“Scrivere con la sinistra è disegnare”. Su grafie e

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“Scrivere con la sinistra è disegnare”. Su grafie e
Andrea Valle
“Scrivere con la sinistra è disegnare”. Su grafie e notazioni.
1. Scrittura/grafia, replica/impronta, allografia/autografia
Un insieme finito di elementi e un insieme di operazioni di ordinamento sugli elementi stessi: questi i
due tratti fondamentali per una “combinatoria”. A partire da una simile definizione, si potrebbe allora
agevolmente osservare come scrittura occidentale e combinatoria intrattengano un rapporto
strettissimo, ma insieme contradditorio.
Da un lato, infatti, la scrittura alfabetica, a partire dai testi fondativi del pensiero occidentale, è
l’esempio massimale e prototipico del combinatorio. Così, nel Fedro platonico il dio Theut è
l’inventore, oltre che della scrittura, anche dei giochi con i dadi (cfr. Cardona 1981: 132), “ovvero di
tutti gli ambiti in cui le notae servono ad indicare dei logoi” (Ferraris 1997: 477). Ancora,
nell’aristotelico De Partibus Animalium il corpo è un testo pensato secondo il modello scrittorio
alfabetico. Poiché è un assemblaggio di stoicheia, deve essere disassemblato nella pratica settoria
come se si procedesse alla scomposizione di un testo scritto nei suoi grammata: il coltello opera come
lo stilo e viceversa, secondo la nota formulazione di Vegetti (Vegetti 1996: 75-76).
Senonché, la scrittura è anche grafia, bella o brutta che sia. La grafia è nel suo senso originario
incisione e graffio: scrivere è “grattare”. La radice indo-europea accumuna graphein a to carve.
Secondo questa declinazione, la scrittura è in primo luogo incisione: l’accezione privilegia allora,
rispetto alla combinazione degli stoicheia che ne risulta, l’operazione, il lavoro, cioè, di una gestualità
iscrittoria continua da parte di un soggetto operatore. Se l’ortografia è la giusta combinazione delle
lettere, totalmente estranea al gesto dello scrivere, la calligrafia è invece il regno del superfluo
alfabetico, scrittura che è pura sovrasegmentalità gestuale e continua rispetto alla “giusta”
combinatoria ortografica dei caratteri.
C’è dunque una duplicità fondamentale nella scrittura, una tensione che si stabilice tra la natura
combinatoria degli stoicheia e il gesto iscrittore. Una simile duplicità può essere utilmente
generalizzata in termini semiotici attraverso l’idea echiana di modo di produzione.
Fig. 1 Tipologia dei modi di produzione segnica (Eco 1975: 288)
La teoria dei modi di produzione segnica intende descrivere “il modo in cui le espressioni sono
fisicamente prodotte e non il modo in cui sono correlate al contenuto” (Eco 1975: 285). Senza
addentrarsi nella discussione (cfr. Valle 2007), si può notare come i modi di produzione individuati da
Eco comprendano, tra gli altri, una coppia di peculiare interesse rispetto a quanto qui in discussione:
l’impronta e la replica di unità combinatorie (si veda Fig. 1). Schematicamente:
- nell’impronta (si pensi a quella di un animale nel terreno), “l’espressione è pre-formata” e “il
contenuto è la classe dei possibili impressori”: “la forma dell’espressione è motivata dalla forma del
supposto contenuto” (Eco 1975: 298);
- le “repliche di unità combinatorie” sono, invece, “unità espressive prodotte [...], formando un
continuum del tutto estraneo a quello dei possibili referenti e arbitrariamente correlate a una o più
unità di contenuto” (Eco 1975: 297). Il caso più evidente è proprio quello dell’articolazione fonologica
della lingua naturale, del tutto autonoma rispetto ai contenuti semantici.
