La presa in carico dell`adolescente grave

Transcript

La presa in carico dell`adolescente grave
La presa in carico dell’adolescente grave
Discussione di un intervento
Grazie all’intervento psicodinamico multiplo nel gruppo il C.A.G. é riuscito negli anni
a conquistare una funzione evolutiva, svolgendo così il ruolo di contenitore affidabile
con il quale tanto i ragazzi che gli operatori si sono potuti identificare. Il Centro è stato
così vissuto sia dai ragazzi sia dagli operatori come un luogo significativo dove
condividere “un esame della propria esperienza di adolescenti” (Novelletto 1996). In
funzione di tale processo, la maggioranza dei ragazzi del gruppo originario ha potuto
elaborare, in coincidenza con la fine della loro adolescenza, il proprio personale
progetto esistenziale ed avviare, dopo circa cinque/ sei anni di frequentazione, la fase
di distacco dal Centro. Tutto ciò ha corrisposto al diradamento della frequenza e
all’inserimento in nuovi contesti: iscrizione all’università, svolgimento del servizio
militare, avvio di un’esperienza lavorativa, intensificazione dell’esperienza di coppia.
In alcuni casi, invece, tale movimento separativo si é espresso in direzione
dell’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle proprie difficoltà evolutive e la
conseguente maturazione di una domanda di psicoterapia.
A proposito della fase di distacco, nei mesi a cavallo fra il 2002 e il 2003, alcuni
componenti del gruppo con difficoltà di separazione dal Centro, tutti tardo-adolescenti
e giovani adulti, hanno proposto modalità nuove di frequentazione, che hanno fatto
prospettare la possibilità di una fruizione autonoma per sviluppare i propri interessi: un
gruppo ha iniziato a gestire autonomamente la sala musica, altri hanno realizzato una
sala multimediale per realizzare una loro microimpresa. Abbiamo deciso di favorire
tali forme di permanenza di questi giovani, prospettando loro la possibilità di realizzare
1
un’azione di accompagnamento dei primoadolescenti che incominciavano ad
affacciarsi timidamente al Centro. Il resoconto del caso che segue fa riferimento a
questa specifica fase della vita del C.A.G. a cavallo fra l’uscita della vecchia utenza e
l’accoglimento di quella nuova.
GIOVANNI É ACCOMPAGNATO A PRENDERSI CARICO DI SE STESSO
Al ritorno delle vacanze di Natale (dicembre 2002) il gruppo degli operatori si
concentra su Giovanni, un giovane di 19 anni, che da tre anni frequenta assiduamente il
Centro. E’ figlio di una coppia di separati; la separazione è avvenuta quando egli aveva
14 anni. Giovanni è un giovane riservato, taciturno, abbastanza ribelle e refrattario al
confronto con gli adulti. Socializza solo nel piccolo gruppo, inseparabile da Alberto
con il quale condivide l’atteggiamento provocatorio verso gli adulti, le difficoltà
scolastiche e la dipendenza da sostanze e dall’alcool. L’attenzione degli operatori si
concentra su Giovanni a seguito di una confidenza ad un’operatrice: dice di temere
d’essere omosessuale e parla della sua paura di scoreggiare in classe. Consapevoli del
senso della comunicazione, inerente al bisogno del giovane di rendere partecipe il
gruppo del proprio stato interno di emergenza connesso alla paura di perdere il
controllo (rischio di breakdown), si decide in équipe che lo psicologo dello sportello
inserito nel Centro avrebbe cercato di creare le condizioni per avviare una serie di
colloqui con il giovane .
Al contrario dell’amico del cuore, che ha un’avviata relazione di coppia con una
ragazza del Centro, e che ha cercato attivamente il sostegno dello psicologo dello
sportello realizzando con lui un fruttuoso dialogo (cfr. Biondo et al. 2003 b), Giovanni
tende ad evitare ogni confronto.
2
Tutti gli operatori hanno sempre avuto la sensazione che per Giovanni non solo sia
difficile comunicare, ma quasi doloroso. Nonostante tale difficoltà, nelle prime
chiacchierate informali realizzate con lo psicologo, emerge il bisogno cosciente del
giovane di poter parlare con un adulto competente. I temi affrontati inizialmente tra lo
psicologo e Giovanni, nei colloqui realizzati in maniera informale all’interno dei
diversi ambienti comuni del C.A.G., riguardano soprattutto la sfera sessuale. Con
l’intensificarsi del rapporto comincia a farsi strada nella mente sia dello psicologo che
del giovane la possibilità di avviare una psicoterapia. Apprendiamo molte informazioni
sulla storia di Giovanni: é ultimogenito di tre figli; ha un fratello di 28 anni neolaureato
in giurisprudenza e una sorella di 26 anni con i quali convive insieme alla madre.
Prima del rapporto con il padre di Giovanni, la madre é stata sposata ed ha avuto una
figlia, che attualmente ha 34 anni e vive in Inghilterra. Questa ragazza ha avuto una
relazione con il padre di Giovanni, quando ancora quest’ultimo conviveva con la
madre. Il fratello più piccolo di Giovanni, per questo, ha deciso di non vedere più il
padre, al contrario di Giovanni che è l’unico membro della famiglia che ha mantenuto
qualche raro contatto con lui. Tale scelta lo fa sentire in famiglia nella posizione del
traditore.
La prima fase di accompagnamento individualizzato del giovane (che copre il primo
semestre del 2003) realizzata dal gruppo degli operatori e dallo psicologo del Centro1,
permette di articolare un percorso di costruzione della trattabilità (Masina 2000)
coniugando il livello individuale dell’intervento con quello gruppale. Infatti, il
funzionamento psichico del giovane é ancora troppo caratterizzato da elementi
indistinti e non integrati che tendono ad essere esportati nel gruppo per lasciar
prefigurare la possibilità di usufruire di un setting individuale. Occorre, dunque,
l’intervento del gruppo degli operatori per dare significato al funzionamento di
1
Lo sportello psicologico del Centro era tenuto da Lauro Quadrana.
