La generazione senza ginocchia sbucciate

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La generazione senza ginocchia sbucciate
La generazione
senza
ginocchia sbucciate
di Daniela Pasqualini
Modena. Festival della Filosofia 2012. Una folla attenta e interessata riempie le piazze assolate.
Intorno, i ponteggi sulle facciate dei palazzi, le installazioni degli artisti, le iniziative di solidarietà, i
lavori per la messa in sicurezza degli edifici, tutto ricorda il sisma del maggio scorso in Emilia.
Quest’anno il Festival è dedicato alle “cose”, anche a quelle piccole cose, agli oggetti del
quotidiano che dopo il terremoto non ci sono più: “La sparizione dei giocattoli e il disincanto della
nostra vita” è il titolo della lezione magistrale tenuta dalla professoressa Silvia Vegetti Finzi, già
docente di Psicologia dinamica all’Università di Pavia. Per comprendere quali siano le
conseguenze della perdita improvvisa di un giocattolo, è necessario ricordare il significato
simbolico che questo oggetto ha per il bambino che lo sceglie.
Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, teorizza l’esistenza di uno spazio intermedio tra
“l’essere la madre” e “l’avere la madre”, detto spazio transizionale. In un’età tra i 4 e i 12 mesi di
vita si può osservare questa fase transizionale, cioè di passaggio da una realtà di onnipotenza
soggettiva a una realtà oggettiva, che porterà il bambino a staccarsi gradualmente dal corpo della
madre.
Questo distacco, considerato un vero passaggio evolutivo dello sviluppo, è doloroso e frustrante per
il bambino, che acquisisce un oggetto con effetto calmante per aiutarsi a sopportare la frustrazione.
L’oggetto transizionale, che cioè è di aiuto in questa fase evolutiva, ha sempre una qualità tattile o
sonora: può essere un lembo di stoffa, un suono ripetuto, anche semplicemente dei fili di tessuto. Il
bambino percepisce questo oggetto come diverso da sé, ma collegato al corpo della madre, come in
una sorta di via di mezzo tra reale e soggettivo, tra sé e non sé, e lo utilizza per sperimentare la
prima autonomia dalla madre, per tollerare la sua assenza fisica, per calmarsi o addormentarsi. Ecco
che quell’oggetto, che poi noi chiamiamo gioco e che può essere una bambola, un peluche, una
coperta, un orsetto di pezza, ha un enorme significato simbolico. Questo gioco garantisce, con la
sua presenza materiale e con il suo significato simbolico, la continuità degli affetti.
La sottrazione degli oggetti più cari causa una perdita oggettiva, e questo vale per tutti gli adulti che
hanno perduto le loro cose a seguito del terremoto, ma è anche una grave privazione per i più
piccoli, che vivono la perdita come una vera morte. Gli oggetti non sono la cosa in sé, ma una
sedimentazione della vita e perderli di colpo è un attentato ai sentimenti di fiducia e sicurezza.
Importantissimo è stato il lavoro di recupero, dove è stato possibile, dei giochi lasciati nelle case o
rimasti sotto le macerie. Ma qualche bambino ha perduto irrimediabilmente il suo gioco e deve
essere aiutato a superare la morte dell’oggetto: per questo è necessario attivare il meccanismo del
lutto, come i tanti volontari e psicologi hanno fatto nelle zone dell’Emilia colpita dal sisma. Lo
stress post traumatico che deriva da questa grave perdita durerà almeno un anno a sarà superato solo
grazie al lavoro sul significato del gioco: il bambino, dopo aver recuperato fiducia, potrà dirottare i
sentimenti che provava per i “vecchi” giochi su quelli nuovi.
