Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
CYNTHIA BOND
RUBY
Traduzione di Alessandro Mari
ROMANZO
BOMPIANI
Bond, Cynthia, Ruby
Copyright © 2014 Cynthia Bond
All rights reserved
This translation published by arrangement with Hogarth,
an imprint of The Crown Publishing Group, a division of Random House, Inc.
© 2015 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-452-8060-3
Prima edizione Bompiani novembre 2015
Alla professoressa Zelema Marshall Harris,
alias mamma
PARTE PRIMA
OSSO DEI DESIDERI
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Ruby Bell era il monito costante di quel che può capitare a
una donna che va su tacchi troppo alti. Gli abitanti di Liberty
se ne servivano da esempio nelle storie edificanti sul prezzo del
peccato e sulla smania di viaggiare. Indecente matta da legare.
Sconcia pazza furiosa. Così la chiamavano. Il fatto che fosse
ritornata da New York rendeva tutto più comprensibile alla
cittadina.
Ruby Bell vestiva il grigio delle nuvole cariche di pioggia e
vagabondava scalza per le strade rosse. I calli spessi come stivali di cuoio. I capelli incrostati di fango. Le unghie nere come
avesse graffiato l’ardesia della notte. Gambe chilometriche a
camminare la strada e braccia che dondolavano come una porta a zanzariera sgangherata. Nei suoi occhi c’era l’inchiostro
del cielo un attimo prima della tempesta.
Era così che Ruby se ne andava in giro quando abitava nella
malconcia casa eretta da papà Bell prima di morire; quando, al
chiaro di luna, scavava nella terra del Texas orientale e gemeva
come un treno lontano.
In quegli anni, dopo il suo ritorno, nessuno badava a lei. Pur
di non passare davanti alla sua porta la gente sceglieva una via
più tortuosa. Dunque fu assai strano che qualcuno infine decidesse di andare da un capo all’altro di Liberty per presentarsi
sulla veranda dei Bell con una torta avvolta in un panno.
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Ephram Jennings vedeva la donna che vestiva il grigio attraversare il centro cittadino come un fantasma sin da quando era
tornata a vivere nella terra dei Bell nel 1963. E come lui l’intera
Liberty. Ogni giorno Ephram la vedeva ripulirsi le labbra inquiete dalla saliva e passarsi le mani ancora belle sulla crosta
dei capelli prima di affrontare l’ultima svolta, già in vista della
città. La vedeva camminare spedita quasi avesse da fare altrove, e poi immobilizzarsi come una colonna a cinque passi dal
minimarket P & K – il corpo, di un colore simile alle nuvole di
pioggia, in preda al tremore. Ephram restava a guardare mentre Miss P, la proprietaria del negozio, si affacciava alla porta
d’ingresso con nonchalance e le diceva: “Tesoro, dimmi un po’
se ho cotto bene questi panini?”
Ephram vedeva Ruby, lo sguardo fisso al di là della donna,
accettare il sacchetto marrone ricolmo di pane ancora fumante.
Lo prendeva e si allontanava con quelle sue gambe chilometriche mentre Miss P la salutava: “Torna domani, Ruby Bell, vieni
a darmi una mano se ti capita.”
Ephram Jennings assisteva alla medesima scena da undici
anni. Vedeva i piedi dalle piante annerite di Ruby Bell sollevare
un ricciolo di polvere a ogni passo, e ogni giorno non desiderava altro che immergere quei piedi stanchi nel suo grande mastello di legno, sfregarli in acqua calda saponata, massaggiarli
con olio dolce e lanolina, e poi infilarli, prima uno poi l’altro,
in un paio di calze col tallone rosso.
Invece, gli anni passavano ed Ephram si accontentava di
guardare con la coda dell’occhio Miss P compiere il suo dovere
cristiano e la donna che vestiva il grigio curvarsi per accettare
la soffice elemosina. Rimaneva seduto insieme alla cricca che
ingombrava gli sgabelli fuori dal P & K. Chi a leggere il giornale, chi a giocare a domino, chi a masticare tabacco. Stuzzicadenti penzolanti. Pipe accese. Gorgoglii di gazzose stappate.
Esattamente come il giorno in cui Ruby era tornata a Liberty.
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Quand’era scesa dall’autobus rosso gli occhi di tutto il portico le si erano affollati addosso. I capelli stirati e splendenti
simili a una noce nera tirata a lucido. Uno strato spesso di rossetto rosso, un vestitino scampanato color fiordaliso stretto in
vita. Ephram l’aveva vista accendere una sigaretta e scoccare
alla cricca di maschi sotto il portico un’occhiata capace di far
vergognare ognuno del proprio respiro. Poi Chauncy Rankin
aveva commentato: “Guarda come si atteggia questa, mi sa che
non solo fa una merda che non puzza, ma vuole pure vendercela al grammo.”
Tutti erano rimasti ostinatamente a guardare, senza mai
muovere un dito, mentre Ruby scivolava nella follia. L’interesse, misto a una segreta forma di compiacimento, si era disciolto
nelle pieghe dei loro corpi come vaselina. Dopo qualche tempo, quando Ruby si presentava al negozio, gli uomini si limitavano a ignorarne l’esistenza con uno sbadiglio, o ne salutavano
l’arrivo con uno sputo di tabacco masticato. Semmai circolava
una battuta a mezza voce, seguita da risatine soffocate mentre
Miss P le dava il pane.
