Chiesa cremonese in campo contro la povertà sanitaria,Mons. Perego
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Chiesa cremonese in campo contro la povertà sanitaria,Mons. Perego
Al via il pellegrinaggio diocesano in Terra Santa Oltre 220 cremonesi guidati dal vescovo Napolioni sono partiti all’alba di lunedì 6 marzo per la Terra Santa: una parte dall’aeroporto di Malpensa, un’altra da quello di Linate. Diverse le rotte aeree ma unica la meta: lo scalo di Tel Aviv, principale centro economico dello stato di Israele. La numerosa comitiva, divisa in cinque sottogruppi, giungerà in serata a Nazareth dove sarà accolta nel Rimonim Hamaayan Hotel, non lontano dalla Basilica dell’Annunciazione. Don Roberto Rota, incaricato dell’ufficio di pastorale del turismo e del tempo libero, coadiuvato da Gianluigi Gremizzi, direttore dell’agenzia viaggi diocesana Profilotours, si occuperà di tutti gli aspetti organizzativi. Mons. Alberto Franzini, don Luigi Mantia, don Marco D’Agostino, don Paolo Carraro e lo stesso don Rota saranno le guide bibliche dei cinque gruppi che si riuniranno in occasione delle celebrazioni liturgiche presiedute dal vescovo Antonio e per gli altri momenti comuni previsti, come l’incontro con l’amministratore apostolico di Gerusalemme, mons. Pizzaballa. Nella foto uno scorcio di Nazareth, prima tappa del pellegrinaggio Tante le tappe significative di questo ritorno alle origini: «Innanzitutto – spiega don Rota – Nazaret, dove, nella basilica dell’Annunciazione, celebreremo la Messa di apertura del pellegrinaggio, poi il Tabor, luogo della trasfigurazione, Cana di Galilea, il lago di Genezaret con Cafarnao, le Beatitudini e la località di Tabga, luoghi di tanti ricordi evangelici; dalla Galilea, lungo la valle del Giordano, ci si sposterà a Gerico, a Betlemme per raggiungere infine Gerusalemme, dove rimarremo alcuni giorni per le celebrazioni e le visite ai tanti luoghi santi. Non mancherà una visita anche allo Yad Vashem, il museo dell’olocausto del popolo ebraico». Tra gli appuntamenti più attesi anche l’incontro con la locale comunità cristiana che sempre di più si sta assottigliando: «I numeri alti di questo pellegrinaggio – precisa don Rota – non permettono un rapporto “feriale” con qualche comunità parrocchiale, come è avvenuto in passato, in qualche occasione. Tuttavia abbiamo voluto un incontro con l’Amministratore apostolico di Gerusalemme che è mons. Pierbattista Pizzaballa, bergamasco, ex custode di Terra Santa, legato alla nostra diocesi a motivo dei genitori, originari di Brignano. Sarà l’occasione per capire un po’ più a fondo, dalla sua esperienza pluriennale, le caratteristiche e le problematicità di questa terra ed esprimere la nostra vicinanza e solidarietà». Su eventuali rischi per i pellegrini don Rota è molto tranquillo: «Il percorso ufficiale del pellegrinaggio non tocca “zone calde” per cui escludo che ci possano essere problemi di sicurezza. I controlli in Israele sono, da sempre, molto approfonditi, sia negli aeroporti, sia nei luoghi di massima affluenza. L’invito che mi sento di fare è quello di attenersi scrupolosamente alle indicazioni che di volta in volta verranno date, al fine di evitare inconvenienti. Ma sono certo che, come sempre, tutto andrà per il meglio». Su questo primo grande pellegrinaggio diocesano guidato dal vescovo Antonio don Rota si aspetta molto: «Andare alla sorgente, là dove tutto è iniziato, ha valore se c’è un ritorno nella vita cristiana ordinaria, ritornando ad ascoltare con assiduità la Parola di Dio, a meditarla e a celebrarla nella liturgia. Mi aspetto che lo stile di fraternità tra Vescovo, sacerdoti e fedeli possa continuare anche una volta ritornati a casa, soprattutto là dove le comunità sembrano vivere la rigidità formale dei rapporti. E non nascondo nemmeno la speranza che questo pellegrinaggio possa far assaporare a sacerdoti e fedeli la bellezza e l’importanza di questo strumento ordinario di pastorale». Il pellegrinaggio potrà essere seguito passo dopo passo sul nostro portale: ogni giorno saranno pubblicati articoli di cronaca, ampie photogallery, audio degli interventi del Vescovo e alcuni video. Costanti aggiornamenti anche sulla pagina facebook di Diocesi di Cremona. PROGRAMMA COMPLETO Lunedì 6 marzo: ITALIA/TEL AVIV/NAZARETH Al mattino partenza dall’Italia con voli di linea e arrivo a Tel Aviv nel pomeriggio. Proseguimento in pullman GT riservato per Nazareth; all’arrivo sistemazione in albergo: cena e pernottamento. Martedì 7 marzo: NAZARETH/Escursione Monte Tabor Trattamento di pensione completa in hotel. Al mattino alle ore 9 celebrazione della S. Messa di inizio pellegrinaggio nella Basilica dell’Annunciazione; a seguire visita della Basilica, della Chiesa di S. Giuseppe, del museo francescano, della Sinagoga e della Chiesa di S. Gabriele. Nel pomeriggio salita in taxi al Monte Trasfigurazione. Tabor e visita del Santuario della Mercoledì 8 marzo: NAZARETH/Escursione Monte delle Beatitudini – Lago di Tiberiade Mezza pensione in hotel. Al mattino partenza per il Lago di Tiberiade. Sosta al Monte delle Beatitudini per la celebrazione della S. Messa alle ore 9. Al termine proseguimento per Cafarnao ricordata come la città di Gesù e visita degli scavi dell’antica città con la Sinagoga e la Casa di Pietro. Proseguimento con la visita ai santuari che ricordano il Primato di Pietro e la Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Attraversata del Lago in battello e pranzo nel Kibbutz di En Gev. Nel pomeriggio sosta a Cana di Galilea per la visita alla chiesa del Miracolo. Giovedì 9 marzo: NAZARETH/GERICO/BETLEMME Dopo la prima colazione partenza per la Valle del Giordano e sosta a Qasr el Yahud, memoriale del Battesimo di Gesù. Arrivo a Gerico, visita e pranzo. Continuazione per Betlemme e visita alla Basilica della Natività e al Campo dei pastori. Celebrazione della S. Messa alle ore 16 nella Basilica di Santa Caterina. In serata trasferimento in hotel per la cena ed il pernottamento. Venerdì 10 marzo: BETLEMME/Escursione a Gerusalemme Mezza pensione in hotel. Partenza per Gerusalemme. Alle ore 9 celebrazione della S. Messa nella Basilica dell’Agonia; a seguire salita al Monte degli Ulivi e visita dell’edicola dell’Ascensione, della Chiesa del Pater Noster, della Chiesa del Dominus Flevit, terminando con la Tomba delle Vergine. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio alle ore 15 incontro con Mons. Pizzaballa; a seguire percorso della Via Dolorosa nella città vecchia partendo dal Convento della Flagellazione ed arrivando alla Basilica del Santo Sepolcro. Visita e tempo a disposizione. Sabato 11 marzo: BETLEMME/Escursione nel Deserto di Giuda e a Gerusalemme Mezza pensione in hotel. In mattinata escursione nel Deserto di Giuda: visita di Qumran, dove in alcune grotte vennero rinvenuti i più antichi manoscritti della Bibbia. Rientrando a Gerusalemme sosta al Wadi Qelt. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio celebrazione della Santa Messa alle ore 15 nella Chiesa di San Pietro in Gallicantu; a seguire visita del Sion Cristiano con il Cenacolo, la Chiesa della Dormitio Mariae e la Valle del Cedron. Domenica 12 marzo: BETLEMME/Escursione a Gerusalemme Mezza pensione in hotel. Partenza per Gerusalemme e visita della Spianata del Tempio e al Muro occidentale della preghiera. Visita del nuovo museo francescano e della chiesa di S. Anna dove alle ore 12 sarà celebrata la S. Messa. Nel pomeriggio visita dello Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto e continuazione per Ein Karem con la visita ai santuari che ricordano la Nascita di S. Giovanni e la Visitazione di Maria ad Elisabetta. Lunedì 13 marzo: BETLEMME/GERUSALEMME/TEL AVIV/ITALIA Dopo la prima colazione eventuale tempo a disposizione sino al trasferimento in aeroporto a Tel Aviv per il rientro in Italia. Il Vescovo ad Arzago: «Fede non muro, ma ponte» Mattinata arzaghese quella di domenica 5 marzo per il vescovo Antonio che alle 10.30, nella chiesa parrocchiale di San Lorenzo Martire, ha celebrato la Messa nella prima domenica di Quaresima. Prima dell’Eucaristia però mons. Napolioni, raccogliendo l’invito del parroco don Enrico Strinasacchi, ha incontrato gli operatori pastorali. Nel salone “San Lorenzo” del complesso oratoriale Don Bosco c’erano, fra gli altri, catechisti, baristi, gruppo Caritas, gruppo missionario, consorelle, animatori e ministranti: tutto quanto, insomma, è espressione della vita di questa parrocchia della Bassa Bergamasca. Con i volontari il Vescovo ha toccato diverse tematiche, a cominciare dalla sua introduzione sul senso dell’essere operatore pastorale oggi, per proseguire con le domande rivoltegli dai presenti che hanno offerto lo spunto per diverse riflessioni, prima fra tutte quella sulla chiamata alla vita cristiana. Per mons. Napolioni “Non sono i numeri che contano. Conta l’entusiasmo della fede, il medesimo che io – citando se stesso – ho trovato all’età di 18-19 anni negli occhi di alcuni laici e che mi hanno fatto riscoprire Gesù come amico e capire, qualche anno dopo, che lo avrei servito come sacerdote”. Cambiano i tempi, cambia anche la Chiess: un’operatrice presente fra il pubblico è intervenuta per ringraziare “Vostra Eccellenza” di questa sua presenza ad Arzago. “Le forme della vita cristiana – ha detto il vescovo collegandosi a quel Vostra Eccellenza pronunciato qualche secondo prima – cambiano nel tempo e non tutto quello che viene dal passato va assolutamente conservato. Alcune cose però sono intoccabili, come il Vangelo vissuto, la testimonianza, il mistero pasquale, il culto e l’eucaristia”. Non poteva mancare una domanda sul fenomeno-immigrazione ed il possibile pericolo da esso derivante di una rinuncia forzata alla nostra fede e alle nostre tradizioni. Il Vescovo ha dato una risposta articolata, premettendo che nessuno nega l’importanza della problematica-migranti in un mondo che sta osservando cambiamenti epocali. «Non dobbiamo – ha spiegato – vivere la fede come un muro, ma come un ponte. Certo, guai a chi mi tocca il crocifisso, ma non ho paura e non dobbiamo averla. Al tempo stesso, non dobbiamo dividerci ma unirci, annunciando, testimoniando e dialogando. Il cristiano deve essere capace di testimoniare e di dialogare. Il problema è che a volte è un po’ fiacco, paralizzato dalla paura”. Infine, si è parlato dei terremotati del Centro Italia. Il sisma ha colpito duramente anche Camerino, la città di cui è originario mons. Napolioni che ha voluto dare un ultimo messaggio di speranza. «Il terremoto – ha affermato – è un fenomeno che tocca la nostra fede e la nostra vita in un modo così repentino. È una di quelle esperienze che danno una botta in negativo oppure in positivo ma quando c’è il miracolo dello scambio reciproco, allora anche da lì possiamo vedere delle piccole resurrezioni, così come piccole resurrezioni avvengono nella vita di tutti i giorni”. f.c. cof Il nuovo libro di don Bignami:«Un'arca società liquida» per la In una società liquida che sembra rinunciare ai tradizionali punti di riferimento l’etica può essere considerata un’arca di Noè costruita attorno alla fraternità, al bene comune e alla cura. La bussola per la navigazione è offerta da papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, dove si ricorda che l’unità «prevale sul conflitto», che il tutto «è superiore alla parte», che «il tempo è superiore allo spazio» e che la realtà «è più importante dell’idea». È questa la strada che don Bruno Bignami, sacerdote cremonese, teologo morale e presidente della Fondazione Mazzolari, percorre nel suo ultimo libro «Un’arca per la società liquida» edito dai Dehoniani. Bignami offre due piste di riflessione: una fa riferimento ai fondamenti etici della vita sociale e l’altra analizza alcuni temi su cui si misura il cambiamento d’epoca in atto. La convivenza, sostiene l’autore, va rifondata a partire da alcuni snodi concreti: un nuovo rapporto tra la coscienza morale e le leggi, una fraternità vissuta a partire dai beni comuni e dalla condivisione, una pace «giusta» e, da ultimo, stili di vita capaci di incarnarsi concretamente nella realtà. Il volume sarà presentato a Cremona venerdì 21 aprile, alle ore 18, presso la sala della Consulta del Comune di Cremona. Tra gli ospiti il sindaco Galimberti, l’onorevole