3
Giovanni che esprimono la povertà del lavoro delle rappresentazioni. Di fronte alla
massiccia attivazione di meccanismi d’identificazione proiettiva fra Giovanni ed il
gruppo, decidiamo, nel corso del lavoro di supervisione di orientare l’attenzione: a)
sull’elaborazione e l’interpretazione delle richieste inconsce di Giovanni; b) sulla
rivelazione da parte degli operatori del senso degli agiti del giovane e dei suoi
comportamenti a rischio; c) sulla valorizzazione delle competenze del giovane
(capacità introspettiva, contatto con la propria sofferenza), allo scopo di sostenere il
suo fragile assetto narcisistico.
Dopo questo primo periodo dedicato alla costruzione della trattabilità, il giovane è
inviato (maggio 2003) presso una psicoterapeuta esterna al Centro. Vedremo quanto
precoce sia stato questo invio - forse all’epoca avevamo ancora poca fiducia nella
capacità del gruppo di trattare il disturbo del giovane - e le relative conseguenze.
L’avvio della psicoterapia 2
“Nonostante la fatica iniziale ad avvicinare una figura adulta “estranea”, Giovanni si
mostra da subito collaborativo e incuriosito. Nel primo colloquio mi dice: “Il motivo
per il quale sono qua è che mi trovo in un periodo di completa confusione. Non so più
se mi piacciono le donne o gli uomini; credo di essere gay”. Queste parole mi fanno
pensare da una parte al pesante fardello che pesava sul giovane; dall’altra, riflettendo
sull’intensità della sua richiesta d’aiuto, penso al delicato passaggio che Giovanni ha
potuto realizzare con lo psicologo del Centro. Dopo qualche mese Giovanni mi
comunica il motivo che l’ha indotto ad ipotizzare di essere omosessuale. Riferisce che
un suo caro amico gli avrebbe dichiarato di essere omosessuale; partendo da questa
affermazione, Giovanni ricorda improvvisamente un episodio traumatico, fino a quel
momento rimosso: aveva circa 14 anni, ed insieme con un suo amico (con il nome
uguale all’amico omosessuale), si sono masturbati reciprocamente. L’evocazione di
questo evento traumatico segna l’inizio di uno stato confusionale che mette a dura
prova la mia capacità di contenimento. Con il procedere della terapia, grazie alla
supervisione , comprendo il ruolo svolto dal sospetto di omosessualità: rappresentava
per Giovanni un elemento di copertura rispetto alla sua difficoltà di confrontarsi con la
figura paterna. Tra i suoi ricordi emerge costantemente una visione negativa del padre,
che lo tormenta rispetto alle proprie spinte identificatorie.
2
La terapeuta è Maria Patti, che riferisce in prima persona sull’avvio del trattamento.
4
Durante le sedute Giovanni parla con competenza di ogni tipo di droga e racconta di
cattive frequentazioni, riservando a se stesso il ruolo di salvatore. Infatti sogna: “Stavo
in una casa con degli amici, una casa di quelle molto antiche. Ad un certo punto la mia
attenzione veniva catturata da un quadro, mi avvicinavo per vedere meglio, sembrava
la figura di un uomo. Era la figura di Cristo in croce. Mi avvicinavo ancora di più,
arrivavo proprio sotto al quadro, guardavo il viso ed era il mio.”
Penso alla figura del Cristo, figlio di Dio, un Dio che sacrifica il proprio figlio, un
padre onnipotente e irraggiungibile, proprio come suo padre. Per Giovanni la droga e
l’alcool erano una facile via d’uscita dall’ansia e dalla frustrazione, una medicina per
alleviare il dolore psichico, e spegnere l’angoscia attivata nel confronto con la dura
realtà familiare.
Per quasi un anno ci incontriamo faccia a faccia con una frequenza bisettimanale, con
un onorario molto basso viste le scarse risorse del paziente.
La difficoltà a chiudere le sedute (ogni volta Giovanni continua a parlare
ininterrottamente oltre il tempo a sua disposizione) testimonia una profonda angoscia
di separazione e la qualità narcisistica della relazione oggettuale. Penso, così, che mi
voglia gestire e manipolare richiedendomi più tempo, ma penso anche che il suo
bisogno di riconoscimento narcisistico sia senza confini.
Nella primavera dell’anno successivo (2004) Giovanni decide di interrompere il
trattamento. Ricordo le parole che, in quell’occasione, mi disse il supervisore 3: “ Non
te la prendere, se ce la farà a maturare una vera e propria motivazione alla terapia
tornerà. Vedi, se alla base non c’è questa motivazione, neanche il prezzo irrisorio del
pagamento può bastare a farlo continuare. Se si renderà conto che sta facendo terra
bruciata intorno a sé, tornerà!”
IL RUOLO DELL’AMBIENTE EDUCATIVO NEL PROCESSO TERAPEUTICO
Durante la prima fase del trattamento psicoterapeutico, Giovanni non smette di
coinvolgere nelle proprie vicende personali il gruppo degli operatori del C.A.G.,
rivelando aspetti transferali importanti del rapporto con la terapeuta. Tali
comunicazioni ci fanno riflettere sulla precocità della proposta psicoterapeutica rispetto
alle reali capacità dell’Io del giovane. Comprendiamo che Giovanni ci comunicava di
aver bisogno ancora del gruppo per dare senso al proprio progetto d’individuazione. E’
Giovanni che ci informa di ciò quando, dopo qualche mese dall’inizio del trattamento,
racconta a Marco (il coordinatore del C.A.G.): “Io le ho chiesto: ‘quando cominciamo
con il lettino e l’ipnosi?’ e lei mi ha risposto: ‘ma che fantasie ha sul lettino?’. Quella
3
Il supervisore del caso è stato Arnaldo Novelletto.