Giocando il bambino si educa e si cura, per questo il gioco è un farmaco e la sua perdita è un
veleno. Anche crescendo il bambino, che grazie all’oggetto transizionale arriva a vivere una realtà
condivisa (non più solo soggettiva), continua ad aver bisogno di giochi: non necessariamente di
giocattoli, ma di giochi. Infatti il bambino, che diventa gradualmente un essere sociale, condivide e
crea con altri le narrazioni del gioco, che sono indipendenti dall’oggetto materiale a sua
disposizione. Anzi, si può azzardare l’ipotesi che un’infanzia con troppi giochi a disposizione non
sia necessariamente stimolante per la fantasia. Prova ne sono gli ultimi studi condotti nelle maggiori
città italiane su un campione di bambini che, lasciati soli, hanno dimostrato di non giocare, di non
saper ripetere autonomamente le narrazioni del gioco. Vegetti Finzi individua nei videogiochi la
causa principale di questa preoccupante realtà: bambini che sono abituati a giochi già
preconfezionati, già scritti, con regole date dagli adulti che li progettano e li pensano come merce,
legati solo alle regole del profitto, sono bambini che non sanno più giocare. Tra il pubblico, ad
ascoltare questa lezione, ci sono molti insegnanti, molti studenti universitari e persone di mezza età.
Tutti, più o meno, bisbigliano, si stupiscono, intervengono per ricordare i giochi della loro infanzia,
quando gli scatoloni erano automobili, i fustini tondi del detersivo caschi spaziali, il gatto di casa un
leone da domare e così via, in un racconto a più voci per confortaci, metterci al sicuro dalla realtà
che Vegetti Finzi sta raccontando. Ma pensando bene, non abbiamo di che stupirci: la fantasia
rimane davvero imbrigliata in giochi che incitano alla violenza, spingono a reazioni istintive,
anestetizzano la coscienza e la capacità di scelta, come nel caso di un videogioco ritirato dal
mercato che dava più punti al giocatore capace di schiacciare una mamma con il passeggino intenta
ad attraversare la strada. I bambini sono vittime inconsapevoli di realtà precostituite, bombardati
dalle immagini che colpiscono l’inconscio e il preconscio.
Questa lezione magistrale si rivela complessa: l’argomento non è solo la perdita del gioco=perdita
dell’oggetto, ma ci parla anche dell’incapacità di giocare, della sovrapposizione che l’adulto ha
fatto, sostituendosi in qualità di narratore e scrivendo i ruoli, le regole del gioco, lasciando al
bambino poca libertà in un ruolo molto “normato” di fruitore finale. I giochi che contenevano una
narrazione, come rubabandiera, strega-comanda-color, nascondino, abituavano il bambino a
immaginare contesti, a rispettare regole e a darsi da solo delle regole condivise, per partecipare al
gioco degli altri, al “facciamo finta che…”. Molto triste, ma ben presente a tutti, l’immagine di un
bambino chiuso in casa con la consolle in mano, che trascorre ore a “smanettare” da solo e
preferisce questo gioco alla compagnia di altri bambini, perché gradualmente anestetizzato nei
sentimenti.
Giocare in modo diverso avrà conseguenze sul futuro modo di essere di questa generazione, ed è
difficile prevedere esattamente in quali termini. Difficile dire che adulti saranno i bambini di oggi,
se potranno risvegliarsi dall’anestesia dell’amicizia, della solidarietà, dell’immedesimazione: la
scuola deve cercare di contrastare questa mercificazione del gioco, deve fare da mediatore con
genitori non più solo iper-protettivi, ma iper-controllanti. Un compito davvero difficile per gli
insegnanti, che sono chiamati ad attivare ogni strategia possibile per recuperare la fantasia,
l’autonomia, la narrazione. Il giocattolo è un elemento simbolico, il più forte elemento simbolico
che aiuta il bambino a crescere, che lo prepara a vivere, attraverso cui acquisisce conoscenze
mediate del mondo e esperienze dirette del mondo, ma questa funzione viene meno se il giocattolo
è inteso come merce e se il mondo si può guardare solo attraverso la finestra. Perché quella che sta
crescendo è una generazione sempre sotto il controllo dell’adulto, che del mondo intorno può fare
poca esperienza, essendo impedita a mettersi alla prova, a salire su un albero, sempre protetta dal
pericolo. La prima generazione senza ginocchia sbucciate.