che, in questo, esse sono rette dai loro statuti sotto
l’alta direzione dell’autorità ecclesiastica.
Can. 315 - Le associazioni pubbliche possono intraprendere
spontaneamente quelle che sono confacenti alla loro indole; tali
Associazioni sono dirette a norma degli statuti, però sotto la
superiore direzione dell’autorità ecclesiastica di cui al Can. 312, §
1.
** Can. 315 - Consociationes publicae incepta propriae indoli congrua
sua. sponte suscipere valent, eaedemque reguntur ad normam
statutorum, sub altiore tamen directione auctoritatis ecclesiasticae, de
qua in Can. 312, §1.
Questa tutela appare in alcuni momenti fondamentali della vita
dell’associazione: in primo luogo, al momento della nomina,
dell’istituzione o della conferma, che spetta all’autorità; in secondo
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luogo, al momento della nomina del cappellano o elemosiniere, atto
che l’autorità può esercitare liberamente o, qualora fosse
opportuno, dopo aver consultato i dirigenti dell’associazione.
Can. 317 - § 1. Se non si prevede altro negli statuti, spetta
all’autorità ecclesiastica di cui al Can. 312, § 1, confermare il
moderatore dell’associazione pubblica eletto dalla stessa, istituire
colui che è stato presentato, oppure nominarlo secondo il diritto
proprio; la stessa autorità ecclesiastica poi nomina il cappellano o
l’assistente ecclesiastico, dopo aver sentito, se risulta opportuno,
gli officiali maggiori dell’associazione.
** Can. 317 § 1. Nisi aliud in statutis praevideatur, auctoritatis
ecclesiasticae, de qua in Can. 312, §1, est consociationis publicae
moderatorem ab ipsa consociatione publica electum confirmare aut
praesentatum instituere aut iure proprio nominare; cappellanum vero seu
assistentem ecclesiasticum, auditis ubi id expediat consociationis
officialibus maioribus, nominat auctoritas ecclesiastica.
Inoltre, se l’associazione è costituita in funzione dell’apostolato,
l’incarico di moderatore è subordinato ad una condizione: non
possono essere moderatori le persone che rivestono cariche
direttive in partiti politici. Infine, l’amministrazione dei beni, che
rientrano nella categoria dei beni ecclesiastici, si fa secondo gli
statuti, ma sotto la direzione dell’autorità alla quale bisogna
rendere conto annualmente.
5. Conflitti tra l’associazione e l’autorità. Il principio stabilito
che dà l’alta direzione dell’associazione all’autorità, secondo il
diritto e gli statuti, si applica in caso di difficoltà e conflitti. Un
commissario che abbia l’incarico di governare provvisoriamente
l’associazione potrebbe essere nominato in circostanze speciali
(Can. 318). Il moderatore può essere oggetto di misura di revoca e
l’elemosiniere può essere allontanato. Contrariamente alle
associazioni private, che possono determinare il loro modo di
soppressione, le associazioni pubbliche possono essere soppresse
solo dall’autorità che le ha istituite. La procedura di soppressione
potrebbe essere prevista dagli statuti. Il Codice impone soltanto
che siano ascoltati i moderatori e gli ufficiali maggiori.
6. I membri. Il Codice dà le regole riguardanti i membri delle
associazioni unicamente per le associazioni pubbliche. Il Can. 316
dichiara che i fedeli, i quali abbiano pubblicamente abiurato la fede
cattolica o che siano separati dalla comunione con la Chiesa o che
siano colpiti da scomunica, non possono essere ammessi in
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quell’associazione. Allo stesso modo, se i casi enumerati
riguardano le persone che fanno parte di un’associazione pubblica,
queste dovrebbero essere respinte applicando le regole statutarie.
Sembra, tuttavia, che lo sviluppo della vita associativa attuale
abbia portato a considerare in maniera positiva il problema della
partecipazione dei non cattolici e anche dei non cristiani alle
associazioni. È il caso, soprattutto, dei gruppi che perseguono
scopi sociali o caritatevoli. Nella soluzione di questo problema, il
carattere pubblico o privato dell’associazione avrà un ruolo
importante, poiché, nel primo caso, l’associazione è portata a
collaborare con la missione propria della Chiesa e della gerarchia,
all’occorrenza ricevendo una missione pubblica. Ma la finalità
dell’associazione e i suoi scopi saranno determinanti. La mancanza
di criteri d’ordine legislativo o regolamentare impone un
trattamento statutario della questione. È infatti a questo livello che
potrebbe essere esaminato ogni caso senza che il diritto
d’associazione, che il Codice presenta come libertà, ne venga
colpito.
7. La garanzia. Bisogna, quindi, pensare che l’associazione
pubblica non sia altro che un’associazione sulla cui attività ed
organizzazione, per il modo di cooperazione alla missione, il diritto
mantiene alcune riserve. Tale principio, che trova la sua
applicazione in altre parti del Codice, darebbe al carattere pubblico
di un’associazione, una funzione di garanzia da parte dell’autorità
sull’attività di alcune associazioni senza che le altre, non
pubbliche, siano relegate in una categoria gerarchicamente
inferiore.
e) Categorie di associazioni.
1. Le associazioni internazionali, nazionali e diocesane. Le
associazioni si distinguono in primo luogo in funzione dell’autorità
che le ha fondate o riconosciute.
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Can. 312 - § 1. L’autorità competente ad erigere associazioni
pubbliche è:
1° la Santa Sede per le associazioni universali e internazionali;
2° la Conferenza Episcopale nell’ambito del proprio territorio per le
associazioni nazionali, quelle cioè che sono destinate, mediante
l’erezione stessa, ad esercitare la loro attività in tutta una nazione;
3° il Vescovo diocesano nell’ambito del suo territorio per le
associazioni diocesane, non però l’Amministratore diocesano; tuttavia
sono eccettuate le associazioni per le quali il diritto di erezione è
riservato ad altri per il privilegio apostolico.
