Mura di Bisanzio Una linea di demarcazione attraversa l`opera di
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Mura di Bisanzio Una linea di demarcazione attraversa l`opera di
Mura di Bisanzio Nei giorni 19-20 marzo 2015, si è tenuto all’Università di Istanbul (Dipartimento di Lingua e Letteratura Italiana) un convegno di studi dal titolo “Proposte per il nostro millennio: La letteratura italiana tra postmodernismo e globalizzazione”. In attesa della pubblicazione futura degli Atti (annunciata per i prossimi mesi), anticipo una traccia scritta della relazione che ho tenuto nella capitale turca (Strategia combinatoria e pratiche di riscrittura nel lavoro recente di Michele Mari). L’occasione mi è cara per ringraziare la prof.ssa Esin G ren, generosa tessitrice – con i suoi eccellenti collaboratori – di questa bella iniziativa. Una linea di demarcazione attraversa l’opera di Michele Mari, essa interseca il passaggio fra i due secoli e coincide con la pubblicazione di un romanzo di strenua, impavida ambizione, Tutto il ferro della torre Eiffel (2002): immaginifico affresco sulla Parigi degli Anni Trenta, dominato dalla libera ricreazione romanzesca di figure eminenti della cultura e della storia drammatica del Novecento (raccolte intorno a una partita a scacchi che Walter Benjamin prepara contro Auerbach). A partire da quel libro, Mari è venuto esplorando e radicalizzando le ragioni costitutive della propria innata vocazione “manierista”: innestando, sul tronco di una scrittura colta e difficile, modi di libera reinvenzione fantastica di fatti ed episodi della storia recente (quella pubblica e quella personale-privata). Un’attitudine postmodernista che in lui affonda le radici nell’antico problema aristotelico del verosimile. E che è alla base di due successivi suoi romanzi – Verderame (2007), Rosso Floyd (2010) – parti seconda e terza di un ideale trittico narrativo fondato sulla sostanziale commutabilità fra “verità documentale” e “finzione”, nel segno ossimorico di una catalogazione insieme minuziosa e allucinatoria dei dati della memoria. In una nota apposta in calce a Rosso Floyd, lo stesso Mari ne ha offerto una rivendicazione esplicita, riannodando questa condizione di indifferenziata e continua reversibilità fra il sonno e la veglia (fra la notte e il giorno) alla grammatica del sogno, nella quale – per così dire – “tutti i dettagli sono veri ed ogni insieme è falso”. A voler prendere le cose da lontano, noi sappiamo bene che il problema è molto antico. Poiché basterebbe tornare a quel famoso passo del Teeteto di Platone, nel quale Socrate getta il suo interlocutore nella disperazione interrogandolo sulla prova da esibire a chi «ci venisse a domandare se dormiamo e se sia sogno tutto quello che stiamo pensando, oppure se siamo svegli e proprio da svegli ragioniamo tra noi». Questo dubbio ontologico sotteso alla realtà è l’elemento psicologico alla base della vocazione manierista di Mari: la vita come un sogno d’ombre, o il sogno come “allucinata illusione di essere vivi”. La condizione che nel Novecento italiano più di tutti ha documentato uno scrittore come Moravia: ovvero il senso desolato – per citare un passaggio celebre de La Noia – di vivere in un mondo fabbricato da un dio assente con «materiali rimediati» (materiali usurati, posticci). Anche Moravia, del resto, sotto la pelle della propria vocazione realista, fu un grande ‘manierista’ del Novecento: uno scrittore nel quale ogni pagina fiorisce sulla citazione e sul riuso. In Mari, questo gioco di continua riscrittura dei classici antichi e moderni implica una prospettiva dove “postmodernismo” e “manierismo” – azzerando ogni diacronia – vengono tendenzialmente a coincidere. La prova più recente e macroscopica è rappresentata, senza dubbio, da un romanzo del 2014 (Roderick Duddle): una specie di mostruoso calco o rifacimento, modellato su una linea di romanzo di formazione che in Inghilterra corre – nell’arco di un secolo – dal Tom Jones al David Copperfield di Dickens. Sono i modi classici di ogni ‘parodia’, intendendo per ‘parodia’ quell’operazione stilistica – di natura non comica, ma “ironica” – che i formalisti russi ci hanno insegnato a considerare come un fatto centrale nel diagramma del romanzo moderno. Ed una parodia – noi sappiamo – ha sempre bisogno di essere esplicita: importante, per il lettore “arguto”, è poter cogliere il gioco dialettico con il testo parodiato, che viene a funzionare come una specie di palinsesto. In Verderame – narrazione