Materiale resistente - Luciano Celi website
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RIVISTA DI CULTURA - STORIA - ETNOLOGIA MASSA - ULIVETI ANNO DI FONDAZIONE 1980 ANNO XXVII - N. 53 MAGGIO 2007 SOMMARIO 5 EDITORIALE 7 SETTORE SCIENTIFICO 9 Storia della Provincia di Massa-Carrara. -3- Dal 1885 al 1909 Giancarlo Bertuccelli 23 Inferno V e un’opinione antica. Nota dantesca Alberto Borghini 24 Nascita e sviluppo della cristianità attraverso un percorso museale: il Museo Diocesano di Arte sacra di Pontremoli Nicola Gallo - Antonella Infantino 32 Castelli e fortificazioni della valle del Carrione e delle vie del marmo Rosa Maria Galleni Pellegrini 39 MATERIALE PER 41 Contributi montaliani. I. Sfondi mitologici in una lirica di Montale Alberto Borghini 51 Contributi montaliani. II. “Accosto il volto a evanescenti labbri”. Un modello mitologico-letterario antico Alberto Borghini 58 “Materiale resistente”: una riflessione sull’attualità della Resistenza Luciano Celi 100 Un antico documento sulla vaccinazione Renato Francesconi 107 Presenze ebraiche in Lunigiana ed i loro rapporti con la chiesa di Luni-Sarzana Elio Gentili 122 Silvestro Benedetti Vescovo di LuniSarzana, abitante a Massa Francesco Rossi 126 Benessere in Toscana Antonio De Angeli 149 NOTIZIARIO 151 Festa dell’Arancio Massese: una tradizione ritrovata Luisa Lippi - Idilio Antonioli 157 ELENCO DELLE RIVISTE CHE GIUNGONO PER SCAMBIO ALLA RIVISTA “LE APUANE” 159 COLLANA: BIBLIOTECA DE “LE APUANE” LUCIANO C E L I “Materiale resistente”: spunti per una riflessione sull’attualità della Resistenza In memoria di Ugo Cerrato, amico di Beppe Fenoglio e forse anche un po’ mio. Ai sessant’anni della Costituzione Italiana. Ai vent’anni di assenza di Primo Levi. PREMESSA Sul valore del periodo storico 1943-1945 che ha coinvolto il nostro Paese e, con particolare significato, la zona di Massa e Carrara, nella quale è rimasta ‘ferma’ la Linea Gotica prima della liberazione, molto si è scritto e si è detto. Forse fin troppo. Chi scrive ricorda a malapena gli aneddoti narrati dalla nonna paterna: storie che allora sembrava avessero il valore di una fiaba e che, solo molti anni dopo, hanno acquisito il sapore epico di una testimonianza reale di ciò che fu. Scampare alla morte sotto un bombardamento, percepire da un singolo segnale – un frammento di qualcosa che batte sul tetto della casa, mentre dal terrazzo si scruta l’orizzonte – che non è più ora di stare dove si è, e mille altre situazioni in cui si ha rocambolescamente salva la vita o la si perde, in modo folle, era la regola che, in tempi di pace, non conosciamo più. Il significato era potentemente racchiuso in questo singolo dato che riguardava l’esistenza umana, vissuta, spesa, conservata, persa nell’esposizione agli eventi della Storia, non a caso scritta con la maiuscola. Viviamo in un tempo, in tal senso, a-storico: in Occidente (ci vien da dire: per fortuna) non c’è più guerra – nell’accezione più comune che si vuol dare al termine – da molto tempo, ma pare che la legge del contrappasso comporti una sorta di banalizzazione e di oblio. Banalizzazione per il semplice 1 PASOLINI (2006). motivo che le battaglie nelle quali si muore e si rimane feriti, sono quelle che si combattono sull’asfalto delle strade del sabato sera (e non solo): si perde la vita in modo banale, in un incidente d’auto e non in nome di un qualche ideale che comporti un miglioramento sociale di qualsivoglia natura. Oblio perché, nel caso, non si è che uno dei tanti: una ‘guerra’ senza veri nemici che non siano la scarsa affezione a se stessi, l’indifferenza verso chi abbiamo intorno. Pier Paolo Pasolini tenta di delineare una sorta di ‘spartiacque’: nello scritto inedito – originariamente destinato alla rivista “Paragone” – redatto a dieci anni esatti dalla fine della guerra: «Qualcosa pare oggi, nella primavera del ’55, realmente finito: il dopoguerra»1. Questo l’incipit dal quale parte uno dei più grandi intellettuali dell’epoca per un tentativo, non proprio esplicitato in modo chiarissimo, di ‘attualizzare’ la Resistenza come fenomeno positivo, non solo in grado di gettare – come fu – le fondamenta del Paese democratico nel quale viviamo, ma anche di rinnovare questo valore tentando di attualizzarlo dieci anni dopo: «Come allora a unirci erano le difficoltà e i pericoli esterni, oggi dovrebbero essere le difficoltà e i pericoli interni: se le istituzioni e gli ideali democratici non sono minacciati da una scatenata violenza di eserciti, ma da una scissione che sta disgregando la società in una pratica e ideologica lotta di classe, disgrega in realtà la vita stessa, nella pienezza che questa raggiunge attuandosi nei “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... singoli individui. E l’equilibrio (quello, supremo, della Resistenza) non va certo raggiunto cancellando uno dei termini del dilemma: ma vivendo il dilemma nel modo più rischioso, intellettualmente e sentimentalmente»2. La Resistenza vista quindi come spinta per vedere – almeno in prospettiva – vincere sempre i valori democratici di rispetto, diritto, uguaglianza. La Resistenza che certamente riesce in questo proprio sessant’anni fa, grazie alla firma della Costituzione. Che però presto diventa una specie di libretto tecnico, nemmeno troppo usato da chi fa educazione civica, da chi frequenta per professione le aule dei tribunali. Sarebbe bello sapere quanti italiani hanno tra i propri libri la Costituzione. Rispetto, diritto, uguaglianza sono oggi parole che spesso ci rendono cinici, che echeggiano e rimbombano, un po’ svuotate di un significato che pure dovrebbe essere sempre ben presente in ognuno di noi. Cosa significa quindi Resistenza, oggi, a 62 anni dalla fine della dittatura nazi-fascista? Come viene percepita dalle generazioni di oggi? Come si può tramandare questo pezzo di una Storia che riguarda tutti noi e la costituzione di un Paese come quello in cui oggi viviamo? Un problema apparentemente bislacco, ma non privo di un suo fondamento: i testimoni di quel che fu, stanno come d’autunno sugli alberi le foglie, per dirla con Ungaretti. Certo, rimangono i libri, che però vanno letti. Scalda il cuore sapere che ce ne sono, e anche di belli. Affacciandosi a questo argomento si scopre, per fortuna, un universo, ma è triste che questo universo spesso viva nel buio perenne di una memorialistica priva di attrattiva per le giovani generazioni: spesso solo i più motivati, i più interessati hanno la voglia di andarsi a leggere le 2 Ibid. 3 Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. 59 edizioni che generosamente i comuni, le varie amministrazioni locali con la collaborazione della sezione di zona dell’Anpi3 danno alle stampe. È importante che lo si faccia, ma è tremendo che questo approccio risenta di una specie di terribile corto circuito, per il quale il libro ce l’ha chi già sa, chi è interessato. Il resto è lettera morta. Allora è compito di quei libri belli, che magari sfuggono anche un po’ alla memorialistica pura in favore del romanzo, fare da cartello indicatore, fare da stella di riferimento di quell’universo buio, affinché non si dimentichi, affinché lo scopo di tramandare certi valori alla base del nostro vivere comune nelle giovani generazioni, venga raggiunto. Bello è stato domenica sera 22 aprile vedere nuovamente Enzo Biagi tornare sugli schermi con la trasmissione Rotocalco televisivo. Bello è stato sentirlo parlare proprio di questo ‘problema’ di “passaggio del testimone” alle nuove generazioni. Bello è stato sentirgli porre domande a Vittorio Foa e Tina Anselmi che hanno tirato fuori parole importanti, come “responsabilità della libertà”. Lo scopo di quel che segue è proprio questo: una modesta – per dimensione di ricerca – incursione in questo territorio che riguarda Storia, memorialistica e letteratura, come principale via d’accesso per avvicinare e incuriosire i giovani. Un problema sentito anche da chi – come chi scrive – nasce molti anni dopo quegli avvenimenti, ma un problema che era ben presente anche in anni in cui i ribelli, i resistenti, i partigiani erano ancora ben vispi: «La lotta al fascismo come regime politico è iniziata negli anni 20 e si è conclusa con la resistenza armata; la lotta al fascismo, come concezione della vita, ancora continua»4. Dalla prefazione a un volumetto distribuito dall’amministrazione municipale di Massa: Contro ogni ritorno. Il titolo richiama l’ultimo verso dell’epigrafe che Piero Calamandrei fece scrivere sulla lapide che ricorda le Fosse del Frigido: «Inermi borgate dell’Alpe / asilo dei rifugiati / prese d’assalto coi / lanciafiamme / arsi vivi nel rogo dei casali / i bambini avvinghiati alle madri / fosse notturne scavate / dagli assassini in fuga / per nascondervi stragi di trucidati innocenti. / Questo vi riuscì / S. Terenzo, Bergiola, Zeri, Vinca, / Forno, Mommio, Traverde, S. Anna, S. Leonardo. / Scrivete questi 4 60 Inoltre, nella convinzione che alla base di una corretta trasmissione di fatti e avvenimenti vi sia un “corretto ricordare”, si è deciso di inserire, al fondo, una parte piuttosto cospicua il cui titolo è eloquente: la guerra della memoria. Forse il più grande dei pericoli che si vanno correndo. Da qui la decisione di vedere il tutto con gli occhi di oggi: l’ampia bibliografia al fondo è indice della volontà di tastare il polso ad una situazione che è quella odierna e che passa, in buona sostanza, dai quotidiani. Sì è deciso, per motivi anche contingenti, di monitorarne sostanzialmente tre nell’arco dell’ultimo anno: La Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX. PARTIRE DALLA STORIA chi è che sa di che siamo capaci tutti vanificato il limite oramai CSI, Memorie di una testa tagliata Proprio dalle parole di Pasolini scaturisce questa sorta di ‘riflessione’ sull’attualità di un tempo che sembra non avere più grandi ideali. Si parte da un dato, che è quello storico. Chi scrive ha una formazione filosofica e, più nello specifico, epistemologica. Non che questa la si possa indiscriminatamente applicare a tutto, ma dato un ‘fenomeno’ – normalmente questa LUCIANO CELI teoria si applica alla Fisica – il solo sguardo di un osservatore esterno comporta l’adesione a un “punto di vista”. Non sembra che, in linea di principio, questa semplice osservazione non possa applicarsi alla Storia, e nella fattispecie adattarsi al ‘fenomeno’ Resistenza. Nella banale considerazione che i punti di vista sul ‘fenomeno’ Resistenza sono a oggi molteplici, variegati, contrastanti, non resta che prenderne atto, con la cura dello psicanalista junghiano, vale a dire tenendo presente che: (1) nel ricordo, siccome questo non esiste in astratto, ma è sempre legato alle funzioni corticali di un individuo, non esiste oggettività, ma solo soggettività; (2) la soggettività, come preannunciato, comporta l’adesione a un punto di vista; (3) il ricordo è soggetto a fluttuazioni e mutazioni al punto che una certa psicologia teorizza che non vi sia un semplice ricordo di un evento ma il richiamo alla memoria sia in realtà il “ricordo di un ricordo”, con tutto ciò che questo comporta e infine (4) ciò che vale per un individuo può valere per una collettività. Il punto (4) permette una sorta di ulteriore lettura dei punti precedenti e cioè: (1) esistono indubitabilmente più punti di vista: più ci si allontana nel tempo dal ‘fenomeno’ più questi si diversificano secondo i parametri e le arbitrarietà interpretative delle soggettività5. Che i punti nomi / son le vostre vittorie. / Ma espugnare queste trincee di marmo / di dove il popolo Apuano / cavatori e pastori / e le loro donne staffette / tutti armati di fame e di libertà / vi sfidava beffardo da ogni cima / questo non vi riuscì. / Ora sul mare sono tornati al carico i velieri / e nelle cave i boati delle mine / chiaman lavoro e non guerra. / Ma questa pace non è oblio / stanno in vedetta / queste montagne decorate di Medaglia d’Oro / al valore partigiano / taglienti come lame / immacolato baluardo sempre all’erta / contro ogni ritorno.». Il testo è tratto dall’introduzione, datata marzo 1976. A migliaia potrebbero essere gli esempi citati in tal senso. Dai più banali e ovvi (cito semplicemente quel che ho più a portata di mano e ‘fresco’ in ordine di tempo) come i commenti al film satirico (Fascisti su Marte, di Corrado Guzzanti) uscito in anteprima nelle sale: «“Cinque minuti possono bastare, gli unici a potersi permettere di allungare una gag alla durata di un film sarebbero stati Franco Franchi e Ciccio Ingrassia”. Pietrangelo Buttafuoco, autore di Le