2° la Conferenza Episcopale nell’ambito del proprio territorio per le
associazioni nazionali, quelle cioè che sono destinate, mediante
l’erezione stessa, ad esercitare la loro attività in tutta una nazione;
3° il Vescovo diocesano nell’ambito del suo territorio per le
associazioni diocesane, non però l’Amministratore diocesano; tuttavia
sono eccettuate le associazioni per le quali il diritto di erezione è
riservato ad altri per il privilegio apostolico.
** Can. 312 - § 1. Ad erigendas consociationes publicas auctoritas competens
est:
(1) pro consociationibus universalibus atque internationalibus Sancta Sedes;
(2) pro consociationibus nationalibus, quae scilicet ex ipsa erectione
destinantur ad actionem in tota natione exercendam, Episcoporum conferentia
in suo territorio;
(3) pro consociationibus dioecesanis, Episcopus dioecesanus in suo territorio,
non vero Administrator dioecesanus, iis tamen consociationibus exceptis
quarum erigendarum ius ex apostolico privilegio aliis reservatum est.
Questa distinzione non modifica il carattere privato o pubblico
delle associazioni (il Can. 312 parla solo delle associazioni erette
ma può essere applicato alle associazioni private con personalità
giuridica o meno). Queste possono essere universali o internazionali
se esse sono erette o dichiarate private dalla Santa Sede, nazionali
quando sono erette o dichiarate private dalla Conferenza dei
vescovi e diocesane quando lo sono dal vescovo diocesano. Il
Codice fornisce scarsi criteri di riconoscimento di questi diversi tipi
d’associazione. Con l’esperienza dovrebbero chiarirsi alcuni criteri
ed essere presentati dall’autorità con delle istruzioni, con la pratica
legislativa della Chiesa, come pure dalla giurisprudenza. Si può,
tuttavia, dare per certo che la determinazione statutaria
dell’estensione dell’attività dell’associazione è un elemento
determinante. Essa è menzionata per le associazioni nazionali. Il
Can. 312 § 1 e 2, in effetti, dice che queste associazioni sono
destinate ad esercitare le loro attività su un territorio nazionale.
Essa non lo è per le associazioni erette o dichiarate private da un
vescovo diocesano. Si conclude, tuttavia, che l’attività di queste
ultime è in primo luogo esercitata nella diocesi, ma che
un’associazione di questo tipo può estendere la sua attività al di là
dei limiti di questa se, per lo meno, niente stabilisce nei suoi
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statuti che essa debba limitare la sua azione. Per agire al di fuori
della diocesi in quanto associazione, essa dovrebbe semplicemente
ricevere il consenso del vescovo diocesano (se è pubblica Can. 312
§ 2) o farsi riconoscere da lui (se è privata).
Can. 312- § 2. Per erigere validamente nella diocesi
un’associazione o una sua sezione, anche se ciò avviene in forza
di un privilegio apostolico, si richiede il consenso scritto del
Vescovo diocesano; tuttavia il consenso del Vescovo diocesano per
l’erezione di una casa di un istituto religioso vale anche per
l’erezione, presso la stessa casa o presso la chiesa annessa, di
una Associazione propria di quell’istituto.
** Can. 312 § 2. Ad validam erectionem consociationis aut sectionis
consociationis in dioecesi, etiamsi id vi privilegii apostolici fiat, requiritur
consensus Episcopi dioecesani scripto datus; consensus tamen ab
Episcopo dioecesano praestitus pro erectione domus instituti religiosi
valet etiam ad erigendam in eadem domo vel ecclesia ei adnexa
consociationem quae illius instituti sit propria.
2. Le associazioni nazionali. Per diventare nazionale,
un’associazione dovrebbe introdurre nei suoi statuti, dopo
l’accettazione della Conferenza dei vescovi, che l’attività su tutto il
territorio della nazione è costitutiva della realizzazione dei suoi
scopi. In tal caso, è il suo statuto che dovrebbe darle il carattere
nazionale e non lo sviluppo pratico della sua attività o la volontà
dei suoi membri. Per la determinazione dei criteri riguardanti le
associazioni nazionali, alcune Conferenze di vescovi hanno già
pubblicato testi che danno indicazioni in proposito fin dall’uscita
del Codice, come la Conferenza Episcopale portoghese, la
Conferenza spagnola e la Conferenza episcopale francese (vedere il
nostro testo: Associations canoniques nationales. Réflexions
doctrinales, in Bulletin officiel de la Conférence des Evêques de
France, 1992, p. 545-551 – pubblicato pure in L’année canonique,
t. 34, 1991, p. 165-174). Per le associazioni internazionali, un testo
dà delle indicazioni che possono essere utilizzate per conoscere gli
elementi che consentono di qualificarle come tali. Linee guida che
contengono i criteri di definizione delle Organizzazioni cattoliche
internazionali (ancora un tipo specifico di associazione) sono state
rese pubbliche dal Consiglio dei laici in 1971, vale a dire prima
della promulgazione del Codice del 1983. Su questo punto restano
interessanti. Questo testo specifica bene che non basta, per
un’associazione dichiararsi internazionale, per esserlo. Non solo
questo carattere è acquisito con lo statuto dato dall’autorità, ma in
più deve’essere dimostrato. Tra i criteri proposti, bisogna che
l’organizzazione abbia dei membri nei diversi paesi, favorisca gli
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scambi, le comunicazioni e i dialoghi tra loro, prepari i suoi
membri a uno spirito internazionale e sviluppi in loro il senso di
responsabilità a questo livello, abbia una visione universale, che
superi il quadro delle nazioni e delle regioni, possa infine realizzare
il criterio di mettere in comune attività, iniziative ed apporti delle
diverse componenti nazionali o regionali. Infine, ogni associazione
pubblica acquisisce la personalità giuridica in ragione del decreto
di erezione (Can. 313).
Can. 313 - Un’associazione pubblica, come pure una
confederazione di associazioni pubbliche, per lo stesso decreto
con cui viene eretta dall’autorità ecclesiastica competente a
norma del Can. 312, è costituita persona giuridica e riceve, per
quanto è richiesto, la missione per i fini che essa si propone di
conseguire in nome della Chiesa.