Enrico Letta, decano della Scuola di Affari internazionali presso Science Po Paris e Franco Vaccari presidente di Rondine Cittadella della Pace (AR). Moderatore sarà Michele Bellini studente di Affari internazionali presso Science Po Paris. Di «Un’arca per la società liquida» proponiamo la recensione di Stefano Zamboni apparsa sul sito www.settimananews.it. Fin nel titolo e nel sottotitolo del nuovo testo di Bruno Bignami, sacerdote della diocesi di Cremona e docente di teologia morale, già autore di pregevoli testi su don Mazzolari e sull’etica ecologica, troviamo le tre coordinate fondamentali entro cui si snoda questa sua riflessione teologica. La prima, e la più nota, è la metafora della società liquida introdotta da Zygmunt Bauman. Con essa ci si intende riferire all’estenuazione dei legami sociali, al venir meno delle tradizionali sorgenti di valori, alla privatizzazione delle scelte etiche… Ma proprio un tale contesto richiede un’ottica interpretativa adeguata: ecco allora la seconda coordinata, il cambiamento di epoca. Come ha affermato papa Francesco nel discorso in occasione del convegno ecclesiale di Firenze del 2015, oggi non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca. Il tempo attuale è affascinante come ogni cambiamento d’epoca, perché in esso si aprono possibilità inesplorate: così è stato, per esempio, dopo la caduta dell’impero romano o dopo la scoperta del continente americano. La teologia morale, in particolare, ha da essere attenta ai segni dei tempi, per scrutare quanto lo Spirito di Dio chiede all’oggi ecclesiale e civile. La terza immagine è quella dell’«arca»: come l’arca di Noè è stata data per la salvezza nel mezzo del diluvio, così oggi ci è chiesto di costruire una nuova arca che possa permettere una navigazione sicura in mezzo alla liquidità dell’epoca presente. Bignami offre con questo testo un contributo in ordine alla costruzione di quest’arca e lo fa rileggendo in modo intelligente alcuni capitoli dell’etica sociale: dalla fraternità al bene comune, dall’etica della cura al giudizio sulle leggi civili, dalla pace allo scandalo della fame e alla cultura della sobrietà. Il tutto avendo come fonte ispirativa l’Evangelii gaudium, in modo particolare i celebri quattro principi che si trovano in essa: l’unità prevale sul conflitto, il tutto è superiore alla parte, il tempo è superiore allo spazio, la realtà è più importante dell’idea. Il diluvio etico non è la parola definitiva, l’ottimismo deve pur sempre prevalere: «l’etica è la bussola, capace di prendere per mano e accompagnare gli uomini di buona volontà al servizio della casa comune. Siamo capaci di bene, di rialzarci: la corruzione, la violenza e la morte non sono l’ultima parola sulla storia» (p. 184). Successo a Bozzolo «Nostro Fratello Giuda» per Chiesa arcipretale di San Pietro a Bozzolo gremita nella serata di venerdì 3 marzo con la presentazione di don Gianni Macalli dell’applaudita anteprima della nuova produzione teatrale del maestro Giuseppe Pasotti. L’uomo di teatro di Concesio, il centro bresciano che ha dato i natali a Paolo VI, accompagnato dall’interprete Maddalena Ettori e da Morris e il suo corpo di ballo con scenografie e audio di Mario Bresciana, ha messo in scena “Nostro fratello Giuda”. Opera tratta dall’omelia di don Primo Mazzolari del Giovedì Santo, 3 aprile 1958, registrata personalmente dal segretario della Fondazione Mazzolari Giancarlo Ghidorsi, allora quindicenne, su magnetofono Geloso. «I quattro ballerini vestiti di nero rappresentano i guerrieri plagiati da Satana che vagano nel buio alla ricerca della luce di Cristo – ha spiegato Pasotti -. Poi c’è una lunga fune distesa per terra che funge sia da rete sia da cappio, alla quale sono legati dodici chiodi che rappresentano gli apostoli traditori del Cristo. Il chiodo più grosso è Giuda, impossessato da Satana». «Voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di Cristo; c’è un albero, dove il traditore si è impiccato – ha drammatizzato Pasotti -. Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare». Il lavoro segue l’opera prima “Confiteor”, tratta dal libro di don Mazzolari “La più bella avventura” (1934) riferita alla parabola del “Figliol Prodigo” in scena alla Cattedrale di Cremona nella serata di sabato 1 aprile, e segna un itinerario di maturazione artistica del gruppo bresciano che porterà l’opera in tutta Italia. L’accoglienza del numeroso pubblico bozzolese, che ha assistito all’evento in luogo della consueta Via Crucis del venerdì, é stata molto calorosa. Tra i circa 200 presenti molto interessati alla suggestiva estrapolazione tanto da chiedere un bis dell’ultima coreografia, le suore di Maria Bambina, il sindaco facente funzioni Cinzia Nolli e l’on. Giuseppe Torchio. Giulia Orlandi Eutanasia e vero senso del vivere e del morire In queste ore mentre riprende il dibattito sulla legge circa le Dichiarazioni anticipate sul fine vita si riaccende anche la richiesta pressante di una legge sull’eutanasia. La morte in Svizzera di Dj Fabo ha rimesso in moto la polemica politica. Ma su questo terreno non vorrei addentrarmi. Vorrei che si parlasse con rispetto di Fabiano (preferisco il suo vero nome, non quello d’arte). Lui era pieno di sogni, di successi, di affetti. Un tragico incidente lo fa piombare nell’oscurità, fisica e spirituale: “La mia vita non ha più senso”. Il rispetto si fa preghiera per il mistero della vita e della morte. Per tutti coloro che si trovano nella periferia esistenziale del non-senso. Ma si fa anche sollecitudine a trovare nuove strade di prossimità per condividere quei brandelli di senso che abbiamo intravisto e che vanno umilmente condivisi. Non parlo di Fabiano (che non ho conosciuto personalmente), ma di Franco che pochi minuti fa è spirato all’hospice circondato dalla sua famiglia: stavamo dicendo un’Ave Maria mentre ha riaperto gli occhi e ha varcato la soglia verso quella meta per la quale solo balbettiamo nella fede. Anche se anziano e malato la sua vita era ancora piena di senso, lo è stata fino all’ultimo. La sua fede semplice e retta, coltivata fin da quando era bambino, mi aveva rassicurato in