uova del drago, romanzo sugli sconfitti della storia, (vieta di definirlo intellettuale di destra), liquida così la prima fatica cinematografica di Corrado Guzzanti», in CORBI (2006). Insomma, che ci si poteva aspettare? Che il film satirico sulla destra del Ventennio facesse ridere, o almeno: sorridere, la destra attuale? Certo sarebbe stato auspicabile, ma la reazione è appunto ovvia, a dimostrazione, se mai ve ne fosse il bisogno, che esiste una sorta di ‘continuità’ dalla quale vien difficile prendere le distanze. Nello stesso giornale, lo stesso giorno, qualche pagina più avanti, ROMEO (2006) ricorda Ondina Valla, scomparsa in questi giorni a novant’anni, prima vincitrice di un’Olimpiade nel 1936 nella corsa a ostacoli. Tra le foto che corredano il servizio un mezzobusto con il braccio destro teso nel saluto romano e la camicia nera. Era così: vogliamo negarlo? Eppure anche solo trent’anni fa una foto del genere avrebbe comunque sollevato un vespaio di polemiche nella sinistra che si sarebbe sentita offesa, avrebbe promesso battaglie, censure, ecc. ecc. 5 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... di vista possano venire espressi o meno, questo è un altro problema6; (2) per chi ha vissuto quel periodo si è trattato di “scegliersi la parte dietro la Linea Gotica”7, per citare a memoria la celebre frase di una canzone del Consorzio Suonatori Indipendenti; (3) la fluttuazione del ricordo è talvolta di tale portata che sfocia in una sorta di revisionismo storico, dalle forme più moderate a quelle più decise8. Proprio quest’ultimo tipo di ‘fenomeno’, il revisionismo, è quel che preoccupa di più la generazione di (ormai) ottuagenari che è stata dentro la Resistenza, l’ha vissuta e patita in prima persona e non può dirsi osservatore esterno al ‘fenomeno’9. Quali sono gli strumenti che abbiamo per indagare le verità, le bugie, i revisionismi, i “ricordi di ricordi” della Storia? Un recente libro di Carlo Ginzburg10 può venirci in aiuto: «Il filo 61 e le tracce ci pone di fronte a una questione tutt’altro che secondaria: in che modo uno storico racconta ciò che è accaduto? Qualcosa succede, si tratta di capirne solo la rilevanza, l’attendibilità, il grado di verità; oppure bisogna prendere in considerazione circostanze che possono turbare questo equilibrio. Il sottotitolo del libro è Vero, falso, finto. Dice Ginzburg: “Sono come tre arance che lo storico tira in aria. Bisogna fare attenzione a non farne cadere nessuna”»11. L’intervista prosegue: Professor Ginzburg, uno storico ha la possibilità di fondare la ricostruzione di un evento sulla prova? Può davvero mettere la mano sul fuoco che quella prova è fondamentale? Come storico le rispondo innanzitutto che la metafora della “mano sul fuoco” non la userei, perché andrebbe troppo nella dire- Acutamente SERRA (2006,1) fa notare che: «In fondo, non sarebbe poi così difficile festeggiare il 25 aprile: basterebbe essere antifascisti. Negli ultimi anni molte energie sono state spese per complicare assai il significato di una ricorrenza così chiara e netta, che celebra la fine di una dittatura e il ritorno della libertà. La verità, per quanto sgradevole, è molto semplice: se una parte consistente dell’opinione pubblica italiana non ama celebrare la fine del fascismo, è semplicemente perché non è e non è mai stata antifascista. […] Quando andavo alle elementari, in un quartiere del centro storico di Milano, il Comune distribuì un opuscolo nelle scuole per celebrare la liberazione della città. La maggior parte dei genitori protestarono vivamente per l’iniziativa “comunista”: anche allora la borghesia somara (non certo quella colta, dalle simpatie repubblicane, socialiste e azioniste, comunque una minoranza) usava bollare di “comunismo” qualunque cosa che puzzasse di Costituzione antifascista e di spirito pubblico. Anche l’altra sera, alla radio, un giornalista spiegava che “i partigiani hanno dato alla liberazione un contributo solamente morale, non materiale”. A sessant’anni dalla Liberazione, c’è ancora chi definisce ottantamila morti “un contributo morale”». 6 «Nel pomeriggio ho interrogato qualche prigioniero. Chiedo ad uno assai giovane come mai si sia arruolato nella X Mas. Mi dice che gli è sempre piaciuta la marina e che, siccome nei partigiani non c’era, si era arruolato nella X Mas», in CHIODI (2002), p. 146. A dimostrazione che le motivazioni di una scelta non sono talvolta così profonde come l’adesione a un ideale, nonostante i tempi suggerissero diversamente. 7 Penso, per la forma ‘moderata’, espressamente a intellettuali come Gianpaolo Pansa, di cui si avrà agio di parlare nel prosieguo, ma anche alla recente polemica in PELÙ (2006). 8 Si ricorda incidentalmente che, tra i primi a mettere tutti noi in guardia sul pericolo dell’oblio, fu il genio di Primo Levi profetizzando che qualora non si tenga memoria di ciò che fu, alla morte dell’ultimo superstite dei campi di annientamento nazisti, qualcuno potrebbe tranquillamente asserire che fu tutta una invenzione. Che i timori in tal senso non furono il frutto di una fantasia lo dimostra la vicenda dello ‘storico’ David Irving, un accanito sostenitore dell’inesistenza dei campi di sterminio, frutto di un complotto e di una cospirazione, che nulla hanno a che fare con la realtà. 9 Figlio di Leone e Natalia Ginzburg, Carlo nasce a Torino nel 1939. È stato professore di Storia Moderna all’Università di Bologna e in numerosi altri atenei in Europa e in America: ha una cattedra di Studi sul Rinascimento italiano all’Ucla di Los Angeles. Tra i suoi saggi più celebri: I benandanti, Il formaggio e i vermi, Il giudice e lo storico e Miti, emblemi e spie (tutti pubblicati con Einaudi). Le ultime notizie lo danno come convocato dal Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, per tenere dei corsi. 10 11 In GNOLI (2006). 62 LUCIANO CELI zione del martirio. E poi, aggiungo, ogni prova, per definizione è provvisoria. È un omaggio allo scetticismo? Semmai è un omaggio a Popper e alla sua idea di verità potenzialmente falsificabile, altrimenti cadrebbe fuori dal discorso scientifico. Quindi anche l’affermazione “c’è stata la battaglia di Salamina” è falsificabile e dunque provvisoria, sebbene esista una massiccia serie di prove convergenti che ci dimostrano che quella battaglia c’è stata. Ma chi si assume l’onere della prova? L’onere della prova spetta agli oppositori. Nel momento in cui una prova diventa abbastanza convincente, compito degli oppositori sarà confutarla. Ma la cosa interessante è che l’onere della prova evoca una comunità in discussione e i rapporti di forza che esistono al suo interno.12 Esistono però altri ‘fenomeni’ che non vengono presi nella debita considerazione: mi riferisco ad anomalie per le quali, pur essendo accertato che la Storia è andata in un certo modo, quella stessa Storia assolve, di fatto, i colpevoli. Il pensiero corre nuovamente alla zona apuana con particolare riferimento alla nota strage di Sant’Anna di Stazzema. Rileggendo l’intera vicenda – paradigmatica di altre che sono accadute altrove in Italia – l’aspetto che colpisce maggiormente è l’intervallo di tempo intercorso tra gli avvenimenti (12 agosto 1944) e l’avvio di un percorso nel quale si tenta di far luce su ciò che avvenne13: cinquant’anni esatti. Una anomalia che offre la giustificazione ad altre anomalie, prima tra le quali la potenziale “perdita di senso” nel condannare a morte, o alla detenzione fino alla morte, una persona che – come nel caso Priebke – è già anziana. Questo aspetto apre la porta all’intricato scenario dei giustizialisti, Ibid. Quest’onere sembra aver a che fare con una specie di epistemologia naif: in base agli occhiali che indossiamo, possiamo vedere una realtà differente. Penso, per esempio, alle diversità di fonti storiche dalle quali uno studioso può attingere, credendole attendibili. Con onestà intellettuale PANSA (2003, 2006) afferma di NON essere uno storico, e, sebbene, almeno in linea teorica, questo gli consenta di avere un maggior ‘libertà’ nell’esprimere una propria posizione personale, quando cita fonti fasciste – indicandole come tali – in relazione agli eccidi compiuti posteriormente al 25 aprile 1945, ne fa in qualche modo la tara, prendendo spesso come più attendibile la fonte ufficiale del Ministero dell’Interno – cfr., per esempio, PANSA 2003, p. 85, ma anche, in relazione al totale dei morti di Milano: «Di cifre ne sono state fatte molte e tutte assai diverse. La più alta, 5000 giustiziati, viene da due fonti opposte: Palmiro Togliatti, che la propose all’ambasciatore sovietico in Italia, il 31 maggio 1945 […], e Giorgio Pisanò, nella sua “Storia della guerra civile”. […] Ma la cifra più realistica mi sembra quella che ci è ricordata da Michele Tosca. È il risultato di una ricerca di Livio Valentini che, per Milano e la sua provincia, ha raccolto finora i nomi di 1856 caduti fascisti lungo tutta la guerra civile. Di questi, 1325 risultano uccisi dopo il 25 aprile 1945», p. 55. 12 Pare che solo nel maggio del 1994 il procuratore militare di Roma Intelisano, durante le indagini del processo Priebke, abbia ‘scoperto’ i fascicoli sui crimini nazisti, tra cui quello di Sant’Anna. In quei cinquant’anni ci siamo dimenticati di cosa avvenne? È stata una rimozione collettiva? Una volontaria omissione? Questo lasso di tempo è uno, forse il primo in ordine temporale, dei tanti ‘misteri’ che hanno costellato il nostro Paese dal dopoguerra a oggi. Un mistero che, seguendo certi ragionamenti, potrebbe essere svelato in fretta: «No, non fu l’egemonia culturale dei comunisti ad oscurare la memoria delle masse popolari: nel dopoguerra, infatti, si tentò di cancellare e infangare (come, del resto, anche ora) tutte le memorie di resistenza e antifascismo per motivi esclusivamente politici; non si dimentichi che “Se questo è un uomo”, di Primo Levi, dovette attendere più di dieci anni prima di essere riconosciuto come memoria fondamentale di quel periodo. […] molto più di quelle dei fascisti, vittime dei “rossi”, furono proprio le memorie resistenziali ad essere censurate nel clima della guerra fredda. Ciò è dimostrato, molto concretamente, nel caso dell’Armadio della vergogna [la nota in calce dice: Nel Palazzo di Giustizia a Roma sono stati ritrovati, in un armadio, rinchiusi e ritirati, tutti i fascicoli riguardanti le stragi nazifasciste. N. d. A.] e del processo recentissimo, a più di 60 anni quindi dai fatti, per la strage di Sant’Anna, memorie volutamente e sistematicamente censurate e sequestrate dalle istituzioni governative e militari». In ANPI CARRARA, LINDI (a cura di, 2006), pp. 71-72. 13 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... dei votati al perdono, ecc. ecc.: non è lo scopo del presente articolo prendere una posizione in tal senso. Semplicemente è da evidenziare l’anomalia che ne reca con sé numerose altre, a partire proprio dal dato sull’anzianità di chi commise quei reati: «Vive a Wollin, un pacifico antico borgo prussiano alle porte di Berlino, uno degli ex militari delle SS condannati in Italia per la strage di Sant’Anna di Stazzema. Si chiama Karl Gropler, oggi ha 83 anni. Dopo il verdetto della procura militare italiana anche la magistratura tedesca ha aperto un’inchiesta, ma finché non sarà eventualmente condannato qui Gropler non potrà essere estradato in Italia. E il fatto più singolare, nota il Tagesspiegel in un bel reportage di Johannes Boie, è che il villaggio lo difende: lo proclama innocente, invita a dimenticare e voltare pagina»14. Fino a quel ‘falsificazionismo’ citato da Carlo Ginzburg: «“Mio suocero è innocente, ce lo ha spiegato più volte, noi gli crediamo”, mi dice la nuora Simone Gropler. […] “Non vuole parlare con i giornalisti, non ebbe a che fare con il massacro. È vecchio, malato, stanco, vuole essere solo lasciato in pace. Ricorda che fu ferito prima di quegli eventi, e al momento era in convalescenza. Forse la sentenza che lo ha colpito in Italia è una sentenza politica. […] È anziano e malato, si ricorda anche poco, non vuole parlare con nessuno”, insiste la nuora. Secondo la sentenza italiana, egli era arruolato nella sedicesima Panzergranadierdivision delle Waffen-SS, i reparti scelti da combattimento di prima linea e repressione antiguerriglia della forza armata della Nsdap, il partito nazista. Insieme a trecento commilitoni, partecipò al massacro di Sant’Anna: almeno 560 civili, vecchi, donne, bambini, trucidati in poche ore»15. Il vecchio è stanco e non ricorda, ma non è 14 TARQUINI (2006,1). 