Giappone - TOAssociati

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Giappone - TOAssociati
Gli operai perfetti di Toyota city
di Léna Mauger, XXI, Francia
Tadao Wakatsuki ha dedicato la sua vita alla
Toyota ed è libero solo da poche ore.
E' il suo primo giorno di pensione, il primo
giorno fuori dall`azienda. Vive a Toyota City,
culla di un modello di organizzazione del
lavoro noto come esempio di efficienza,
qualità e innovazione. Il palazzo in cemento
dove vive ha otto piani, il suo salotto
decorato con fiori secchi é minuscolo.
Queste prime ore Tadao le assapora con
soddisfazione. Con dei piccoli occhiali sul
naso, ritaglia concentrato un rettangolo di
cartone giallo, ci scrive sopra qualcosa e fissa
accuratamente il tutto a un bastone. Con il
suo cartello in mano e una giacca nera
addosso prende il treno per Nagoya, la vicina
metropoli. Nessuno dei suoi colleghi della
Toyota ha voluto accompagnarlo. A Nagoya si
unisce a un centinaio di dipendenti di altre
grandi aziende giapponesi.
Tra i negozi di lusso e i ciliegi in fiore Tadao,
60 anni, esibisce il suo cartellone: “Toyota,
basta buttar via i dipendenti che hai
sfruttato". Il gruppetto cammina in fila
indiana, controllato da una ventina di
poliziotti, mentre i passanti alzano appena gli
occhi. Mentre torna a casa, Tadao,
orgoglioso, ha il sorriso sulle labbra.
Sono le dieci di sera, Toyota City e immersa
in una notte silenziosa. Le strade, male
illuminate, sono deserte. “Gli abitanti non
fanno che lavorare, sono troppo stanchi per
uscire", osserva il neo pensionato. Qualche
giorno dopo Tadao ci da appuntamento in
uno dei numerosi parcheggi della città.
Come al solito i suoi capelli sale e pepe sono
perfettamente pettinati. Ci ha pensato ed è
d’accordo: mi porterà nella sua ex fabbrica.
Dietro i vetri le strade scorrono monotone e
tristi: file di cubi grigi, saracinesche di negozi
spesso abbassate, marciapiedi vuoti, auto
nuove che camminano silenziose. E’ un
mantra onnipresente, una scritta che si ripete
in continuazione: "Scuola Toyota", “Garage
Toyota", “Poste Toyota", “Ospedale Toyota” e
cosi via. Azienda, città e paesaggio, Toyota è
un tutt’uno indissociabile, pensato e meditato
fin nel minimo dettaglio.
“I trasporti pubblici sono stati poco sviluppati
di proposito. Qui la vita senza macchina è un
inferno", osserva Tadao.
Costeggiamo la sua ex fabbrica. “Una vera
fortezza", avverte il pensionato.
Immenso, interminabile, l’edificio é costruito
su un terreno leggermente sopraelevato, il
tutto protetto da alti muri di cinta e abeti:
"Ecco l’impianto Motomachi. Sembra un
bunker, non e vero?”. Tadao ha lavorato qui
per 45 armi nel reparto assemblaggio.
"Ci sono altri sei stabilimenti Toyota di queste
dimensioni in centro, e nei dintorni 400
subappaltatori”.
Tadao parcheggia la macchina - una Toyota,
ovviamente - e va verso l’ingresso.
Si avvicina alle telecamere dei vigilantes,
guarda a sinistra, a destra e si assicura che
nessuno si avvicini. Poi, di scatto, si gira di 90
gradi in modo secco e preciso. “E' così
che bisogna spostarsi nelle fabbriche. E' una
delle regole del ‘codice Toyota`". Rispettato
da tutti, il codice regola ogni minuto della vita
dei dipendenti. Tutti sono obbligati a
tenere le mani fuori dalle tasche, a lasciare
acceso giorno e notte il cellulare, a chiedere
l’autorizzazione di un superiore per andare in
bagno, ad aspettare di essere sostituito per
andarci, a riflettere a casa su come migliorare
la produzione e cosi via.
