Giappone - TOAssociati
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Giappone - TOAssociati
Gli operai perfetti di Toyota city di Léna Mauger, XXI, Francia Tadao Wakatsuki ha dedicato la sua vita alla Toyota ed è libero solo da poche ore. E' il suo primo giorno di pensione, il primo giorno fuori dall`azienda. Vive a Toyota City, culla di un modello di organizzazione del lavoro noto come esempio di efficienza, qualità e innovazione. Il palazzo in cemento dove vive ha otto piani, il suo salotto decorato con fiori secchi é minuscolo. Queste prime ore Tadao le assapora con soddisfazione. Con dei piccoli occhiali sul naso, ritaglia concentrato un rettangolo di cartone giallo, ci scrive sopra qualcosa e fissa accuratamente il tutto a un bastone. Con il suo cartello in mano e una giacca nera addosso prende il treno per Nagoya, la vicina metropoli. Nessuno dei suoi colleghi della Toyota ha voluto accompagnarlo. A Nagoya si unisce a un centinaio di dipendenti di altre grandi aziende giapponesi. Tra i negozi di lusso e i ciliegi in fiore Tadao, 60 anni, esibisce il suo cartellone: “Toyota, basta buttar via i dipendenti che hai sfruttato". Il gruppetto cammina in fila indiana, controllato da una ventina di poliziotti, mentre i passanti alzano appena gli occhi. Mentre torna a casa, Tadao, orgoglioso, ha il sorriso sulle labbra. Sono le dieci di sera, Toyota City e immersa in una notte silenziosa. Le strade, male illuminate, sono deserte. “Gli abitanti non fanno che lavorare, sono troppo stanchi per uscire", osserva il neo pensionato. Qualche giorno dopo Tadao ci da appuntamento in uno dei numerosi parcheggi della città. Come al solito i suoi capelli sale e pepe sono perfettamente pettinati. Ci ha pensato ed è d’accordo: mi porterà nella sua ex fabbrica. Dietro i vetri le strade scorrono monotone e tristi: file di cubi grigi, saracinesche di negozi spesso abbassate, marciapiedi vuoti, auto nuove che camminano silenziose. E’ un mantra onnipresente, una scritta che si ripete in continuazione: "Scuola Toyota", “Garage Toyota", “Poste Toyota", “Ospedale Toyota” e cosi via. Azienda, città e paesaggio, Toyota è un tutt’uno indissociabile, pensato e meditato fin nel minimo dettaglio. “I trasporti pubblici sono stati poco sviluppati di proposito. Qui la vita senza macchina è un inferno", osserva Tadao. Costeggiamo la sua ex fabbrica. “Una vera fortezza", avverte il pensionato. Immenso, interminabile, l’edificio é costruito su un terreno leggermente sopraelevato, il tutto protetto da alti muri di cinta e abeti: "Ecco l’impianto Motomachi. Sembra un bunker, non e vero?”. Tadao ha lavorato qui per 45 armi nel reparto assemblaggio. "Ci sono altri sei stabilimenti Toyota di queste dimensioni in centro, e nei dintorni 400 subappaltatori”. Tadao parcheggia la macchina - una Toyota, ovviamente - e va verso l’ingresso. Si avvicina alle telecamere dei vigilantes, guarda a sinistra, a destra e si assicura che nessuno si avvicini. Poi, di scatto, si gira di 90 gradi in modo secco e preciso. “E' così che bisogna spostarsi nelle fabbriche. E' una delle regole del ‘codice Toyota`". Rispettato da tutti, il codice regola ogni minuto della vita dei dipendenti. Tutti sono obbligati a tenere le mani fuori dalle tasche, a lasciare acceso giorno e notte il cellulare, a chiedere l’autorizzazione di un superiore per andare in bagno, ad aspettare di essere sostituito per andarci, a riflettere a casa su come migliorare la produzione e cosi via. “Quando mi sono sposato, l'azienda ha vietato ad alcuni colleghi di venire al matrimonio”, ricorda. “La volontà di diventare il numero uno mondiale a tutti i costi ha rovinato il sistema”. Al suo arrivo sul pianeta Toyota Tadao aveva vent`anni, pochi bagagli e molte illusioni. Giovane contadino di una famiglia modesta del nord del Giappone, dovette cominciare presto a guadagnarsi da vivere. Attratto dalla promessa di un posto di lavoro stabile e di un buono