15 Ibid. 63 questo il problema, appunto. Il fatto è che la condanna arriva tardi e il reale crimine è che sia stato permesso a questa persona di diventare vecchia, stanca e smemorata. È difficoltoso far luce attraverso la polvere del tempo che ha sedimentato ricordi di ricordi di ricordi, dove le insidie del falso, del verosimile (possiamo essere certi che davvero quell’uomo non fu ferito prima, come sostiene?) possono avere una rilevanza che cinquant’anni fa non avrebbero potuto avere. Anomalie che suonano come vere e proprie beffe della giustizia umana, della Storia, per chi c’era, per chi invece ricorda ed è condannato a non dimenticare mai più, anche se forse in cuor suo lo vorrebbe, per chi è forse miracolosamente sopravvissuto a quell’inferno. È proprio questo il campo di battaglia, in una modernità che corre veloce ed è a-storica perché la società stessa ha interesse a imporre un modus vivendi lontano dal ricordo, dalla memoria, dalla narrazione, dalla tradizione. La lotta per la conservazione di una memoria – foss’anche “il ricordo del ricordo” – diviene quindi sfida quotidiana, missione di vita per molti partigiani che vogliono mantenere viva la narrazione di quel che fu. Penso alle persone che, come Ugo Cerrato – il più grande amico di Beppe Fenoglio – sono andate nelle scuole a raccontare sostanzialmente di un fatto che dovrebbe indurre immediatamente a una riflessione: se viviamo in un mondo come questo, lo dobbiamo al sacrificio di molti16 di cui neppure sappiamo i nomi. «Perché parlo volentieri di Fenoglio? È una serie di motivi […]. Primo: perché questo mio grande amico mi ha aiutato a crescere interiormente […]. Fra le altre cose mi ha aiutato a non essere proprio fascista, che è Parole che, espresse in questa forma, possono suonare retoriche, ma qualora si avesse la voglia di andarsi a leggere qualche resoconto – molti dei quali disponibili e pubblicati di recente, come AVAGLIANO (2006), o ripubblicati, come CHIODI (2002) – ci si può rendere conto che in molti casi mantengono una freschezza e una nitidezza che non possono lasciare il lettore indifferente. 16 64 LUCIANO CELI diverso dall’antifascismo. Io avevo già fatto il commissario garibaldino a diciott’anni, quindi ero un antifascista per forza. Ma non essere fascista è un’altra cosa. Perché il fascismo non significa soltanto un atto nostalgico di provare il saluto romano come facevano, con la camicia nera davanti allo specchio, per vedere se hai un’impressione ancora che possa piacere. No. Quelle sono soltanto delle cose così, molto lontane. Il fascismo è: provocazione, prepotenza, supponenza, il voler sempre avere ragione e soprattutto voler sovraccaricare. Il fascismo è un atteggiamento interiore che c’è dentro delle persone. E questo è il pericolo della vita. Se noi riusciamo a ragionare e capiamo subito che uno ci è antipatico perché è prepotente, perché soverchia, perché… fa il fascista. Perché quella è l’espressione del fascismo. È una forma populista molto di deriva. Ecco cosa significa l’antifascismo, vuol dire una lotta, una campagna per liberarci e per i valori della democrazia e della libertà. Il non essere fascista nella vita significa imparare a vivere in una società che sappia di solidarietà, di giustizia sociale, che ci veda più fratelli – alle volte io ci vedo addirittura il fallimento dei millenni di storia che ci volevan più fratelli e ci han fatto diventare l’un contro l’altro, armati, questo è il concetto. […] Non mi va e non riesco a dire ex partigiano […]: rifiutatelo tutti il titolo di ex partigiano! Si può essere: ex sindaco, ex prefetto, ex ministro, ex presidente della Cassa di Risparmio di Cuneo […] o della Regione. Perché quando viene a finire un mandato che ti è stato dato in forma istituzionale o sei stato eletto per quello, finito il mandato non espleti più questa pratica e quindi sei un ex sindaco, un ex ministro. Ma ex partigiano no! Perché papà17 ha scritto: “partigiano è parola assoluta” […] “come poeta” e io aggiungo: come sacerdote, perché spesso lui18 parlando con don Bussi e don Rossano questo concetto lo ha fatto emergere19. Chi è un sacerdote? Pensateci bene: chi ha fede queste cose le sa, è uno che volontariamente va a fare studi in seminario, sarà una vocazione, sente questo desiderio, chiede di ricevere l’Ordine, viene ordinato e resta sacerdote, come si dice, in aeternum, non si cancella più l’Ordine. Fenoglio ha scritto “partigiano in aeternum”, perché? Ma è semplicissimo: perché questi signori20 sono andati a fare il partigiano […] per volontà, non sono stati obbligati da nessuno. È una libera scelta! E la libera scelta resta tutta la vita, non la puoi cancellare, altrimenti smentiresti te stesso!21 Lo sapete che un sacerdote anche se non esercita resta tale tutta la vita? E il partigiano resta tale tutta la vita»22. Testimonianza importante, di impegno concreto, volto a non dimenticare, a sensibilizzare, 17 Riferendosi direttamente a Margherita Fenoglio, seduta in platea. 18 Sempre riferito a Beppe Fenoglio. «Salerno sedette. “Che c’è, Toni?” chiese. L’altro lo guardò. “Tu sei maresciallo” era più un’affermazione che una domanda. Salerno si guardò l’uniforme. “Be’, ero maresciallo. Adesso non so proprio cosa sono. Nella Benemerita, dico. Adesso sono partigiano.” “Certo, partigiano. Ma anche maresciallo. Maresciallo Benedetto Santovito.” “Quello per ora non c’è più. Nome di battaglia, Salerno.” “Certo, ma credo che sia un po’ come coi preti. Semel abbas, semper abbas. Una volta carabiniere, per sempre carabiniere. E mi hanno detto che ti intendi di indagini, che hai risolto un caso brigoso, là, dov’eri di stanza.”». In questo dialogo serrato in MACCHIAVELLI, GUCCINI (2007), pp. 43-44, la coincidenza con le parole di Ugo Cerrato ha quasi dell’incredibile. 19 20 Indicando Giulio Questi, seduto di fianco a lui. È involontariamente ironica questa frase di Ugo Cerrato: ironica perché il pensiero corre ai moderni tempi nostri, dove idealità di questo genere non sono neppure vagamente prese in considerazione e dove anzi lo “smentire se stessi” è uno degli sport preferiti della nostra classe politica (e non solo). 21 Intervento di Ugo Cerrato all’iniziativa Il partigiano Fenoglio: appunti per una resistenza della bellezza, organizzata dal Teatro Caverna. Bariano (BG), 23-24 aprile 2006. 22 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... come il fiorire di iniziative, manifestazioni, musica, pubblicazioni: materiali utili a tenere vivo il ricordo, la memoria che deve attecchire sulle nuove generazioni affinché quel che fu non debba ripetersi mai più23. PASSARE DALLA MEMORIALISTICA vicini per chilometri vicini per stagioni sulle tracce dei lupi che fuggono le guerre degli umani CSI, Vicini Esiste però un problema. Che non riguarda tanto la ‘conservazione’ della memoria – che può essere, come abbiamo visto comunque costantemente insidiata da ‘revisionismi’ più o meno fuorvianti24 – quanto piuttosto il suo “travaso”, il suo passaggio alle generazioni future. È un problema che probabilmente i più sensibili si saranno posti, ma la cui soluzione resta affidata da un lato alla capacità dei singoli che si fanno promotori del messaggio e dall’altro alla sensibilità – anch’essa tutto sommato affidata al caso – dei destinatari del messaggio stesso. Chi scrive ha fatto, in tal senso, il percorso esat- 65 tamente al contrario di quel che qui compare, invertendo completamente punto di partenza e punto di arrivo, ovvero: l’interesse e la voglia di approfondire un argomento – vasto, ampiamente trattato – come la Resistenza nasce dalla lettura quasi casuale di romanzi che hanno a che fare con quel periodo storico. Da lì la volontà di capire come andarono realmente le cose, fare capo alle biblioteche, alle sezioni locali delle Associazioni Partigiani, ecc. fino al porsi le domande più ‘teoriche’ su vero e falso nella vicende pur così vicine a noi – nella considerazione che la Storia, alla fine, la scrivono i vincitori. E il problema è proprio in questa grande mole di lavoro ‘memorialistico’ di cui non si discute assolutamente il valore in sé – fondamentale per chiunque abbia voglia di approfondire fatti, questioni, avvenimenti, ruoli, personalità coinvolte, ecc. – ma, in un’ottica di coinvolgimento delle giovani generazioni, la sua utilizzabilità, in molti casi risulta quasi nulla. Solo una forte ‘passione’ può spingere alla lettura di certi resoconti25 o alla visione di certe testimonianze26. Anche se, per fortuna, Celebre la frase che campeggia in un lager preservato a memoria di eventi terribili: «Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo». La frase è attribuita talvolta a Primo Levi, talvolta al filosofo Santillana. 23 Non posso esimermi da una piccola nota (polemica) di carattere metodologico: ho letto GENTILI (2006) in relazione ai (presunti) processi per stregoneria tra il XVII e il XVIII secolo nella zona della Val di Vara e Sarzana, dove l’autore conclude, in buona sostanza, che tali processi, qualora e quando siano avvenuti, non hanno comportato di necessità il rogo, ma nella maggior parte dei casi ‘ammende’ minori e che, alla fine, molto è diventato puro “immaginario collettivo popolare” che sfocia nella leggenda «appunto, da narrarsi durante le lunghe veglie invernali davanti al focolare per impressionare i bambini capricciosi, prima di andare a dormire. Non di più!» (p. 139). Nello stesso periodo mi è accaduto di leggere GINZBURG (1999), che tratta di un argomento analogo, seppure in un’altra parte d’Italia e qualche tempo prima, la cui conclusione è però un po’ diversa. Per quanto io non sia uno storico né tanto meno un esperto di quel periodo, noto che Ginzburg cita sostanzialmente otto diverse fonti, delle quali tre ecclesiastiche (Archivio della Curia Vescovile di Udine, Archivio della Curia Vescovile di Pordenone e l’Archivio Segreto Vaticano) ma le atre cinque ‘laiche’ (Archivi di Stato di: Modena, Pordenone e Venezia, Biblioteca Comunale di Udine e Biblioteca Governativa di Lucca). Gentili invece cita per la sua ricerca solo fonti ecclesiastiche – in buona parte gli archivi vescovili locali (Bugnato, Sarzana, ecc.). Per carità: può essere benissimo che siano gli unici documenti disponibili (e ancora grazie che ne esista traccia), ma quel che voglio dire è che non si può pensare ad una concreta ‘obiettività’ quando si sente una sola campana: c’è sempre una sorta di “deviazione standard” di cui, credo, è necessario tener conto. Altrimenti il rischio concreto è che si trovi solo quel che si vuol cercare. 24 Penso – ripeto: senza sminuirne il valore o la fondamentale portata documentale – a talune parti di AAVV (2001) o a BRIGLIA, DEL GIUDICE, MICHELUCCI (1995). 25 Penso espressamente a GALLETTO (2002). Il cofanetto è, per altro, costituito da ben due videocassette della durata di circa un’ora ciascuna, nelle quali si vedono solo paesaggi, con una voce narrante piuttosto monocorde, con l’utilizzo di 26 66 LUCIANO CELI non per tutte è così27, il problema resta: come ‘tradurre’, rendere interessanti (sotto il profilo narrativo) e in qualche modo anche piacevole, avvincente, una narrazione che rischia di rimanere lettera morta nelle ripetitive edizioni delle pur volenterose amministrazioni comunali e/o provinciali? ARRIVARE ALLA LETTERATURA vicini per chilometri vicini per stagioni traversando frontiere che preparano le guerre di domani CSI, Vicini Il cantautore genovese Ivano Fossati, nella strofa di una bella canzone, sosteneva che solo un grande scrittore riesce a far stare insieme i vivi e i morti. A dire che un grande scrittore è spesso tale solo se è in grado di amalgamare realtà e fantasia per far vivere sulla scena di un romanzo, sia esso (auto)biografico o meno, elementi e tratti distintivi di un’epoca, di un modo di ragionare, di un evento, in modo che arrivino a noi come se fossero realtà, come se la narrazione fosse un affresco, un modo – ma anche un mondo – ‘epico’ di trasferire contenuti che sì stanno nella Storia, ma che hanno un valore che la trascende, che prescinde dalla contingenza della narrazione stessa per arrivare a noi come messaggio, come idea che possiamo fare nostra, che possiamo – per quel che possiamo – tentare, se vogliamo, di applicare alla nostra vita. Questa la grandezza di scrittori come Beppe Fenoglio. Il talento di scrittore, il valore aggiunto di una capacità narrativa ed emozionale è l’unica, ultima speranza che il ‘messaggio’ arrivi, che la memoria non vada persa, che le persone, soprattutto quelle più giovani, si interessino di questa pagina di Storia. Perché sì, sono importanti gli eventi della memorialistica, ma è materiale che va trasformato, che va rielaborato non per mistificarne la realtà, ci mancherebbe!, quanto piuttosto per compiere l’operazione del “cartello indicatore”28, per creare, cioè, un’opera, magari anche di fantasia (un video, un romanzo, una canzone, un’opera teatrale), ma che indichi, che spinga verso un episodio della Storia altrimenti muto, sbiadito, che non emoziona, troppo spesso fatto di sterili date sui cippi, di conte di morti dalle foto sbiadite e ingiallite che invece devono essere rispolverate per tornare vive, per tornare a essere presenti in noi, per tornare a raccontarci davvero una storia che merita di essere narrata ancora una volta. Una storia utile a capire chi siamo, da dove veniamo, a capire i pericoli che minacciano e limitano la nostra libertà e democrazia. In tal senso mi rifaccio, ancora una volta, alle parole di Ugo Cerrato: «Alla fine di febbraio29 sono andato a un congresso nazionale dell’Anpi […]. Ha preso la parola il presidente Scalfaro per un’ora e mezza, io ero seduto in seconda fila. Eravamo mille, cinquecento delegati […]. Io ho visto le prime file piangere un’ora e son un linguaggio talvolta aulico e desueto. Difficilissimo da seguire anche per il volenteroso conoscitore delle vicende legate al secondo conflitto mondiale. Si veda NICODEMI, LENZETTI (2006), ma anche, sul versante delle biografie BERNIERI (2004). Mentre in video risulta di sicuro fascino e interesse: Circolo Culturale “Sirio Giannini” (2002) – si veda la bibliografia al fondo del presente articolo. 