“Quando mi sono sposato, l'azienda ha
vietato ad alcuni colleghi di venire al
matrimonio”, ricorda.
“La volontà di diventare il numero uno
mondiale a tutti i costi ha rovinato il sistema”.
Al suo arrivo sul pianeta Toyota Tadao aveva
vent`anni, pochi bagagli e molte illusioni.
Giovane contadino di una famiglia modesta
del nord del Giappone, dovette cominciare
presto a guadagnarsi da vivere.
Attratto dalla promessa di un posto di lavoro
stabile e di un buono stipendio, si trasferì a
Toyota City nel1965. Il Giappone era uscito
sconfitto e impoverito dalla seconda guerra
mondiale, ed era in piena ricostruzione.
La Toyota voleva misurarsi con i giganti
automobilistici statunitensi.
Kiichiro Toyoda, il figlio del fondatore
dell’azienda, riconvertì la fabbrica di telai
meccanici di famiglia. Uomo curioso e
viaggiatore, Toyoda aveva letto gli scritti di
Henry Ford e immaginò, con l’ingegnere
Taiichi Ohno, una nuova forma di
organizzazione del lavoro, il toyotismo.
Per aumentare i profitti e la produttività, Ford
aveva sviluppato il lavoro alla catena di
montaggio in modo da razionalizzare i costi
della manodopera. Toyota spinse il sistema
fino ai suoi estremi. Scelse di adattarsi
costantemente alla domanda, cioè di
produrre a flusso continuo, senza fare scorte
e con un numero ridotto di operai. Il principio
di base e il lean manuhcruring, la "produzione
snella". La sua forza sta nell`agire nello
stesso tempo sul corpo e sull`animo dei
dipendenti, chiamati a migliorare
continuamente la loro produttività.“.
Si sentivano solo le rane gracidare.
Per andare in fabbrica percorrevamo a piedi
lunghe strade buie e strette, a volte neanche
asfaltate". L' apprendista operaio divideva il
suo alloggio con altri "Toyota boys", ragazzi
venuti da tutto il passe per fare fortuna nel
settore dell`auto. Il lavoro era duro, ma la
paga buona. Tadao incontrò qui la sua futura
moglie e decise di rimanere.
Negli anni ottanta il toyotismo é diventato un
modello di riferimento. Migliaia di giapponesi
sono arrivati a “Motor City", che si é così
ingrandita rubando spazio ai campi. I viali
sono stati costruiti in modo geometrico,
all'americana, gli edifici moderni dalle forme
lisce e fredde sono cresciuti come funghi.
La città ideale era in pieno sviluppo. Tutto era
calcolato.
“Quando la Toyota costruisce uno stadio, non
lo fa per il benessere degli abitanti ma per
farsi notare e i dipendenti sono obbligati a far
parte della squadra aziendale che partecipa ai
campionati con le altre aziende”, spiega
Tadao. Ma la vera vetrina del marchio Toyota
sono gli stabilimenti. Le catene di montaggio
hanno raggiunto un alto livello di precisione.
Da tutto il mondo capi di stato e grandi
imprenditori venivano a vedere questo
sistema organizzativo, come fedeli in
pellegrinaggio, per riprodurlo o copiarlo.
Dai telai alle macchine, l’esperienza della
Toyota si é formata spingendo sempre più in
la i limiti della tecnologia industriale”, si vanta
il sito internet dell’azienda. Ci voleva un luogo
per sviluppare questo concetto, Così, nel
1959 il governo giapponese cambiò nome alla
piccola città di Koromo, ribattezzandola
Toyota City.