stipendio, si trasferì a Toyota City nel1965. Il Giappone era uscito sconfitto e impoverito dalla seconda guerra mondiale, ed era in piena ricostruzione. La Toyota voleva misurarsi con i giganti automobilistici statunitensi. Kiichiro Toyoda, il figlio del fondatore dell’azienda, riconvertì la fabbrica di telai meccanici di famiglia. Uomo curioso e viaggiatore, Toyoda aveva letto gli scritti di Henry Ford e immaginò, con l’ingegnere Taiichi Ohno, una nuova forma di organizzazione del lavoro, il toyotismo. Per aumentare i profitti e la produttività, Ford aveva sviluppato il lavoro alla catena di montaggio in modo da razionalizzare i costi della manodopera. Toyota spinse il sistema fino ai suoi estremi. Scelse di adattarsi costantemente alla domanda, cioè di produrre a flusso continuo, senza fare scorte e con un numero ridotto di operai. Il principio di base e il lean manuhcruring, la "produzione snella". La sua forza sta nell`agire nello stesso tempo sul corpo e sull`animo dei dipendenti, chiamati a migliorare continuamente la loro produttività.“. Si sentivano solo le rane gracidare. Per andare in fabbrica percorrevamo a piedi lunghe strade buie e strette, a volte neanche asfaltate". L' apprendista operaio divideva il suo alloggio con altri "Toyota boys", ragazzi venuti da tutto il passe per fare fortuna nel settore dell`auto. Il lavoro era duro, ma la paga buona. Tadao incontrò qui la sua futura moglie e decise di rimanere. Negli anni ottanta il toyotismo é diventato un modello di riferimento. Migliaia di giapponesi sono arrivati a “Motor City", che si é così ingrandita rubando spazio ai campi. I viali sono stati costruiti in modo geometrico, all'americana, gli edifici moderni dalle forme lisce e fredde sono cresciuti come funghi. La città ideale era in pieno sviluppo. Tutto era calcolato. “Quando la Toyota costruisce uno stadio, non lo fa per il benessere degli abitanti ma per farsi notare e i dipendenti sono obbligati a far parte della squadra aziendale che partecipa ai campionati con le altre aziende”, spiega Tadao. Ma la vera vetrina del marchio Toyota sono gli stabilimenti. Le catene di montaggio hanno raggiunto un alto livello di precisione. Da tutto il mondo capi di stato e grandi imprenditori venivano a vedere questo sistema organizzativo, come fedeli in pellegrinaggio, per riprodurlo o copiarlo. Dai telai alle macchine, l’esperienza della Toyota si é formata spingendo sempre più in la i limiti della tecnologia industriale”, si vanta il sito internet dell’azienda. Ci voleva un luogo per sviluppare questo concetto, Così, nel 1959 il governo giapponese cambiò nome alla piccola città di Koromo, ribattezzandola Toyota City. Adulata, imitata, l`azienda ha aperto nuovi centri di produzione in 27 paesi in tutti i continenti. Nel 2008 Toyota e diventata il numero uno mondiale dell’automobile, davanti alla General Motors. l profitti hanno raggiunto i 110 miliardi di yen, circa 14 miliardi di euro. I massimi dirigenti di questo simbolo del capitalismo rimangono giapponesi e nessuno straniero entra nel suo consiglio di amministrazione. E Toyota City, 420 mila abitanti, fabbrica da sola metà dei nove milioni di veicoli venduti in tutto il mondo. Appena arrivato, Tadao rimase deluso. La città modello era solo "un grosso borgo di campagna” di 107mila abitanti, sperduto in mezzo ai campi e occupato al centro da una grossa fabbrica vecchia di 25 anni. “L’atmosfera era silenziosa, quasi bucolica. Una piccola rivoluzione E’ durante questa ascesa del toyotismo che Tadao ha cominciato la sua “rivoluzione": "La quantità é stata raggiunta a scapito della qualità dei prodotti e della salute dei dipendenti. Non si può ridurre la progettazione di un veicolo da 32 mesi a un anno senza conseguenze". Nel gennaio del 2006 Tadao crea con la massima discrezione il primo e unico sindacato indipendente della città, l’All Toyota labour union: “Come tutti gli operai, facevo parte del sindacato