autobiografica di un ragazzino adolescente che si mette a indagare sulla storia della propria famiglia – il rapporto esplicito è con lo Stevenson di Kidnapped (Il fanciullo rapito). In una relazione ironicamente soggetta a un progressivo capovolgimento: perché aiutando un vecchio contadino a ricostruire la propria identità smarrita (è un uomo che sta perdendo la memoria), il ragazzino Michele tredicenne comincia a sperimentare il senso angoscioso di una «dissociazione» consustanziale alla propria psiche. Quel ragazzino «stevensoniano» – così Michele Mari designa nel libro se stesso – riscrive in forma variata Kidnapped: mescolandolo per un verso con L’isola del tesoro (il giardino della casa di villeggiatura è un regno arcano da indagare) ma poi insieme, contemporaneamente, con Lo strano caso di Dr. Jekyll e Mr. Hyde (il racconto viene dichiarando progressivamente, pagina dopo pagina, la propria natura di elucubrazione fantastica: tutto ciò che nel libro si trova narrato – compreso il dialogo con il vecchio – si scopre a poco a poco un parto della fantasia del ragazzino). La conseguenza è che l’ambiguità, la doppiezza, la diffrazione – fra un originale e una copia, un palinsesto e un ricalco, un ‘vero’ e un ‘falso’ – investe in pieno la sfera dell’identità personale. Nella modernità, diceva Rimbaud, ‘Io è sempre un altro’. Nietzsche ratifica questa tesi offrendone insieme un ampliamento: la mette in relazione con quel fenomeno che una delle sue Considerazioni inattuali chiama «saturazione di storia». La condanna inevitabile dei moderni è questo senso di una consunzione delle forme: il senso di vivere e scrivere quando ormai tutto il dicibile è stato esplorato, e l’accumularsi delle esperienze – anche dentro il territorio della cultura – non sembra lasciare spazio che alla replica del già sperimentato. Forse è per questo che Lyotard diceva: «non si può essere moderni senza essere stati prima postmoderni». Nel protagonista tredicenne di Verderame convivono – gli dice il vecchio – «un vivo e un morto». Il «morto» – più o meno – è la letteratura: la menzogna che si mangia il vivo, affinché i morti seppelliscano i vivi; la letteratura come menzogna teorizzata dallo scrittore italiano del Novecento che Mari ha venerato e amato come nessun altro: Giorgio Manganelli, che mi sento autorizzato qui a citare, anche perché ci aiuta a rispondere a tre fondamentali interrogativi sul conto di Mari. La prima domanda è la seguente: in che rapporto stanno, in Mari, il professore (ordinario di letteratura italiana nell’università di Milano) e lo scrittore (che nella quarta di copertina dei propri romanzi, ogni volta, tace questo rimando al proprio status di accademico)? In un certo senso, ha l’aria di trattarsi – per dirla con Manganelli – di una classica forma di “pseudonimia al quadrato”. Pseudonimia al quadrato era stato il titolo di un racconto di Manganelli (pubblicato nel 1979): un racconto che riflette, in forma metanarrativa, sul senso di estraneità che sottilmente appartiene ad ogni scrittore di fronte alla pubblicazione di un proprio libro, di fronte al carattere istintivamente minaccioso di quella cosa che il Cavalier Marino chiamava nel Seicento «l’atto irrevocabile della stampa». Nel racconto di Manganelli questo espediente (un poco tributario verso una linea-Borges) permette «di usare uno pseudonimo assolutamente identico al nome autentico [in modo tale per cui] il nome resta falso e sviante, oltre che protettivo, sebbene sia autentico e inoppugnabile». In Mari ne consegue la possibilità di travasare, dentro la propria esperienza creativa, la vicenda sua di studioso della grande cultura erudita del Settecento (per esempio, c’è un lavoro universitario consacrato a Girolamo Tiraboschi): l’attenzione per la verità documentale del dato di partenza assomiglia a un modo di mettere in caricatura – autoparodicamente – il proprio lavoro di accademico: lo strumento retorico di questa conversione è sempre il catalogo, che i romanzi di Mari dilatano fino a proporzioni esorbitanti: fino a trasformare ogni scrupolo elencatorio in uno stralunato “assolo”, o in uno stravagante “pezzo di bravura”. (Non per nulla, l’altro polo di investigazione dello studioso è in fondo il Cinquecento degli scrittori Manieristi e irregolari a cui si richiama un suo regesto per la collana del Poligrafico diretta da Borsellino e Pedullà). Il nostro secondo quesito ha a che fare con un paradosso. In Mari (come in Manganelli) una poetica della claustrofobia partorisce una