Adulata, imitata, l`azienda ha aperto nuovi
centri di produzione in 27 paesi in tutti i
continenti. Nel 2008 Toyota e diventata il
numero uno mondiale dell’automobile,
davanti alla General Motors. l profitti hanno
raggiunto i 110 miliardi di yen, circa 14
miliardi di euro. I massimi dirigenti di questo
simbolo del capitalismo rimangono giapponesi
e nessuno straniero entra nel suo consiglio di
amministrazione. E Toyota City, 420 mila
abitanti, fabbrica da sola metà dei nove
milioni di veicoli venduti in tutto il mondo.
Appena arrivato, Tadao rimase deluso.
La città modello era solo "un grosso borgo di
campagna” di 107mila abitanti, sperduto in
mezzo ai campi e occupato al centro da una
grossa fabbrica vecchia di 25 anni.
“L’atmosfera era silenziosa, quasi bucolica.
Una piccola rivoluzione
E’ durante questa ascesa del toyotismo che
Tadao ha cominciato la sua “rivoluzione":
"La quantità é stata raggiunta a scapito della
qualità dei prodotti e della salute dei
dipendenti. Non si può ridurre la
progettazione di un veicolo da 32 mesi a un
anno senza conseguenze".
Nel gennaio del 2006 Tadao crea con la
massima discrezione il primo e unico
sindacato indipendente della città, l’All Toyota
labour union: “Come tutti gli operai, facevo
parte del sindacato d’impresa, che però non
era stato creato per difenderci”. In quattro
anni l' All Toyota labour union ha sedotto una
decina di dipendenti. Dieci su 410 mila
abitanti, per Tadao é una Vittoria. Sempre
davanti alla fabbrica, sale sul marciapiede:
“Possiamo distribuire i nostri volantini fino a
qui". Un metro più in la, una scala porta a un
passaggio sotterraneo: "Qui non abbiamo più
diritto di far niente, é proprietà della Toyota.
Se lo facessimo, un megafono comincerebbe
a urlare e vieterebbe agli altri dipendenti di
prendere i volantini. L’azienda manda anche
degli uomini per mandarci via".
A Toyota City non c’e bisogno di striscioni né
di ritratti celebrativi. La piovra controlla tutto,
perfino gli orari di alcuni negozi, regolati su
quelli delle fabbriche. Attraverso le sue filiali,
l’impresa vende anche prodotti alimentari nei
supermercati, organizza matrimoni e funerali.
Con i pugni chiusi, la statua di bronzo di
Kiichiro Toyoda vigila sui deputati locali, il
sindaco rifiuta di incontrarci, ci riceve un suo
subalterno negli uffici asettici e tranquilli del
municipio. Impacciato nel suo abito
occidentale, il giovane funzionario ci da
timidamente il giornale municipale e alcuni
dépliant. Sulla carta patinata ci sono dei
numeri e delle foto: un ponte bianco, un
museo di arte moderna, uno stadio di calcio
da 45mila posti, il più grande del Giappone.
Le stesse immagini, futuristiche e celebrative,
compaiono sulle cartoline e sui video
pubblicitari della città.
Con la crisi del 2008 sui mezzi d'informazione
erano apparse altre immagini: dipendenti
della Toyota diventati barboni, file d’attesa
per avere un pasto caldo gratis.
Il richiamo di milioni di veicoli difettosi nel
2010 ha fatto diminuire ulteriormente le
vendite.
Per la prima Volta il presidente della camera
di commercio - fratello maggiore di un ex
presidente dell’ azienda - ha lanciato una
campagna pubblicitaria per elogiare i pregi
delle auto Toyota. Alle nostre domande, il
funzionario comunale risponde a bassa voce:
“Abbiamo dovuto rinviare i lavori di
ampliamento del municipio. Di fatto
l’economia locale dipende in gran parte dalla
Toyota, e due anni fa le nostre entrate fiscali
si sono ridotte del 90 per cento”. Per tutte le
altre domande il funzionario rimanda - con un
sorriso educato - ai dépliant o alla Toyota
motor.