Tornando alla scrittura, è agevole osservare come il testo alfabetico sia costruito per combinazione di
unità replicate, le “lettere”. Nella replica, l’arbitrarietà delle unità combinatorie si traduce in un oblio
del supporto: così, la scrittura immette direttamente nella lingua. È un modello di replicabilità per
eccellenza, in cui in effetti l’espressione è irrilevante, evacuata nei termini di un mero accesso alla
lingua come suo contenuto. E l’espressione linguistica
-a sua volta- è un sistema di repliche
fonologiche che, attraverso un secondo oblio, immette al contenuto semantico. Pure, questa doppia
rimozione non va sempre a buon fine. Quando l’espressione scrittoria attiva un eccesso non
riconducibile alla replica, la scrittura lascia intravedere l’impronta: è lo stereotipo testuale della
“ricetta del medico” o della “grafia a zampe di gallina”, in cui il foglio ridiventa spesso e il tratto
pesante. Riemerge allora una tensione nella scrittura tra notazione alfabetica e iscrizione gestuale,
appunto tra replica e impronta.
Sempre a partire dal modello scritturale, la stessa distinzione può essere riarticolata nei termini
dell’opposizione tra “autografia” e “allografia”, secondo quanto proposto da Nelson Goodman. La
prospettiva goodmaniana è di particolare interesse perché riconnette esplicitamente il problema della
relazione impronta/replica a quello dello statuto dell’opera d’arte. In sostanza, esistono arti a statuto
allografico e arti a statuto autografico. Ciò dipende dal loro regime notazionale: ovvero dalla presenza
o meno di una notazione capace di rappresentare le opere attraverso una esplicita articolazione dei loro
contenuti. “Notazione” indica per Goodman una selezione e pertinentizzazione, attraverso una pratica
sociale, di proprietà costitutive rispetto a proprietà contingenti. Una conseguenza di rilievo è che, se
l’identità di un oggetto autografico dipende dalla sua storia, quella di uno allografico in qualche modo
ne trascende (Goodman 1976: 106-09). L’esempio tipico di arte allografica è allora per Goodman la
musica classica occidentale, perché delega allo spartito la garanzia dell’identità delle realizzazioni nel
loro numero indefinito. La musica è allografica perché non prevede un originale: la sua identità è
allografica perché è definita nei termini di “identità di compitazione” (Goodman 1976: 104ss).
L’allografia è la proprietà di un’arte descrivibile attraverso una notazione discreta. In effetti, la
notazione musicale è tipicamente una scrittura alfabetica. Al contrario, la pittura è autografica: non è
scrittura, ma grafia, gesto iscrittore denso, non articolato esplicitamente. Ma la situazione non è
sempre così chiara, ed il rapporto complesso tra l’impronta e la replica può essere indagato utilmente
attraverso l’opera di un artista “combinatorio” che pure non ha mai utilizzato un calcolatore: Alighiero
Boetti (cfr. Sauzeau 2006), artista torinese vicino al movimento dell’Arte povera, ma difficilmente
riconducibile a categorie critiche stabilizzate.
3. Strategia e memoria: Alternando da 1 a 100 e viceversa
Alternando da 1 a 100 e viceversa è il titolo di una lunga serie di opere basate su di un unico
procedimento costruttivo:
“Il punto di partenza è una scacchiera di 100 quadrati, a loro volta divisi ciascuno in 100 quadratini, che sono
teatro di una progressione numerica. Nella prima casella un quadratino è lasciato bianco e novantanove sono
anneriti; nella seconda i quadratini neri sono due e i bianchi novantotto, e così via fino ad arrivare ai
novantanove bianchi e uno nero del penultimo quadrato e ai cento neri dell’ultimo (AB: 154).”
Questo algoritmo di produzione può essere realizzato su supporto variabile (disegno, ricamo, kilim,
piastrelle) e da un soggetto qualunque nel ruolo di autore delegato. Di qui un vasto insieme di progetti
collettivi. Indipendente dal supporto (del tutto variabile), indipendente dall’autore (se non per
costrizione merceologica del mercato dell’arte), l’opera, senza esaurirsi nel suo comportamento, pure
lo esibisce nella sua semplicità, poiché la ricostruibilità dell’algoritmo di produzione a partire
dall’insieme delle occorrenze è trasparente. Nel portare a termine la sequenza dei 100 stati, l’unico
vincolo da rispettare è la quantità di bianchi e neri che cambia incrementalmente di stato in stato.
Fig. 2. Alternando da 1 a 100 e viceversa. Ricamo su lino, 1977 (con descrizione dell’algoritmo);
tecnica mista su carta, 1983.