** Can. 313. - Consociatio publica itemque consociationum publicarum
confoederatio ipso decreto quo ab auctoritate ecclesiastica ad normam
Can. 312 competenti erigitur, persona iuridica constituitur et missionem
recipit, quatenus requiritur, ad fines quos ipsa sibi nomine Ecclesiae
persequendos proponit.
4. Le associazioni affidate o raccomandate. L’autorità
ecclesiastica può lodare un’associazione o raccomandare ai fedeli la
partecipazione ad alcune associazioni.
Can. 298 - § 2. I fedeli diano la propria adesione soprattutto alle
associazioni erette, lodate o raccomandate dall’autorità
ecclesiastica competente.
Can. 299 - § 2. Tali Associazioni, anche se lodate o raccomandate
dall’autorità ecclesiastica, si chiamano Associazioni private.
** Can. 298 - § 2. Christifideles sua nomina dent iis praesertim
concociationibus, quae a competenti auctoritate ecclesiastica aut erectae
aut laudatae vel commendatae sint.
** Can. 299 § 2. Huiusmodi consociationes, etiamsi ab auctoritate
ecclesiastica laudentur vel commendentur, consociationes privatae
vocantur.
Questa pratica è fondata sulla possibilità per l’autorità di emettere
un giudizio di opportunità sull’iniziativa lasciata ai fedeli in fatto
d’esercizio del diritto d’associazione, in funzione del bene comune
della diocesi o dell’intera Chiesa. Il giudizio dell’autorità non ha
conseguenze sul carattere privato o pubblico dell’associazione
stessa. Ciò mette in risalto il fatto che il riconoscimento o
l’approvazione degli statuti non sono un giudizio sull’interesse
dell’associazione riguardo al bene comune della Chiesa, ma
l’intervento dell’autorità quando alcuni fedeli esercitano il loro
diritto di associazione per partecipare alla missione della Chiesa.
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Invece, tramite la laudatio o la commendatio, l’autorità fa conoscere
la sua opinione sull’opportunità di aderire ad associazioni private o
pubbliche, perché esse sono importanti per la Chiesa particolare o
il territorio della Conferenza dei vescovi o l’intera Chiesa.
5. Le associazioni clericali. Contrariamente a ciò che potrebbero
far pensare le loro denominazioni, le associazioni clericali non sono
composte unicamente da chierici. I laici possono farne parte a
condizione che queste associazioni siano dirette da chierici. Inoltre,
gli scopi dell’associazione devono riguardare l’esercizio dell’ordine
sacro, come il ministero parrocchiale o quello della predicazione.
Inoltre, l’associazione deve essere dichiarata clericale dall’autorità.
Can. 302 - Le associazioni dei fedeli si chiamano clericali se sono
dirette da chierici, assumono l’esercizio dell’ordine sacro e sono
riconosciute come tali dall’autorità competente.
** Can. 302 - Christifidelium consociationes clericales eae dicuntur, quae
sub moderamine sunt clericorum, exercitium ordinis sacriassumunt
atque uti tales a competenti auctoritat agnoscuntur.
Negli schemi del Codice del 1983, si vede che avevano pensato di
dare a queste Associazioni la possibilità d’incardinare i chierici.
Questa possibilità fu scartata cosicché, accanto agli istituti di vita
consacrata clericali, alle società clericali di vita apostolica e alle
prelature personali, che possono incardinare, esiste una sorta di
raggruppamento di diaconi o di sacerdoti dagli obiettivi simili, ma
la cui appartenenza dei membri ad una diocesi resta
preponderante. Intanto, alcune Associazioni clericali hanno
ricevuto il diritto d’incardinare.
6. Le associazioni di laici. Il Codice menziona una categoria di
associazioni: le associazioni di laici, non perché esse sono un
particolare tipo d’associazione, ma perché, sembra, il legislatore
voglia riprendere nei loro riguardi alcune regole, già assegnate in
modo generale alle altre categorie. Queste associazioni sono
sopratutto quelle che si propongono di animare l’ordine temporale
di spirito cristiano e che favoriscono così, largamente, l’unione
intima della fede e della vita (Can. 327). Sia private che pubbliche,
esse s’iscrivono nella logica di una missione propria data ai laici
nella Chiesa.
Can. 327 - I fedeli laici tengano in grande considerazione le
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associazioni costituite per fini spirituali di cui al Can. 298,
specialmente quelle che si propongono di animare mediante lo
spirito cristiano le realtà temporali e in tal modo favoriscono
intensamente un rapporto piú intimo fra fede e vita.
Can. 328 - Coloro che dirigono le associazioni di laici, anche quelle
erette in forza di un privilegio apostolico, facciano in modo che le
proprie Associazioni collaborino, dove ciò risulta opportuno, con
altre Associazioni di fedeli e che sostengano volentieri le diverse
opere cristiane, soprattutto quelle esistenti nello stesso territorio.
Can. 329 - I moderatori delle associazioni di laici facciano in modo
che i membri dell’associazione siano debitamente formati
all’esercizio dell’apostolato specificamente laicale.
** Can. 327 -Christifideles laici magni faciant consociationes ad spirituales
fines, de quibus in Can. 298, constitutas, eas speciatim quae rerum
temporalium ordinem spiritu christiano animare sibi proponunt atque hoc
modo intimam inter fidem et vitam magnopere fovent unionem.
** Can. 328 - Qui praesunt consociationibus laicorum, iis etiam quae vi
privilegii apostolici erectae sunt, curent ut suae cum aliis christifidelium
consociationibus, ubi id expediat, cooperentur, utque variis operibus
christianis, praesertim in eodem territorio exsistentibus, libenter auxilio
sint.
** Can. 329 - Moderatores consociationum laicorum curent, ut sodales
consociationis ad apostolatum laicis proprium exercendum debite
efformentur.