Da Parigi avevo chiesto ufficialmente
un’intervista alla direzione dell’azienda e una
visita agli stabilimenti. Una responsabile, che
aveva promesso di fare il possibile, ora si
scusa: “Vorremmo veramente aiutarla, ma è
difficile. Qualcuno le farà visitare il museo
della Toyota”.
Ma i signori della Toyota rimangono
inafferrabili e annullano per e-mail la visita al
museo. Con mia grande sorpresa questo
museo, il cui accesso mi era stato presentato
come un favore persona1e, e aperto a tutti.
Lo "show" delle undici e un quarto è appena
cominciato. Nella grande hall in marmo, una
hostess fa dei giri a bordo di una vettura
monoposto. Il bolide si trasforma, alterna la
posizione seduta a quella sdraiata. Secondo
un rituale ripetuto migliaia di volte, la ragazza
Toyota sorride, china leggermente in avanti
la testa e porge un saluto meccanico al
pubblico. I turisti ammirano un robot che
suona la tromba e gli ultimi modelli di
automobile.
“Toyota, un sistema che rispetta l’uomo”,
“Toyota, amica del1’ambiente”, proclamano
ovunque i cartelli. Ci sono mostre dedicate a
tutte le fondazioni create dall’azienda: quella
per il pianeta, quella per gli invalidi, quella
per la sicurezza stradale, quella per
l’alfabetizzazione negli Stati Uniti e così via.
Ci viene proposta una visita agli stabilimenti.
Due pullman partono puntualissimi. Il mio
vicino, un austriaco, è un appassionato di
auto: “Per me la Toyota è un simbolo di
qualità. Questa città mi incuriosiva, ma sono
rimasto sorpreso: sembra quasi che gli
abitanti siano in punizione”.
La fabbrica dell’abbondanza
Il pullman con la scritta “Toyota" attraversa il
centro, sempre triste e intasato. Al microfono
una ragazza con un sorriso stampato sul
volto recita la genesi dell’impresa: “I1
fondatore si chiama Toyoda. Significa “campo
dell’abbondanza”. Ci portano nel più grande
sito di assemblaggio del gruppo: binari
moderni, scheletri di vetture, carrelli e bip-bip
a perdita d’occhio. Eppure non si
sente una parola. Occhi bassi sulla catena di
montaggio, migliaia di uomini e donne
avvitano, martellano e montana in pochi
secondi. In guanti bianchi, alcuni accarezzano
una carrozzeria dopo l`altra per controllare le
imperfezioni. In caso di ritardo spingono un
pulsante collegato a uno schermo gigante,
dove sono visualizzati numeri delle
postazioni.
La guida: “I nostri operai praticano il kaizen,
un metodo molto efficace di gestione della
qualità. Sono incitati a rimettere per proporre
dei miglioramenti”.
Da una seconda fabbrica proviene un odore
acre. Allineati uno accanto all’altro, decine di
robot saldano rumorosamente delle carcasse
di vetture. La quintessenza del toyotismo:
non c’e alcun essere umano, sono tutti
scomparsi.
I piatti di pesce crudo sfilano su un tavolo
circolare, come pezzi di una catena di
montaggio.
Un elegante pensionato prende un pezzo di
sushi di seppia e del sashimi.
Mentre mangia spiega che la Toyota non ha
smesso di razionalizzare la sua struttura
piramidale.
In alto la direzione centralizzata, in mezzo i
dipendenti privilegiati, in basso un vivaio di
precari. "Nelle fabbriche più del 40 per cento
dei lavoratori sono precari. Più si scende nella
lista dei fornitori, più i contratti sono precari".
Tadao ci da alcuni numeri di telefono: un
quadro superiore assunto dalla Toyota per le
sue prestazioni in atletica, la moglie di un
designer industriale, un taciturno custode di
un parcheggio, un’ estetista che “adooora la
tranquillità della città”. Tutti sono diffidenti.