27 L’idea del “cartello indicatore” mi è venuta durante una visita alla National Gallery di Londra: molti dei quadri esposti nella celebre galleria sono di italiani famosissimi, a partire da Leonardo Da Vinci e Caravaggio e quand’anche gli autori siano ‘locali’ (penso a Turner) i soggetti dipinti sono… l’Italia (di Turner ricordo una splendida veduta di Venezia). Tutto questo mi sembra alla fine un gigantesco cartello che indica il nostro Paese, che fa venir la voglia di visitarlo. La dinamica dovrebbe essere mutatis mutandis la stessa per la Storia della Resistenza e dovrebbe, non a caso, passare dall’arte – nel senso più ampio che si può dare a questo termine. 28 29 Si tratta del febbraio 2006. “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... tutti ottantenni […]. Hanno pianto perché è successo questo, desidero che lo sappiano i giovani. Come si usa ad un congresso, questo era un congresso di partigiani, voi non ne avete saputo niente e vi dico subito il perché. Chi presiedeva in quel momento, dopo gli inizi, ha cominciato a leggere i messaggi istituzionali, perché così si usa in un congresso. E il primo è stato quello di Ciampi, che è anche molto bello, con applausi che la gente si è alzata in piedi, perché Ciampi è Ciampi. Quale viene dopo Ciampi secondo voi come istituto… Dico subito che per cinque anni quel presidente lì non ha mai parlato né di liberazione né è andato a una manifestazione e questo la dice lunga! Il vicepresidente è il capo del Senato, seconda carica dello Stato, che è Pera e il terzo era Casini, presidente della Camera. Questi istituzionalmente sono nell’ordine. Come dice: “questo è il telegramma di Pera”, in piedi urla e fischi a non finire. La signora che presiedeva in quel momento […] ha tranquillizzato, li ha fatti sedere, poi ha detto: “vi chiedo scusa, noi siam partigiani, questi rappresentano le istituzioni, è mio dovere procedere”, e aveva ragione lei perché noi dobbiamo anche garantire quello, come abbiamo garantito la Costituzione in passato. E non era verso. E lì ha letti attraverso un disordine particolare. […] Improvvisamente sono sparite 40 televisioni, tutta la sala stampa, perché i poteri che ci sono in giro sono più forti di quello che crediamo noi. È piombato un silenzio al congresso: non un telegiornale per tre giorni ne ha parlato; non un giornale – se non quelli dei politici […] – infatti voi non sapete niente. Allora ha preso la parola Scalfaro […] e ci ha raccontato tutto: da ottobre era pronta – te lo dico per farti un elogio30: questo convegno non si sarebbe potuto fare se si fosse realizzato quello che era pronto a ottobre – una legge di tre articoli: il primo articolo dice […] 67 “il 25 aprile è data non condivisa dagli italiani e pertanto è una data che va abolita”. Punto. Secondo articolo, e detta il tempo […]. Il che significa che abbiamo corso il rischio che il 25 aprile non lo faremo più, non l’avremmo fatto più. Io sono convinto che continuerò ad andare a Valdivilla, perché dopodomani mattina io parlerò proprio lì a Valdivilla […], però abbiamo avuto tutti dei dubbi. E questa legge, che poi ne volevano farne anche un decreto, ci si è messo di traverso uno che si chiama Ciampi, tanto perché lo sappiate a futura memoria. Questa legge, come prima firma – ne ha 22 firme –, come prima firma ci è scritto Pera, che è la seconda carica istituzionale. Ispirato da quel grande consigliere genovese, filosofo, che non ancora capito bene che ruolo abbia, che si chiama Baget Bozzo. Voi pensate 500 delegati partigiani che si sentono dire: “buongiorno, il 25 aprile non c’è più, voi tutti a casa”. Io credo che fin quando saremo ancora vivi qualche d’uno, adesso questo pericolo è scampato. Però l’abbiamo corso»31. Ecco perché è importante che si sappia, che si racconti. Proprio in relazione alla “potenza” del mezzo narrativo, ho avuto occasione di ascoltare dalla stessa Margherita Fenoglio qualche semplice episodio che però la dice lunga sulla eco che la grandezza narrativa del padre ha riscosso: l’aver trovato, per esempio, bigliettini sulla tomba del padre, probabilmente di una ragazza giovane, innamorata di Johnny, il partigiano protagonista del romanzo. Proprio di questo si tratta: si capisce d’aver fatto centro quando le persone comuni ti vengono a cercare per sapere, per conoscere: sono state incuriosite, hanno letto, si sono documentate. Spesso arrivano a chiedere cose molto specifiche. Spesso hanno solo voglia di ringraziare per la piccola grande storia che gli è stata raccontata. Riferito a Damiano Grasselli, attore della compagnia Teatro Caverna e principale organizzatore della due giorni di Bariano (BG). 30 Intervento di Ugo Cerrato all’iniziativa Il partigiano Fenoglio: appunti per una resistenza della bellezza, organizzata dal Teatro Caverna. Bariano (BG), 23-24 aprile 2006. 31 68 LUCIANO CELI È quella che in più di una occasione pubblica e privata Ugo Cerrato ha chiamato “la mia paga”. Andar per scuole – lui che per altro ha fatto di mestiere il maestro elementare – a raccontare e di Fenoglio e della Resistenza: «un altro [passo] che fa sempre effetto sui ragazzi quando lo racconto: è la vigilia di Natale, lui è solo su alla Cascina di Langa, passa di lì il mugnaio del posto e gli dice: “Senti Beppe […] vieni da noi, mia moglie c’ha ancora un po’ di farina e fa le tagliatelle” […] e lui va. È l’antivigilia di Natale. Questo qua è un amico di suo papà, il mugnaio, e gli dice: “Beppe, ma non ti accorgi di cosa sta succedendo, lo stesso Alexander lo ha detto” – c’era un proclama di Alexander che diceva ci rivedremo in primavera […] – “non vedi vi fanno cadere tutti: un po’ le spie, un po’ con qualche rastrellamento, sei rimasto solo, gli altri si sono un po’ imboscati. Vai da una famiglia che conosci, scendi in pianura, torna sulla collina di Alba”. Insomma gli dà dei buoni consigli. E lui lo lascia dire, dire, dire. E dice: “No, se io vado via adesso do ragione a loro. Vuol dire che aveva ragione la parte avversa. Io sono venuto per fare il mio dovere fino in fondo”. E lui dice: “Ma vi faranno cadere uno per uno come gli uccelli dal ramo” […]. Lui si alza in piedi. Non mangia le tagliatelle. Chiama la cagna lupa. Esce fuori nella notte, piena di neve. E quasi cantando dice: “Io sarò l’ultimo passero sul ramo!” […]. Questo è il partigiano Fenoglio […]»32. Oppure, ancora, di quando «lui è con degli amici […] e fuggono per tre giorni durante un rastrellamento e lui descrive: “I tedeschi hanno messo le sbarre alle Langhe”, non si poteva più uscire perché Santo Stefano, Asti, Alba, Ceva, bloccano le Langhe e dalle Langhe non si scappava più. Meno male che la configurazione delle Langhe è stata la salvezza di tutti noi […]. Lui in questo periodo qui perde, il secondo giorno, i suoi due amici principali. È convinto che siano stati uccisi; è quasi disperato quando si incammina per la strada che lo porta alla Cascina della Langa. C’è una curva dove io l’avrò portato dal ’60…, nel ’58 […]. È una curva molto bella che vede l’anfiteatro di Alba, illuminata in fondo. Lui si siede, vuol farsi una sigaretta ma non ha più le cartine, tabacco da tutte le parti. Ed è triste perché è solo, tornando a Cascina di Langa per dormire. Il sole sta tramontando, il suo thompson era appoggiato lì […], pensa e dice: “A quest’ora la notizia dei miei due amici caduti nelle loro mani sta serpeggiando nelle vie di Alba”. Medita un po’ e dice: “Così capiterà quando toccherà a me: la notizia trascorrerà da una porta all’altra”, ma improvvisamente […] raccatta l’arma sua, si alza in piedi, guarda Alba di lontano e dice: “Ma l’importante è che ne resti sempre uno sull’ultima collina ritto in piedi a vegliare”. Questa è una frase stupenda, guardate […]. A me è capitato di dire questa frase proprio qui vicino […], a Casalpusterlengo, c’erano tutti studenti di liceo, ho detto questa frase, hanno applaudito tutti, poi ci siamo salutati. Io mi metto il mio giaccone, come farò stasera, che era appeso all’attaccapanni della palestra – ma lì erano sei o settecento ‘sti ragazzi, perché è grosso questo Casalpusterlengo. Quando arrivo a casa, cerco le chiavi per entrare e vedo una busta grande nella tasca che io non avevo. Entro in casa e curioso la apro: una sfilza di nomi… e sotto c’era scritto: noi resteremo sempre in piedi sull’ultima collina a vegliare. Questo è importante! Anche voi lo dovete fare!»33. Eccola la paga di Ugo Cerrato: una vera e propria ‘collezione’ – che ho avuto il piacere di vedere almeno in parte – di biglietti e bigliet- Ibid. Trascrivere il parlato di Ugo Cerrato è impoverire la ricchezza della sua persona, della sua mimica, della sua gestualità, dell’inflessione delle sue parole, pronunciate una vita intera, nel ricordo del suo grande amico Beppe Fenoglio, ma anche di quel tempo così importante trascorso insieme. Parole rotte dalla commozione, ancora una volta, lì di fronte a noi, a nostra volta commossi. Ugo era ed è ancora questa forza, questa persona capace di prenderti per mano e portarti con sé verso il suo mondo, verso una condivisione di ideali e di bellezza. 32 33 Ibid. “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... 69 Ugo Cerrato sta spiegando qualcosa sull’arte a un Beppe Fenoglio un po’ perplesso. Spettatore l’ingegner Morra. Copyright Aldo Agnelli - Archivio Centro Studi “B. Fenoglio”, Alba. Per gentile concessione tini che gli studenti, le famiglie, le persone gli hanno messo in tasca durante i suoi interventi, a testimonianza che il messaggio è arrivato, che l’aspetto importante dell’intera questione è stato recepito. Ammesso che la letteratura resistenziale una funzione la debba avere, questa dovrebbe essere. Letteratura che volutamente nelle parole di Ugo, si confonde – nel senso etimologico di fondersi insieme – alla realtà, in una narrazione, in una affabulazione dai risultati sorprendenti. Un aspetto che, chi è stato amico di Ugo, percepisce in questo terribile silenzio, non più colmato dalla poesia di parole che uscivano stentoree quando narrava, per esempio, di come conobbe il suo grande amico Beppe Fenoglio: «Una mattina del giugno del 1933 – madonna, non c’era nessuno di voi! 34 – ero ancora a letto e sento tan tan, pum pum, giocare a pallone a calci, sotto la mia finestra. Io stupitissimo mi affaccio alla finestra: non ho visto chi giocava, ma ho visto il pallone; era proprio un pallone di cuoio con tutti i dadi – una volta si usava, adesso son colorati, bianchi e neri, ma allora eran così… – ed erano il papà della signora Margherita34 e suo fratello Walter. Uno aveva undici anni e l’altro dieci anni. E io cosa ho fatto? Mi sono buttato giù da com’ero di sopra e mi son messo a calciare il pallone senza manco chiedere chi erano. E dal 1933 continuiamo a giocare la partita. È successo con lo zio, ma con papà io ho sempre continuato a giocare»35. Perché Ugo era così, «in grado di passare da una mattinata in una scuola media di Casalpusterlengo ad una serata dell’ANPI a Si riferisce in prima persona a Margherita Fenoglio, tra il pubblico. Intervento di Ugo Cerrato all’iniziativa Il partigiano Fenoglio: appunti per una resistenza della bellezza, organizzata dal Teatro Caverna. Bariano (BG), 23-24 aprile 2006. 