5
stronza ha pensato che io volessi metterle le mani addosso”. Nella supervisione il
gruppo riconosce l’eccessiva concretezza del transfert verso la terapeuta ed il
conseguente bisogno del giovane di distribuire il transfert sul gruppo per distanziarsi
da lei e dall’angoscia relativa all’impossibilità di sostenere un transfert edipico
erotizzato. Del resto conosciamo la tendenza di Giovanni quando sta con il padre di
denigrare la madre. D’altro canto diversi indizi riferiti dal giovane ci hanno fatto
ipotizzare che effettivamente Giovanni ha dovuto fronteggiare una madre seduttiva.
Tutto ciò ci porta ad ipotizzare come il giovane ripeta con l’operatore il gioco delle
alleanze familiari, caratterizzate dalla paura di essere sedotto dalla madre e sottomesso
dal padre. L’intensità del transfert sulla terapeuta, per quanto frazionato nel gruppo
degli operatori, non é sostenuto da un adeguato funzionamento dell’Io, tale da
permetterne l’elaborazione e non può che produrre l’interruzione del trattamento.
All’educatore che chiede chiarimenti a proposito Giovanni risponde con queste parole:
“In estate sono stato troppo male. Se devo cavarmela da solo tanto vale che lo faccia il
più presto possibile!”. Tutti i tentativi degli educatori di farlo riflettere sulla sua
decisione sono inutili. Nel frattempo Giovanni riprende a fare intenso uso di alcool e
droghe, presentandosi a volte provocatoriamente con bottiglioni di vino al Centro.
Comprendiamo l’accusa inconscia, forse non del tutto ingiustificata, che Giovanni
rivolge al gruppo, relativa al fatto di essersi troppo sbrigativamente sbarazzato di lui
inviandolo in psicoterapia. Il giovane ha bisogno di utilizzare una mente gruppale per
funzionare e non é ancora in grado di utilizzare il setting individuale. Gli agiti
comportamentali di Giovanni diventano sempre più allarmanti. Il gruppo non manca di
riconoscere il suo bisogno di utilizzare il Centro come contenitore del proprio disagio,
ma nello stesso momento gli segnala fermamente la necessità di modificare il suo
atteggiamento nel C.A.G.. Si tenta di realizzare un patto educativo con Giovanni,
indicandogli la necessità di avviare un’attività che possa essere messa al servizio degli
6
utenti più giovani, proprio come avevano fatto altri ragazzi “anziani”. Giovanni accetta
il patto proponendo di poter sistemare una delle stanze inutilizzate (perché da
ristrutturare) per realizzare un cineforum. Dopo l’accordo fra il giovane e gli educatori
sul progetto cineforum, si decide di realizzare un incontro con il responsabile del
Centro4, in merito agli aspetti operativi del progetto: occorre individuare una stanza da
attrezzare per il cineforum con l’acquisto di costose attrezzature. In questo incontro,
alla presenza dell’educatore e dello psicologo dello sportello, viene esplicitato a
Giovanni il senso del progetto che, al di là della possibilità di realizzare concretamente
un’attività (per la quale potrà avere l’aiuto di altri ragazzi e degli operatori), gli offre la
possibilità di ritagliarsi un ruolo costruttivo. A proposito del suo trattamento viene
riconosciuta l’importanza di aver cercato di prendersi cura di se stesso ma ribadiamo il
bisogno di riprendere la terapia. Il progetto cineforum prevede due fasi operative
preliminari: la sistemazione materiale della stanza (scartavetrare e ridipingere le pareti,
ricercare gli arredi) e il recupero delle videocassette e dei DVD con i quali realizzare
una programmazione adatta ai ragazzi più piccoli. Realizzate queste due fasi sarebbero
stati acquistate le attrezzature ( il televisore, il videoregistratore e il riproduttore DVD)
necessarie per avviare l’attività.
Giovanni intraprende i lavori con un certo entusiasmo iniziale ma, di fronte alle prime
difficoltà importanti, incomincia a mostrare cenni di cedimento. Il colore della stanza
non va bene, occorre rifarlo e ridipingere due pareti. Giovanni cerca di coinvolgere
altri due ragazzi del vecchio gruppo nella realizzazione del progetto: Serena, una
ragazza molto competente, ma ormai in fase di uscita e Alberto, l’inseparabile amico
del cuore con il quale ha condiviso grandi bevute e l’uso di sostanze, che però é ormai
troppo assorbito dalla relazione con la ragazza per seguirlo nei suoi progetti. Per tali
motivi il terzetto, dopo un primo momento di condivisione dei lavori, non trova
4
Il responsabile del C.A.G., che svolge anche la funzione di supervisore, è Daniele Biondo.
7
l’accordo giusto. L’illusione di trovare nel gruppo dei pari le risorse necessarie per
realizzare il suo progetto personale svanisce definitivamente. Giovanni si ritrova da
solo a procedere lentamente nella realizzazione dell’attività. Così ogni volta che
richiede l’acquisto del televisore e del videoregistratore, riceve dal responsabile sempre
la stessa risposta: “Non ti preoccupare di questo, appena la stanza sarà pronta ci sarà
tutto quello che serve per fare il cineforum”. L’intento é di comunicargli che nel
momento in cui lui ha fatto la sua parte il Centro avrebbe fatto la sua. Ma nonostante le
assicurazioni ricevute, il giovane non manca occasione di comunicare a tutti i suoi
dubbi sulla capacità del responsabile di mantenere la promessa degli acquisti. In
supervisione è messo in evidenza come il gruppo funzioni in questa fase secondo
l’assunto di base bioniano del codice paterno che espone Giovanni al rischio di scadere
in un funzionamento schizo-paranoide. Funzionamento che effettivamente alimenta le
sue spinte regressive e isolazioniste. Ipotizziamo che questa condizione di solitudine
sia ricercata dal giovane per recuperare la sensazione di essere l’unico artefice del
progetto e del sottointeso lavoro di costruzione di se stesso. Purtroppo, dopo qualche
tempo, Giovanni interrompe i lavori nella stanza per concentrarsi a ridipingere la
cancellata d’ingresso del Centro. Attività non richiesta, per quanto necessaria per lo
stato di degrado dell’entrata. Giovanni segnala così che, anche se non é riuscito a
realizzare il progetto concordato, vuole comunque restare nel gruppo.