Tutti tranne]unko Morimoto. L’abbiamo
incontrata in un club per madri di famiglia,
un’organizzazione dedicata ai bambini della
Toyota. Ci invita a passare da lei dopo il
turno di suo marito.
Il centro della città è molto simile. I luoghi
pubblici, funzionali e senza vita, sono
frequentati lo stretto necessario, gli abitanti si
precipitano in macchina, come se fosse
questione di vita o di morte. In una mensa,
quattro dirigenti sono immersi nei loro
manga. La pausa pranzo è breve,
millimetrica, si scusano. “Avrà difficoltà a
ottenere informazioni sulla Toyota", dice il
cuoco. “Gli abitanti sono troppo legati
all'azienda”.
La loro casa è all’estremità orientale della
città. Due Toyota sono parcheggiate nel viale.
]unko e suo marito, Shigeyuki, hanno pin o
meno trent’anni e l’atteggiamento degli
impiegati modello che si vedono sui dépliant
dell’azienda. La foto del loro matrimonio, con
i responsabili della Toyota, é in mostra
all’ingresso. ]unko serve il tè sul tavolo basso.
Seduto a gambe incrociate sul tappeto
spesso, suo marito si sfrega le mani.
Non gli sono mai state fatte delle domande
sul suo lavoro, e l’impresa non gli ha
insegnato come rispondere. Assunto come
team member, Shigeyuki e stato promosso
team leader, caposquadra, poi group leader,
caporeparto.
Nel sushi bar dove ceniamo una sera, Tadao
spiega che per paura nessun membro del suo
sindacato vuole parlare. "Ma allora perché
portare avanti questa lotta?", chiedo io.
"La Toyota ha inventato la sofferenza sul
lavoro. Denunciare la sua filosofia fa parte dei
principi che hanno guidato la mia vita. E non
ho ceduto, nonostante le pressioni e le
minacce”.
Oggi è agli ordini di un manager, a sua volta
agli ordini di un responsabile e cosi via.
“Mi trovo schiacciato tra gli operai che
sorveglio e i miei superiori. E’ vero,lo stress
aumenta con le responsabilità, ma voglio fare
carriera”. Shigeyuki si piega alle necessità
dell’impresa, pratica il kuizen e i.l takttime, il
ritmo di produzione ottimale per adeguarsi
agli ordini.
Questo ritmo -la parola takt indica in tedesco
la “misura" - lo accompagna in fabbrica e lo
segue fino a casa. Spesso nei sogni cerca il
modo migliore per "eliminare gli sprechi”.
Di recente i suoi premi sono stati ridotti e lui
ha dovuto prendere una settimana di
vacanza, ma crede ancora nel successo
collettivo.
All’interno riprende fiato. “La Toyota ci dà un
alloggio, ci educa, ci dice come comportarci,
come se fossimo dei bambini”.
Minuscola, la stanza con i muri spogli e
occupata da un letto, una scrivania, una
mensola, un piccolo frigo, un lavandino e una
giacca. I bagni, in comune, sono in fondo al
corridoio.
Il caporeparto osserva furtivamente le
reazioni di sua moglie. E’ lei, incinta del loro
secondo bambino, che lo ha convinto a
ricevere una straniera in casa. Per lei Toyota
City non ha mai rappresentato un sogno.
Gli aspetti angusti di questa città-vetrina,
dove “tutti sanno in che posto lavora il
proprio vicino e quanto guadagna”, la
ripugnano.
"I nostri alloggi sono vecchi e spartani.
La Toyota ci fornisce il minimo indispensabile,
come se riconoscesse più valore alle
macchine che agli uomini”. L’ingegnere
prende una pila di libri ammucchiati sulla
mensola: Il miracolo Toyota, Il
management Toyota, Il sistema Toyota.