Ma la caratterizzazione formale è quantomeno incompleta, perché l’interesse di Alternando da 1 a 100
e viceversa sta in ciò che essa non dice: giacché la formalizzazione delle istruzioni boettiane non
fornisce alcuna indicazione in merito alla configurazione planare che la quantità di bianchi e neri
asssumerà. L’ultima realizzazione boettiana di Alternando da 1 a 100 e viceversa è particolarmente
spettacolare in questo senso, poiché ne ingrandisce macroscopicamente i tratti salienti: 50 diverse
occorrenze di Alternando sono state realizzate da 29 istituti d’arte francesi e da 21 collaboratori di
Boetti, e sono servite come disegni preparatori per la tessitura, avvenuta in Pakistan, di 50 kilim, poi
esposti al Magasin di Grenoble. Il catalogo della mostra (cfr. BO), che riporta tutte le occorrenze dei
disegni preparatori, costituisce dunque un corpus straordinario per le descrizione delle strategie di
configurazione, su cui qui non ci si può soffermare (ma cfr. Valle 2004, Valle et al. 2007).
Alternando da 1 a 100 e viceversa esemplifica molti tratti propri di una attività artistica combinatoria:
una costituzione allografica che richiede la definizione di un alfabeto (di due caratteri, bianco/nero) e
di regole di composizione, in parte definite dall’artista, in parte dai soggetti coinvolti. L’opera poi si
manifesta al suo meglio in un corpus di realizzazioni. La trasformazione ateleologica di Alternando
produce -in quanto sistema- un pattern di colonne alternate che sfumano in un grigio digitale centrale.
Ma il senso del sistema sta proprio nella molteplicità delle sue istanziazioni. È il senso proprio della
vertigine combinatoria.
Fig. 3. Ecole Régionale des Beaux-Arts et des Arts Appliqués de Besançon. Cartone e
realizzazione su kilim
Tuttavia, la realizzazione della dama è soltanto una parte del lavoro di preparazione dell’opera, che
nella serie discussa si conclude con la tessitura dei kilim. La complessità del dispositivo allestito da
Boetti, che eccede iperbolicamente il meccanismo combinatorio, è ben descritta da Salerno:
“Un disegno che parte da Roma, va in Francia e circola in una trentina di città, torna a Roma, parte per
Peshawar, Pakistan e infine si concentra a Grenoble, percorre la stessa distanza che divide Oslo dallo stretto di
Bering in linea retta lungo il 60° parallelo, cioè tutta l’Asia” (Salerno, cit. in BO: s.p.)
Salerno nota altresì come il ruolo di Boetti diventi, in maniera molto peculiare, equivalente a quello di
un regista cinematografico. La tessitura dei kilim introduce poi una doppia cornice: la più esterna
prevede elementi geometrici variati, la più interna righe di vario colore. La doppia cornice non è
prevista dal meccanismo combinatorio: significativamente opposta attraverso il colore all’interno
bitonale, essa chiude autograficamente, nella idiosincraticità di ogni esemplare prodotto, l’allografia
definita dal sistema di regole per la sua produzione. Tutte le realizzazioni di Alternando prevedono un
ecceso autografico: almeno una cornice colorata, altre volte un disegno a matita (significativamente: il
disegno di una mano che disegna, cfr. Fig. 2). Questa tensione è foriera di ulteriori suggestioni teoriche
intorno ai modi di produzione segnica.
4. Combinazioni fortunose: Lavori postali
A ben vedere, la serie di opere boettiane che fornisco un’illustrazione quasi didattica di un’attività
combinatoria è quella riassunta sotto l’etichetta di “lavori postali”, il cui primo esempio data 1970
(Sauzeau 2006: 89). Nei lavori postali, a partire da un esempio mallarmeano, un insieme di lettere
viene affrancato da Boetti permutando in vario modo l’ordine dei francobolli: una volta spedite e
giunte a destinazione, le buste vengono quindi raccolte e combinate planarmente in un quadro. In
alcuni casi, il biglietto contenuto nella busta è a sua volta un complesso gioco combinatorio, che per di
più si stratifica tra diversi livelli di sfondo/figura: a loro volta i biglietti interni possono essere
combinati planarmente e montati in quadro (è il caso di Postali 80), in correlazione/opposizione con il
quadro contenente le buste.