d’impresa, che però non era stato creato per difenderci”. In quattro anni l' All Toyota labour union ha sedotto una decina di dipendenti. Dieci su 410 mila abitanti, per Tadao é una Vittoria. Sempre davanti alla fabbrica, sale sul marciapiede: “Possiamo distribuire i nostri volantini fino a qui". Un metro più in la, una scala porta a un passaggio sotterraneo: "Qui non abbiamo più diritto di far niente, é proprietà della Toyota. Se lo facessimo, un megafono comincerebbe a urlare e vieterebbe agli altri dipendenti di prendere i volantini. L’azienda manda anche degli uomini per mandarci via". A Toyota City non c’e bisogno di striscioni né di ritratti celebrativi. La piovra controlla tutto, perfino gli orari di alcuni negozi, regolati su quelli delle fabbriche. Attraverso le sue filiali, l’impresa vende anche prodotti alimentari nei supermercati, organizza matrimoni e funerali. Con i pugni chiusi, la statua di bronzo di Kiichiro Toyoda vigila sui deputati locali, il sindaco rifiuta di incontrarci, ci riceve un suo subalterno negli uffici asettici e tranquilli del municipio. Impacciato nel suo abito occidentale, il giovane funzionario ci da timidamente il giornale municipale e alcuni dépliant. Sulla carta patinata ci sono dei numeri e delle foto: un ponte bianco, un museo di arte moderna, uno stadio di calcio da 45mila posti, il più grande del Giappone. Le stesse immagini, futuristiche e celebrative, compaiono sulle cartoline e sui video pubblicitari della città. Con la crisi del 2008 sui mezzi d'informazione erano apparse altre immagini: dipendenti della Toyota diventati barboni, file d’attesa per avere un pasto caldo gratis. Il richiamo di milioni di veicoli difettosi nel 2010 ha fatto diminuire ulteriormente le vendite. Per la prima Volta il presidente della camera di commercio - fratello maggiore di un ex presidente dell’ azienda - ha lanciato una campagna pubblicitaria per elogiare i pregi delle auto Toyota. Alle nostre domande, il funzionario comunale risponde a bassa voce: “Abbiamo dovuto rinviare i lavori di ampliamento del municipio. Di fatto l’economia locale dipende in gran parte dalla Toyota, e due anni fa le nostre entrate fiscali si sono ridotte del 90 per cento”. Per tutte le altre domande il funzionario rimanda - con un sorriso educato - ai dépliant o alla Toyota motor. Da Parigi avevo chiesto ufficialmente un’intervista alla direzione dell’azienda e una visita agli stabilimenti. Una responsabile, che aveva promesso di fare il possibile, ora si scusa: “Vorremmo veramente aiutarla, ma è difficile. Qualcuno le farà visitare il museo della Toyota”. Ma i signori della Toyota rimangono inafferrabili e annullano per e-mail la visita al museo. Con mia grande sorpresa questo museo, il cui accesso mi era stato presentato come un favore persona1e, e aperto a tutti. Lo "show" delle undici e un quarto è appena cominciato. Nella grande hall in marmo, una hostess fa dei giri a bordo di una vettura monoposto. Il bolide si trasforma, alterna la posizione seduta a quella sdraiata. Secondo un rituale ripetuto migliaia di volte, la ragazza Toyota sorride, china leggermente in avanti la testa e porge un saluto meccanico al pubblico. I turisti ammirano un robot che suona la tromba e gli ultimi modelli di automobile. “Toyota, un sistema che rispetta l’uomo”, “Toyota, amica del1’ambiente”, proclamano ovunque i cartelli. Ci sono mostre dedicate a tutte le fondazioni create dall’azienda: quella per il pianeta, quella per gli invalidi, quella per la sicurezza stradale, quella per l’alfabetizzazione negli Stati Uniti e così via. Ci viene proposta una visita agli stabilimenti. Due pullman partono puntualissimi. Il mio vicino, un austriaco, è un appassionato di auto: “Per me la Toyota è un simbolo di qualità. Questa città mi incuriosiva, ma sono rimasto sorpreso: sembra quasi che gli abitanti siano in punizione”. La fabbrica dell’abbondanza Il pullman con la scritta “Toyota" attraversa