questi mesi in cui ci siamo frequentati e nei quali mi ha narrato la sua storia: come operaio in una vetreria, e poi studente privatista, fino a diventare maestro… e poi marito, padre, nonno. Nella gratuità di quei racconti ho colto la percezione del senso della vita che trabocca anche quando l’efficienza e la produttività si sono spente. Ho colto questo: la capacità di vivere le varie stagioni, modulando la ricerca di senso. Io mi domando se sarò capace, quando arriverà il mio turno di inefficienza, di disabilità… e resto pensieroso. Anch’io rischio di ammalarmi di affanni che mi portano ad identificare il senso di me con i miei successi, le mie prestazioni, le gratificazioni che vengono dal lavoro, dagli affetti, dall’esperienza che porta a godere della musica e dell’arte, della compagnia e della propria libertà. In Fabiano mi vedo nella mia incapacità di cogliere la mia identità che va oltre le prestazioni e le attività (pur così importanti per ciascuno di noi). In Franco mi rivedo capace di risignificare gli incontri, i giorni, le novità inaspettate, sia quelle che allietano come quelle che poco alla volta portano alla morte. Colgo un’eccedenza di senso del vivere e del morire che non si restringe alla logica dei consumi, del piacere, delle pur nobili attività. Sono pensieri che mi spingono a restare umile. A non voler impormi con la forza, ma che inducono tutti ad abbassare i toni, a stringerci e ad osare anche discorsi seri sul significato del vivere, dell’amare, della vita e della morte. E di ciò che c’è oltre la morte. Nessuno di noi sa come si ritroverà nel momento del fare i conti con lo scadere dei suoi giorni, con la malattia che infierisce, con la tragedia della disabilità che blocca ciò che ha colorato i propri sogni. Penso che dobbiamo guardarci (per riprendere un’immagine di papa Francesco usata per altri ambiti) da una fredda morale da scrivania che regola senza accompagnare, che giudica senza amare, che prescrive senza portare i pesi. Ma penso anche che dobbiamo vigilare sulle scorciatoie che portano ad abbandonare chi fatica a trovare senso ai suoi giorni di dolore. Quanto è rischioso pretendere di regolamentare l’accesso alla morte: quante persone vulnerabili – e potremmo essere anche noi – si troverebbero esposte, in qualche momento triste di solitudine, ad esigere in un’illusione di libertà di volere la propria morte. Di anticipare la propria morte. La pretesa di fare dei medici dei semplici esecutori di volontà (del paziente, dei parenti, dei giudici…?) a cui devono adeguarsi, spegnendo la loro scienza e coscienza, mi indispone: si rischia di trattarli come fossero dei meccanici che ricevono ordini senza cogliere la specificità che vede in essi persone che si dedicano a curare persone, in una relazione che non può scadere nel solo dare fredde prestazioni. Più che di una legge sull’eutanasia abbiamo bisogno di riabilitare percorsi che ci aiutano a confrontarci sul senso della vita. Ci sono discorsi importanti che non si fanno più ai figli; ci sono domande di senso che le si vuole restringere al privato e dunque alla solitudine. Come se la questione della gioia vera e del senso della vita anche dentro la realtà della vecchiaia (o della disabilità o della malattia) non fossero possibilità per tutti di cogliere cosa conta davvero anche nella propria vita. Non rinchiudiamoci in un mondo di illusioni e di apparenze. La questione vera è quella del Paradiso. La vecchiaia, la disabilità, la malattia non sono solo materie per i medici. Le aspettative che oggi la scienza pone non dilatano solo nuove speranze di guarigione ma anche processi difficili una volta impensabili, come gli stati vegetativi persistenti o gravissime disabilità. Rimane la questione dell’accettare la morte che viene, dell’evitare accanimenti terapeutici, delle terapie contro il dolore… Ma tutto questo non si risolve soltanto con nuove leggi e nuove normative: abbiamo estremo bisogno di autentiche relazioni personali in cui inventare nuove forme di prossimità, in cui ci facciamo carico gli uni degli altri. Comprese le rabbie. Le paure. Con rispetto. Con la compassione che intravvediamo nel Samaritano. Don Enrico Trevisi Chiesa cremonese in campo contro la povertà sanitaria La crisi economica continua a mordere in maniera così impietosa che aumentano le persone che non solo non sono più in grado di pagare affitti e bollette, ma neanche le spese sanitarie. I dati sono allarmanti, per certi versi incredibili: nel 2016 gli italiani che hanno dovuto limitare le cure o gli esami per ragioni di tipo economico sono stati 12 milioni. Che quella sanitaria sia diventata una vera e propria emergenza lo si intuisce dai dati del Banco Farmaceutico – la fondazione che si occupa di reperire i medicinali da aziende o tramite raccolte pubbliche e li dona a 1.600 enti convenzionati tra i quali la Caritas diocesana –: sempre l’anno scorso gli indigenti assistiti da questa realtà ben presente anche sul territorio cremonese sono schizzati su del 37,4%. Tra le zone d’Italia più colpite da questa emergenza c’è il Nord Ovest dove l’aumento dei poveri sanitari ha segnato uno sconfortante +90%. Un dato che non riguarda solo gli stranieri (+46,7%), ma anche le persone sopra i 65 anni di età (+43,6%). A Cremona la situazione non è certo migliore, lo dicono anche i dati degli ambulatori «solidali» sempre in prima linea nel servizio a chi è indigente: quello della Caritas di via Stenico e quello del gruppo «Articolo 32» che si trova nella palazzina della solidarietà nel parco del Vecchio Passeggio. Di fronte a questa situazione la Caritas ha deciso di devolvere quanto parrocchie, ordini religiosi, associazione e movimenti raccoglieranno nella tradizionale iniziativa della Quaresima di Carità proprio a favore dell’emergenza sanitaria. Si potrà esprimere la propria solidarietà direttamente nella propria parrocchia o presso la sede della Caritas in via Stenico. L’ultima settimana di Quaresima sarà proposto un gesto comunitario: una raccolta di medicine da banco in ogni comunità parrocchiale. A tal proposito la Caritas invita alla solidarietà e all’impegno concreto i gruppi