Fig. 4. Postali 80, buste affrancate e timbrate.
Uno dei lavori più impressionanti in proposito è Senza numero, del 1972, che è composto da 720 buste
affrancate e timbrate. Il titolo stesso ne specifica la vocazione combinatoria: se fosse Senza parole,
sottolineerebbe inutilmente il problema del contenuto della busta, ma è Senza numero, invece, ad
indicare proprio l’assunto combinatorio. Ciò che importa infatti non è la presenza del numero, ma
l’idea dell’insieme finito di elemento discreti.
Fig. 5. Senza numero, buste affrancate e timbrate.
Qui l’insieme è dato da sei francobolli da 5, 10, 25, 40, 50, 70 lire: l’insieme delle permutazioni (6
fattoriale) produce appunto 720 possibilità. Nella sua purezza, il lavoro non prevede biglietto interno
alle buste. Dalla ridisposizione planare consegue un quadro, o meglio una sorta di arazzo, che esplora
la testuralità combinatoria del pattern cromatico risultante dalle sequenze di francobolli. Ma i lavori
postali non si esauriscono nell’imposizione allografica di un ordine al mondo attraverso la
pertinentizzazione di materiali umili, secondo una componente che pure fa parte dell’estetica boettiana
(la sua matrice poveristica). A tal fine, sarebbe stato sufficiente, infatti, preparare le buste tramite
affrancatura per poi disporle sul piano. L’oggetto combinatorio sarebbe risultato, in questo caso,
veramente allografico. Gli elementi (i francobolli) sono infatti oggetti prodotti in serie, la cui identità è
per di più garantita dal controllo dello stato. Ma anche il supporto (la busta) è oggetto di produzione di
massa: altro oggetto che risulta da una riproducibilità tecnica. Questa merceologia dei componenti
garantirebbe ai lavori postali una vocazione allografica superiore, ad esempio, alle realizzazioni di
Alternando, in cui la manualità artigianale della tessitura contrasta con la purezza digitale del lavoro.
Invece le buste devono essere spedite e raccolte di ritorno. Questa processualità contrasta
singolarmente con la costruzione fuori-dal-tempo (per dirla alla Xenakis) della procedura. Nelle buste,
infatti, il tempo si deposita attraverso un complesso e sottile sistema di impronte. In primo luogo, c’è
una patina (cfr. Fontanille 2002) che dipende da un sistema accidentale di contatti, umani e non, che
accompagnano il percorso postale: impronte di mani e tracce di oggetti che segnano la superficie della
busta, così che l’usura risultante diventa cronometria di una storia postale. In alcuni lavori postali una
tensione specifica è poi introdotta dalla scrittura autografa (il termine non è accessorio) che specifica il
destinatario (ad esempio, Lavoro postale, 1972). Ma in Senza numero la messa i quadro elimina la
scrittura: le buste sono montate in modo tale da coprire (salvo nell’ultima riga) il destinatario. In più,
le indicazioni visibili sono battute a macchina (con una notazione ben diversa dalla scrittura, e
decisamente allografica). Attraverso la sovrapposizione, la superficie usurata della busta è quasi
completamente occultata, e rimangono visibili soltanto i francobolli. Pure, nel suo minimilismo, Senza
numero mantiene però un rapporto con la storia che ancora una volta eccede l’allografia combinatoria:
è la timbratura a perturbare l’ordine asettico dei francobolli. Nel gioco abissale boettiano, la timbratura
stessa porta al suo interno la tensione tra replica e impronta. Da un lato, essa include un numero
progressivo che ordina in progressione lineare la serie: a questo ordinamento puramente combinatorio,
alla storicità interna al processo, e dunque paradossalmente fuori del tempo, si aggiunge la presenza
della data quale elemento del timbro, che riporta immediatamente ad una storia esterna,
all’evenemenzialità di un gesto istanziatore, all’istantaneità di un atto decisore: “la storia non si
sbarazzerà delle date”, come ricordavano Deleuze e Guattari (1987: 116). Ma non basta: perché il
timbro è evidentemente pura replica di un tipo (di nuovo, la cui identità è garantita dallo stato), ma la
sua istanziazione lo converte in autografia dell’impressore, di cui restano due tracce: da un lato
l’irregolarità nell’inchiostratura e nella pressione, dall’altro la disposizione, di estrema variabilità nello
spazio, dell’annullamento.
