IL LAVORO NELLA SOCIETA` URBANA E LA FAMIGLIA

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IL LAVORO NELLA SOCIETA` URBANA E LA FAMIGLIA
IL LAVORO NELLA SOCIETA’ URBANA E LA FAMIGLIA:
uno sguardo al femminile
Alessandra Smerilli *
A partire dalla rivoluzione industriale si era nei secoli affermato un modello, almeno nelle
società occidentali, secondo cui nella famiglia l’uomo era considerato il bread winner e la
donna house keeper. L’uomo lavorava fuori casa, la donna dentro. Il secolo scorso ha visto una
progressiva presa di coscienza, da parte delle donne, della loro dignità e dell’esigenza di
godere di pari opportunità rispetto all’uomo, anche in campo lavorativo: tutto ciò ha portato
una maggiore libertà di scelta delle donne, ma anche una lenta trasformazione nel modo di
condurre e gestire la famiglia.
Oggi assistiamo al fenomeno per cui, in particolare nelle città e nelle metropoli, una famiglia
con figli per vivere dignitosamente ha bisogno che entrambi i coniugi lavorino. Molti dei dati a
nostra disposizione mostrano come per la maggior parte delle famiglie, soprattutto quelle che
vivono nelle grandi aree metropolitane, sia impossibile vivere con un solo reddito. Il lavoro
per la donna non è più, dunque, solo una scelta, ma diventa necessità. Un primo problema che
emerge è che, mentre i coniugi si dividono più o meno equamente nel lavoro fuori casa, quello
dentro casa, e in particolare il lavoro di cura, continua a pesare in larga misura sulle spalle
della donna (in Turchia la donna dentro casa lavora 4 volte di più rispetto all’uomo, mentre in
Giappone addirittura 6 volte di più i).
Un secondo problema è che, a parità di altre condizioni permane una differenza salariale tra
uomini e donne, e che i luoghi di lavoro sono ancora troppo pensati e gestiti secondo
stereotipi maschili ii: tutto ciò rende molto difficile per troppe donne realizzare i propri talenti
anche sul luogo di lavoro.
Nel prosieguo del discorso cercheremo di andare alle radici di questi problemi, guardandoli
dal punto di vista della scienza economica, e ci chiederemo se oggi il femminile ha qualcosa di
nuovo da dire e da donare al mondo del lavoro.
Le radici culturali del problema
La scienza economica moderna, e quindi anche quella aziendale, è nata dall’espulsione della
gratuità e delle relazioni personali dalle faccende economiche.
*
PFSE-Auxilium e University of East Anglia
1
Nella sua Theory of moral sentiments, Smith ci ricorda che: «La gratuità
della giustizia per l’esis
. La socie
, sebbene non nel modo
migliore, senza gratuità; ma la prevalenza dell’ingiustizia la distrugge senz’altro» iii. E su
questa base Smith afferma che: “
della considerazio
affetto” iv.
... sulla base
, senza alcuna forma di amore reciproco o di
Una tesi impor
rappresentata dall’idea ch
, ovvero che il
in essa si nasconde un’insidia,
zionare e sv
. Il dono e l’amicizia sono
faccende importanti nella sfera privata, si dice, ma nel mercato e nella vita civile possiam
di feri
stanno dicendo v
, come la crescente
gioia.
, proprio per la loro carica di dolore e
delle nostre economie opulente ci
luogo vivibile, n
Nessuna idea come questa di Smith si pone ancora oggi al cuore della scienza economica. Le
conseguenze che derivano da questo modo di vedere la realtà sono molte. Ne citiamo solo
alcune.
La prima è che l’economia ne è venuta fuori come la scienza triste, che si occupa solo di
massimizzazione di profitti e ottimizzazione delle scelte di consumo. Ma se, invece, l’economia
è anche il luogo delle passioni, degli ideali, dell’interesse per la felicità pubblica, allora anche
oggi, ci può essere qualcosa di nuovo da proporre al modo di fare economia e di vivere nelle
organizzazioni.