Nel difficile compito d’integrare dentro di noi la funzione educativa e quella
psicodinamica, cerchiamo, non senza fatica ed incertezze, di trovare un equilibrio fra
l’obiettivo educativo di mettere il giovane di fronte alla propria responsabilità di
portare a termine l’impegno preso, e la consapevolezza del senso profondo dello
spostamento dell’attività dalla stanza (interno del gruppo) al cancello (al limite esterno
del gruppo). Passaggio paragonabile a quello precedentemente realizzato dalla stanza
della psicoterapia al progetto cineforum. Il gruppo degli operatori pur rispettando i
8
diversi movimenti difensivi e regressivi del giovane, di fronte alle difficoltà concrete
connesse alla realizzazione del progetto, decide di confrontarlo con il principio di
realtà. Gli viene proposto di essere affiancato nella ripresa dei lavori, così da uscire
dalla condizione solipsichica e marginale in cui si é nuovamente immerso, e rientrare
pienamente nella dimensione del gruppo, rispettando il patto siglato. Viene invitato a
partecipare alla riunione di gruppo, insieme con gli altri due “titolari” del progetto
cineforum, per discutere le difficoltà nella conduzione dello stesso e per valutare come
proseguire l’attività. Di fronte al rifiuto di partecipare alla riunione, che viene
comunque svolta con la sola presenza dell’amico Alberto, l’èquipe decide di
comunicare a Giovanni la sospensione del progetto cineforum. E’ il responsabile a
comunicargli la decisione, per sancire ufficialmente l’interruzione del progetto avviato.
Il gruppo stabilisce che potrà ridiscutere tutta la vicenda, convocando una riunione
successiva. Ecco cosa succede5 il giorno in cui si doveva svolgere tale riunione
(primavera del 2004), anch’essa snobbata da Giovanni.
“Nella “stanza salotto” oltre a me sono presenti Marco (l’educatore coordinatore),
le due educatrici Luana e Maura e due ragazzi. Entra nella stanza Giovanni e
rivolgendosi a Marco, chiede: “Com’è andata la riunione?”. Sebbene irritata per la
domanda, sento che essa veicola una richiesta d’aiuto mimetizzata dall’ironia, finalizzata
a rendere pensabili e a tradurre in parole le proprie tensioni interne, agite poche ore
prima non venendo alla riunione. Giovanni è molto teso, evidentemente irritato dalla
risposta corale degli educatori che lo mettono di fronte al suo essersi sottratto al
confronto. Risponde con aggressività, pronunciando parole offensive e assumendo un
atteggiamento svalutante verso gli operatori. Afferma che alla riunione non parteciperà
mai più, che si è sentito offeso e oltraggiato dall’atteggiamento del direttore il mercoledì
precedente, il quale aveva risposto irritato al suo rifiuto di entrare nella stanza per
partecipare alla riunione, chiedendogli di riconsegnare le chiavi. Sostiene che la
sottrazione delle chiavi della stanza cineforum, avvenuta quel giorno stesso, sia stata una
dimostrazione dell’abuso di potere, una ritorsione punitiva conseguente al suo aver osato
ribellarsi all’autorità. Gli educatori gli spiegano che la decisione presa dal gruppo di
togliergli le chiavi della stanza nasceva dalla constatazione di una sua difficoltà a
realizzare il progetto cineforum. Lo confrontano, inoltre, sul fatto che la riunione d’oggi,
riproposta dopo una settimana invece che dopo i consueti quindici giorni, rappresentava
un modo per dargli una seconda chance. Giovanni non vuole sentire ragioni, si ostina a
rimanere fermo nel suo atteggiamento di chiusura. Mi sembra che anche il suo corpo stia
tentando di proteggersi dall’incontro con l’altro: il suo sguardo è schivo, evitante, a tratti
5
Tale resoconto è di Daniela Ocone che all’epoca stava realizzando nel C.A.G. un’adolescent
observation (Adamo, Polacco 1998). Viene riportato in prima persona.
9
tiene le palpebre socchiuse in maniera prolungata. Giovanni rifiuta altresì il contatto che
Maura gli propone tendendogli la mano in segno d’affetto, cui reagisce scansandosi
infastidito. Va a sedersi ad un’estremità del divano, arroccandosi in una posizione
ancora più difensiva. In questo momento sembrano esserci due schieramenti opposti,
contrassegnati anche geograficamente dalla posizione degli operatori riuniti da una parte
della stanza e di Giovanni dall’altra. Gli altri due ragazzi se ne restano sprofondati sul
divano in una posizione d’osservatori attenti e neutrali. Giovanni afferma con foga:
“Alla riunione non voglio partecipare perché non devo rendere conto a nessuno di
quello che faccio, visto che tanto sono solo e devo fare riferimento solo a me stesso, così
come ho sempre fatto!”. Maura gli risponde: “Guarda che noi non ti abbiamo mai
lasciato solo, possiamo solo capire da dove nasce il tuo rifiuto di proseguire il
progetto”. Marco ricorda a Giovanni come in più occasioni abbia potuto fare riferimento
a lui e come possa continuare a farlo senza farsi fregare dal suo orgoglio.