letteratura divertente. La conseguenza è che i lettori aspettano questi libri, col loro autore intrecciano un rapporto che tende sottilmente verso il feticismo. Il divertimento è il risultato paradossale di questa letteratura radicalmente cerebralistica, per intero sorvegliata dall’occhio vigile e freddo dell’intelligenza. Sembrerebbe una contraddizione in termini. Ma un libro chiama a raccolta i propri lettori, in qualche modo se li inventa e se li fabbrica: la complicità elettiva affonda, probabilmente, in quell’«abito mentale impressionabile» che De Sanctis pose una volta alla radice della vocazione istintivamente “notturna” della poesia del Tasso (figura del conte Giacomo, del quale Io venìa pien d’angoscia a rimirarti ha raccontato un frammento notturno di hilarotragedia a Recanati: c’è una linea Tasso-Leopardi dentro il corso delle nostre lettere, tutto si tiene). “Romanzi ai quali è stata tolta l’aria” disse una volta Manganelli con un intervistatore parlando di Centuria (allora, in quel 1979, libro fresco di stampa): “ … lei vuole una mia definizione del romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo quaranta righe”. Così anche il Mari del dittico 2007-2010 lavora per sottrazione attraverso la dilatazione di una minima cellula di partenza. In Verderame il giardino di casa, e in Rosso Floyd la storia di una sparizione (la misteriosa sparizione di Syd Barrett dalla scena del mondo). Il pretesto alla base della trama è esile, ma funziona come un magnete: calamitando i dati della “cultura”. La complicità a cui fa appello chiama a raccolta un lettore tendenzialmente bibliomane, magari “ossessivo” come l’autore e la maggior parte dei suoi personaggi, un lettore capace di seguire Mari nel suo gioco di continuo spostamento dei piani prospettici e linguistici. In Rosso Floyd, la ricostruzione della lunga vicenda di un gruppo rock, diventa un «incartamento» a mille voci. Un romanzo-inchiesta su un assente – Syd Barrett, inghiottito dalla propria pazzia – e sulla natura orripilante del suo continuare ad esserci, da assente, nei trent’anni successivi alla propria sparizione dalla scena del mondo: inverando l’ambigua profezia di Roland Barthes sulla «morte dell’autore». «Gli antichi – scrive Mari in Rosso Floyd – ci hanno raccontato tante storie entusiasmanti sull’invasamento: ma non ci hanno detto cosa rimane dell’invasato dopo che il dio è ripartito…». A dirla brutalmente, con la formula che Garboli usò una volta per Moravia –, forse rimane «uno schizofrenico che funziona perfettamente»: cioè uno scrittore capace di ricamare su un pretesto una storia che dilata se stessa corteggiando il vuoto, sospesa fra esattezza documentale e delirio, inseguendo e moltiplicando l’imitazione degli stili e delle voci (in un’insistenza di falsetti debitrice alla lezione di Gadda: parodia di una parodia, al quadrato). Una narrazione autoriflessa rende conto ad ogni passo delle proprie strategie: a cominciare, per esempio da quel segnale macroscopico costituito dal proprio titolo. Verderame e Rosso Floyd sono “emblemi” (emblemata): giocati su un dato singolarmente coloristico. Come cinquecenteschi “emblemi”, si caricano delle più diverse valenze, secondo la pregnanza programmatica che di solito attiene ai titoli non dei romanzi ma dei libri di poesia. «Ma può simboleggiare davvero qualcosa un’immagine che può simboleggiare cose tanto diverse?». Come spesso in Manganelli, queste strane indagini intorno ad un pretesto avvolto nella nebbia si trovano a «moltiplicare le ipotesi ad oltranza, in una vertigine dove ogni somma [è] una sottrazione». La riduzione “ironica” della realtà a una specie di pura entità testuale senza stabile contenuto veritativo produce quel tipico “piacere negativo” che i teorici dell’estetica settecentesca (da Kant a Edmund Burke) vedono come il risultato del “sublime”. Così il settecentista Mari ritrova il “gotico” producendo la paura dal quadro tutto bianco. Il dato ineffabile del mistero, del raccapriccio, della paura legata a una specie di horror vacui si connette a una sospensione del reale (e del tempo misurabile con gli orologi) per effetto dello stupore: in un registro angoscioso e sibillino dove l’epifania di mondi ulteriori è fonte contemporaneamente di desiderio e di spavento. Nel postmoderno, dietro una parvenza di gioco, uno scrittore come Mari ritrova il problema eterno dell’inconscio: il «capitolo censurato, segnato – per dirla con Lacan – da un vuoto». La strana indecifrabile verità della menzogna. d.v.