La seconda è che la gratuità è stata e tuttora viene considerata come un di più, come un
dessert alla fine di un lauto pranzo: se c’è, tutti sono contenti; se non c’è il pranzo comunque
l’abbiamo consumato.
Il mondo dell’economia, quindi, da una parte ha espulso la dimensione del prendersi cura,
delle relazioni, della vulnerabilità e della fragilità, affidandole alla vita privata, e in particolare
al mondo femminile, rendendo di fatto spesso impossibile che molte donne possano coltivare
anche una loro vocazione professionale; dall’altra, espellendo la vulnerabilità e la cura ha reso
la vita lavorativa un luogo spesso invivibile, perché la vulnerabilità e la fragilità sono
condizione dell’umano, di ogni uomo e di ogni donna.
C’è poi una terza considerazione. Se guardiamo alle relazioni umane non strumentali o di
gratuità dalla logica economica standard, restando cioè all’interno del modo convenzionale di
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concepire il mercato, siamo costretti a classificare comportamenti ispirati a gratuità come
deviazioni e anomalie, intromissioni indebite nella sfera del mercato. Una conseguenza di tale
visione è associare necessariamente la socialità genuina al sacrificio. L’assunto cruciale di un
tale approccio “standard” alla socialità è che esista una proporzionalità diretta tra la genuinità
delle motivazioni e la disponibilità a sacrificare l’interesse personale. vi Un esempio a riguardo
è quello relativo all’analisi economica del mercato del lavoro in settori caratterizzati da
“vocazione”, come gli operatori della sanità (medici, infermieri ecc.), i manager del non-profit
o gli accademici. La tesi comune all’interno di questa letteratura è ben sintetizzata dallo
slogan “getting more by paying less” (ottenere di più pagando di meno). L’ipotesi di fondo è
che esista un sottoinsieme di lavoratori con “vocazione” (equivalente a motivazioni
intrinseche), che assicurano una migliore performance nel lavoro. Non essendo la “qualità
vocazionale” direttamente osservabile (per la presenza di asimmetrie informative), la
disponibilità a sostituire la ricompensa materiale con la ricompensa intrinseca “segnala”
all’organizzazione i candidati “buoni”, quelli con vocazione (che assicurano una migliore
performance). Così, un più basso salario (rispetto a quello di mercato), unito a benefici
specifici (apprezzabili relativamente di più da chi ha la “vocazione”), riesce a separare (a far
auto-selezionare) i lavoratori motivati.
Ma, possiamo chiederci, siamo sicuri che la disponibilità al sacrificio sia proprio il test
corretto per misurare la motivazione intrinseca o la vocazione? Interessante è la critica di
Julie Nelson vii, la quale sostiene che l’idea che ogni forma genuina di reciprocità richieda
sacrificio è stata una copertura per lo sfruttamento delle donne all’interno della famiglia, e che
oggi viene tradotta nella tesi dei salari inferiori nelle occupazioni che richiedono motivazione
intrinseca.
Sono convinta che una corretta valutazione dell’importanza della gratuità e delle motivazioni
intrinseche permetterebbe di uscire da questa impasse, e al tempo stesso, di far diventare la
gratuità una parola dell’economia. Tale corretta valutazione, poi, farebbe guardare a tutte le
attività di cura, e quindi anche a quelle di cura della famiglia, come fonti di valore e di valore
aggiunto, tanto che è stato dimostrato come, inserendo le attività delle casalinghe, che non
passano per il mercato, nel calcolo del PIL, in molte nazioni lo si farebbe quasi raddoppiare. E
poi, riconoscere il valore del lavoro che non passa per il mercato avrebbe anche altre
conseguenze: “in primo luogo, se le attività di lavoro in famiglia hanno un valore riconosciuto,
si potrebbe meglio confrontarle con le attività di lavoro fuori della famiglia per valutare i
costi-opportunità… in secondo luogo, se le attività di famiglia venissero considerate un utile
lavoro, vi si applicherebbero le necessarie attenzioni per renderle efficienti ed efficaci.