Con alcuni brevi interventi i tre operatori mettono Giovanni di fronte al fatto che in
ogni situazione della vita ciascuno di noi deve fare i conti con i limiti e le regole e che il
confronto con la realtà e con l’altro è inevitabile. Mi colpisce come il radicale rifiuto di
Giovanni di contattare le parti più fragili di sé non si accompagni ad una fuga dalla
situazione. Nonostante i diversi tentativi degli operatori di affermare il valore della
riunione, Giovanni si ostina a rifiutarne il senso esplicitando il suo disprezzo verso
qualsiasi forma d’incontro formalizzato tra adulti e ragazzi. A tal proposito dice: “Non
mi siederò mai intorno ad un tavolo, come fate voi! E’ da stupidi!”. Marco ironicamente
gli fa notare che anche lui spesso si siede intorno ad un tavolo con i suoi amici, facendo
delle “riunioni”. Giovanni rileva che c’è una gran differenza tra le sue riunioni con gli
amici e quelle che si fanno al C.A.G. fra ragazzi ed operatori, senza tuttavia riuscire ad
individuare quale sia questa differenza. Mi viene in mente che la profonda differenza
risieda nella misura in cui il gruppo rappresenti un fattore di crescita oppure di rischio
per il suo sviluppo. Noto che in questo momento Giovanni, che nel frattempo si è acceso
una sigaretta, sta giocando con il fuoco: sta, infatti, stuzzicando imprudentemente con la
sigaretta una filaccia che si drizza dalla sfilatura del tessuto consunto del bracciolo del
divano. Mi sento un po’ agitata: ho il timore che le sue manovre incaute possano
produrre un incendio. Penso anche che possa perdere il controllo di sé lasciandosi andare
ad un incendio emotivo, ad un’esplosione di rabbia e disperazione. Il rischio è che
l’incendio emotivo, se non adeguatamente contenuto, possa fare intorno a sé terra
bruciata, riducendo il C.A.G. (il divano, che lo sta sostenendo e sorreggendo) a
contenitore da attaccare e distruggere, esautorato nella sua funzione contenitiva. Gli
educatori cercano di approfondire i motivi del suo rifiuto verso la riunione. Giovanni
riferisce di non sentirsi libero, di sentire che gli manca il potere decisionale, si sente
come un burattino, passivo e sottomesso, manovrato dall’alto. Pasquale, uno dei due
ragazzi presenti, che finora aveva assistito silenziosamente alla discussione, sbotta
dicendogli: “Beh! Non te stai a regolà, stai esagerando. Non è vero!”. L’educatrice
Maura gli fa notare che è proprio non venendo alle riunioni che rinuncia alla possibilità
di esercitare il proprio potere decisionale. Gli si propone una lettura diversa della sua
esperienza nel Centro: vengono ripercorse insieme a lui le tappe dello sviluppo del
progetto cineforum e ricostruite le finalità, mostrandogli come le sue esigenze fossero
state considerate e puntualmente accolte. L’iniziale impermeabilità di Giovanni cede
gradualmente il passo ad una maggiore apertura verso l’altro, iniziando ad ammorbidire
la sua posizione e mostrando una maggiore disponibilità ad accettare i suggerimenti
degli educatori. Mi sembra che questo movimento verso l’esterno coincida con una
presa di contatto maggiore con il proprio mondo interno. Giovanni confessa di non
sentirsi libero di dire ciò che pensa, anche perché ha paura di non controllarsi. Afferma
che questa è la sensazione netta che ha sperimentato durante l’ultima riunione, quella
10
allargata a tutti i ragazzi del Centro, in cui era stato comunicato il nuovo regolamento.
Gli operatori gli ricordano che l’ultima riunione a cui aveva partecipato era in realtà
quella di due settimane prima in cui aveva presentato il suo progetto sul cineforum,
mentre quella a cui lui si riferiva era avvenuta ancora prima. Poco dopo una breve
interruzione, dovuta all’ingresso nella stanza di un giovane, Giovanni visibilmente
impaziente di riprendere il discorso afferma di non avere bisogno di venire alla riunione
perché delle decisioni prese in quella situazione viene continuamente messo al corrente
da ciascun operatore con cui parla individualmente. Gli viene rimandato come la
riunione rappresenti anche un momento comune per i diversi ragazzi del C.A.G. per
confrontarsi e coordinarsi sulle varie attività promosse individualmente o
collettivamente. Il clima emotivo è ora più disteso, caratterizzandosi per la sempre
maggiore disponibilità di Giovanni ad affidarsi agli educatori e a mettere insieme il
proprio punto di vista con il loro. Gli schieramenti si rompono, la difesa lascia il posto
ad un confronto più costruttivo, favorendo una certa elaborabilità degli elementi
emotivo-affettivi in campo. Nella stanza ora c’è più movimento, ci si scambia di posto,
ci si avvicina, si creano la condizioni dell’incontro. Giovanni dapprima dichiara di
nutrire una certa antipatia per il responsabile del Centro, poi gradualmente riconosce di
non tollerarlo in virtù del ruolo di autorità che riveste. Riprende a polemizzare sulla
storia delle chiavi sottratte come esempio della prepotenza fattagli e dell’abuso di
potere. Gli operatori lo aiutano a comprendere il suo ruolo attivo nella vicenda, giocato
nel venir meno all’impegno preso e gli ricordano che la decisione delle chiavi era stata
presa da tutto il gruppo degli operatori e non solo dal responsabile. A questo punto gli
chiedono come mai ha bisogno di attribuire solo al responsabile tutte le sue accuse.
Giovanni risponde che quando nutre antipatia anche per un solo aspetto di una persona,
arriva a nutrire antipatia per l’intera persona. Afferma: “Io le antipatie non riesco ad
eliminarle, né a superarle e a passarci sopra”. Riconosce che questo è un “suo
problema”, una sua difficoltà. Gli educatori gli rimandano come questo suo
riconoscimento sia molto importante, un primo passo per trattare le sue difficoltà.
Giovanni giunge a chiedere esplicitamente di essere riconosciuto per ciò che ha fatto,
non solo per ciò che non ha fatto, per i risultati raggiunti, oltre che per quelli disattesi.
Riconosce di attraversare un periodo difficile e di aver lavorato compatibilmente con
queste difficoltà, chiedendo agli operatori di tenerne conto. Infine dice di ammettere di
aver sbagliato e conclude con una richiesta legittima: “Vorrei che anche voi adulti lo
ammetteste quando sbagliate!”.