“Tutti i dipendenti devono conoscerli”.
“La maggior parte degli abitanti non sa
com`é il mondo esterno". Come i nuovi
assunti e gli operai di base, Shigeyuki ha
vissuto alcuni anni nelle città dormitorio della
Toyota, costruite intorno alle fabbriche.
Gli edifici - grigi, lunghi e pieni di piccole
porte -sono sorvegliati. Per entrarci ci vuole
l’aiuto di qualcuno a Tokyo che, dopo varie
telefonate, convince un giovane ingegnere a
riceverci. Ci aspetta dietro la stazione
centrale, vicino a una Fontana tutta pulita.
Alto, magro, elegante, il dirigente ci stringe
rapidamente la mano e si affretta. Cala il
buio, le fabbriche producono il loro ronzio di
fondo e la torre di vetro dove lavora è
illuminata.
Non vuole essere visto con degli stranieri.
“Alla fine dei miei studi il prestigio della
Toyota mi ha sedotto. Non c’e niente di
meglio in un curriculum”. Così ha fatto
domanda ed é stato assunto. Per alcuni mesi
la Toyota lo ha addestrato, gli ha insegnato le
sue regole, i suoi valori e le sue certezze
ordinate.
“Un vero e proprio lavaggio del cervello”.
Il più naturalmente possibile, l’ingegnere
passa in macchina davanti al custode del suo
alloggio, da un’occhiata alle telecamere di
sorveglianza, sale i gradini delle scale esterne
e, quasi tremando, apre una porta
sormontata da una piccola lampada.
Appena ha un giorno di riposo l’ingegnere, 25
anni, evade dai tentacoli del suo datore di
lavoro. A Tokyo si sente di nuovo giovane e
ritrova gli amici ai concerti o in ristoranti
animati. Piccole cose della vita, qui
impossibili: “Toyota City è un luogo di potere,
ricco, apprezzato, ma faticoso e senza
interesse”. Dirigente con un promettente
futuro alla Toyota, dice di volersi dimettere
non appena l’economia in Giappone
comincerà ad andare meglio.
Anche in fondo alla piramide i precari hanno
perso la fiducia; sono loro i primi a essere
licenziati, i primi a iscriversi alle liste di
disoccupazione. Il centro per la
disoccupazione, chiamato Hello Work, è una
sala rosa e bianca piena di gente, La
moquette,i muri colorati e la voce bassa
rendono quasi calda l’atmosfera.
“Il periodo peggiore è stato l’anno scorso.
Avevamo quattro domande di lavoro per
un’offerta", spiega il direttore nel suo ufficio
rosa.
Sui gradini nell’ingresso pieno di mozziconi,
due giapponesi di origine straniera
chiacchierano in spagnolo. Prima della crisi
lavoravano per dei produttori di pezzi di
ricambio. Uno dei due parla volentieri, non ha
più nulla da perdete. Nato in Perù, i suoi
nonni sono fuggiti dal Giappone alla fine del
boom economico. Quando é atterrato
all’aeroporto di Tokyo, nel 1991, non sapeva
dove fosse Toyota City, ma la immaginava
come il centro del mondo. Appena sceso
dall`aereo alcuni uomini hanno attaccato dei
nastri colorati al suo giubbotto e lo hanno
portato lì.
Il giorno dopo gli hanno dato una tuta, delle
scarpe da lavoro, una maschera e una
piantina della fabbrica. In poche ore Freddy,
meccanico peruviano, si e ritrovato a saldare
a Toyota City: “Non capivo una parola di
giapponese. Accanto ai capi c’erano alcuni
traduttori che ci gridavano gli ordini.
Dovevamo limitarci a seguire la catena di
montaggio”.