Fig. 6. Senza numero, 1970: dettaglio.
È la timbratura allora che ribalta autograficamente lo statuto allografico di Senza numero. Il gioco
combinatorio perde la notazionalità e riguadagna una storicità specifica:
“È possibile riconoscere all’originale dell’opera autografica un surplus di senso, ossia quel portato semantico
legato al suo essere traccia sensibile della sua istanziazione, connettendo così il presente della fruizione con il
passato della produzione” (Basso 2002: 211)
5. Algoritmi e implementazioni: Cimento dell’armonia e dell’invenzione
Un’altra opera apparentemente trasparente si impone allo studio per l’eleganza con cui mette in scena
lo stesso insieme di problemi. Il Cimento dell’armonia e dell’invenzione è composto da un insieme di
fogli (nelle due versioni, rispettivamente 11 e 25) di carta bianca a quadretti, ciascuno di 70 x 50 cm. Il
foglio non ha nulla di particolare: è un normalissimo foglio quadrettato. L’unico elemento
supplementare consiste in un ricalco a matita di tutta la griglia prodotta dalla quadrettatura.
Fig. 7. Cimento dell’armonia e dell’invenzione, matita su carta quadrettata, 1969.
Nella quadrettura ricalcata a matita non c’è niente che venga “rappresentato”. Quanto avviene è una
vera e propria sospensione del regime rappresentazionale: il Cimento è cioè un insieme di disegni che
non rappresentano. Il testo, strutturalmente, prevede due elementi: la quadrettatura e l’insieme dei
tracciati a matita. Dunque, l’oggetto-testo mette in scena (“rappresenta”, in un certo senso) un insieme
di tracce, che permettono di inferire null’altro che l’attività di tracciamento. A tutta evidenza, il
tracciare segni sulla superficie è una produzione di impronte. Nell’impronta il segno è indizio
dell’attività corporea (in senso lato) dell’impressore. Tipicamente, è il segnale di una causalità
meccanica (l’impronta sta per la causa che l’ha prodotta esibendone dei tratti): in quanto “classe dei
possibili impressori”, “la causa [. . .] è puro contenuto” (Eco 1975: 289). In questo senso, il disegno a
matita di Boetti sembra assumere statuto di impronta: rimanda alla causalità corporea del suo
produttore. La pratica prende la forma esplicita di un “fare somatico”. Ora, è interessante osservare
come un primo intepretante del testo sia fornito dall’unico elemento paratestuale, il titolo. L’opera,
nella sua esibita piattezza, è un “cimento”: un gioco in cui è cioè prevista una sfida. In particolare nel
cimento, il soggetto del cimento sfida se stesso: il testo boettiano restituisce allora il lavoro del
soggetto che vi si cimenta. Lo studio del cimento a partire dai risultati a cui conduce -attraverso una
visione ravvicinata dell’opera- dimostra come tutta la quadrettatura sia ricalcata senza interruzioni (o
quasi) seguendo piuttosto strettamente, per ogni foglio, una certa regola, o un insieme di regole.
Fig. 8. Cimento dell’armonia e dell’invenzione. Particolari e relativi diagrammi delle regole.
La sfida in cui cimentarsi è dunque quella di ricalcare tutto il foglio a matita seguendo la quadrettatura
in ottemperanza ad un algoritmo. Si noti come, non essendo possibili sovrapposizioni di tracciati,
l’operazione sia combinatoria: la dimensione del foglio predetermina il numero delle unità di
tracciamento (larghezza per altezza, espresse in quadretti). Le unità di tracciamento sono infatti di due
tipi: i tratti unitari orizzontali e verticali. In sostanza, ogni opera allestisce un ordinamento possibile
nell’insieme dei tratti. Ogni foglio segue una regola diversa (o un insieme di regole diverse). Ne
conseguirebbe allora una natura allografica dell’opera, secondo il modello combinatorio di
Alternando. In questo senso, si ha produzione di repliche in un alfabeto di due caratteri, disposti però
non in sequenza ma planarmente. Analogamente a quanto avviene in Alternando, si potrebbe allora
osservare come la forma della soggettività possa essere pensata nei termini del comportamento
previsto dall’algoritmo di ricoprimento. In realtà, rispetto al comportamento codificato nel’algoritmo
ricostruibile da ognuno dei fogli, c’è un elemento in più. In effetti, se l’esecuzione dell’algoritmo fosse
perfetta non ci sarebbero più segni dell’esecuzione stessa: il risultato sarebbe una griglia assolutamente
omogenea e perfettamente sovrapposta alla quadrettatura. Ad esempio, in uno dei fogli la regola è
“spostati a destra di un quadretto, poi spostati in basso di un quadretto, e via di nuovo”. Un plotter
algoritmico si comporterebbe come rappresentato in Figura 9.