L’osservazione presentata mostra come Giovanni utilizzi, all’interno di un ambiente
educativo, il gruppo di operatori per comprendere la fase d’impasse evolutivo in cui si
trova. E’ descritto il funzionamento più avanzato, al servizio di un adolescente
problematico, che un’èquipe educativa può raggiungere se adeguatamente sostenuta da
un serie di dispositivi psicodinamici (supervisione, adolescent observation, sportello
psicologico). In particolare l’osservazione testimonia come, grazie alla sensibilità
dell’osservatrice e alla sua intensa attività associativa, sia stato possibile per tutto il
gruppo trasformare in parola pensiero ed insight la modalità primitiva del giovane di
11
agire il proprio disagio. Significativa a tal proposito ci sembra la scena del “gioco con
il fuoco”, che ben sintetizza la situazione intrapsichica del giovane: la consapevolezza
del suo blocco evolutivo, la rabbia narcisistica conseguente, l’impulso a distruggere
l’oggetto responsabile di tale blocco (il genitore che non ha promosso la sua crescita)
ed il connesso desiderio inconscio che questi sopravviva al suo attacco distruttivo. La
scena, oltre ad essere una drammatizzazione significativa del funzionamento mentale
del giovane, permette anche di osservare in una veloce ed intensa sequenza il
movimento che il giovane realizza, con l’aiuto del gruppo, per contrastare il rischio di
degradare verso un funzionamento mentale
primitivo. Infatti, solo progressivamente
Giovanni riesce a raggiungere un funzionamento di tipo integrato in cui l’oggetto può
essere recuperato grazie alla possibilità di intravedere una visione più sfaccettata ed
articolata della propria relazione con esso (“Io le antipatie non riesco ad eliminarle”).
Tale possibilità è stata raggiunta grazie al funzionamento del gruppo in termini di
réverie.
Di fronte al funzionamento deficitario e difensivo di Giovanni è il gruppo degli
operatori che deve pensare per lui per contenere il suo attacco all’oggetto, lenire il
bruciore della ferita narcisistica conseguente al fallimento evolutivo, riattivare la
capacità del giovane di riflettere sulle proprie responsabilità e recuperare le buone
relazioni realizzate fino a quel momento. Sopportando il gioco con il fuoco del giovane
e dandogli un senso gli operatori hanno potuto trasformare l’agito in un’occasione
d’incontro e di comprensione. Senza questo funzionamento partecipativo ed empatico
degli operatori, supportato da quello silenzioso ed associativo dell’osservatrice,
Giovanni avrebbe rischiato la deriva narcisistica. Nuovamente trascinato dalla propria
corrente ribellistica si sarebbe rassegnato al fallimento esistenziale.
12
Per un certo tempo, dopo quest’importante momento d’incontro, Giovanni continua a
presentare un funzionamento alternato che oscilla da momenti di avvicinamento e di
comprensione della fase di stallo in cui é di nuovo precipitato, a momenti più
problematici d’intensa angoscia in cui le condotte antisociali e autodistruttive hanno il
sopravvento. L’équipe decide di tollerare tale fase condividendo con il giovane la
fatica dell’incertezza e della precarietà. Dopo ripetuti richiami per le sue continue
condotte provocatorie (spesso si ubriaca), l’equipe attraverso diverse riunioni, matura
la decisione di sospendere il giovane dalla frequenza del Centro giovani, con
l’obiettivo di ufficializzare il rischio psicopatologico che corre e il rifiuto di essere
corresponsabili del suo progetto autodistruttivo. Tale difficile decisione viene adottata
dal gruppo in previsione di una possibile ripresa del trattamento psicoterapeutico.
Nei primi mesi dopo il suo allontanamento, che attiva nel giovane la consapevolezza
del rischio che sta correndo e del senso del messaggio coerente e corale degli adulti
(“se vuoi rovinarti l’esistenza libero di farlo, ma te n’assumi tutta la responsabilità!”),
Giovanni chiede di essere riaccettato nel Centro. Il gruppo degli operatori non accetta,
pur con grande apprensione per le sorti future del giovane. Trascorrono diversi mesi in
cui non si hanno più notizie di Giovanni. Gli operatori fronteggiano l’angoscia
conseguente al timore di aver “perso” il giovane dicendosi che dovevano “salvare” la
nuova utenza dall’influenza negativa dei suoi comportamenti autodistruttivi. Il gruppo
riceve la sospirata conferma dell’esito auspicato dell’espulsione (Giovanni ha ripreso i
contatti con la sua psicoterapeuta) grazie ai contatti che il supervisore ha mantenuto
con la terapeuta. Tale funzionamento di rete ha protetto il gruppo dai dolorosi
sentimenti di perdita e fallimento che l’allontanamento del giovane aveva attivato.
13
La ripresa del trattamento6
Dopo sei mesi di silenzio a proposito di Giovanni ricevo una telefonata (inverno del
2004). Dall’altra parte del telefono una voce tremante che ormai conosco bene, disse:
“Dottoressa Patti? Buongiorno sono Giovanni. Sto male, ho bisogno di vederla per
parlarle. Vorrei riprendere la terapia ma non ho una lira”. Non so cosa fare, prendo
tempo e chiedo consiglio al supervisore che mi disse: “Questa volta deve trovare il
modo di pagare la terapia ad un prezzo normale. Potrà sembrare crudele ma se
veramente è intenzionato a riprendere dovrà impegnarsi a trovare il modo per pagarsi
le sedute. Questo è l’unico modo per aiutarlo veramente e farlo uscire dal suo
narcisismo primario.” Crudele, sì, è proprio così che mi sento! Concordo un
appuntamento con il giovane e con grande fatica gli dico quello che il supervisore mi
ha consigliato. Giovanni non accetta la mia presa di posizione e nei giorni a seguire
spesso mi telefona pretendendo da me degli incontri gratuiti (in un servizio pubblico
non ci vuole andare). E’ veramente faticoso mantenere la posizione e spesso sono
tentata di cedere. Dopo quasi un mese Giovanni mi telefona assicurandomi che ha
trovato un lavoretto e che ha anche parlato con il padre chiedendogli un aiuto
economico. Così riprendiamo la terapia, inizialmente ad una seduta settimanale per poi
passare a due con l’uso del lettino. Nel frattempo Giovanni trova un lavoro più stabile
e inizia a pagarsi interamente la terapia da solo.