dell’iniziazione cristiana, ma anche quelli oratoriani di adolescenti e giovani. Quanto raccolto potrà essere distribuite già in parrocchia alle persone con problemi economici o consegnato alla Caritas. Il frutto della generosità dei cremonesi servirà dunque a sostenere quanti si occupano di fornire un’assistenza sanitaria di base gratuita a chi non ha diritto all’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, a persone senza fissa dimora, a chi è completamente privo di reddito e fatica ad accedere ad alcuni servizi (una situazione ricorrente è quella derivante dal bisogno di cure odontoiatriche), a famiglie in cui sono presenti persone con gravi problemi di salute che richiedono costosissime cure. Tra le realtà che si impegnano a contrastare l’emergenza sanitaria, come già accennato, c’è l’ambulatorio infermieristico della Caritas – con una decina di volontari e 1500 visite all’anno – e quello del gruppo «Articolo 32». Questa associazione è nata nel febbraio 2010 e coinvolge tra medici, paramedici e volontari una ventina di persone. Si occupa principalmente di persone che non godono del servizio sanitario, principalmente migranti. L’ambulatorio è aperto due volte la settimana e fino al 31 dicembre 2016 ha erogato 2283 visite a 853 pazienti. Una convenzione con il Comune e l’Azienda ospedaliera consente ai medici dell’associazione di rilasciare il cosiddetto «STP» un documento che permette a chi è privo di permesso di soggiorno di godere dei servizi della sanità pubblica, ma anche di fare ricette al pari di un medico di base. «Articolo 32» ha messo in campo anche un altro importante sportello il servizio psicologico con operatori professionali volontari. All’ambulatorio Caritas di via Stenico – aperto il lunedì, mercoledì e venerdi mattina – non ci sono solo i migranti ospiti della vicina Casa dell’Accoglienza, ma anche tanti italiani che non possono far fronte a certe spese, soprattutto anziani pensionati, e che grazie ai medici volontari possono avere un consulto o una dritta per poter risolvere al meglio i propri problemi di salute. Con i soldi raccolti durante la Quaresima si potranno anche aiutare quelle persone bisognose di visite o cure specialistiche particolarmente onerose. Mons. Perego: «Il mio motto episcopale? "Gaudium et spes"» A pochi giorni dall’annuncio della nomina di mons. Gian Carlo Perego ad arcivescovo di Ferrara-Comacchio e abate di Pomposa, il settimanale diocesano “La Vita Cattolica” ha raggiunto il sacerdote di origine cremonese, per ora ancora direttore generale della Fondazione Migrantes, per alcune domande. Il novello presule ha rivelato il suo motto da vescovo: «Gaudium et spes», titolo della costituzione del Concilio Vaticano II dedicata alla Chiesa nel mondo contemporaneo. Don Gian Carlo la Chiesa le sta affidando un nuovo servizio pastorale: come sta vivendo questo passaggio della sua esistenza? «Sono diversi i sentimenti che affollano il mio cuore e i pensieri che si intrecciano nella mia mente in questo momento di “grazia”, di amore di Dio e della Chiesa per me. C’è il ringraziamento al Santo Padre per questo gesto di fiducia e di stima nei miei confronti, per la scelta di volermi affidare la cura di una porzione della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica; c’è il ringraziamento alla mia Chiesa di Cremona, che mi ha generato alla fede, accompagnato al presbiterato e ora all’episcopato; c’è il pensiero ai poveri, ai migranti e – al tempo stesso – alla solidarietà che nei miei incontri in giro per Italia, in questi 15 anni in Caritas Italiana e alla Migrantes, ho imparato a conoscere e ad amare con un’ammirazione crescente; c’è la preoccupazione di essere “il pastore di tutti”, in cui tutti possano riconoscere una guida per crescere nella fede, nella speranza e nella carità, tra le contraddizioni e le speranze di oggi». Come immagina il suo futuro ministero episcopale? Di “quale” Vescovo pensa abbia bisogno la Chiesa del nostro tempo? «Il Concilio Vaticano II ci ha regalato, nel decreto Christus Dominus il profilo del Vescovo oggi. A cinquant’anni da quel profilo uscito nell’assise conciliare, con il voto favorevole di oltre 2000 vescovi di tutto il mondo, credo che oggi un Vescovo debba sentirsi membro del collegio episcopale e unito al successore di Pietro e con loro custode di una Parola e di una Tradizione che, oggi come ieri e sempre, possono accompagnare la vita degli uomini e trasformarla. Questa custodia il Vescovo la esercita in diocesi dentro un cammino liturgico, catechistico e di carità insieme con i presbiteri, i diaconi, i consacrati, i fedeli laici, valorizzando gli organismi di partecipazione. In questo cammino il Vescovo non può che dare priorità all’ascolto, alle relazioni, ai luoghi. E con la sua Chiesa il Vescovo entra in città, vive in città, dialoga con la città e con persone, realtà nuove, esperienze religiose diverse, anche con persone lontane da un’esperienza di fede. In questo incontro le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dell’uomo di oggi, soprattutto dei più poveri diventano le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce della Chiesa di oggi, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II, nel meraviglioso documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Ed è per questo che in questi giorni ho maturato l’idea che il mio motto episcopale sarà “Gaudium et spes”». Papa Francesco sta disegnando nuovi connotati alla Chiesa e ai suoi Pastori, per certi versi con inedito coraggio. Che ne pensa? «Papa Francesco oggi invita la Chiesa e, in essa, i suoi Pastori a ritornare ad essere “dentro” la città, a non ritirarsi sopra il monte per una rinnovata e gioiosa testimonianza di fede. Una “Chiesa estroversa”, non nel senso di una nuova originalità, ma di una nuova fedeltà ad essere “sacramento”, segno concreto della Grazia. Questo chiede ad ogni presbitero e Vescovo l’amore alla terra dove si vive, l’impegno – già chiaro al Concilio di Trento con i cardinali santi Bellarmino e Borromeo – alla “residenza”, che non contraddice l’andare evangelico, continuamente ripetuto da papa Francesco, ma lo interpreta in maniera