7. Gli ordini terziari. La designazione di ordini terziari viene da S.
Francesco d’Assisi, che chiama così i gruppi di fedeli che, accanto
ai gruppi (uomini e donne), che conducono una vita conventuale,
restano nel mondo per tendere alla perfezione cristiana (gli uomini
e le donne da cui il terz’ordine). In linea con questa tradizione, il
Codice attuale permette agli istituti religiosi (istituti di vita
consacrata e istituti secolari) di costituire delle associazioni che
offrano ai loro membri la possibilità di condurre una vita
apostolica, pur partecipando allo spirito degli istituti di riferimento.
Can. 303 - Le associazioni i cui membri conducono una vita
apostolica e tendono alla perfezione cristiana partecipando
nel mondo al carisma di un istituto religioso, sotto l’alta
direzione dell’istituto stesso, assumono il nome di terzi
ordini oppure un altro nome adatto.
** Can. 303 - Consociationes, quarum sodales, in saeculo spiritum
alicuius instituti religiosi participantes, sub altiore eiusdem instituti
moderamine, vitam apostolicam ducunt et ad perfectionem
christianam contendunt, tertii ordines dicuntur aliove congruenti
nomine vocantur.
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8. Il nome di “cattolico”. L’uso della denominazione di “cattolico”
da parte di un’associazione è regolamentato. È sottoposto al
consenso dell’autorità ecclesiastica, che ha riconosciuto o eretto
l’associazione.
Can. 300 - Nessuna Associazione assuma il nome di
<<cattolica>>, se non con il consenso dell’autorità ecclesiastica
competente a norma del Can. 312.
** Can. 300. Nulla consociatio nomen “catholica” sibi assumat, nisi de
consensu competentis auctoritatis ecclesiasticae, ad normam Can.
312.
Tale principio si applica qui, come in altri campi, in relazione alla
dichiarazione del Concilio Vaticano II nel Decreto sull’apostolato
dei laici: “nessuna iniziativa può chiamarsi cattolica senza il
consenso dell’autorità ecclesiastica legittima”. L’applicazione del
principio per le associazioni è stato finora poco studiato dalla
dottrina. Gli elementi forniti dal Pontificio Consiglio per i laici, nel
1971, per le Organizzazioni internazionali cattoliche, sono un
punto di riferimento interessante, anche se si riconosce il loro
carattere suppletivo prima della promulgazione del Codice del
1983. Secondo il documento romano, un’organizzazione
internazionale cattolica poteva fregiarsi della qualifica di cattolica a
condizione di mantenere un riferimento preciso di conformità con il
Vangelo e con l’insegnamento del Magistero, una volontà d’inserirsi
nello sforzo pastorale della Chiesa, una preoccupazione per
l’educazione alla fede tra i suoi membri, una disponibilità di
servizio in settori quali l’evangelizzazione e la santificazione, ecc.
Infine, un’adesione allo spirito del Concilio Vaticano II e delle
relazioni specifiche con la gerarchia ecclesiastica. Questi criteri
sono generali, forse un po’ troppo, al punto che si può pensare che
dovrebbero applicarsi a tutte le associazioni. Essi lasciano aperta
la questione, cui non si trova risposta in un testo giuridico, non
soltanto delle condizioni richieste perché sia dato tale consenso,
ma anche delle conseguenze della facoltà di servirsi del nome di
cattolico per l’attività delle associazioni, in particolare di quelle
associazioni private.
10. Il riconoscimento civile. In molti paesi, un problema difficile
da trattare riguarda l’esercizio del diritto associativo canonico
nell’ambito delle leggi dello Stato. Può darsi che i fedeli vogliano
godere dei diritti riconosciuti alle associazioni civili, mentre gli
scopi dell’associazione creata riguardano l’attività propria della
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Chiesa. Questo caso pone un problema di principio. I fedeli hanno
un’attività nella Chiesa senza statuto canonico come se fossero
associazioni di fatto. Si tratta di sapere se, stanti alcuni scopi sui
quali il diritto canonico ha fatto riserve, l’autorità potrebbe esigere
che l’associazione chieda uno statuto canonico. In alcuni paesi, i
fedeli costituiscono associazioni civili accanto alle associazioni
canoniche quando queste non hanno un rilievo giuridico civile e,
quindi, i fedeli non possono godere degli effetti civili delle
dichiarazioni nell’ambito del diritto statale. In Francia, ad esempio,
molte associazioni canoniche, per ragioni pratiche, hanno anche
uno statuto di associazione dichiarata civilmente. Questi casi
pongono la questione della preponderanza da concedere agli statuti
canonici, questione più facile da risolvere nel caso delle
associazioni private che nel caso delle associazioni pubbliche. In
effetti, l’attività e l’organizzazione delle associazioni pubbliche sono
più inquadrate dal diritto, cosicché è generalmente ammesso il
principio di una necessaria articolazione degli statuti in favore
della legislazione canonica. Questa pratica che, per garantire il
funzionamento autonomo del diritto d’associazione canonica,
consiste nell’usare mezzi legittimi per impedire che sia esercitato
senza controllo il diritto civile d’associazione, comporta reali
problemi teorici e pratici. Come si vede, il diritto delle persone
giuridiche è oggi all’origine di numerosi problemi dottrinali dalle
implicazioni pratiche evidenti. Come abbiamo già detto, è lo
sviluppo recentissimo dell’attività associativa nella Chiesa che ne è
la causa. I canonisti sono sollecitati spesso su questi punti. In
alcuni anni, la dottrina canonica ha fornito un considerevole sforzo
di aggiornamento di nuove categorie il cui carattere operativo
dev’essere sancito dalla pratica. Molte sono le questioni non ancora
risolte.
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Allegato I
Testi del Concilio Vaticano II
LG, 8: “Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo
professiamo una, santa, cattolica e apostolica [12] e che il
Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a
Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la
diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre
colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in
questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella
Chiesa Cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi
in comunione con lui [13], ancorché al di fuori del suo organismo si
trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che,
appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo,
spingono verso l'unità cattolica”LG.14. Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli
cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione,
insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza.
Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la
Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso,
inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo
(cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della
Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per
una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur
non ignorando che la Chiesa Cattolica è stata fondata da Dio per
mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in
essa o in essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella
società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo,
accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di
salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti
dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico
e dalla comunione, sono uniti, nell'assemblea visibile della Chiesa,
con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi.
Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non
perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo»,
ma non col «cuore». Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la
loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad
una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col
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pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno,
ma anzi saranno più severamente giudicati.
UR, 3: In questa Chiesa di Dio una e unica sono sorte fino dai
primissimi tempi alcune scissioni (15), condannate con gravi parole
dall'Apostolo (16) ma nei secoli posteriori sono nate dissensioni più
ampie, e comunità considerevoli si staccarono dalla piena
comunione della Chiesa Cattolica, talora per colpa di uomini di
entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella
fede di Cristo in tali comunità, non possono essere accusati di
peccato di separazione, e la Chiesa Cattolica li circonda di fraterno
rispetto e di amore. Coloro infatti che credono in Cristo ed hanno
ricevuto validamente il battesimo, sono costituiti in una certa
comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa Cattolica.
Sicuramente, le divergenze che in vari modi esistono tra loro e la
Chiesa Cattolica, sia nel campo della dottrina e talora anche della
disciplina, sia circa la struttura della Chiesa, costituiscono non
pochi impedimenti, e talvolta gravi, alla piena comunione
ecclesiale. Al superamento di essi tende appunto il movimento
ecumenico. Nondimeno, giustificati nel battesimo dalla fede, sono
incorporati a Cristo (17) e perciò sono a ragione insigniti del
nome di cristiani, e dai figli della Chiesa Cattolica sono
giustamente riconosciuti quali fratelli nel Signore (18).
Inoltre, tra gli elementi o beni dal complesso dei quali la stessa
Chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti,
possono trovarsi fuori dei confini visibili della Chiesa Cattolica: la
parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la
carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili.
Tutte queste cose, le quali provengono da Cristo e a lui conducono,
appartengono a buon diritto all'unica Chiesa di Cristo.
Anche non poche azioni sacre della religione cristiana vengono
compiute dai fratelli da noi separati, e queste in vari modi, secondo
la diversa condizione di ciascuna Chiesa o comunità, possono
senza dubbio produrre realmente la vita della grazia, e si devono
dire atte ad aprire accesso alla comunione della salvezza.
Perciò queste Chiese (19) e comunità separate, quantunque
crediamo abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non son
affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo infatti
non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui
forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è
stata affidata alla Chiesa Cattolica.
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Tuttavia i fratelli da noi separati, sia essi individualmente, sia le
loro comunità e Chiese, non godono di quella unità, che Gesù
Cristo ha voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato
insieme per formare un solo corpo in vista di una vita nuova, unità
attestata dalle sacre Scritture e dalla veneranda tradizione della
Chiesa. Infatti solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo,
che è il mezzo generale della salvezza, si può ottenere tutta la
pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà noi crediamo che al solo
Collegio apostolico con a capo Pietro il Signore ha affidato tutti i
tesori della Nuova Alleanza, al fine di costituire l'unico corpo di
Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente
incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al
popolo di Dio. Il quale popolo, quantunque rimanga esposto al
peccato nei suoi membri finché dura la sua terrestre
peregrinazione, cresce tuttavia in Cristo ed è soavemente condotto
da Dio secondo i suoi arcani disegni, fino a che raggiunga
gioioso tutta la pienezza della gloria eterna nella celeste
Gerusalemme.
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ALLEGATO II
CONFERENZA IN OCCASIONE
DEL 40mo ANNIVERSARIO DELLA PROMULGAZIONE
DEL DECRETO CONCILIARE "UNITATIS REDINTEGRATIO"
(ROCCA DI PAPA, 11-13 NOVEMBRE 2004)
INTERVENTO DEL CARD. WALTER KASPER,
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO
PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI
Rocca di Papa, presso il Centro Mondo Migliore
Giovedì, 11 novembre 2004
Il decreto sull’ecumenismo –
una nuova lettura dopo 40 anni
…/…
III. "Subsistit in" – espressione di un’ecclesiologia storicamente concreta
La dinamica escatologica e pneumatologica necessitava di una delucidazione
concettuale. Questa chiarificazione è stata fornita dal Concilio nella
Costituzione sulla Chiesa, con la formula molto discussa del "subsistit in": la
Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella Chiesa cattolica (LG 8). Il redattore
principale della Costituzione sulla Chiesa, G. Philips, è stato abbastanza
lungimirante da prevedere che sul significato del "subsistit in" molto
inchiostro sarebbe stato ancora versato.5 In effetti, questo flusso d’inchiostro
continua ad essere versato e probabilmente ne occorrerà ancora dell’altro
prima di chiarire le questioni sollevate.
Durante il Concilio, il "substit in" ha sostituito il precedente "est" 6. Esso
contiene in nuce l’intero problema ecumenico7. L’"est" affermava che la
Chiesa di Gesù Cristo "è" la Chiesa cattolica. Questa stretta identificazione
della Chiesa di Gesù Cristo con la Chiesa cattolica è stata ribadita in seguito
anche dalle Encicliche "Mystici corporis" (1943) e "Humani generis" (1950)8.
Tuttavia, la stessa "Mystici corporis" riconosce che vi sono persone che,
seppur non battezzate, appartengono alla Chiesa cattolica per loro desiderio
(DS 3921). Per questo motivo, Papa Pio XII, già nel 1949, aveva condannato
un’interpretazione esclusiva dell’assioma "Extra ecclesiam nulla salus"9.