Fig. 9. Un plotter algoritmico.
Una simile implementazione, come in una esecuzione musicale perfetta, non lascia però residui.
Questo stesso lavoro di replica è in opera in Alternando, dove l’esecutore di fatto non disegna, ma
semplicemente sceglie una combinazione di 0 e 1 tra tutte quelle possibili. Se il soggetto coincidesse
con il plotter algoritmico e il lavoro fosse di replica, il Cimento sarebbe una tipica opera concettuale:
di fronte ad una griglia uniforme, sarebbe infatti necessario un testo supplementare rispetto ai fogli
incorniciati per informare il fruitore del modo in cui la griglia è stata ottenuta. Il set di istruzioni
dovrebbe essere esplicitato proprio perché di esso non rimarrebbero tracce nel testo disegnato. Ma il
lavoro di replica del soggetto della produzione, codificato in un insieme di algoritmi, è invece visibile
proprio perché diventa impronta del soggetto dell’enunciazione ricostruibile testualmente: l’allografia
diventa autografia. Straordinario campionario del fare grafico (di difficilissima riproduzione
fotografica), il Cimento non si riduce alla strategia di definizione dell’algoritmo di ricoprimento, ma
ne mette in scena l’esecuzione imprecisa: mette in scena cioè la “variabilità deontica” tra il dover fare
(“seguire una regola”) e il poter fare (“lasciare un’impronta”). Questa variabilità è esattamente quanto
viene descritto dall’espressione “cimento”: “verifica, prova, rischio, prova difficile e
pericolosa” (Zingarelli). La difficoltà della prova è iscritta nel testo per il tramite delle sbavature che
l’impronta autografica imprime rispetto alla quadrettatura allografica. Il titolo dell’opera è allora assai
preciso poiché descrive la pratica in atto, lasciando al fruitore la verifica dei testi risultanti.
6. Lavori in parallelo: Mettere al mondo il mondo
Un altro nucleo importante di opere boettiane non è classificato né per la centralità del tema del
numero né per l’utilizzo della tecnica del ricalco, ma in funzione dello strumento utilizzato: la biro. In
Mettere al mondo il mondo (il cui titolo è evidentemente un programma d’azione) un esecutore,
utilizzando esclusivamente una penna bic blu, deve riempire completamente due semplici fogli di
carta, eccezion fatta per alcune forme predisposte dall’artista che rappresentano lettere ed apostrofi. Ne
risulta uno schema che, decifrato, rivela il titolo.
Fig. 10. Mettere al mondo il mondo, 1973-79, inchiostro blu su carta montata su lino.