nuova: dentro una Chiesa per camminare insieme. Questa passione per la Chiesa che ti è affidata, continuamente affermata da papa Francesco, è la premessa indispensabile per una riforma della Chiesa». Cosa è cambiato in lei in questi anni di lavoro a contatto con la realtà dei migranti, dei rifugiati, dei profughi? «Gli ultimi 20 anni del mio ministero presbiterale sono stati dedicati particolarmente a due organismi ecclesiali: Caritas e Migrantes. Le storie, i disagi, i conflitti, i muri dentro e fuori che queste relazioni con i poveri e i migranti, i rifugiati e i rom e sinti, gli artisti di strada e la gente dello spettacolo viaggiante mi hanno fatto incontrare, mi hanno indicato in maniera chiara come la strada della fraternità sia l’esperienza più realistica che possiamo costruire nella Chiesa e nella città. Questo chiede di ridisegnare le nostre strutture, i percorsi di formazione cristiana, l’impegno sociale e politico, la storia familiare ed educativa. Non è facile questa strada della fraternità, ma è l’unica che può dare speranza e futuro». Il giorno della nomina ufficiale ha comunicato di voler essere ordinato Vescovo a Cremona. Perché? «Un Vescovo è il frutto di una Chiesa Madre che lo ha generato e accompagnato, della fraternità di un presbiterio. Come prete diocesano Cremona è la mia Chiesa Madre: alla mia famiglia, alla mia parrocchia di Agnadello, al Santuario di Caravaggio, al seminario, con gli educatori, professori, alla cara parrocchia del Cambonino, ai giovani della FUCI e ai membri del MEIC, ai poveri che ho incontrato in questa città di Cremona, con la sua storia, arte e cultura, impegno sociale che ho studiato e amato, debbo il mio episcopato. Come ho detto il giorno dell’annuncio, non potevo partire da questa Chiesa e da questa città senza prima dargli un bacio riconoscente: l’ordinazione a Cremona, presieduta dal Vescovo Antonio, sarà questo bacio, arricchito dalla grazia dell’episcopato». Ferrara e Comacchio: da conoscere, da servire e da guidare. Da Cremona e dagli anni di lavoro alla CEI cosa portare “in valigia” per il nuovo viaggio che inizia? «Ricordi, affetti, testimonianze di fede, sofferenze condivise, tanti incontri e un desiderio: la semplicità». Speciale nomina di mons. Perego ad arcivescovo di FerraraComacchio Oltre 8000 oratori in Italia svolgono una funzione educativa Gioco libero, sport, grest, gite e doposcuola: sono queste le attività principali che vengono svolte negli oltre 8000 oratori italiani, sparsi da Nord a Sud. Lo rivela la ricerca Ipsos sugli oratori italiani presentata al convegno nazionale di Pastorale giovanile che si è concluso il 23 febbraio a Bologna, L‘indagine, che mette insieme le risposte di 110 diocesi (sulle 221 interpellate), mostra che le attività più presenti negli oratori sono il gioco libero (100% degli intervistati), l’animazione di gruppo (100%) e l’oratorio estivo/Grest (93%). Tengono le attività espressive, pellegrinaggi, feste speciali, campi scuola (tutti con 88%), le pratiche sportive si attestano all’83%, insieme al doposcuola. Le attività caritative e volontariato sono presenti nel 66% delle diocesi intervistate, mentre racimolano un 33% le attività missionarie e le settimane di vita comunitaria. Chiudono le attività ecologiche e ambientali praticate solo nel 25% delle diocesi. Il numero medio di attività svolte in ciascuna diocesi è di 13, con punte di 14 al Nord (17 nelle diocesi lombarde). Dai dati raccolti si evidenzia poi che il 96,7% degli oratori del Nord sono legati alle parrocchie, la percentuale cala al 91% al Centro e all’87% al Sud. Al Centro e al Sud sono presenti anche realtà come i Salesiani di don Bosco e le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Giuseppini del Murialdo e altri organismi. Quasi la metà delle diocesi intervistate – 52% – ha un coordinamento diocesano per gli oratori e dove quest’ultimo non è presente la maggior parte ritiene molto utile averlo (74%). Circa le proposte di formazione indirizzate agli oratori queste sono presenti nel 73% delle diocesi. Il 49% di queste organizzano incontri con i responsabili “più volte l’anno”, il 24% “una volta l’anno” e il 27% “mai”. Le figure professionali sono ancora poco radicate all’interno degli oratori delle diocesi intervistate. Il 63% ha dichiarato, infatti, di non averne. Del 37% restante il Nord con il 66% doppia il Centro (31%). Il Sud indietro con il 3% di diocesi che hanno nei propri oratori figure di educatori retribuite. La ricerca, infine, offre anche una stima del numero degli oratori presenti in Italia, 8245 a fronte di 5637 dichiarati. “L’oratorio non è un lusso, non è uno svago ma un luogo specifico dell’educazione della Chiesa nel tempo contemporaneo e uno strumento pastorale strategico per preadolescenti e adolescenti che vivono la fase più delicata come recenti episodi di cronaca ci hanno dimostrato”. Lo afferma Marco Moschini, direttore del corso di perfezionamento, progettazione, gestione e coordinamento dell’Oratorio attivo, dal 2011, presso l’Università di Perugia, commentando la ricerca Ipsos. In questa indagine, sottolinea il docente, “l’oratorio viene percepito così come pensato dalla Chiesa, con una certa profezia, anche alla luce della Nota pastorale (2013) sul valore e la missione degli oratori, intitolata ‘Il laboratorio dei talenti’. L’oratorio è uno strumento pastorale strategico poiché consente alla Chiesa di svolgere la sua vocazione educativa”. Uno degli aspetti che emerge dalla ricerca è quello della “territorialità: gli oratori – rimarca Moschini – sono legati alle parrocchie e presenti soprattutto al Centro-Nord. Non esiste un modello unico di oratorio, ma questo si configura alle necessità del territorio, si adegua con originalità a tutti i luoghi. Abbiamo oratori di strada e quelli molto più strutturati. Tutti esprimono la vocazione educativa nella prossimità come esorta loro Papa Francesco”. Lutero, l'uomo rivoluzione della Si terrà sabato 25 febbraio, alle ore 16, presso il Centro pastorale diocesano di Cremona la presentazione del libro di Mario Dal Bello dal titolo: «Lutero. Uomo della rivoluzione» edito da Città Nuova per la