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Il Concilio ha potuto fare un notevole passo avanti grazie al "subsistit in". Si è
voluto rendere giustizia al fatto che, al di fuori della Chiesa cattolica, non vi
sono soltanto singoli cristiani, ma anche "elementi di Chiesa"10, ed anche
Chiese e Comunità ecclesiali che, pur non essendo in piena comunione,
appartengono di diritto all’unica Chiesa e sono per i loro membri mezzi di
salvezza (LG 8; 15; UR 3; UUS 10-14). Il Concilio sa dunque che, al di fuori
della Chiesa cattolica, esistono forme di santità che vanno fino al martirio (LG
15; UR 4; UUS 12; 83). Di conseguenza, la questione della salvezza dei non
cattolici non è più risolta a livello individuale a partire dal desiderio soggettivo
di un individuo, come è indicato da "Mystici corporis", ma a livello
istituzionale ed in modo ecclesiologico oggettivo.
La nozione del "subsistit in" significa, nell’intenzione della Commissione
teologica del Concilio, che la Chiesa di Cristo ha il suo ‘luogo concreto’ nella
Chiesa cattolica; nella Chiesa cattolica, si incontra la Chiesa di Cristo ed è lì
che essa si trova concretamente11. Non si tratta di un’entità puramente
platonica o di una realtà meramente futura; essa esiste concretamente nella
storia e si trova concretamente nella Chiesa cattolica12.
Compreso in tal modo, il "subsistit in" assume l’istanza essenziale
dell’"est". Tuttavia, non descrive più il modo secondo il quale la Chiesa
cattolica intende se stessa in termini di "splendid isolation" , ma prende
atto della presenza operante dell’unica Chiesa di Cristo anche nelle altre
Chiese e Comunità ecclesiali (UUS 11), sebbene esse non siano ancora in
piena comunione con lei. Nel formulare la sua identità, la Chiesa cattolica
stabilisce un rapporto dialogico con queste Chiese e Comunità ecclesiali.
Di conseguenza, il "subsistit in" è erroneamente interpretato quando si fa di
esso il fondamento di un pluralismo e di un relativismo ecclesiologico,
affermando che l’unica Chiesa di Cristo sussiste in numerose Chiese e che la
Chiesa cattolica è semplicemente una Chiesa accanto ad altre. Simili teorie di
pluralismo ecclesiologico contraddicono la comprensione della propria identità
che la Chiesa cattolica – come d’altronde anche le Chiese ortodosse – ha
sempre avuto nel corso della sua Tradizione, comprensione che lo stesso
Concilio Vaticano II ha voluto fare sua. La Chiesa cattolica rivendica per sé,
nel presente come nel passato, il diritto di essere la vera Chiesa di Cristo, nella
quale è data tutta la pienezza dei mezzi di salvezza (UR 3; UUS 14), ma
adesso essa prende coscienza di ciò in modo dialogico, tenendo conto delle
altre Chiese e Comunità ecclesiali. Il Concilio non afferma nessuna nuova
dottrina, ma motiva un nuovo atteggiamento, rinuncia al trionfalismo e
formula la tradizionale comprensione della propria identità in modo realistico,
storicamente concreto e, si potrebbe dire, addirittura umile. Il Concilio sa che
la Chiesa è in cammino nella storia, per realizzare concretamente nella storia
ciò che è ("est") la sua natura più profonda.
Si ritrova questa visione umile e realistica principalmente in Lumen
gentium 8, laddove il Concilio, con il "subsistit in", fa spazio non solo ad
elementi della Chiesa al di fuori della sua struttura visibile, ma anche a
membri e a strutture di peccato nella Chiesa stessa13. Il popolo di Dio conta
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anche peccatori tra le sue fila, con la conseguenza che la natura spirituale della
Chiesa non appare chiaramente ai fratelli separati ed al mondo, la Chiesa ha la
sua parte di responsabilità nelle divisioni esistenti, e la crescita del Regno di
Dio è ritardata (UR 3 s.). D’altra parte, le Comunità separate a volte hanno
sviluppato meglio alcuni aspetti della verità rivelata, cosicché, nella situazione
di divisione, la Chiesa cattolica non può sviluppare pienamente e
concretamente la propria cattolicità (UR 4; UUS 14). Per questo, la Chiesa ha
bisogno di purificazione e di rinnovamento, e deve incessantemente percorrere
la via della penitenza (LG 8; UR 3s; 6 s; UUS 34 s; 83 s).
Questa visione autocritica e penitente costituisce il fondamento del cammino
del movimento ecumenico (UR 5-12). Essa comprende la conversione ed il
rinnovamento, senza i quali non può esservi ecumenismo, ed il dialogo, che,
più di uno scambio di idee, è uno scambio di doni.
In questa prospettiva escatologica e spirituale, lo scopo dell’ecumenismo non
può essere concepito come un semplice ritorno degli altri nel seno della Chiesa
cattolica. La meta della piena unità può essere raggiunta soltanto attraverso
l’impegno animato dallo Spirito di Dio e la conversione di tutti all’unico capo
della Chiesa, Gesù Cristo. Nella misura in cui siamo uniti a Cristo, saremo
anche uniti gli uni agli altri e realizzeremo concretamente ed in tutta la sua
pienezza la cattolicità propria della Chiesa. Questo obiettivo è stato definito
teologicamente dal Concilio come unità-communio.
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ALLEGATO III
PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI
ACTUS FORMALIS DEFECTIONIS
AB ECCLESIA CATHOLICA
Città del Vaticano, 13 marzo 2006
Prot. N. 10279/2006
Eminenza/Eccellenza Reverendissima,
Da tempo, non pochi Vescovi, Vicari giudiziali e altri operatori del Diritto Canonico hanno
sottoposto a questo Pontificio Consiglio dubbi e richieste di chiarimento a proposito del
cosiddettoactus formalis defectionis ab Ecclesia catholica, di cui ai canoni 1086, § 1, 1117
e 1124 del Codice di Diritto Canonico. Si tratta, infatti, di un concetto nuovo nella
legislazione canonica e diverso dalle altre modalità piuttosto “virtuali” (basate cioè su
comportamenti) di abbandono “notorio” o semplicemente “pubblico” della fede (cfr. cann.