35 70 Boves, per poi prendere l’aereo la mattina dopo per Roma o Edimburgo, con la leggerezza di un adolescente. La stanchezza la nascondeva, ad occhi esterni, nei sorrisi e negli abbracci, nel baciamano alle signore, nel suo alone di entusiasmo incorruttibile, di curiosità continua verso le persone che conosceva. Se qualcuno gli diceva di un qualche studente (non importa di quale livello) che desiderava parlargli, spalancava le porte della sua casa di Alba, o il cancello del suo giardino di San Benedetto. Per almeno vent’anni – prima che ci pensassero seriamente le Istituzioni – la sua raccolta di articoli di giornale, di atti di convegni, di documenti di prima mano, di lettere hanno costituito, insieme con i ricordi diretti suoi e di sua moglie Luciana, il vero, seppur non ufficiale, centro di documentazione fenogliano della nostra città; e anzi si deve a lui (e ad un’altra grande amica e “custode” di Fenoglio, la signora Giuseppina Masera), se molte cose si sono conservate, e se le Istituzioni pubbliche e private hanno potuto attingervi. Le decine di faldoni di ritagli e fotocopie e fotografie, suddivisi per colore in base agli argomenti, sono un’altra immagine che si associa assolutamente ad Ugo Cerrato: raccoglitori ad anelli allineati sugli scaffali di Alba, di San Benedetto – e (succursale viaggiante, specie di bibliobus fenogliano) nel portabagagli della sua Volvo. In caso di “emergenza”, era sufficiente aprire il cofano, e c’era pronto (per una scolaresca in gita, per qualche conferenza fuori porta, per chiunque) un kit essenziale di materiale da leggere e divulgare – tutt’altro che casuale, anzi: c’erano diversi approcci, a seconda dell’uditorio. Specie nelle scuole, Ugo aveva suoi protocolli, e suoi convincimenti: insisteva con gli insegnanti perché Fenoglio non fosse un autore astratto e lontano, e il suo modo di presentarlo (immerso nella vita quotidiana, nel LUCIANO CELI pieno della sua umanità) lo rendeva molto più vivo, e quindi interessante, di qualsiasi altro profilo. Insisteva poi molto sul fatto che andassero letti per primi i racconti, e certi racconti (Un giorno di fuoco, ad esempio), per conquistare anche i ragazzini alla lettura di un autore che può bastare per una vita»36. LA RESISTENZA OGGI: UNA INTERVISTA A PIETRO ANGELOTTI Per tastare il polso a una situazione è importante vedere quale ruolo sociale possa avere oggi, quale sensibilità possa accendere nelle giovani generazioni l’idea di Resistenza, ma in tal senso è senz’altro utile ascoltare la viva voce di chi visse l’esperienza partigiana. L’incontro con Pietro Angelotti avviene il 23 aprile, presso la Fivl (Federazione Italiana Volontari della Libertà – frangia cattolica del complesso movimento partigiano37), di cui personalmente ignoravo l’esistenza, pur essendo, la sede, sostanzialmente a fianco di quella della locale sezione dell’Anpi, a Massa. Una divisione fisica, pur nella stessa struttura (il palazzo Bourdillon di Piazza Mercurio), che rispecchia una scissione storica. Qual è la sua storia? Come ha vissuto il periodo 1943-45? Sono nato nel 1922, a vent’anni in Russia e rimpatriato nel gennaio 1943, dopo un pellegrinare disastroso nella steppa nevosa: parte a piedi e parte, fortunatamente, su un’auto militare. Rientrato, nel luglio 1943, all’ospedale militare di Verona, fui prigioniero degli occupatori tedeschi il 9 settembre, in pieno marasma morale delle autorità militari italiane. Da qui, a distanza di pochissimi giorni, in treno, insieme ad altri, venni trasferito a BORRA (2007,1). Ancora disponibile su web, all’indirizzo: http://www.stpauls.it/gazzetta/0704ga/0704ga05.htm e ripubblicato anche all’indirizzo: http://slowforward.wordpress.com/2007/03/18/ugo-cerrato-maestro/. 36 Pietro precisa che: «I partigiani della FIVL, “Ribelli per amore” formano un’associazione di ispirazione laico-cristiana, fedele alla Carta costituzionale nei suoi principi fondamentali, coerente ai valori originali propugnati dalla Resistenza: amore per la Patria, una e indivisibile e onore per il tricolore». 37 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... La Spezia, rinchiuso in “Arsenale” e poi imbarcato sulla nave ospedale “Aquileia”, al comando di un ufficiale tedesco cattolico, per una missione – si diceva – “umanitaria” a Tunisi o Tripoli. Alla fine di settembre, primi di ottobre, fortunatamente – dico per me fortunatamente – venne costituita, liberato Mussolini, la famigerata repubblica sociale fascista. Fummo sbarcati e ricondotti, in treno, a Verona e rinchiusi nella sala del dopolavoro ferroviario, sorvegliati, a turno, da un gendarme armato. Cercai subito di familiarizzare con loro, più anziani di me e già padri di famiglia, mostrando loro le fotografie di famiglia, così come ebbero a fare loro. A un certo punto uno di loro mi indicò la scalinata che accedeva alla sovrastante ferrovia, invitandomi a fuggire. Mi fece capire che, probabilmente, la nostra destinazione era la Germania per lavorare (“Arbeiten, arbeiten…”, ripeteva). Gli feci capire che preferivo seguire il mio destino, se così era. Ma, approfittando di questa amicizia insperata, pensai ad organizzare la fuga. Soltanto in sette si resero disponibili. C’era un ottavo militare di Canevara di Massa, vicino al mio paese di Casette – un certo De Carli Afro, vulgo Sirio – che non riuscii a persuadere: aveva paura di ritorsioni contro la sua famiglia. Dopo la liberazione ne feci ricerca, trovandolo: era reduce dalla Germania, ove da prigioniero, era stato condotto. Mi convinsi che non tutti i tedeschi erano uguali, proprio per la insistenza amichevole del tedesco. Declinando l’invito a fuggire, gli feci comunque capire che avrei desiderato andare a visitare una mia zia che abitava a Verona. Lui acconsentì. Andai così, di corsa, sperando di trovarla aperta, alla lavanderia, ove mi servivo da militare. Alla brava madre di famiglia che da lunghi anni mi conosceva, chiesi se poteva procurarmi dei vestiti civili anche dismessi, non solo per me, ma anche per gli altri sette amici. 71 La brava donna me lo promise ed io, facendomi forte le chiesi, per giustificarmi col tedesco, se poteva presentarsi come zia con me, al dopolavoro ferroviario, ove eravamo trattenuti prigionieri. Accettò con entusiasmo e aggiunse d conoscere bene un ispettore ferroviario che certamente ci avrebbe facilitato la fuga. Fu così che, pronti i vestiti, “la zia” tornò a trovarmi e a informarmi su tutto. Mi baciò affettuosamente, salutò e, ringraziato il tedesco, tornò verso casa. Dopo la guerra, passando per Verona, ne feci inutile ricerca, ma quella mamma – senza nome – è sempre rimasta nel mio cuore. Alle ore 20 circa, al buio, mentre tutti dormivano o fingevano di dormire, compreso il buon tedesco di guardia, mi avvicinai alla porticina di servizio che, attraverso una stretta scalinata, immetteva alla strada ferroviaria. Mi accertai che fosse aperta e con un cenno avvertii i sette fuggitivi, seguendoli per ultimo. Mi raccomandai che fossero prudenti, di dividersi e presentarsi al mattino alla lavanderia, nei pressi dell’ospedale militare. Uscito in strada avvistai un tram diretto a S. Bonifacio. Ancora in divisa militare vi salii con molta indifferenza e da qui, attraverso i campi, ebbe inizio la mia avventura solitaria verso Montebello Vicentino, ove giunsi, a piedi, sostando qua e là. I contadini, la popolazione in generale, era molto solidale con noi e cercavano, in quei primi momenti di sbandamento, di aiutarci in tutti i modi. Così stetti nascosto da una famiglia per 10-12 giorni ed ebbi i primi contatti con le formazioni partigiane che nel frattempo si erano costituite nella zona. Mi invitarono a rimanere, ma rifiutai: il desiderio di tornare verso casa era troppo forte. Così in treno, con un giro tortuoso, giunsi alla stazioncina di Fidenza, prima di Parma. Il treno non proseguiva ed io, fingendomi addormentato, mi sdraiai sul sedile. Un ufficiale tedesco, in ispezione, vedendomi 72 LUCIANO CELI urlò un “Raus - weg!” seguito da un secco ceffone, che mi fece mettere d’istinto la mano sulla pistola che avevo infilata nei pantaloni. Pensai alla mia famiglia, alla mia fidanzata e desistetti da una reazione. Scesi imprecando dal treno. Un distinto signore mi si fece incontro consigliandomi di non inveire troppo, di non farmi notare che lì era pieno di tedeschi. Lui non mi riconobbe, ma io riconobbi in lui il dottor Ugo Pasquali che rimase molto meravigliato quando lo chiamai per nome. Era un medico facoltoso. Ci eravamo incontrati durante la ritirata di Russia e ora il destino ci aveva di nuovo voluto far incontrare. Giunti a Parma mi portò a desinare in un ristorante della città nel pomeriggio. Il giorno stesso, insieme, risalimmo in treno: lui si fermò a Pontremoli e io proseguii per Massa. Data la mia fede democristiana clandestina non entrai a far parte della banda partigiana comunista di Casette. A seguito di contatti che avevo con Giulio Guidoni e col professor Alfredo Moretti – membro del Comitato di Liberazione Nazionale della Lunigiana e preside del liceo classico di Massa – accettai, pur titubante, su loro insistenza l’incarico di commissario della formazione Garibaldi che gli amici e compagni mi offrivano. Così svolsi il mio dovere di partigiano, avendo sempre presente la grande responsabilità che gravava su di noi. Una volta i miei amici partigiani mi dissero di avere catturato una spia: era in divisa e recava con sé un biglietto, che mi disse scritto in Carrara, in un luogo convenuto, che io conoscevo come rifugio clandestino di compagni anarchici. Quelli della mia formazione erano convinti fosse colpevole. Si trattava di un ragazzo giovane, che i miei avevano già messo a bagnomaria, a decantare in un silos di quelli che si usavano per conservare l’acqua, per la segagione del marmo. Andai per interrogarlo e mi confessò di essere analfabeta: non sapeva né leggere né scrivere. Era del sud e si professava partigiano, catturato in un rastrellamento. Gli chiesi di quel biglietto, dove l’aveva avuto, chi gliel’aveva dato e perché. Mi rispose di essere di una formazione partigiana, catturato dai fascisti che gli avevano messo addosso quella divisa; che lui voleva solo scappare per tornare a casa sua, a Palermo. I miei continuavano a volerne la morte, pensando che dicesse menzogne e che, quindi, meritasse di essere messo a tacere per sempre. Sforzandomi un poco riconobbi nella fisionomia di chi gli poteva aver scritto il biglietto, il partigiano Barotti, appartenente alle formazioni del piano, con le quali avevamo contatto. Mandai a chiamare la persona interessata, che non esitò a riconoscere Giuseppe e di avergli scritto il biglietto38: mi sincerai che non fosse una messa in scena, e non lo era. Invitai il partigiano di passaggio a raccontare l’intera vicenda davanti al comandante di formazione, Quinto Antonioli, e a quelli dei nostri pronti a far fuori il malcapitato. Da allora nessuno più osò dire: “dobbiamo uccidere”, “dobbiamo giustiziare”. Accadde anche un altro episodio simile: si trattava di uno studente universitario di Firenze, di cognome “Re”, catturato in un cinema – così ci disse – trasportato in Germania e arruolato nella “Monterosa”. Con una lettera venne accompagnato oltre la Linea Gotica e consegnato alle forze Pietro precisa che: «La verità vera, testimoniata, l’avemmo però in occasione del massiccio rastrellamento tedesco del 2 dicembre 1944, che causò lo sbandamento di molte formazioni partigiane delle zone a nord. Queste formazioni scesero verso Carrara e Massa per attraversare la Linea Gotica e congiungersi alle truppe americane già in Versilia. Il nostro accampamento alle “cave di Gioia”, tra Carrara e Massa, era un passo obbligato. È così – ed io stesso lo udii – che un partigiano di passaggio, ad alta voce e ripetutamente, chiamava indicandolo: “Giuseppe! Giuseppe!”. Lo fermai e gli chiesi se lo conosceva; mi rispose affermativamente, dichiarandomi che si trattava di un loro compagno partigiano, catturato in rastrellamento, del quale non aveva avuto più notizie». 