il centro, sempre triste e intasato. Al microfono una ragazza con un sorriso stampato sul volto recita la genesi dell’impresa: “I1 fondatore si chiama Toyoda. Significa “campo dell’abbondanza”. Ci portano nel più grande sito di assemblaggio del gruppo: binari moderni, scheletri di vetture, carrelli e bip-bip a perdita d’occhio. Eppure non si sente una parola. Occhi bassi sulla catena di montaggio, migliaia di uomini e donne avvitano, martellano e montana in pochi secondi. In guanti bianchi, alcuni accarezzano una carrozzeria dopo l`altra per controllare le imperfezioni. In caso di ritardo spingono un pulsante collegato a uno schermo gigante, dove sono visualizzati numeri delle postazioni. La guida: “I nostri operai praticano il kaizen, un metodo molto efficace di gestione della qualità. Sono incitati a rimettere per proporre dei miglioramenti”. Da una seconda fabbrica proviene un odore acre. Allineati uno accanto all’altro, decine di robot saldano rumorosamente delle carcasse di vetture. La quintessenza del toyotismo: non c’e alcun essere umano, sono tutti scomparsi. I piatti di pesce crudo sfilano su un tavolo circolare, come pezzi di una catena di montaggio. Un elegante pensionato prende un pezzo di sushi di seppia e del sashimi. Mentre mangia spiega che la Toyota non ha smesso di razionalizzare la sua struttura piramidale. In alto la direzione centralizzata, in mezzo i dipendenti privilegiati, in basso un vivaio di precari. "Nelle fabbriche più del 40 per cento dei lavoratori sono precari. Più si scende nella lista dei fornitori, più i contratti sono precari". Tadao ci da alcuni numeri di telefono: un quadro superiore assunto dalla Toyota per le sue prestazioni in atletica, la moglie di un designer industriale, un taciturno custode di un parcheggio, un’ estetista che “adooora la tranquillità della città”. Tutti sono diffidenti. Tutti tranne]unko Morimoto. L’abbiamo incontrata in un club per madri di famiglia, un’organizzazione dedicata ai bambini della Toyota. Ci invita a passare da lei dopo il turno di suo marito. Il centro della città è molto simile. I luoghi pubblici, funzionali e senza vita, sono frequentati lo stretto necessario, gli abitanti si precipitano in macchina, come se fosse questione di vita o di morte. In una mensa, quattro dirigenti sono immersi nei loro manga. La pausa pranzo è breve, millimetrica, si scusano. “Avrà difficoltà a ottenere informazioni sulla Toyota", dice il cuoco. “Gli abitanti sono troppo legati all'azienda”. La loro casa è all’estremità orientale della città. Due Toyota sono parcheggiate nel viale. ]unko e suo marito, Shigeyuki, hanno pin o meno trent’anni e l’atteggiamento degli impiegati modello che si vedono sui dépliant dell’azienda. La foto del loro matrimonio, con i responsabili della Toyota, é in mostra all’ingresso. ]unko serve il tè sul tavolo basso. Seduto a gambe incrociate sul tappeto spesso, suo marito si sfrega le mani. Non gli sono mai state fatte delle domande sul suo lavoro, e l’impresa non gli ha insegnato come rispondere. Assunto come team member, Shigeyuki e stato promosso team leader, caposquadra, poi group leader, caporeparto. Nel sushi bar dove ceniamo una sera, Tadao spiega che per paura nessun membro del suo sindacato vuole parlare. "Ma allora perché portare avanti questa lotta?", chiedo io. "La Toyota ha inventato la sofferenza sul lavoro. Denunciare la sua filosofia fa parte dei principi che hanno guidato la mia vita. E non ho ceduto, nonostante le pressioni e le minacce”. Oggi è agli ordini di un manager, a sua volta agli ordini di un responsabile e cosi via. “Mi trovo schiacciato tra gli operai che sorveglio e i miei superiori. E’ vero,lo stress aumenta con le responsabilità, ma voglio fare carriera”. Shigeyuki si piega alle necessità dell’impresa, pratica il kuizen e i.l takttime, il ritmo di produzione ottimale per adeguarsi agli ordini. Questo ritmo -la parola takt indica in tedesco la “misura" - lo accompagna in fabbrica e lo segue fino a casa. Spesso nei sogni cerca il modo migliore per "eliminare gli sprechi”. Di recente i suoi premi sono stati ridotti e lui ha dovuto prendere una settimana di vacanza, ma crede ancora nel successo collettivo. All’interno riprende fiato. “La Toyota ci dà un alloggio, ci educa, ci dice come comportarci, come se fossimo dei bambini”. Minuscola, la stanza con i muri spogli e occupata da un letto, una scrivania, una mensola, un piccolo frigo, un lavandino e una giacca. I bagni, in comune, sono in fondo al corridoio. Il caporeparto osserva furtivamente le reazioni di sua moglie. E’ lei, incinta del loro secondo bambino, che lo ha convinto a ricevere una straniera in casa. Per lei Toyota City non ha mai rappresentato un sogno. Gli aspetti angusti di questa città-vetrina, dove “tutti sanno in che posto lavora il proprio vicino e quanto guadagna”, la ripugnano. "I nostri alloggi sono vecchi e spartani. La Toyota ci fornisce il minimo indispensabile, come se riconoscesse più valore alle macchine che agli uomini”. L’ingegnere prende una pila di libri ammucchiati sulla mensola: Il miracolo Toyota, Il management Toyota, Il sistema Toyota. “Tutti i dipendenti devono conoscerli”. “La maggior parte degli abitanti non sa com`é il mondo esterno". Come i nuovi assunti e gli operai di base, Shigeyuki ha vissuto alcuni anni nelle città dormitorio della Toyota, costruite intorno alle fabbriche. Gli edifici - grigi, lunghi e pieni di piccole porte -sono sorvegliati. Per entrarci ci vuole l’aiuto di qualcuno a Tokyo che, dopo varie telefonate, convince un giovane ingegnere a riceverci. Ci aspetta dietro la stazione centrale, vicino a una Fontana tutta pulita. Alto, magro, elegante, il dirigente ci stringe rapidamente la mano e si affretta. Cala il buio, le fabbriche producono il loro ronzio di fondo e la torre di vetro dove lavora è illuminata. Non vuole essere visto con degli stranieri. “Alla fine dei miei studi il prestigio della Toyota mi ha sedotto. Non c’e niente di meglio in un curriculum”. Così ha fatto domanda ed é stato assunto. Per alcuni mesi la Toyota lo ha addestrato, gli ha insegnato le sue regole, i suoi valori e le sue certezze ordinate. “Un vero e proprio lavaggio del cervello”. Il più naturalmente possibile, l’ingegnere passa in macchina davanti al custode del suo alloggio, da un’occhiata alle telecamere di sorveglianza, sale i gradini delle scale esterne e, quasi tremando, apre una porta sormontata da una piccola lampada. Appena ha un giorno di riposo l’ingegnere, 25 anni, evade dai tentacoli del suo datore di lavoro. A Tokyo si sente di nuovo giovane e ritrova gli amici ai concerti o in ristoranti animati. Piccole cose della vita, qui impossibili: “Toyota City è un luogo di potere, ricco, apprezzato, ma faticoso e senza interesse”. Dirigente con un promettente futuro alla Toyota, dice di volersi dimettere non appena l’economia in Giappone comincerà ad andare meglio. Anche in fondo alla piramide i precari hanno perso la fiducia; sono loro i primi a essere licenziati, i primi a iscriversi alle liste di disoccupazione. Il centro per la disoccupazione, chiamato Hello Work, è una sala rosa e bianca piena di gente, La moquette,i muri colorati e la voce bassa rendono quasi calda l’atmosfera. “Il periodo peggiore è stato l’anno scorso. Avevamo quattro domande di lavoro per un’offerta", spiega il direttore nel suo ufficio rosa. Sui gradini nell’ingresso pieno di mozziconi, due giapponesi di origine straniera chiacchierano in spagnolo. Prima della crisi lavoravano per dei produttori di pezzi di ricambio. Uno dei due parla volentieri, non ha più nulla da perdete. Nato in Perù, i suoi nonni sono fuggiti dal Giappone alla fine del boom economico. Quando é atterrato all’aeroporto di Tokyo, nel 1991, non sapeva dove fosse Toyota City, ma la immaginava come il centro del mondo. Appena sceso dall`aereo alcuni uomini hanno attaccato