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Scomparirebbero così molte delle inutili ‘manie’ ereditate da un passato che vedeva la donna
dedicata alla casa”. viii
In altre parole, una certa visione culturale ha associato l’attività di cura alla donna, e
qualunque forma di remunerazione di tali attività viene percepita come una trasformazione
dell’amore in merce: credo che la sfida dell’economia di oggi e di domani sarà quella di
immaginare che la gratuità può andare assieme al mercato, un giusto salario assieme
all’eccedenza del dono, e immaginare che una infermiera o una badante possano e debbano
essere adeguatamente pagate e, al tempo stesso, considerate partners essenziali di un unico
progetto educativo. L’amicizia può andare assieme al contratto, la gratuità con il mercato,
l’eros con l’agape: la donna, anche per la sua vocazione alla sintesi e all’uno, può aiutare oggi
la società in cerca di una nuova sintesi e di una nuova unità.
C’è uno specifico femminile di cui il mondo del lavoro ha bisogno?
I recenti sviluppi dell’economia sperimentale hanno permesso di studiare, sotto forma di
esperimenti, se ci sono differenze significative nei comportamenti economici tra uomini e
donne. Da questi studi emerge innanzitutto come in media le donne siano più avverse al
rischio rispetto agli uomini: caratteristica che a volte frena lo sviluppo economico (non c’è
imprenditorialità senza rischio), ma altre volte, e in particolare in periodi di crisi, si rivela
cruciale per evitare fallimenti. Uno studio condotto dalla Business school dell’università di
Leeds ha mostrato che la presenza di almeno una donna con poteri decisionali nel consiglio di
amministrazione riduce del 20% la probabilità che l’azienda sia messa in liquidazione. Una
ricerca francese segnala una correlazione tra la presenza di un maggior numero di donne a
livelli dirigenziali e una migliore tenuta delle azioni in fasi di recessione.
In secondo luogo dagli esperimenti emerge che le donne sono in media più abili degli uomini a
cooperare in gruppo per risolvere situazioni difficili.
Infine, di fronte a forme di incentivazione legate alla perfomance, mentre gli uomini
migliorano le loro prestazioni, le donne hanno maggiori difficoltà a entrare in competizione e
a volte addirittura peggiorano le loro prestazioni quando esse sono legate al raggiungimento
di un obiettivo individuale.
Questi risultati ci dicono, da una parte l’esistenza di alcune potenzialità femminili che, se
valorizzate, aiuterebbero a migliorare i luoghi di lavoro; dall’altra che alcuni sistemi di
management e strutture organizzative andrebbero migliorati per tener conto dello specifico
femminile e valorizzarlo, anche in termini di efficienza.
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Infine, possiamo delineare alcune caratteristiche, tipicamente femminili, che posso essere di
beneficio nel mondo economico:
-
il rapporto come bene: alla donna è stata da sempre riconosciuta la caratteristica di
vivere i rapporti umani non solo strumentalmente, ma come fine in sé. E oggi, in un
momento in cui la domanda di beni relazionali (che da qualche anno sono riconosciuti
come beni economici) è in crescita, l’offerta di tali beni, in famiglia, nei luoghi di
-
lavoro, nel mercato, è profondamente legata anche alla donna, e al suo “genio”;
la creatività e l’intuizione: Un’altra dimensione squisitamente femminile è quella della
creatività e dell’intuizione, dimensione fortemente schiacciata e sottovalutata in un
mondo economico in cui hanno valore la logica deduttiva e la razionalità (in particolare
quella strumentale), che si è affermata, soprattutto a partire dall’Illuminismo, come
una forma di conoscenza vera o “scientifica”. La grande tradizione cristiana e
umanistica, invece, come ricorda lo psicologo cognitivo Gigerenzer, aveva riconosciuto
un valore pari, se non superiore, alla intuizione (che veniva attribuita agli angeli in
modo perfetto): “Nel pensiero occidentale l'intuizione è partita come la forma più certa
di conoscenza ed è finita nel disprezzo, derisa come guida capricciosa e inattendibile.