38 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... Alleate perché, per quanto fosse in nostro potere giudicare, era bene che vi provvedesse l’autorità militare alleata, assai più competente. I Patrioti Apuani, invece, stranamente, senza alcuna lettera, ma accompagnato da altro individuo, ci presentarono un giovinetto colpevole di essere fascista, affinché fosse giustiziato. Lo rispedimmo al mittente, senza volerne conoscere neppure il nome. Per altro avemmo un caso che ci ha addolorato e che, a comprova della nostra serietà, riteniamo di evidenziare. Il comportamento infatti, assai disonorevole di un nostro partigiano – al quale si deve ascrivere tuttavia il merito di avere, da solo, in una particolare circostanza, armato di un pistola “mauser”, convinto o costretto tre soldati polacchi e un sergente tedesco alla diserzione, conducendoli all’accampamento – ci obbligò a doverlo espellere dall’appartenenza alla formazione e consegnarlo all’autorità americana oltre la Linea Gotica, perché lo giudicasse. Riconosciuto colpevole di gravi e infamanti reati fu condannato al carcere. Post bellum, per altri reati, ancora condannato dall’autorità italiana, finì in carcere i giorni della sua baldanzosa e intraprendente giovinezza. Qual è l’evento più bello e quello peggiore che ricorda di quegli anni? Quello più bello, in senso generale, consiste nell’aver salvato delle vite umane: nel periodo 1943-45 non è stato giustiziato nessuno. Ricordo che una notte stavamo rientrando all’accampamento, ma era tardi ormai e notte fatta. Così approdammo a una casa di pastori abitata da due anziani. Chiedemmo qualcosa da mangiare e li vidi un po’ in difficoltà sul da farsi. Alla fine la donna sbloccò la situazione e disse “ma sì, facciamo una polenta con un po’ di formaggio”. Capii che erano in difficoltà perché probabilmen39 73 te stavano razionando anche per loro stessi e gli promisi che, a guerra finita, gli avrei portato un sacco di farina bianca per il pane e gialla per la polenta. E così feci: dopo il 25 aprile tornai e non mi riconobbero. Quando gli spiegai chi ero stentarono a crederci e dissero che non mi sarei dovuto disturbare. Dissi loro che non era affatto un disturbo e finirono per accogliermi in casa come si accoglie un figlio. Era dura, ma c’erano questi episodi che davano soddisfazione. La mia povera mamma mi aveva tenuto da parte, su un libretto postale, tutte le decadi39 che avevo maturato in quel periodo: per se non spendeva niente e tenne tutto da parte. E io con quei soldi compravo ciò che necessitava alla mia formazione partigiana, per quel che si poteva trovare in giro. Se ho speso 100, alla fine del conflitto il comandante Memo (Bucellaria Alessandro) e il compagno Garella Giuseppe mi hanno restituito fino all’ultimo centesimo. Sono queste le cose che mi hanno dato la soddisfazione di poter andare in giro a testa alta. Certo, ci sono stati anche i brutti episodi, di cui sappiamo, ma personalmente non posso dire di aver passato momenti veramente terribili, se non forse quando i nazisti diedero fuoco al mio paese, Casette. Venni fuori da dov’ero nascosto e cercai di scuotere mio zio e con lui tutta la popolazione, letteralmente paralizzata dall’incursione dell’invasore, affinché ci dessimo tutti una mano per spegnere il fuoco. È vero inoltre che si viveva in uno stato di continua vigilanza: alcune volte si confondevano gli zoccoli di un cavallo con gli stivali di qualche nazista! Qual è oggi il senso della Resistenza? L’aver instaurato, seppure con fatica, un regime di libertà, di intesa e di pluralismo. Durante il ventennio fascista si era in pieno La decade era la diaria che i soldati riscuotevano ogni dieci giorni. 74 LUCIANO CELI oscurantismo e la mia generazione neanche sapeva cosa volesse dire libertà, se non come concetto astratto40. Abbiamo poi dovuto farci carico di questa libertà voluta e ricercata con passione, e da qui scaturisce quel senso di responsabilità di cui proprio ieri sera hanno parlato Vittorio Foa e Tina Anselmi, intervistati da Enzo Biagi, nella sua nuova trasmissione televisiva. La responsabilità della libertà di cui siamo i fieri guardiani. Pietro Calamandrei, che nella nostra zona non ha certo bisogno di presentazioni, fece diversi discorsi. Tra i tanti le cito – e la invito ad andarsi a leggere – quello del 1954, in occasione del decennale delle Fosse del Frigido e quello del 1955 fatto ai giovani dell’Università di Milano: se non le contestualizzassi quanto Calamadrei disse, potrebbe tranquillamente pensare che tali discorsi siano frutto di riflessioni attuali. E forse è proprio questo il punto: la Resistenza non è finita, non ha esaurito il suo scopo perché alla fine per quanto il mondo intorno a noi sia cambiato, poco è cambiato da quegli anni: ora più che mai c’è bisogno d’uguaglianza, di giustizia sociale, di lavoro, di dignità, di redistribuzione delle ricchezze. Ma anche di una gioventù studiosa, che assaporando la bellezza della vita rifugga dal frivolo piacere, ami e rispetti il patrimonio, riconoscendo che in una società civile “così come la vita familiare è intessuta di diritti e di doveri, poiché non esiste alcun diritto a cui non corrisponda un dovere” (P. E. Taviani)41. Quali erano le speranze di allora e quali quelle di oggi? Se la Resistenza è un valore attuale perché ancora devono essere portate a compimento le battaglie sociali di cui abbiamo appena discusso, le speranze di allora ahimè continuano a essere quelle di oggi… Qual è secondo lei il modo migliore per tramandare alle giovani generazioni l’ideale resistenziale? Come sa ho scritto un libro42 che è stato distribuito in tutte le biblioteche della Toscana. In questi anni sono andato in molte scuole e sono rimasto impressionato da come gli insegnanti – la grande maggioranza, anche se non tutti – mi hanno accolto per tenere delle conferenze alle loro classi. C’è una grande ignoranza in relazione agli eventi che riguardano la Resistenza. Alla fine la modalità sembra essere sempre la stessa: andare nelle scuole a tentare di far entrare nelle teste – ma forse soprattutto nei cuori – degli studenti qualcuno di questi valori. Ma davvero sembra essere una strada che non funziona. O che non funziona più43. In tal senso è utile una breve precisazione per una domanda che può scaturire legittima: ma questi ragazzi che alla fine combatterono il fascismo pur essendo nati in pieno ventennio, cosa potevano pensare di concetti quali democrazia e libertà? La testimonianza di Giorgio Mori può essere d’aiuto: «Ci si può domandare quale fosse il livello di coscienza politica dei giovani di allora, nati sotto il fascismo, anche se magari provenienti da famiglie antifasciste. In genere avevamo una scarsa consapevolezza politica ed eravamo stanchi soprattutto della guerra, delle morti, delle stragi, delle distruzioni, della fame. La vera maturazione avvenne solo in un secondo momento, durante la lotta partigiana, nello scontro con i nazifascisti e nel confronto diretto e nel dibattito politico vero e proprio con i compagni di lotta e con i commissari politici. È questo che determinò la formazione e crescita di coscienza politica e di passione per la partecipazione nei giovani che aderirono alla Resistenza, dalla quale trasposero poi le speranze in un mondo migliore, più giusto e libero». In ANPI CARRARA, LINDI (a cura di, 2006), pp. 48-49. 40 41 Paolo Emilio Taviani è stato Ministro dell’Interno negli anni ’70. 42 ANGELOTTI (2003). 43 E qui ancora corre opportuno l’appello ai partigiani del giurista prof. Piero Calamandrei, di area socialista, di: «Aiuta- “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... Non è mancata lungo tutta l’intervista una pur comprensibile verve polemica contro una sorta di presunta egemonia dell’Anpi in relazione ai meriti sulla Resistenza. Duole vedere che, a 62 anni di distanza, quello che dovrebbe essere ormai un percorso comune, pur rispettoso delle diverse posizioni politico-ideologiche, è ben lungi dal realizzarsi. A conclusione del suo volume Pietro dice: «Dalla doverosa esposizione storica dei sopraestesi avvenimenti nazionali e locali le Associazioni patriottiche della Resistenza 1943/1945 debbono trarre insegnamento da tramandare alle nuove generazioni. Se è vero come è vero che, durante la lotta di liberazione per la conquista delle libertà democratiche – tranne alcuni casi di facinorosi provocatori – ci fu in noi e con noi un sostanziale e responsabile comun denominatore che affratellava i Ribelli per sconfiggere il nazi-fascismo, appare necessario quindi che la concordia, la comprensione, il solidarismo, l’amore soprattutto, prevalga sopra ogni tentazione sopraffattrice e di prevaricazione. Da parte nostra vi è la consapevolezza di quanto sia necessario, di fronte a un risorgente autoritarismo che offende il pluralismo democratico, procedere ad intese unitarie. È auspicio che manifestazioni ed altre celebrazioni in onore e riconoscimento del movimento resistenziale avvengano, nel reciproco autonomo pensiero, all’insegna del solo Tricolore “senza stemma e senza macchie”»44. SENSIBILIZZAZIONI DAL MONDO DELLO SPETTACOLO Il problema dunque rimane quello di arrivare ai cuori delle giovani generazioni. Ugo Cerrato, 75 l’amico di Beppe Fenoglio, ha trascorso molto del suo tempo andando di scuola in scuola. Insieme a lui e a Pietro Angelotti, molti altri partigiani lo hanno fatto, pur non potendo vantare un’amicizia importante come uno scrittore del calibro di Fenoglio per averne, di conseguenza, un accesso privilegiato alla letteratura. Allora diviene importante esplorare proprio questo ambito, quello delle arti. La breve carrellata che segue ha il solo scopo di vedere cosa ancora si faccia per riportare l’attenzione sull’argomento. Un paio d’anni fa, in occasione dei sessant’anni dalla liberazione, un gruppo – 4, diventati ora 5 – di giovani valenti romanzieri di successo, che amano nascondersi dietro lo pseudonimo Wu Ming (originariamente Luther Blisset), hanno indetto una specie di “concorso” narrativo, dal titolo La prima volta che ho visto i fascisti. Bella l’iniziativa, l’introduzione, gli interventi45. E, a proposito di letteratura-documento, è doveroso segnalare la riedizione del ‘blob’ colto di Galante Garrone: vedere, come è accaduto a chi scrive, immagini di repertorio del Duce, fa uno strano effetto perché l’arma – forse la principale di quest’uomo – sembrava essere la pantomima e nella fattispecie: di se stesso. Vederlo affacciato ad un balcone, in un discorso di piazza, di fronte a una massa adorante, faceva letteralmente ridere perché Benito Mussolini era capace di passare dall’atteggiamento più serio e temibile a una postura scomposta e (auto?)ironica. Proprio questo aspetto venne colto da un antifascista della prima ora: «Carlo Galante Garrone, fratello del “mite giacobino” Sandro, [e lo spinse] a compilare un libercolo in cui alcuni detti e pensieri del Duce, desunti da discorsi e da libri, venivano commentati in re i giovinetti che forse imparano su ignobili testi di storia, messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazioni del fascismo e oltraggi alla Resistenza, dovete aiutarli a conoscere e a ricordare la verità e a diventare la nuova classe politica, memore del recente passato e custode dei valori che questo passato ha lasciato all’avvenire» (dal discorso del 21 ottobre 1954 a Massa). 