dei nastri colorati al suo giubbotto e lo hanno portato lì. Il giorno dopo gli hanno dato una tuta, delle scarpe da lavoro, una maschera e una piantina della fabbrica. In poche ore Freddy, meccanico peruviano, si e ritrovato a saldare a Toyota City: “Non capivo una parola di giapponese. Accanto ai capi c’erano alcuni traduttori che ci gridavano gli ordini. Dovevamo limitarci a seguire la catena di montaggio”. Durante i primi mesi Freddy era convinto di non farcela, ma alla fine é riuscito ad abituarsi: “Bisogna adattarsi al ritmo, tutto qua. Alzarsi, fare una rapida colazione, andare al lavoro, non pensare al numero di ore, tornare a casa, mangiare e andare a dormire”. Freddo, distaccato, continua “Dobbiamo fare un buon prodotto, il più; rapidamente possibile e con un numero sempre più ridotto di uomini. Alcuni non ce la fanno e se ne vanno. Altri diventano matti, si ammalano o si suicidano. Si può dire che é ingiusto, ma è così dappertutto, no? La Toyota esporta i suoi metodi in tutto il mondo". Mi porta nella sua piccola Suzuki bianca e scherza: “Brutta, eh? Era la meno cara sul mercato. In Perù anche con una vita di lavoro non sarei mai riuscito a comprarla”. Si ferma davanti a un edificio moderno, il Toyota industry and culture center: “E bello, vero? Questo posto mi piace molto”. Si dirige verso un gruppo di case in costruzione nascosto da teli con la scritta "Toyota Home" mossi dal vento. Indica un ponte bianco dal disegno futuristico:“ La sotto ci sono dei barboni, ex dipendenti della Toyota. Ma la maggior parte è tornata dalle loro famiglie o é andata nelle grandi città. A loro la città non ha più niente da offrire". Si ferma vicino alla sua ex fabbrica, apre la portiera ma non scende: “Non lavoro più in questo posto, non capirebbero cosa faccio qui", dice con un groppo in gola. Freddy ci porta nel suo posto preferito, un piccolo ristorante decorato con tessuti di lana colorata, maschere e piccoli oggetti di ispirazione inca. il proprietario, un amico, ci serve del ceviche, del carpaccio di pesce tipico del Perù. I tavoli sono vuoti. “Ormai non viene più nessuno. Di solito sono ottimista, ma questa crisi è molto profonda". Freddy annuisce, con gli occhi persi nel vuoto: “Prima, mi trovavo un lavoro in pochi mesi. Ora è più di un anno che sto cercando”. E’ nella parte settentrionale della città, nel quartiere di Homi, che hanno cominciato ad apparire i primi segni della crisi. Erbacce tra un palazzo e l’altro, un’associazione che distribuisce cibo e latte per i neonati, ma anche colori, un po’ di vita. I cartelloni sono in giapponese, portoghese e spagnolo. Il piccolo supermercato e la drogheria vendono prodotti sudamericani. Al tredicesimo piano di un grattacielo una madre di famiglia mi accoglie con i figli che le ronzano tra le gambe. Alcuni materassi sono ammucchiati in un angolo. Cristina convive in questo appartamento su due piani con nove persone. I fornitori della Toyota non l’hanno licenziata, ma le hanno proposto un lavoro precario. Attraverso la parete sottile si sentono i vicini che spostano i mobili. Non hanno più nulla. Come molti altri, hanno accettato “l’aiuto di ritorno, del governo giapponese in cambio di un biglietto aereo per il Brasile e di un’indennità, si sono impegnati a non tornare nell’arcipelago per cinque anni. Freddy invece é disposto a tutto pur di rimanere. Vive con i suoi ultimi risparmi, in una casa popolare di trenta metri quadri. D’inverno non accende più il riscaldamento e ha disdetto l’abbonamento del cellulare. La sua divisa da lavoro é custodita con cura in una busta di plastica nell’armadio. Ma lui conserva ancora la speranza: “La gente avrà sempre bisogno di auto, no?”. Ritrovo Tadao, occupatissimo nell`organizzare proteste e inventare nuovi slogan. Il suo cartellone è riposto in un angolo, ma anche lui é fiducioso. L’altro giorno, per la prima volta, davanti alla fabbrica un dipendente ha osato prendere un volantino.