171, § 1, 4°; 194, § 1, 2°; 316, § 1; 694, § 1, 1°; 1071, § 1, 4° e § 2), circostanze in cui i
battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti sono tenuti alle leggi meramente
ecclesiastiche (cfr. Can. 11).
Il problema è stato attentamente esaminato dai competenti Dicasteri della Santa Sede al
fine di precisare innanzitutto i contenuti teologico-dottrinali di tale actus formalis
defectionis ab Ecclesia catholica, e successivamente i requisiti o le formalità giuridiche
necessarie perché esso si configuri come un vero “atto formale” di defezione.
Dopo aver avuto, riguardo al primo aspetto, la decisione della Congregazione per la
Dottrina della Fede ed aver esaminato in sede di Sessione Plenaria l’intera questione,
questo Pontificio Consiglio comunica agli Em.mi ed Ecc.mi Presidenti delle Conferenze
Episcopali quanto segue:
1. L’abbandono della Chiesa cattolica perché possa essere validamente configurato come
un veroactus formalis defectionis ab Ecclesia, anche agli effetti delle eccezioni previste nei
predetti canoni, deve concretizzarsi nella:
a)
decisione
interna
di
uscire
dalla
Chiesa
b)
attuazione
e
manifestazione
esterna
di
questa
c) recezione da parte dell’autorità ecclesiastica competente di tale decisione.
cattolica;
decisione;
2. Il contenuto dell’atto di volontà deve essere la rottura di quei vincoli di comunione –
fede, sacramenti, governo pastorale – che permettono ai fedeli di ricevere la vita di grazia
all’interno della Chiesa. Ciò significa che un tale atto formale di defezione non ha soltanto
un carattere giuridico-amministrativo (l’uscire dalla Chiesa nel senso anagrafico con le
rispettive conseguenze civili), ma si configura come una vera separazione dagli elementi
costitutivi della vita della Chiesa: suppone quindiun atto di apostasia, eresia o scisma.
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3. L’atto giuridico-amministrativo dell’abbandono della Chiesa di per sé non può
costituire un atto formale di defezione nel senso inteso dal CIC, giacché potrebbe
rimanere la volontà di perseverare nella comunione della fede.
D’altra parte l’eresia formale o (ancor meno) materiale, lo scisma e l’apostasia non
costituiscono da soli un atto formale di defezione, se non sono concretizzati esternamente
e se non sono manifestati nel modo dovuto all’autorità ecclesiastica.
4. Deve trattarsi, pertanto, di un atto giuridico valido posto da persona canonicamente
abile e in conformità alla normativa canonica che lo regola (cfr. cann.124-126). Tale atto
dovrà essere emesso in modo personale, cosciente e libero.
5. Si richiede, inoltre, che l’atto venga manifestato dall’interessato in forma scritta,
davanti alla competente autorità della Chiesa cattolica: Ordinario o parroco proprio, al
quale unicamente compete giudicare l’esistenza o meno nell’atto di volontà del contenuto
espresso al n. 2.
Di conseguenza, soltanto la coincidenza dei due elementi – il profilo teologico dell’atto
interiore e la sua manifestazione nel modo così definito – costituisce l’actus formalis
defectionis ab Ecclesia catholica, con le relative sanzioni canoniche (cfr. Can. 1364, § 1).
6. In questi casi, la stessa autorità ecclesiastica competente provvederà perché nel libro
dei battezzati (cfr. Can. 535, § 2) venga fatta l’annotazione con la dicitura esplicita di
avvenuta “defectio ab Ecclesia catholica actu formali”.
7. Rimane, comunque, chiaro che il legame sacramentale di appartenenza al Corpo di
Cristo che è la Chiesa, dato dal carattere battesimale, è un legame ontologico permanente
e non viene meno a motivo di nessun atto o fatto di defezione.
Nella sicurezza che codesto Episcopato, conscio della dimensione salvifica della
comunione ecclesiastica, comprenderà bene le motivazioni pastorali di queste norme,
profitto
delle
circostanze
per
confermarmi
con
sentimenti
di
fraterno
ossequiodell’Eminenza/Eccellenza Vostra Reverendissima
dev.mo in Domino
Julián Card. Herranz
Presidente
Bruno Bertagna
Segretario
La presente comunicazione è stata approvata dal Sommo Pontefice, Benedetto XVI, che ne ha disposto
la notifica a tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali.
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ALLEGATO IV
BENEDICTUS PP. XVI
LITTERAE APOSTOLICAE
MOTU PROPRIO DATAE
OMNIUM IN MENTEM
QUAEDAM IN CODICE IURIS CANONICI
IMMUTANTUR
Omnium in mentem Constitutio Apostolica Sacrae disciplinae leges, die 25
mensis Ianuarii anni 1983 promulgata, revocavit Ecclesiam, utpote quae
communitas sit spiritualis simul ac visibilis atque hierarchice ordinata,
iuridicis normis indigere «ut exercitium munerum ipsi divinitus
concreditorum,
sacrae
praesertim
potestatis
et
administrationis
sacramentorum rite ordinetur». His enim in normis eluceat semper oportet,
ex una parte, unitas doctrinae theologicae et canonicae legislationis, ex altera
vero pastoralis praescriptorum utilitas quibus ecclesiastica instituta in
animarum bonum ordinantur.
Quo efficacius autem et necessaria haec unitas doctrinalis et ordinatio in
finem pastoralem in tuto ponantur, mature perpensis rationibus, suprema
Ecclesiae
auctoritas
quandoque
decernit
opportunas
normarum
canonicarum mutationes vel additiones in easdem inducit. Haec quidem est
ratio ad promulgationem Nos movens praesentium Litterarum, quae duas
respiciunt quaestiones.