44 ANGELOTTI (2003), p. 49. È tutto rintracciabile ancora su web, all’indirizzo: http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/antifa/ primavolta.htm 45 76 LUCIANO CELI modo umoristico e denigratorio, affinché “se il fascismo è davvero una maledizione eterna che grava sul nostro destino, cerchiamo di combatterlo con le parole del suo capo: con l’arma del ridicolo (…) nella speranza che la infinita miseria degli scritti del duce faccia crollare il mito della grandezza di Mussolini”. Diffuso in copie dattiloscritte, clandestine, circolò fino al 1944 tra le formazioni partigiane di Giustizia e Libertà del cuneese e della Val Pellice, per poi essere pubblicato da Arturo Felici (Panfilo) a Cuneo dopo la liberazione. Viva il capomastro!, questo il titolo, rivede la luce a dieci anni dalla scomparsa di Carlo Galante Garrone»46. Seguendo la vena ironica legata al paradosso della guerra, si scopre ben altro47: «La sua vita è stata come un film: da Weimar al nazismo, dall’Urss alla deportazione a Dachau, dalle speranze deluse nell’Est comunista al dopoMuro. Erwin Geschonneck, il Grande Vecchio del cabaret tedesco, […] per la cultura e la memoria della Germania […] è un simbolo, un monumento vivo e parlante. […] Star del cabaret e del cinema nell’instabile, ma vivace repubblica di Weimar, sfidò i nazisti facendosi fotografare nudo e crocifisso su una svastica. Fuggì in Urss, ma il suo umorismo fu presto sgradito: venne espluso, andò a Praga e pochi mesi dopo arrivò la Wehrmacht. Finì a Dachau, e nel lager organizzò il cabaret clandestino»48. Per tornare alla letteratura, a quelli che possiamo definire forse romanzi storici, è utile segnalare due recentissime uscite. La prima, tutta italiana49, è una specie di poliziesco ambientato sull’appennino tosco-emiliano. La trama si sviluppa a seguito della fucilazione di un partigiano, giustiziato dai suoi compagni per 46 aver commesso la strage di una intera famiglia fascista della zona. Protagonista è Benedetto Santovito, carabiniere di origine salernitana che, scoppiata la guerra, viene mandato sul fronte russo. Si salva e, al ritorno, dopo l’8 settembre ’43 decide di darsi alla macchia e di entrare nelle formazioni partigiane della zona con il nome di battaglia Salerno. Dati i trascorsi da carabiniere, gli viene affidata dal suo comandante una piccola indagine sulla fucilazione del partigiano da parte dei suoi compagni. Non ne viene fuori nulla: Santovito-Salerno non riesce a dipanare una matassa sulla quale dovrà tornare, a guerra finita, 16 anni dopo, nel 1960, per ristabilire una verità che mostra la pochezza dei destini umani: a persone mosse dai grandi ideali di una battaglia per la giustizia e la libertà si accostano fatalmente persone che pensano al proprio tornaconto personale, in nome del quale non esitano a sacrificare tutto ciò che si frappone ai loro obiettivi. Il secondo romanzo-documento, non ancora tradotto in Italia50, è di Jonathan Littel, uno statunitense che vorrebbe essere francese (al punto da scrivere il romanzo direttamente in questa lingua). Il consistente volume – oltre 900 pagine – narra la vicenda personale di Max Aue, omicida, omosessuale, che pure intrattiene un rapporto incestuoso con la sorella e, pur non avendo velleità di carriera, riceve continue promozioni perché è un bravo burocrate e un grande organizzatore. «Quando si finisce di leggere Les bienveillantes, il romanzo di Jonathan Littel che ha appena vinto il premio Goncourt in Francia e ha ottenuto in questo Paese un successo di pubblico senza precedenti, ci si sente senza fiato, demoralizzati e, nello stesso tempo, Cfr. NOVELLI (2007,2). Oltre a film universalmente conosciuti quali La vita è bella (1997) del nostro Benigni e Train de vie (1998). Per dire solo i più recenti e senza citare mostri sacri come il Charlie Chaplin de Il grande dittatore (1940). 47 48 Cfr. TARQUINI (2006,2). 49 MACCHIAVELLI L., GUCCINI F. (2007). Lo sarà probabilmente questo autunno per i tipi di Einaudi, anche se QUIRICO (2006) lo dà come in traduzione per Mondadori. 50 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... stupiti di fronte a questo viaggio dentro l’orrore e all’oceanica ricerca che lo ha reso possibile. Non ricordo d’aver mai letto un libro che documenti con tanta minuzia e tanta profondità gli spaventosi estremi di crudeltà e di stupidità raggiunti dal nazismo nella sua ansia di sterminare gli ebrei e le altre “razze inferiori” durante la sua breve ma apocalittica parabola. Tutto può essere definito romanzo e anche questo libro è stato chiamato così, sebbene l’aspetto propriamente romanzesco di queste pagine – l’immaginato, il fittizio, gli aggiustamenti della realtà compiuti dall’autore – sia il meno interessante, mero pretesto per catapultare il lettore di fronte a un’esperienza storica spaventosa»51. Un romanzo «che in Francia ha fatto il botto con vendite incredibili e paragoni con Tolstoj o Stendhal, in Germania ne ha fatto un altro, sempre con vendite importanti, ma anche con polemiche più che appassionate»52. E, tornando a Fenoglio, una letteratura che può essere trasformata – essendo sufficientemente bravi, motivati e preparati – in una sceneggiatura teatrale. È il caso dei ragazzi del Teatro Caverna, scopritori di una insita musicalità proprio nelle opere del partigiano albese. I loro spettacoli – pur non avendo una diretta attinenza con le opere di argomento resistenziale dello scrittore – sono molto particolari e costituiscono una prova considerevole per gli attori, che, dopo aver stravolto il testo narrativo, lo devono mandare a memoria. Teatro Caverna ha avuto, almeno localmente53, un bel successo due anni fa con L’amal’ora54 e lo scorso con Fuoco! Il teatrino di Gallesio55. Quest’anno hanno pensato a dei laboratori teatrali, per svelare il “dietro le quinte” di opere come Fuoco!, ma, forse anche a causa di un non proprio ideale coordinamen51 VARGAS LLOSA (2006). 52 VIALE (2006). 53 Nelle Langhe. 54 Basato su La Malora, di Beppe Fenoglio. 55 Basato su Un giorno di fuoco, di Beppe Fenoglio. 56 (LA) STAMPA (2007,4). 77 to con chi avrebbe dovuto dare rilievo alla notizia, il laboratorio è andato deserto. E questo è indicativo di come, nonostante gli sforzi, si abbia vita difficile nel raggiungere quell’obiettivo – che dovrebbe essere primario anche per le amministrazioni locali – di sensibilizzazione di cui tanto si parla: basta un intoppo, un qualcuno che non faccia come dovrebbe il proprio mestiere e il lavoro viene vanificato. Per questo forse non bisognerebbe mai abbassare la guardia, anche di fronte a momentanei successi. In teatro si trova ancora qualcosa, con l’opera “Resistenti”: «Raccontare la Resistenza è un compito che, anche a distanza di sessant’anni, richiede un continuo esercizio analitico ed un costante aggiornamento delle testimonianze. […] Non vicende qualsiasi, ma fatti precisi, legati alle vite di quei ragazzi italiani appartenenti alle classi ’25 e ’26 che, ricevuta la chiamata alle armi per la Repubblica di Salò, scelsero di fuggire in montagna e diventare partigiani»56. Sul versante cinematografico è interessante segnalare almeno due uscite recenti: la prima, di carattere più generale apparentemente lontana dall’argomento resistenziale, è di Clint Eastwood. Il noto attore, passato ormai dietro la cinepresa da diversi anni, ha deciso di affrontare un capitolo tra i più duri per gli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale: la battaglia di Iwo Jima, uno scontro nel quale morirono 20mila giapponesi e 6mila americani. La novità però consiste nell’affrontare lo stesso tema da entrambe i fronti di guerra, con due film diversi che trattano lo stesso argomento, uno prodotto in lingua inglese e l’altro in giapponese. Se l’iniziativa è lodevole non mancano le polemiche sull’attendibilità della ricostruzione: «cominciano a circolare le proteste sull’assenza 78 LUCIANO CELI nel film di soldati afro-americani (900 combatterono su quell’isola, più del 90 per cento di quelli che trasportavano le munizioni). Così come erano mancati in “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg […]. “In tutti i film fatti su Iwo Jima non vedi mai un viso nero”, dice il sergente McPhatter, ex marine americano oggi 83 anni, che partecipò a quella battaglia»57. Un capitolo questo che forse, a buon titolo dovrebbe stare nel paragrafo successivo, quello legato alla memoria. La seconda uscita è Black Book, un film del regista olandese Paul Verhoeven che tratta la storia di una ragazza ebrea, divenuta spia nelle file naziste, ma alla fine viene braccata sia da questi che dai partigiani. Ed è proprio dagli olandesi che la accusano di collaborazionismo che riceve le accuse più brucianti58. Un altro aspetto importante è quello musicale: è utile dirlo perché, nel mio caso, è stato curiosamente la via preferenziale che mi ha condotto ad affrontare il complesso argomento resistenziale. Accanto agli spesso citati CSI59, c’è da segnalare un esperimento di confine tra lettura, recitazione, musica (jazz) e teatro: Come si diventa nazisti di Antonio Damasco. Un’idea che nasce da un preciso episodio della Storia: «Il 13 luglio 1942 gli uomini del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca, circa 500 persone, entrarono nel villaggio polacco di Jòzefòw. Molti erano appena stati arruolati, tolti dalle loro famiglie, troppo vecchi per un servizio combattente attivo, di varia origine, operai, impiegati, commercianti, artigiani e uomini di chiesa. Lavorarono sodo, quel giorno, alla loro prima operazione: al tramonto essi si macchia57 BIZIO (2006). Ma cfr. anche CAPRARA (2007). 58 FUSCO (2007). 59 Cfr. la bibliografia al fondo, alla sezione discografia. 60 Tratto dalla locandina dello spettacolo. 61 BERNARDINI, FRANCIOSI (2005). rono di 1500 omicidi, tutti ebrei di Jòzefòw. Come fu possibile che gente comune potesse trasformarsi in questo modo? Non erano nazisti, né fanatici; erano quasi tutti di Amburgo. Questi uomini attempati in un solo giorno scelsero di diventare complici dell’orrore nazista, e quindi nazisti a loro volta»60. Infine si vogliono segnalare altre forme d’arte come la pittura e la fotografia: sebbene risulti difficile addentrarsi nello specifico, anche per contingenti problemi di spazio, vale la pena segnalare un bel libro fotografico al femminile, curato da Giovanna Bernardini e Ippolita Franciosi61 e un volume sulla pittura di Sandro Beconi che rese più volte omaggio alle vittime della strage di Sant’Anna di Stazzema con i suoi quadri62. Tutto questo serve – o dovrebbe servire – a contrastare quel che fin troppo spesso si legge sui quotidiani. In una curiosa “intervista impossibile” si legge: Pronto. Chiamo dal ventunesimo secolo. Parlo col signor Dante Di Nanni? Sono io. Chi è all’apparecchio? Un torinese del 2007. Avrei bisogno del suo aiuto. Se posso… Vede, mio figlio tra poco compie un anno. Sa com’è, le preoccupazioni di qualunque genitore… Io sono morto a diciannove anni, i tedeschi e i fascisti non mi hanno fatto andare oltre. Cosa posso saperne di figli? Temo di non poterle essere utile. Aspetti, mi faccia spiegare. Sa, oggi basta aprire un giornale e… non so come dirglie- BECONI (2001). In questa modesta carrellata manca senz’altro tutto il mondo internet, nel quale si possono trovare moltissimi siti istituzionali che hanno reso disponibile tanta documentazione interessante, costituendo spesso una vera e propria “rete nella rete”. Penso ad uno di questi, visitati di recente: http://www.memoriadellealpi.net/. 62 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... lo. Lei entra in uno stadio, per una partita di pallone, e ci trova ragazzi che sventolano bandiere con la svastica…63 Con la svastica? E questo è niente. Ci sono studiosi, gente che scrive libri, che non fanno altro che cercare di dimostrare… No, non riesco a dirlo… Non a lei… Coraggio. Non può essere peggio delle cose che ho visto. Insomma, dicono che voi partigiani… e i repubblichini… che non c’era differenza, in fin dei conti lottavate tutti per degli ideali.64 Dice sul serio? Sì. E poi battono e ribattono su certe vendette partigiane, su certe cose successe dopo il 25 aprile ’45…65 LA GUERRA DELLA MEMORIA Di guerra vera e propria si tratta. È scoppiata all’inizio di quest’anno. Le prime avvisaglie si sono avute, per la verità, verso la fine dello scorso anno, a seguito dell’ennesima polemica che l’ennesimo libro (La grande bugia) di Giampaolo Pansa, giornalista e non storico di professione – per sua stessa ammissione – ha suscitato66. Giorgio Bocca, pur non volendo entrare in polemica con Pansa, risponde in una intervista in calce alla stessa pagina, anche perché un capitolo del libro (Saluti da Cuneo) riguarda proprio lui67. La questione viene ri- 79 presa a qualche mese di distanza, in tempi più recenti, e ha uno strascico che, manco a dirlo coinvolge anche lo stesso Fenoglio. Infatti in quel libro Pansa tanto denigra Bocca, quanto, pur per accenni, elogia Fenoglio (in uno dei primi capitoli, Il maestro di Alba). Ne segue che, in una intervista68 nella quale il pretesto è presentare la ristampa di un suo vecchio libro69, lo stesso Bocca ne ha per tutti e fa di tutta l’erba un fascio (e nella fattispecie: Pansa = Fenoglio), innescando una polemica per fortuna presto sopita. Dispiace che una del tutto stimabile persona come Giorgio Bocca, a mo’ di aggiustamento del danno fatto con l’intervista concessa a Bruno Quaranta, dica sulla sua rubrica Fatti nostri, all’interno de Il Venerdì di Repubblica (del 6 aprile, p. 15): «Lorenzo Mondo dice che ho il cervello appannato […], perché ho osato scrivere che la mia idea di Resistenza è diversa da quella di Beppe Fenoglio». Dispiace perché sembra tacitamente dare ragione a Lorenzo Mondo, proprio perché è stato lui a dire, solo qualche giorno prima, a Bruno Quaranta: «Ma no. Fenoglio della Resistenza non ha capito nulla. Io, di quei venti mesi, ho un’idea politica e storica. So qual è stato il valore della Resistenza, so perché il sogno che la innervava è naufragato. Fenoglio è come Pansa. La sua Resistenza è falsa, un teatro di assassini, di cialtroni, di poveracci. Ma GL, Giustizia e Libertà, era l’università di noi provinciali»70. Ora: se la lin- Cfr. BIANCHI (2007), ma anche ZONCA (2006) e ROSSI (2007,2). Per altre questioni, ma che hanno sempre a che fare con il mondo neonazista si veda MASTROLILLI (2007) mentre in relazione alla blasfemia di una pubblicità che senza mezzi termini metteva una modella seminuda, rasata e ovviamente molto magra, sulla pala di una escavatrice – ovviamente censurata per il coro di proteste del mondo ebraico e non solo – ne ha scritto STABILE (2007). 