Una volta si credeva che gli angeli e gli esseri spirituali avessero intuizioni di chiarezza
impeccabile, superiori al raziocinio umano, e secondo i filosofi era l'intuizione a farci
"vedere" le verità autoevidenti della matematica e della morale; oggi l'intuizione è
sempre più legata alle nostre viscere anzichè al nostro cervello, dalla certezza degli
-
angeli è scesa al semplice sentimento.”
la flessibilità, che si manifesta attraverso una gestione creativa delle difficoltà.
Le ricerche in questo campo stanno diventando abbondanti e suggeriscono non solo che la
chiave dello sviluppo è in una maggiore presenza delle donne in posti strategici delle
imprese, ma anche che è arrivato il momento di imparare ad accogliere lo specifico della
donna, complementare e in reciprocità con tutte le potenzialità maschili.
Per concludere
A questo punto potrebbe sorgere un lecito dubbio: suggerimenti di questo genere non
sarebbero catastrofici per l’unità familiare, per il tasso di natalità?
Il primo mito da sfatare, dati alla mano, è l’idea secondo la quale la crescita dell’occupazione
femminile andrebbe a detrimento della natalità: L’Economist nel 2006 ha fatto notare che “il
massimo declino della natalità è stato riscontrato in numerosi paesi caratterizzati da bassa
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occupazione femminile”. Gli stessi risultati li osserviamo laddove sono presenti politiche
attive di sostegno alle famiglie, e la donna può esprimersi con creatività sul lavoro, oltre che in
famiglia: se la donna non è costretta a scegliere tra lavoro e famiglia tutti ne guadagnano, in
primis i figli, che sono più curati, senza sacrificare le donne.
Anche l’Unione Europea in uno dei suoi rapporti si è espressa in questi termini: “i paesi che
promuovono politiche di sostegno alle famiglie come le pari opportunità di impiego, i congedi
parentali per entrambi i genitori e l’equità salariale, generalmente hanno tassi di natalità più
alti e donne occupate”.
Dalle crisi non si esce con misure già consolidate e soluzioni istituzionali. La storia ci insegna
che dalle grandi crisi epocali l’umanità è sempre uscita grazie a qualcuno che ha saputo
guardare oltre, ha saputo vedere il nuovo: forse il nuovo di oggi consiste nello scoprire le
potenzialità e le opportunità in gran parte inesplorate delle donne, per rendere il lavoro
alleato della famiglia.
Dati OCSE 2011, cf. www.oecd.org/dataoecd/1/50/43199641.pdf.
Il sociologo Simmel, infatti, osserva che la posizione di potere che gli uomini ricoprono dentro le società finisce
col generalizzare gli standard maschili, quasi fossero dell’intera umanità. Cf. Coser, L., “Masters of sociological
thought: Ideas in historical and social context”, Harcourt brace Jovanovich, New York 1977.
iii Smith, A., “The Theory of Moral Sentiments”, Liberty Fund, Indianapolis, 1984[1759], pag. 86
iv Ivi, pag. 87.
v Cf. Bruni, L. L’economia, la felicità e gli altri, Cittanuova, Roma, 2004; e Bartolini, S., Manifesto per la felicità,
Donzelli, Roma, 2010.
vi Su questo cfr. HANDY Femida - KATZ Eliakim, The wage differential between nonprofit institutions and
i
ii
corporations: getting more by paying less?, in Journal of Comparative Economics, 26 (1998), 246-261; HEYES
Anthony, The economics of vocation or 'why is a badly paid nurse a good nurse?, in Journal of Health Economics,
24(2005)3, 561-569.
vii
NELSON Julie “Interpersonal relations and economics: comments from a feminist perspective”, in GUI –SUGDEN,
viii
NEGRI ZAMAGNI Vera, Donne e lavoro: un manifesto per donne imprenditrici, in TARCHI - COLASANTO Il genio, 150.
Economics.
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