collana Misteri Svelati. All’incontro, promosso dall’ufficio di pastorale ecumenica e dialogo interreligioso e dal Movimento dei Focolari, parteciperà l’autore che sarà introdotto dal prof. Mario Gnocchi, presidente del Segretariato Attività Ecumeniche di Cremona. Un evento che idealmente chiude le celebrazioni ecumeniche che hanno avuto il loro momento centrale nella veglia di preghiera interconfessionale nella chiesa di S. Ilario a Cremona del 24 gennaio scorso. Locandina IL LIBRO A 500 anni dall’inizio della Riforma che prende le mosse da Martin Lutero (1517), il testo racconta, con taglio narrativo ma documentato, le varie fasi degli anni fecondi di questa autentica rivoluzione che ha cambiato il volto dell’Europa. Dall’esperienza in convento, ai dibattiti sulle indulgenze, dallo scontro con Roma e l’Impero sino alla scomunica e poi al matrimonio, fra traumi sociali e politici, si dipana l’avventura umana e spirituale del Riformatore con eventi sovente drammatici. Il testo chiude con l’ammissione da parte di papa Adriano VI delle “colpe” della Chiesa romana e con il matrimonio di Lutero che lo porta alla stabilità di pastore a Wittemberg e di padre del protestantesimo, intorno al 1524. L’AUTORE Mario Dal Bello, docente di letteratura italiana e storia, è giornalista, critico d’arte, di cinema e di musica. Collabora con diverse riviste culturali. Membro della Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI dal 1997, partecipa alla commissione del David di Donatello ed è autore di numerose pubblicazioni di arte e di cinema. Autore di quattro libri della stessa collana: I Borgia (2012); Gli ultimi giorni dei Templari (2013); La congiura di Hitler (2014); Anna Bolena e il suo re (2015). LA COLLANA Misteri svelati propone una serie di saggi storici di taglio divulgativo su eventi e personaggi del passato facendo luce sulla verità dei fatti, scritti con uno stile narrativo vivace ed avvincente. Migranti, don Pezzetti: «E se non ci fosse la Chiesa?» L’arresto di un migrante accusato di spacciare hashish, in un’atmosfera carica di tensione come quella di questi anni, è la scintilla “migliore” per accendere gli animi. Reazioni «di pancia» si moltiplicano, e spesso le risposte a domande – anche in parte legittime – spariscono nel vociare che tutto semplifica e confonde. A don Antonio Pezzetti, responsabile della Caritas diocesana e della Casa dell’Accoglienza, abbiamo rivolto alcune delle domande che i cittadini si fanno quotidianamente, cercando di evitare ipocrisie e ambiguità. Predicare l’accoglienza va bene, ma la consapevolezza che il flusso migratorio continuerà senza alcun impegno alla redistribuzione dei nuovi arrivati può alimentare panico in tanti cittadini. È una paura immotivata? «Una premessa: avrei voluto che facesse notizia il fatto che due ragazzi (uno del Gambia e uno del Mali) che, dopo aver preso il permesso di soggiorno, stanno facendo l’Anno di volontariato sociale in Caritas. Oppure quella dei ragazzi del Gambia che stanno facendo i volontari da diversi mesi con l’Associazione “Ccsvi nella sm”; o del ragazzo senegalese che ha trovato e portato alla Casa dell’accoglienza un portafoglio con 350 euro dentro e consegnato alla legittima proprietaria, o i due giovani che hanno aiutato una signora (che ci ha scritto una lettera per ringraziare) che stava per essere derubata vicino al centro.. e potrei continuare con numeri certamente più grandi rispetto a quelli che vedono alcuni di questi ragazzi protagonisti invece in negativo, come è stato per il gambiano arrestato mentre “vendeva” uno spinello a un giovane maggiorenne qui vicino. Comunque sia, a fronte di milioni di siriani ammassati nei paesi confinanti a causa della guerra, non è stato possibile programmare in Europa il reinsediamento di qualche migliaio di persone… Di questo stiamo parlando. “Invasione”? Molti arrivano, ma molti se ne vanno anche, tanto più che negli ultimi anni la la loro presenza è sempre stata attorno ai 180mila accolti. Certo, la crisi c’è, e la gente è spaventata anche dalle notizie che arrivano dai media e dagli interventi di chi, in politica, soffia sulla paura. Non possiamo accoglierli tutti? Sono d’accordo, ma se riuscissimo a realizzare un programma di distribuzione migliore molti problemi, molte incomprensioni, svanirebbero. Se solo si riuscisse a far passare in Italia una normativa, promossa dalla Caritas e fatta propria dalla Cei, che garantisse a tutti i migranti un permesso umanitario per sei mesi, molti nodi si scioglierebbero. Purtroppo però la politica ha paura di provvedimenti come questi che qualcuno interpreterebbe subito come una “regolarizzazione di massa”. Non sarebbe così, ma molti stranieri potrebbero tornare protagonisti della propria vita e decidere dove trasferirsi, dove lavorare ed, eventualmente, ricongiungersi con i loro cari già presenti nell’Ue». Per voi che vi occupate di accoglienza, ogni migrante è un business, oppure no? È possibile sapere quanto guadagnate per ogni persona accolta? Visto da fuori, inevitabilmente ciò crea diffidenza nei vostri confronti… Possiamo fare chiarezza? «Oggi abbiamo in totale 350 ospiti accolti in dieci strutture: per 250 di loro riceviamo 35 euro al giorno. Gli altri sono invece a nostro totale carico. Prima erano 370 quelli inseriti nel Piano della Prefettura e, se il motivo della nostra azione fosse il guadagno, avremmo continuato a mantenere quei numeri. Nessuna realtà legata al mondo ecclesiale si arricchisce. Abbiamo assunto nuove figure professionali per gestire i servizi, questo sì. Inoltre spendiamo più di mille euro al mese per acquistare biciclette usate (non rubate…), per rifornirci di pezzi di ricambio che alcuni dei nostri ragazzi hanno imparato ad aggiustare e rimontare; 1500 euro se ne vanno ogni mese solo di farmacia. Poi servono vestiti, scarpe, biancheria, pasti, igiene personale, scuola e biglietti per il treno… Tenete conto che noi fungiamo da “casa-madre” per altre realtà che si occupano di accoglienza che, spesso, possono avere bisogno di aiuto. Non lavoriamo in perdita, ma le risorse economiche servono anche a far funzionare i servizi e ad istituire, per