Nel settembre 2006 passiamo a tre sedute settimanali. Di recente Giovanni dice:
“ Per tanto tempo ho creduto che gli altri fossero la causa dei miei problemi. Avevo
tanta rabbia nei confronti del Centro e anche nei suoi confronti dottoressa, ma oggi
tutto è più chiaro. Oggi mi rendo conto di quanto il Centro abbia giocato un ruolo
importante nel farmi assumere le mie responsabilità. Mi ha protetto dalla distruzione.
Io non sono mai stato abituato alle regole. A mio padre non gli è mai fregato niente di
quello che facevo o non facevo. Mia madre è sempre stata troppo impegnata a
lavorare per mantenerci, visto che mio padre non ha mai dato una lira per noi. Era
sempre stanca e depressa. Il Centro mi ha dato quel senso di famiglia che tanto mi è
mancato. Oggi tutto mi è più chiaro, chissà che fine avrei potuto fare!” Il sogno che
segue sintetizza bene l’approdo che Giovanni ha raggiunto grazie al suo percorso
terapeutico: “Sento un bambino che piange. Lo cerco, cerco di capire da dove arrivi
quel pianto. Ad un certo punto vedo una culla, cerco di mettermi dentro ma non
c’entro, é troppo stretta. Allora prendo il bambino in braccio e inizio a cullarlo. Il
bambino si calma, il bambino sono io”.
Commento
Il caso presentato permette di riflettere sul bisogno del giovane adulto borderline di
usufruire a lungo di un gruppo istituzionale, che funzioni come contenitore delle sue
angosce e gli permetta di sviluppare la capacità di prendersi cura del proprio sé
danneggiato. Spesso, in assenza della consapevolezza del proprio disagio o della
capacità di sostenere un rapporto psicoterapico classico, il giovane adulto borderline
6
La terapeuta Maria Patti riferisce su altri aspetti del trattamento, funzionali agli obiettivi dello scritto.
14
con patologia della condotta e disturbo narcisistico porta la propria emergenza interna
negli ambienti educativi. In questo caso il gruppo educativo viene convocato dal
giovane adulto per svolgere un ruolo attivo nella presa in carico della sua patologia,
nella costruzione della trattabilità dello stesso e, come dimostra il caso presentato, nel
trattamento stesso degli elementi più disfunzionali della sua personalità.
Nel faticoso percorso terapeutico di Giovanni, vogliamo sottolineare l’importante
lavoro a più livelli svolto dalle diverse figure coinvolte nella presa in carico del
giovane. Attraverso l’intervento integrato tra operatori del Centro e psicoterapeuta,
viene offerto al giovane un setting allargato per fronteggiare le proprie difficoltà
interne e i conseguenti impulsi autodistruttivi. Inoltre, la condivisione dello stesso
modello scientifico fra tutti i professionisti coinvolti nella gestione delle difficoltà di
Giovanni ha creato le condizioni perché il giovane potesse ricevere messaggi coerenti,
e perché potesse fare l’esperienza dell’integrazione.
Abbiamo potuto osservare come Giovanni abbia utilizzato il gruppo per rispondere alle
proprie fantasie inconsce. Prima fra tutte quella di trovare un gruppo che lo accogliesse
incondizionatamente. Perseguendo l’intento di restaurare l’oggetto, pervicacemente
inseguita anche dopo l’insuccesso dei lavori nella stanza, restaurando la cancellata del
Centro, Giovanni cercava inconsciamente di restaurare la relazione perduta con la
madre, proiettata nel gruppo. Come scrive Kaes: “Il fantasma di avere rotto e distrutto
il gruppo, il conseguente senso di colpa, inducono dei tentativi di restaurarlo nella sua
integrità e di riparare le parti di sé danneggiate” (Kaes 2000, pag.233). Il Centro ha
sostenuto tale fantasia riparatoria a patto (il patto educativo) di realizzarla all’ombra
della protezione paterna, simboleggiata dall’attività del cineforum, che rappresentava la
proposta di un’attività caratterizzata in termini di oggetto culturale (il terzo), grazie al
quale poteva essere consentito l’accesso alla madre (il Centro). Non potendo accedere
all’esperienza del gruppo transizionale, anche in funzione della difficoltà di accedere al
15
padre e più in generale di separarsi dalla relazione incestuosa con la madre, Giovanni
deve regredire ad una diversa esperienza gruppale, più primitiva dove la relazione
privilegiata è con gli adulti (la madre arcaica) e non con i pari. La possibilità di mettere
concretamente in scena i diversi aspetti della relazione con l’oggetto, consente a
Giovanni di utilizzare le proprie risorse cognitive ed affettive per attivare un processo
autenticamente autoterapeutico. Infatti, nel momento in cui Giovanni, grazie al
contributo del gruppo degli operatori, può riconoscere i propri errori e può finalmente
dire agli operatori qual’è il “suo problema”, può anche attivare il processo di autocura
“di ristrutturazione dell’apparato psichico con la conseguente espansione dell’Io e
moderazione del Super-Io” (Anthony, 1974). L’attivazione di tale processo di
ristrutturazione gli permette di affrontare decisamente una nuova programmazione della
propria vita che lo induce a ricontattare la terapeuta, trovarsi un lavoro e ricorrere al
sostegno economico del padre. Grazie alla ricongiunzione degli elementi frammentati e
scissi del Sé collocati nel gruppo di operatori, il giovane può ritrovare se stesso,
riemergere dalla gruppalità esterna per ricollocarsi nella gruppalità interna e riattivare i
processi d’integrazione.