In Alternando, come in tutti i lavori numerici di Boetti, il lavoro grafico non è pertinente, nel senso più
strettamente fonologico del termine: si tratta infatti di realizzare un lavoro di replica che costituisce
una singola istanza rispetto a tutte quelle possibili che il sistema offre. La “chiusura” dell’opera è un
processo ancora più a valle, e si manifesta nelle competenze richieste alla lavorazione del supporto
prescelto (disegno, ricamo, tessitura, e così via). Nel Cimento, e negli altri lavori boettiani a ricalco, è
invece proprio la conversione della replica in impronta ad essere condizione di possibilità per la
rilevazione del fare strategico. Ne consegue una messa in serie dei due lavori di produzione. Nei lavori
a biro, come in Senza numero, il lavoro di replica e quello di impronta operano invece in parallelo. In
particolare, in Mettere al mondo il mondo il sistema combinatorio è esattamente quello dell’alfabeto,
sebbene sia mascherato crittograficamente attraverso la complessificazione degli apostrofi che
selezionano i caratteri. In più, la combinazione (la frase che ne risulta) è predeterminata da Boetti. Ciò
che è richiesto all’esecutore delegato non è in fondo neppure un lavoro di replica, quanto
semplicemente il mero allestimento del segnale. L’algoritmo di produzione (il tratteggio a biro) è
talmente elementare che la competenza richiesta all’esecutore è praticamente nulla: si tratta di un
grado “minimo” di delega in cui, come nota l’artista, “non c’è niente di creativo” (Boetti, cit. in AB:
207). Osserva riassuntivamente Boetti a proposito della serie delle biro:
“Non ho mai rifiutato una biro perché non c’è possibilità di sbagliare, c’è solo una campitura da fare e più
tempo vi si impiega più il lavoro è bello” (QT: 202).
Chiusi gli spazi alla variazione calligrafica, il regime è allora radicalmente allografico.
Senonché, resta invece un pertugio da cui passa il surplus del gesto iscrittore: introdotto dal
ricoprimento, esso impone a tutti gli effetti una pertinenza del “testurale”. Il “mondo” risultante è una
combinazione di caratteri: la costruzione crittografica, che obbliga il fruitore-lettore ad una lenta e
progressiva decodifica, sottolinea appunto la natura sequenziale del segnale alfabetico, laddove la
modalità tipica della lettura, per così dire “in tempo reale”, sarebbe invece invece gestaltica. Al mondo
si affianca il “mettere al mondo”: all’allografia del messaggio alfabetico, l’autografia del soggetto che
lo scrive. La biro è lo stilo che neutralizza la mediazione artistica permettendo l’emergenza di una
gestualità pura (purificata, cioè, dalla storicità delle tecniche e dei materiali artistici). Non il pennello,
ma la biro: non la pittura, ma la scrittura. Quale figura migliore della scrittura, che non questo
strumento scrittorio massificato -povero nel senso di puro- che riapre testuralmente all’incisione?
Fig. 11. Mettere al mondo il mondo, dettaglio.
Questo lavoro intermodale (dove il termine va inteso nel senso di una teoria dei modi di produzione),
in parallelo tra replica e impronta, si articola per il tramite della temporalità. Nelle biro, la temporalità
è infatti declinata doppiamente: come lunghissimo momento della produzione a tratteggio e come
processualità decrittoria della fruizione. “I lavori con le biro sono dei concentrati di tempo” (Boetti,
AB: 212): iterazione ad libitum del tratteggio e lettura non della parola-geroglifico, ma del suo
progressivo costituirsi alfabetico.
7. Scrivere/disegnare
Questa tensione primaria tra l’impronta e la replica può essere allora descritta icasticamente attraverso
una frase spesso ripetuta da Boetti, come titolo di alcune sue opere e come autocitazione inclusa in
altre (ad esempio, proprio nelle cornici di Alternando): “Scrivere con la sinistra è disegnare”. Dove lo
scrivere e il disegnare rappresentano allora due lavori di produzione in parallelo, replica e impronta.
L’opera di Boetti ha il suo centro nel problema dell’estrazione di un ordine (dato) dal mondo: per
Boetti “il numero è l’unica entità reale che esiste nell’universo” (cit. in QT: 205). Ma questo assunto
va inteso, più che nei termini di una numerologia neoplatonica, come una forma di pitagorismo, per
cui, come nota Zellini, propriamente “il numero è una forma che si dispiega nel divenire”, ovvero
(nelle parole del pitagorico Stobeo) “una progressione di quantità che prende inizio dall’uno ed una
regressione che vi termina” (Zellini 1999: 22). È chiara la rilevanza per Alternando. Ma vale più in
generale. Questo sentimento del numero come progressione, ordinamento che governa l’ordine fuoridel-tempo della combinatoria ed insieme l’ordine in-tempo dell’evento, richiede di tenere assieme
l’allografia della replica e l’autografia dell’impronta.
Fig. 12. Scrivere con la sinistra è disegnare, 1979, penna e timbro perforante su carta.
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