La fenice sbilenca “Viviamo solo per scoprire nuova bellezza. Tutto

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La fenice sbilenca “Viviamo solo per scoprire nuova bellezza. Tutto
La fenice sbilenca
“Viviamo solo per scoprire nuova bellezza. Tutto il testo è una forma d’attesa”
Khalil Gibran
Al numero 13 di Place Émile-Goudeau, 1906.
Una volta Gaugin disse che l’arte o è plagio o è rivoluzione: Pablo, che aveva lo stesso nome di Gaugin ma
pronunciato in un altro modo, era d’accordo: l’arte è rivoluzione: lui e Georges condividevano questa idea e
la vita in una piccola stanza, con artisti e geni che andavano e venivano come la marea giù per le scale.
Pablo e Georges si raccontavano una storia, ogni sera, al lume elettrico della loro stanza: la chiamavano “La
fenice sbilenca”, ma in realtà si intitolava “Come cambiare l’arte per sempre e in modo originale e
definitivo”. Parlava di due amici, i quali, per comodità, si chiamavano Pablo e Georges, che avevano
un’idea: volevano prendere le cose del mondo e dipingerle come loro sapevano essere. Per dire: una bella
donna vista dal davanti non è due occhi e un naso, che sarebbe anche carina, ma è anche una nuca, e una
spalla, e un sorriso, e una ruga, e tutto l’amore che produce e le cose che dice: non ha senso dipingerla come
la si vede -che son buoni tutti a vederla e non serve un pittore per farlo-, bisogna dipingerla così come la si
sa, che per uno può essere una donna stupenda ma per un altro una grandissima puttana. Ed ecco l’arte
nuova, rivoluzionaria; ecco che Gaugin sorrideva sempre, a questo punto, ovunque fosse.
Nella storiella, Pablo diceva sempre che bisognava portare sulla bidimensionalità di una tela la
tridimensionalità di un corpo, e che era impossibile per quello che era stato finora, ma non per lui, che era un
genio, e che sapeva perfettamente che bisognava prendere la bella donna e distruggerla in pezzettini, e poi
riprenderli, e ricostruire il tutto senza pensare alla forma, o alla bellezza -che viene da sé-, ma seguendo il
proprio istinto, la propria indole creativa: era uccidere la fenice e ricostruirla dalle ceneri tutta storta: una
fenice sbilenca.
A questo punto del racconto, l’intero numero 13 di place Emile-Goudeau dormiva della grossa, anche se, in
realtà, non è che stessero tutti ad ascoltare quei due poveretti -che uno veniva pure da oltre i Pirenei, e cosa ci
facesse a Parigi era un mistero, se non che sapevano perfettamente tutti che se era l’arte, che si cercava, era
sulle rive della Senna che la si trovava, spesso, intenta a contemplare i tetti della rive gauche-; a parte tutto, a
questo punto del racconto il personaggio che si chiamava per comodità Georges, ma che poteva anche essere
Pablo (dipendeva da chi la raccontava) diceva a Pablo -che poteva anche essere Georges-, che non bastava
aggiungere i pezzi che compongono la donna per finire il lavoro, perché mancherebbe sempre e comunque
una dimensione, ovviamente, e cioè mancherebbe il tempo, che è invero l’etere dove si fluttua nella realtà, e
non ci si può esentare dal tempo -lo sanno tutti-, e quindi bisogna dipingerlo, questo tempo, in qualche modo,
alla fine: perciò eccolo lì, leggero come una piuma, che si vede appena, il tempo, come il trucco di un
prestigiatore.
Alla fine la storia si concludeva con un quadro senza un apparente senso, fatto di cubi e rettangoli, forme
indefinite, pezzi di giornale, sedie, violini e sacchi di tela; alla fine i due spegnevano sempre il lume elettrico
e andavano a dormire. Il mattino, che su Parigi ha il sapore dei croissant appena sfornati e l’odore delle
baguette, li sorprendeva sempre come un sogno inaspettato, e per tutto il giorno continuavano a raccontarsi
favole.
Per anni, ogni sera, si raccontarono questa storia: era il loro futuro, in realtà, e lo vedevano come un tappeto
sotto i loro piedi che arrivava fino all’infinito; erano giovani, lo sarebbero stati per sempre, nelle loro menti,
e potevano tutto: anche fare davvero ciò che si raccontavano. Per anni, ogni sera, sognavano.
Un giorno si separarono, come se, durante una passeggiata, si fossero trovati di fronte ad un bivio.
-Sai, Pablo, penso che andrò a destra, io.
-Io preferirei andare a sinistra invece, sai, Georges.
-Ma a sinistra si va verso le montagne, ci sono le salite, si fa fatica.
-Sì, ma la fatica della scalata sarà ripagata dalla stupenda vista che avrò da lassù.
-Ma a sinistra c’è un lago, e l’erba, ci si potrebbe sdraiare e riposare per ore e ore.
-Non saprei… io preferisco a sinistra…
-Io a destra.
E si separarono, ognuno da sé, per sempre: il tappeto che andava all’infinto era stato arrotolato, e il futuro era
il passato; davanti, tutta l’arte che era già diversa.
Pablo passò un anno chiuso nella vecchia stanza che aveva con Georges -e Georges ancora c’era, che se ne
sarebbe andato per la sua strada tempo dopo- a dipingere e studiare: stava distruggendo delle donne, le stava
massacrando, e nel tempo in cui le aveva distrutte, le ricostruì: ne nacque un quadro che soddisfaceva i suoi
sogni, le sue storie: una fenice sbilenca.
Per anni, per tutti i suoi anni che furono novantuno, continuò la sua ricerca personale: anche Georges, per i
fatti suoi, andò avanti a lavorare: è buffo come nell’arte le amicizie durino il tempo di disegnare un culo,
mentre gli odi possano durare anche tutti gli anni di una statua.