Per concludere ci sembra utile riassumere il ruolo che ha avuto l’esperienza gruppale,
realizzata all’interno di un ambiente educativo, nel percorso terapeutico di Giovanni. Il
gruppo, infatti, ha permesso:
1. Il frazionamento del transfert proteggendo il giovane dall’angoscia di una
relazione terapeutica troppo intensa e concreta;
2. di mentalizzare gli aspetti profondi del sé che si esprimevano attraverso gli agiti
comportamentali;
3. di realizzare una messa in scena del trauma originario funzionando come
un’area intermedia abbastanza distante tanto dall’apré coup analitico che
dall’acting-out adolescenziale;
16
4. di utilizzare l’attività come azione-oggetto con la quale mediare la relazione di
transfert;
5. di vedere accolti i bisogni di base del giovane adulto deprivato (codice
materno), coniugandolo con l’inserimento di elementi terzi (oggetti culturali,
norme sociali ecc.) che hanno promosso la crescita e l’assunzione di
responsabilità (codice paterno);
6. di socializzare la colpa per l’attacco alle figure genitoriali e permettere
l’elaborazione del lutto dell’infantile;
7. di alimentare la capacità di autocura del giovane adulto e la connessa fantasia
autogenerativa che lo ha aiutato a sostenere l’angoscia conseguente alla
relazione di dipendenza dalla terapeuta.
Infine, è per noi significativo ricordare quanto ci ha fatto notare Arnaldo Novelletto
durante la discussione di questa esperienza7. Egli sottolineò l’importanza per il giovane
di aver potuto ripartire il proprio trauma su un gruppo di operatori. Ciò ha permesso al
gruppo di arrivare alla decisione di escludere il ragazzo dal Centro. Tale intervento non
è di ordine pedagogico, ma squisitamente psicologico perché ha saputo interpretare
l’agito del giovane che tentava di sedurre l’ambiente e minacciarlo con il ricatto
affettivo. Secondo Novelletto, dunque, l’elasticità dell’intervento garantita dal gruppo
ha permesso al ragazzo di fare l’esperienza della sopravvivenza dell’oggetto al proprio
attacco distruttivo, aprendo così la strada per il lavoro di riparazione del Sé
danneggiato.
Bibliografia
Adamo S.M.G., Polacco Williams G. (a cura di) (1998), Il lavoro con adolescenti
difficili: nuovi approcci dalla Tavistock, Idelson Gnocchi, Napoli.
7
In occasione di una Serata Scientifica dell’ARPAd (ottobre 2005).
17
Anthony J.E. (1974), Self-therapy in adolescence. In Adolescent Psychiatry, vol. III, 624. Traduzione italiana di Monniello G., Quadrana L., Anthony J.E, L’autocura in
adolescenza, In: Adolescenza e Psicoanalisi, IV-1 (www.psychomedia.it/aep).
Biondo D. (2001), La promozione dell’esperienza del gruppo in adolescenza (prima
parte). In: Adolescenza e Psicoanalisi, I-3 (www.psychomedia.it/aep).
Biondo D. (2002), La promozione dell’esperienza del gruppo in adolescenza (seconda
parte). In: Adolescenza e Psicoanalisi, II-2, (www.psychomedia.it/aep).
Biondo D., Bottaro A., Castiglione V., Gallina A., Gattone G., Tirelli A. (2003 a), Il
Centro di Aggregazione Giovanile per la prevenzione del rischio psicosociale in
adolescenza. In: Biondo D., Tini F. (a cura di), 285 nodi per crescere. Istruzioni per
l’uso, Editori Riuniti, Roma.
Biondo D., Cordiale S., Bottaro A., Quadrana L. (2003 b), La funzione psicologica in
un Centro di aggregazione giovanile. In: Adolescenza e Psicoanalisi, III-2,
(www.psychomedia.it/aep).
Kaes R. (2000), Aspetti della regressione nei gruppi di formazione. In: Chapelier J.,
Duez B.,Marcelli D., Richard F., Il legame gruppale nell’adolescenza, Borla,
Roma, 2002.
Kernberg O.F. (2001), La diagnosi di patologia narcisistica in adolescenza. In:
Novelletto A., Masina M. (a cura di), I disturbi di personalità in adolescenza, Franco
Angeli, Milano.
Masina E. (a cura di) (2000), La trattabilità in adolescenza. Problemi nella
psicoterapia psicoanalitica, Franco Angeli, Milano.
Novelletto A. (1996), L’adolescenza nella psicoanalisi dell’adulto, Psicoterapia
Psicoanalitica, S.I.P.P., Roma, III, 1, 8-20.
Riassunto
Gli autori descrivono la presa in carico di un giovane adulto problematico realizzato
all’interno di un Centro d’Aggregazione Giovanile (C.A.G.). In particolare viene
descritto come il giovane, con una Disturbo Narcisistico di Personalità, bloccato nel
suo percorso evolutivo (dedito all’uso di droghe pesanti e di alcool), sia stato aiutato da
un gruppo di operatori non solo ad intraprendere il proprio percorso psicoterapeutico,
ma anche a superare la tendenza ad attaccare le buone relazioni e a rassegnarsi al
fallimento evolutivo. Il lavoro descrive il lungo accompagnamento del giovane,
realizzato per circa sei anni dal gruppo degli operatori, grazie al quale viene costruita la
possibilità di trattare le componenti patologiche della sua personalità. Il lavoro tende a
dimostrare la tesi che quando si realizza all’interno degli ambienti di vita degli
adolescenti una buona integrazione fra interventi educativi ed interventi terapeutici,
diventa possibile fronteggiare la psicopatologia medio grave. Affinché tale
integrazione avvenga occorre che sia in campo, per un tempo sufficientemente
prolungato, un gruppo integrato di educatori, psicologi e psicoterapeuti, che possano
condividere un modello comune di presa in carico del giovane adulto problematico.
18
Parole chiave
Gruppo, trattabilità, ambiente educativo, intervento integrato, Disturbo Narcisistico di
Personalità
1
Daniele Biondo
Psicoterapeuta, socio ordinario dell'Associazione Romana di Psicoterapia dell'Adolescenza (ARPAd).
Maria Patti
Psicoterapeuta, socio dell'Associazione Romana di Psicoterapia dell'Adolescenza (ARPAd).
Daniela Ocone,
psicologa, specializzanda in Psicologia della Salute
19