Un giorno di fine estate, tuttavia, Ephram Jennings cominciò a prestare attenzione, e lo stesso fecero gli altri radunati sotto il portico. Anziché allontanarsi col pane come d’abitudine,
infatti, Ruby esitò. Il corpo ben piantato a terra. Stette là col
sacchetto marrone, la mano che tremolava come la bacchetta
di un rabdomante. Dopodiché fece pipì – un flusso lungo e
regolare che ricadendo sulla polvere rossa le diede una tonalità
mattone. Come se nulla fosse, con aria di placido disinteresse.
Poi, siccome nessuno sapeva bene cosa fare, Gubber Samuels
puntò il dito e le abbaiò contro una risata ruvida. Allora Ruby
abbassò lo sguardo e si accorse della pozza. Un’espressione di
sorpresa le fiorì in viso, subito spenta dal rossore della vergogna. Le mani si precipitarono a coprire gli occhi, ma poiché
riabbassandole Ruby vide che il mondo era ancora lì, lasciò
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cadere il sacchetto marrone nella pozza d’urina e corse. La sua
però non fu una corsa, bensì un volo, ininterrotto e aggraziato,
in direzione dei boschi di conifere, come un cervo dopo un
colpo di fucile. Ephram stava per alzarsi. Stava per lanciarsi
giù dai gradini del portico, fin dentro la boscaglia, nella scia di
Ruby. Ma lo sguardo degli altri uomini era duro, e gli sputi e
le risatine insistenti di Gubber Samuels lo tennero ancorato là
malgrado gli strattoni della misericordia.
Siccome sua madre era tornata da tempo alla gloria di Dio,
quello stesso giorno Ephram chiese alla sorella maggiore Celia
di preparare la sua torta degli angeli, raccontandole che voleva
portarla a un amico malato. Celia gli lanciò un’occhiata di sbieco ma la preparò comunque.
La preparò in quella tasca di tempo che precede l’alba, quando la notte ormai invecchiata raccoglie le sue gonne nere e resta
sospesa nell’immobilità. La preparò con dodici uova fresche,
ancora calde e ricoperte di piume. Dopo averle lavate, spaccò un uovo per volta, chiudendo nel palmo ogni tuorlo dorato
mentre il bianco si insinuava tra le dita aperte e colava. Mise gli
albumi nella ciotola di porcellana a fiori. Nell’anno 1974 Celia
Jennings cucinava ancora con fornelli a legna, e per montare
a neve si serviva ancora di frusta a mano, muscoli e pazienza.
Utilizzò l’estratto di vaniglia, lo stesso liquido dolce che per anni aveva versato nel bagno del sabato sera, in attesa che il loro
padre, il reverendo Jennings, rientrasse in città. Il burro proveniva dalla sua zangola, lo zucchero a velo dal P & K. E mentre
Celia mescolava nel farsi dell’alba, una goccia di sudore simile a
rugiada salò l’impasto. La torta cosse e si gonfiò insieme al sole.
Ephram dormiva ancora quando la torta poi strabordò dallo
stampo, tanto dolce da formare una crosta lungo i bordi frastagliati, tanto leggera che minuscoli crateri d’aria ne contornavano la superficie, tanto umida all’interno da attaccarsi – come
sempre – ai tre rebbi della forchetta d’argento della sorella.
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Celia Jennings non tagliava mai la sua torta degli angeli con il
coltello. “Sarebbe come usare un’ascia per scuoiare un coniglio,” era solita dire.
La torta ormai raffreddava quando Ephram infine si svegliò, e mentre lui si lavava e vestiva ebbe il tempo di riposare a
sufficienza.
Ephram Jennings lisciò gli angoli del cappello del suo bisnonno per la decima volta, quella mattina. I grandi pollici
squadrati percorsero la tesa di cuoio morbido; in alcuni punti
la pelle era così sottile da lasciar filtrare esili raggi di sole, quasi
fosse una lanterna cinese.
C’era del magico in Ephram Jennings: guardandolo con attenzione negli occhi, si poteva scorgere un’orlatura viola attorno al castano delle iridi, tenue come una corona di petali di
pervinca.
Il guaio era che nessuno, neppure la sorella, si prendeva il
disturbo di guardare Ephram Jennings con attenzione. E sulla
via del Bloom o al P& K la gente si accontentava di un’occhiata. Per loro, Ephram non era che uno dei tanti uomini di fatica
di pelle scura, con un cappello malconcio e l’andatura curva.
Per loro, in lui non c’era nulla di speciale. Ephram era una lieve
sfocatura in cui lo sguardo s’imbatteva nel tragitto verso mete
più squisite e interessanti.
In quarant’anni di vita Ephram ci aveva fatto l’abitudine.
Entrava e usciva da una porta senza suscitare più di un cenno
o di una breve interruzione nelle conversazioni. Sul posto di
lavoro una tale capacità era richiesta. Ephram era il paio di
mani che trasportava le buste della spesa dall’alimentari fino
alle scintillanti automobili dei bianchi; che prendeva la mancia
e mormorava: “Grazie, signora.” Rabbia o cortesia gli venivano
rivolte con indifferenza, quasi fosse un pezzo di carbone. Lui si
ripeteva che non gli importava. Quando però si trattava di neri,
un’occhiata che non scivolasse via, che si trattenesse un istante,
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