Durante i primi mesi Freddy era convinto di
non farcela, ma alla fine é riuscito ad
abituarsi: “Bisogna adattarsi al ritmo, tutto
qua. Alzarsi, fare una rapida colazione,
andare al lavoro, non pensare al numero di
ore, tornare a casa, mangiare e andare a
dormire”. Freddo, distaccato, continua
“Dobbiamo fare un buon prodotto, il più;
rapidamente possibile e con un numero
sempre più ridotto di uomini. Alcuni non ce la
fanno e se ne vanno. Altri diventano matti, si
ammalano o si suicidano. Si può dire che é
ingiusto, ma è così dappertutto, no?
La Toyota esporta i suoi metodi in tutto il
mondo".
Mi porta nella sua piccola Suzuki bianca e
scherza: “Brutta, eh? Era la meno cara sul
mercato. In Perù anche con una vita di lavoro
non sarei mai riuscito a comprarla”.
Si ferma davanti a un edificio moderno, il
Toyota industry and culture center: “E bello,
vero? Questo posto mi piace molto”. Si dirige
verso un gruppo di case in costruzione
nascosto da teli con la scritta "Toyota Home"
mossi dal vento. Indica un ponte bianco dal
disegno futuristico:“ La sotto ci sono dei
barboni, ex dipendenti della Toyota. Ma la
maggior parte è tornata dalle loro famiglie o
é andata nelle grandi città. A loro la città non
ha più niente da offrire". Si ferma vicino alla
sua ex fabbrica, apre la portiera ma non
scende: “Non lavoro più in questo posto, non
capirebbero cosa faccio qui", dice con un
groppo in gola. Freddy ci porta nel suo posto
preferito, un piccolo ristorante decorato con
tessuti di lana colorata, maschere e piccoli
oggetti di ispirazione inca. il proprietario, un
amico, ci serve del ceviche, del carpaccio di
pesce tipico del Perù. I tavoli sono vuoti.
“Ormai non viene più nessuno.
Di solito sono ottimista, ma questa crisi è
molto profonda". Freddy annuisce, con gli
occhi persi nel vuoto: “Prima, mi trovavo un
lavoro in pochi mesi. Ora è più di un anno
che sto cercando”.
E’ nella parte settentrionale della città, nel
quartiere di Homi, che hanno cominciato ad
apparire i primi segni della crisi. Erbacce tra
un palazzo e l’altro, un’associazione che
distribuisce cibo e latte per i neonati, ma
anche colori, un po’ di vita. I cartelloni sono
in giapponese, portoghese e spagnolo.
Il piccolo supermercato e la drogheria
vendono prodotti sudamericani.
Al tredicesimo piano di un grattacielo una
madre di famiglia mi accoglie con i figli che le
ronzano tra le gambe. Alcuni materassi sono
ammucchiati in un angolo. Cristina convive in
questo appartamento su due piani con nove
persone. I fornitori della Toyota non l’hanno
licenziata, ma le hanno proposto un lavoro
precario. Attraverso la parete sottile si
sentono i vicini che spostano i mobili. Non
hanno più nulla. Come molti altri, hanno
accettato “l’aiuto di ritorno, del governo
giapponese in cambio di un biglietto aereo
per il Brasile e di un’indennità, si sono
impegnati a non tornare nell’arcipelago per
cinque anni.
Freddy invece é disposto a tutto pur di
rimanere. Vive con i suoi ultimi risparmi, in
una casa popolare di trenta metri quadri.
D’inverno non accende più il riscaldamento e
ha disdetto l’abbonamento del cellulare.
La sua divisa da lavoro é custodita con cura
in una busta di plastica nell’armadio.
Ma lui conserva ancora la speranza: “La
gente avrà sempre bisogno di auto, no?”.
Ritrovo Tadao, occupatissimo
nell`organizzare proteste e inventare nuovi
slogan. Il suo cartellone è riposto in un
angolo, ma anche lui é fiducioso.
L’altro giorno, per la prima volta, davanti alla
fabbrica un dipendente ha osato prendere un
volantino.