Imprimis, in canonibus 1008 et 1009 Codicis Iuris Canonici de sacramento
Ordinis, essentialis distinctio firmatur inter sacerdotium commune fidelium
et sacerdotium ministeriale simulque dissimilitudo ostenditur inter
episcopatum, presbyteratum et diaconatum. Nunc vero, postquam, auditis
Patribus Congregationis pro Doctrina Fidei, veneratus Decessor
Noster Ioannes
Paulus
IIimmutandum
esse
statuit
textum
numeri 875 Catechismi Ecclesiae Catholicae, eum in finem ut aptius quoad
diaconos doctrina recoleretur Constitutionis dogmaticae Lumen gentium (n.
29)Concilii Vaticani II, perficiendam esse Nos quoque censemus normam
canonicam hanc eandem rem respicientem. Quapropter, audita
sententia Pontificii Consilii de Legum Textibus, decernimus ut verba ipsorum
canonum immutentur ut infra.
Cum sacramenta praeterea eadem sint pro universa Ecclesia, unius
supremae auctoritatis est probare et definire quae ad eorum validitatem sunt
requisita, necnon decernere quae ad ordinem in eorum celebratione
servandum spectant (cfr Can. 841), quae sane omnia pro forma quoque in
matrimonii celebratione servanda valent, si saltem alterutra pars in Ecclesia
catholica baptizata sit (cfr canones 11 et 1108).
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Statuitur quidem in Codice Iuris Canonici eos fideles, qui “actu formali” ab
Ecclesia defecerint, legibus ecclesiasticis non teneri circa formam canonicam
matrimonii (cfr Can. 1117), circa dispensationem ab impedimento
disparitatis cultus (cfr 1086), necnon circa licentiam pro matrimoniis mixtis
requisitam (cfr Can. 1124). Ratio et finis huius exceptionis a norma
generalicanonis 11 eo spectabant, ut matrimoniorum ab iis fidelibus
contractorum nullitas vitaretur ob defectum formae canonicae vel ob
impedimentum disparitatis cultus.
Horum autem annorum experientia ostendit, e contra, novam hanc legem
pastoralia problemata haud pauca genuisse. Imprimis difficilis apparuit
determinatio et practica configuratio, singulis in casibus, huius actus
formalis defectionis ab Ecclesia, sive quoad eius substantiam theologicam
sive quoad ipsius aspectum canonicum. Multae praeterea exsurrexerunt
difficultates cum in actione pastorali tum in tribunalium praxi. Etenim e
nova lege oriri videbantur, saltem oblique, commoditas ac veluti adiumentum
apostasiae illis in locis ubi fideles catholici exigui sunt numero, vel ubi
iniquae vigent leges matrimoniales discrimina statuentes inter cives ratione
religionis; difficilis praeterea fiebat reditus horum baptizatorum qui novum
contrahere exoptarent matrimonium canonicum, post prioris ruinam;
denique, ut alia omittamus, horum matrimoniorum permulta devenerant de
facto pro Ecclesia matrimonia sic dicta clandestina.
His omnibus positis, atque accurate perpensis sententiis sive
Patrum Congregationis pro Doctrina Fidei et Pontificii Consilii de Legum
Textibus, sive etiam Conferentiarum Episcopalium quibus consultatio facta
est circa utilitatem pastoralem servandi aut abrogandi hanc exceptionem a
norma generali canonis 11, necessarium apparuit abolere hanc regulam in
canonicarum legum corpus nunc vigens introductam.
Auferenda proinde decernimus in eodem Codice verba: "neque actu formali
ab ea defecerit"canonis 1117, "nec actu formali ab ea defecerit" canonis 1086
§ 1, et "quaeque nec ab ea actu formali defecerit" canonis 1124.
Itaque hac de re auditis Congregatione pro Doctrina Fidei atque Pontificio
Consilio de Legum Textibus itemque rogatis sententiam Venerabilibus
Fratribus Nostris S.R.E. Cardinalibus Dicasteriis Romanae Curiae
Praepositis, quae sequuntur decernimus:
Art. 1. Textus Can. 1008 Codicis Iuris Canonici ita immutatur ut posthac
absolute sic sonet:
"Sacramento ordinis ex divina institutione inter christifideles quidam,
charactere indelebili quo signantur, constituuntur sacri ministri, qui nempe
consecrantur et deputantur ut, pro suo quisque gradu, novo et peculiari
titulo Dei populo inserviant”.
Art. 2. Can. 1009 Codicis Iuris Canonici posthac tres paragraphos habebit,
quarum prima et secunda constent textu vigentis canonis, tertiae vero novus
textus ita sit redactus ut ipse Can. 1009, § 3 absolute sic sonet:
"Qui constituti sunt in ordine episcopatus aut presbyteratus missionem et
facultatem agendi in persona Christi Capitis accipiunt, diaconi vero vim
populo Dei serviendi in diaconia liturgiae, verbi et caritatis".
Art. 3. Textus Can. 1086, § 1 Codicis Iuris Canonici sic immutatur:
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"Matrimonium inter duas personas, quarum altera sit baptizata in Ecclesia
catholica vel in eandem recepta, et altera non baptizata, invalidum est".
Art. 4. Textus canonis 1117 Codicis Iuris Canonici sic immutatur:
"Statuta superius forma servanda est, si saltem alterutra pars matrimonium
contrahentium in Ecclesia catholica baptizata vel in eandem recepta sit,
salvis praescriptis Can. 1127, § 2".
Art. 5. Textus canonis 1124 Codicis Iuris Canonici sic immutatur:
"Matrimonium inter duas personas baptizatas, quarum altera sit in Ecclesia
catholica baptizata vel in eandem post baptismum recepta, altera vero
Ecclesiae vel communitati ecclesiali plenam communionem cum Ecclesia
catholica non habenti adscripta, sine expressa auctoritatis competentis
licentia prohibitum est".
Quaecumque vero a Nobis hisce Litteris Apostolicis Motu Proprio datis
decreta sunt, ea omnia firma ac rata esse iubemus, contrariis quibuslibet
non obstantibus, peculiari etiam mentione dignis, eaque in Actorum
Apostolicae Sedis commentario officiali promulgari statuimus.
Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die XXVI mensis Octobris anno MMIX,
Pontificatus Nostri quinto.
BENEDICTUS PP. XVI
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