esempio, “borse lavoro” in grado di sostenere i ragazzi che decidono di lasciare Cremona. Inoltre, a fine percorso, diamo 250 euro, per non lasciarli partire completamente sguarniti. Ogni settimana ogni immigrato riceve 20 € per le spese minute personali. Chi vuole inviare denaro alla famiglia o acquistare un cellulare lo può fare: facciamo un prestito di 100 euro che poi vengono scalati per dieci settimane dal contributo diretto a loro». Il sospetto, alimentato da certi partiti, è che per voi e per le cooperative coinvolte nell’accoglienza, sia più lucroso accogliere i migranti piuttosto che assistere i nostri connazionali che non se la passano benissimo… È solo malignità? «Che senso ha un ragionamento come questo? La Casa dell’Accoglienza è nata nel 1988 e si è sempre occupata di tutti. Ci sono diverse fragilità e ci sono diversi percorsi per il loro sostegno: le situazioni di disagio dei residenti coinvolgono come primo approccio i servizi sociali dei Comuni. Con loro abbiamo sempre collaborato per intervenire aiutando, accompagnando, sostenendo. Per legge; da sempre, e ancora oggi, ospitiamo gratuitamente coloro che non hanno un posto dove andare a dormire la notte, d’inverno. Da noi, anche gli italiani possono sempre trovare (e lo trovano) il sostegno di cui hanno bisogno: la nostra regola è semplice e dice che dobbiamo aiutare chiunque senza chiederci chi egli sia». C’è chi giudica il lavoro della Caritas come un’opera di ingenuo buonismo. È così? E come la mettiamo col rispetto della legalità? «Chi è contrario alla presenza dei migranti qui da noi deve chiedersi cosa succederebbe se noi non ci fossimo. Gli stranieri sarebbero per le strade, ma le faccio un esempio: da noi c’è un ragazzo del Gambia. Ha ottenuto il “sì” dalla Commissione di Brescia per motivi umanitari ed è seriamenta ammalato. È stato ricoverato nel reparto Infettivi dell’Ospedale di Cremona. Da lì, però, prima o poi questo ragazzo dovrà uscire e i dottori ci hanno chiesto esplicitamente di accoglierlo affinchè possa continuare ad essere seguito dal punto di vista sanitario. Se non lo accogliamo noi, nessuno se ne farebbe carico in quanto è ritenuto, per legge, ormai autonomo. La Chiesa, ricordiamolo, ha voluto la Caritas proprio affinchè qui si vivesse la carità partendo dai più poveri, dagli ultimi». L’integrazione è la via maestra per l’accoglienza, ma quando i numeri diventano troppo elevati, tutto sembra diventare impossibile… «Se vogliamo superare l’emergenza dovremmo ampliare il Progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati): quello, prima di tutto, rimborsa a chi gestisce i migranti solamente ciò che viene ufficialmente rendicontato e speso (non un fisso di 35 euro come avviene per i centri di accoglienza straordinaria); in più, consente di accogliere queste persone in piccoli nuclei da distribuire sul territorio affinchè l’integrazione vera e propria possa iniziare. In provincia, solamente 80 ragazzi sono nel progetto nazionale Sprar. Pochi? Sì, perchè molti sindaci, per paura delle proteste, evitano di segnalare spazi disponibili nel loro territorio, sebbene tutti i servizi forniti a queste persone (spesso offerti da grandi cooperative nazionali) sono pagati dallo Stato e, quindi, a costo zero per la comunità che accoglie. Inoltre conoscere direttamente i nuovi arrivati spesso aiuta a cambiare radicalmente idea su di loro. Inserito così in un progetto nazionale serio qual è quello Sprar, lo stesso migrante avrà di fronte a sè una prospettiva in grado di rendere meno appetibile l’eventuale proposta della malavita di “integrare” la paga mensile con attività illecite. Il ragazzo arrestato da noi? Mi dispiace moltissimo, ma come spesso accade, in qualsiasi comunità c’è sempre un anello più debole degli altri. Ben vengano, in interventi delle forze dell’ordine». questo caso, gli I migranti vengono descritti come in fuga da terre martoriate da guerre, perseguitati, ma non pare siano tutti in queste condizioni. Si vedono girare in città giovani in piena forma…. «Vorrei che i cittadini sentissero le storie che alcuni di loro ci raccontano (e che cerchiamo di far conoscere facendoli andare nelle scuole o nelle parrocchie) affinchè ci si renda conto da che cosa scappano. Non vengono qui con… l’Erasmus. Sono fisicamente in forma? Solo quelli in perfetta salute sono in grado di reggere un viaggio che dura mesi e che comporta abusi e privazioni inenarrabili. E poi non si creda che arrivino qui in piena forma… Quante volte dobbiamo sottoporli a cure o flebo per reidratarli o per supplire a carenze alimentari prolungate… Da cosa scappano? Da realtà dinanzi alle quali la nostra quotidianità, sebbene segnata dalla crisi, rappresenta per loro quasi un miraggio…». Cosa rispondete a chi, come cristiano, non si sente di appoggiare la vostra opera? «Le mamme sono… mamme, qui da noi come in Africa. Magari là hanno sei o sette figli, qua al massimo un paio. Ma la preoccupazione per ognuno di loro è esattamente la stessa. Immedesimarsi in che cosa può provare una donna sapendo che il proprio figlio è in giro per il mondo senza alcuna rete di supporto, potrebbe essere un bel passo avanti per capire. Se non creiamo sviluppo nelle terre d’origine (diffondendo la pace) sarà difficile invertire la marcia. È chiaro che la situazione non è facile, ma ci sono valori universali in ballo. Mi dà fastidio sentire tanti, anche nelle nostre comunità, lamentare il fatto che con l’arrivo dei migranti la qualità della vita è peggiorata. Le statistiche fornite dalle Forze dell’ordine, ogni anno, dicono che i reati sono in calo e, salvo rarissimi casi, non si può dire che la presenza di stranieri abbia inciso in modo significativo. Nemmeno sul fenomeno della diffusione della droga, credo, si possa dire che l’incidenza sia mutata negli ultimi anni. La nostra Chiesa con la proposta dell’accoglienza diffusa ha cercato di coinvolgere più comunità e più persone perchè il problema non rimanga confinato fra gli addetti a lavori. Vorremmo che le relazioni e le opportunità che l’incontro favorisce diventassero un supporto in più alla soluzione dei problemi legati all’accoglienza»».