63 64 L’ovvio riferimento è a Giampaolo Pansa, per il quale rimando al paragrafo in cui si tratta il suo ‘caso’. 65 BUZZOLAN (2007). L’intervista prosegue, ma ne ho citata la parte più importante. 66 D’ORSI (2006), DE LUNA (2006). 67 BAUDINO (2006). 68 QUARANTA (2007,1). 69 Oltre al citato QUARANTA (2007,1), si veda anche SERRA (2007). 70 QUARANTA (2007,1). 80 LUCIANO CELI gua italiana usa parole distinte per esprimere nozioni distinte, significa che ‘diverso’ è diverso da ‘falso’. Insomma, al solito, in questa Italietta fatta di figure un po’ così, che amano gettare sassi e nascondere la mano in età che dovrebbe recare con sé saggezza, di fronte alle rimostranze di chi conosce un po’ meglio i fatti71, allora si aggiusta il tiro. Lasciando alla fine un retrogusto un po’ cialtronesco di sé. Peccato. Anche perché Bocca sostiene di essere stato amico di Fenoglio e cita sempre e solo l’episodio avvenuto durante una partita di calcio, sugli spalti lo scrittore e partigiano albese avrebbe tifato per lui, chiamandolo Billy. Pare che neppure questo corrisponda esattamente a verità72. Forse è bene allontanarsi per un momento da questa zuffa da bar sport per andare oltre confine e parlare di un episodio, divenuto in breve una sorta di premessa per una ulteriore bagarre – squisitamente politica – che ha avuto luogo (anche) nel nostro Paese: lo ‘storico’ di professione David Irving, tradotto in carcere per aver negato l’Olocausto, è stato scarcerato alla fine dello scorso anno73. Starci, in carcere, non deve avergli fatto cambiare idea, e anzi: gli ha fatto venir voglia di andare ad Auschwitz: «Appena vede le torrette di guardia ironizza sul fatto che siano state ricostruite: “Sono dei falsi, solo falegnameria polacca, è una cosa stupida fatta per turisti!”. Con le sue belle scarpe tirate a lucido passa per un terreno melmoso e osserva che è impossibile che possa essere stato usato per bruciarvi corpi di vittime del campo. Prende misure a occhio, osserva e sorride, per lui non è plausibile che dei treni avessero potuto trasportare le vittime passando proprio davanti alle baracche. Anche le camere a gas sono improbabili, mancano i buchi sul tetto, sotto alle porte ci passa una mano, dove è la tenuta stagna per il gas? Impossibile pensare che ogni sua considerazione possa avere un seppur minimo fondamento di sincero interesse per la verità»74. Questo ha fatto sì che, soprattutto nell’intorno della data in cui si celebra il giorno della memoria (27 gennaio), i giornali ponessero l’ attenzione proprio su una proposta che arriva dalla Germania: mettere in prigione chi nega l’Olocausto75. L’Italia, nella figura del ministro della Giustizia Clemente Mastella, sembra essere solerte nell’accettare la proposta tedesca76, dando la stura a una considerevole mole di articoli ‘etici’77: è giusto incarcerare chi nega un episodio – per quanto grave e importante – della Storia? Se le motivazioni addotte dal ministro possono essere condivisibili – «Poco alla volta i testimoni del tempo se ne vanno. Per questo è importante che nessuno offenda i fatti e la storia»78 – è altrettanto legittima la preoccupazione di alcuni storici79, secondo i quali «Proibire il negazionismo per legge è MONDO (2007) in primis. Ma anche QUARANTA (2007,2), BORRA (2007,2), FIORI R. (2007) e DI STEFANO (2007). 71 «Inoltre, né a me né a mio zio Walter risulta che mio padre fosse amico di Bocca o che tifasse per lui. Può darsi che si siano incontrati qualche volta, ma nulla di più», dice Margherita Fenoglio, in FIORI R. (2007). 72 73 VERNA (2006), (LA) REPUBBLICA (2006). 74 NICOLETTI (2007). TARQUINI (2007,1). Ma forse, prima che dalla Germania la proposta arriva dall’Onu, a seguito delle esternazioni del presidente iraniano. A tal proposito si veda VAN BUREN (2007). 75 76 RUOTOLO (2007,1), CUSTODERO (2007), GRIGNETTI (2007,1) e (2007,2), MILELLA (2007). 77 Vedi, tra questi, RODOTÀ (2007), VALLI (2007), GARTON ASH (2007,1), GEREMEK (2007). 78 RUOTOLO (2007,1). 79 Si veda anche D’ORSI (2007). “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... sbagliato. La proposta del ministro Mastella segnala un’inquietante rincorsa delle istituzioni a recintare i percorsi della memoria e della storia e si inserisce in un’ossessiva proliferazione di “leggi memoriali” che veramente rischia di favorire più l’oblio che il ricordo. […] È una realtà: chiamare le leggi a sancire delle verità storiche alimenta un corto circuito tra quelle che sono le ragioni della ricerca storica e quelle dell’uso pubblico della storia, una commistione in cui la storia troppe volte viene utilizzata come un nodoso randello da abbassare sulla schiena degli avversari»80. Aggiungiamo: con il rischio di trasformare i negazionisti in martiri81. A indicare una via perseguibile sembra essere il vicepremier Rutelli che afferma: «La battaglia deve essere culturale e politica, chi nega va messo fuori dalla Storia, non in galera»82, ma forse, in maniera velatamente ironica, vale la pena di citare Massimo Gramellini: «La Resistenza aveva ragione e i repubblichini torto. Non foss’altro perché, se avessero vinto loro, oggi l’Italia sarebbe un’appendice turistica del Terzo Reich e, per dirla col grande John Belushi, “io odio i nazisti dell’Illinois”, figuriamoci gli originali. Questo però non toglie che in ogni guerra civile si consumino abusi e vendette atroci. Persino il miglior antibiotico presenta degli effetti collaterali, e sviscerare anche quelli non significa sminuire il valore provvidenziale della medicina, ma aiutare il corpo a fortificarsi, affinché non si ammali di nuovo»83. Sarà forse la via più difficile da percorrere perché richiede un’allerta costante, ma vien da 80 81 pensare che davvero sia l’unica percorribile84, proprio per salvaguardare la memoria di coloro che se ne vanno85. Battaglia della memoria # 1: il caso Wiesel Elie Wiesel nacque a Szighet (oggi Sighetu Marma iei), in Romania, da Shlomo e Sarah, due ebrei ortodossi di discendenza ungherese che avevano un piccolo negozio, e tre altre figlie oltre a Elie, unico maschio. Szighet ridivenne parte dell’Ungheria nel 1940, e nel 1944 i nazisti deportarono gli ebrei ungheresi al campo di concentramento di Auschwitz. Sua madre ed una delle tre sorelle vennero immediatamente “selezionate” come inabili al lavoro ed inviate alle camere a gas, mentre lui e suo padre vennero mandati al campo vicino di Auschwitz III-Monowitz86, un sottocampo dove i deportati erano obbligati a lavorare nel grande complesso chimico Buna Werke, proprietà della I.G. Farben. Nel gennaio 1945 l’avanzata delle forze sovietiche si avvicinò pericolosamente ad Auschwitz. Le autorità tedesche del campo decisero allora di evacuarlo e Wiesel ed il padre, dopo una lunga marcia al freddo e senza cibo, vennero trasferiti al campo di concentramento di Buchenwald, dove il padre, stremato dalle fatiche, morì. Dopo la guerra, Wiesel finì in un orfanotrofio francese. Nel 1948, Wiesel cominciò a studiare alla Sorbona. Lavorò per un breve periodo con il quotidiano francese L’arche, come giornalista. Divenne socio del vincitore del Premio Nobel per la letteratura François Mauriac, che lo persuase a scrivere e raccontare la sua espe- DE LUNA (2007,1). BUZZANCA (2007), RUOTOLO (2007,2). Si cita spesso tra i negazionisti, insieme a Irving, anche il presidente iraniano Ahmadinejad, anche se nel caso di quest’ultimo le ragioni del negazionismo sono di carattere senz’altro politico e non ‘storico’. In tal senso si veda NIRENSTEIN (2007) e CICALA (2007). 81 82 (LA) REPUBBLICA (2007,1). 83 GRAMELLINI (2006,1). 84 BERTONE (2007), BIANCHI (2007). 85 MATTEI (2006). 86 Lo stesso in cui finì Primo Levi. 82 LUCIANO CELI rienza dell’Olocausto. Da questo incontro nacque quello che è considerato il capolavoro di Wiesel, La notte. Così Wiesel descrisse, ne La notte, il tragico arrivo al campo di Auschwitz: «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. / Mai dimenticherò quel fumo. / Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. / Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. / Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. / Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. / Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai»87. Bene, una persona che ha visto, vissuto e sopportato tutto questo, riuscendo a sopravvivere, ha rischiato un sequestro. Per soldi? No. Per un riscatto? No. Per estorcergli delle “confessioni” sotto tortura? Ebbene sì: «Ascensore per l’antisemitismo, in un albergo della civilissima, tollerantissima San Francisco così apparentemente lontana dalle fornaci europee dei pogrom. Schegge di Olocausto, di una tragedia che non finisce mai, in una cabina d’ascensore dove Elie Wiesel, superstite di Auschwitz, Nobel per la Pace, profeta mite e disarmato di pace e convivenza, è sfuggito al rapimento organizzato da negazionisti della Shoah che volevano fargli rinnegare con la forza la sua “propaganda sionista” e fargli confessare di avere inventato tutto»88. Battaglia della memoria # 2: i (falsi) diari di Mussolini Memorie che vanno, memorie che vengono, anzi: che tornano a galla, come per incanto. La notizia: «Marcello Dell’Utri, uno dei dirigenti di Forza Italia più vicini a Silvio Berlusconi, ma anche bibliofilo di livello internazionale, ha rivelato di essere entrato in possesso dei “diari autentici” di Benito Mussolini dal 1935 al ’39. All’origine dell’inaspettato clamoroso ritrovamento (se di reale ritrovamento si tratta) ci sarebbero ancora una volta le ultime ore del Duce a Dongo»89. Questo accadeva domenica 11 febbraio e già il giornalista metteva in dubbio, con quella parentesi, l’autenticità del ritrovamento. Cosa che fa il giorno successivo anche Il Secolo XIX che, pur dedicando l’intera pagina della cultura a questo fatto90, mette in discussione – attraverso le parole di Arrigo Petacco – i diari91. E lo stesso fanno sia La Repubblica92 che La Stampa93, anche se per quest’ultimo quotidiano il senatore Dell’Utri rilascia una intervista nella quale spiega i motivi per i quali è convito che i diari siano veri94, mentre la stessa celebre nipote, Alessandra Mussolini, indica come veri i diari, riconoscendo, in quelle carte, il nonno95. Bene. Sarebbe davvero un bel colpo se tutto fosse vero: senza ironia, sarebbe comunque un L’opera è pubblicata in Italia con Garzanti. Devo l’accuratezza delle notizie biografie su Wiesel all’enciclopedia on line Wikipedia, alla voce ‘Wiesel’. 87 88 ZUCCONI (2007). Ma cfr. anche LOEWENTHAL (2007). 89 PAPUZZI (2007). 90 PARODI (2007). 91 RAFFAELLI (2007). 92 CAPORALE (2007). 93 BAUDINO (2007,3). 94 IANNUZZI (2007). 95 FELTRI (2007,2). “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... tassello che va a comporre il quadro di un pezzo della Storia recente del nostro Paese. Peccato che sia tutto falso: «A dimostrare che i Diari di Mussolini fossero un falso clamoroso è bastata l’attenta lettura critica che ne ha fatto uno storico serio come Emilio Gentile. Ma l’impressione del falso aleggiava già intorno alla documentazione presentata da chi avrebbe dovuto certificarne l’“autenticità”»96. Una autenticità quindi dubbia a partire dalla perizia, un po’ sui generis. Il settimanale L’Espresso poi ha commissionato tre perizie: «una fisico-chimica svoltasi all’Università di Parma, una grafologica affidata al direttore della Scuola superiore di grafologia di Bologna e una perizia storica svolta da uno dei massimi storici internazionali del fascismo»97. Inutile dire che Dell’Utri ribatte, pur non avendo alcuna prova concreta della presenta autenticità, in una specie di pirandelliano “Così è se vi pare”. E il triste della faccenda è che in questo Paese non ci si arrenda neppure di fronte all’evidenza, alla scientificità di una prova e anzi: perseverare significa avere una nicchia di adepti che ti considererà martire per questo. Sarebbe bello se questo signore, una volta tanto, dicesse pubblicamente: «Sì, ho sbagliato, ho preso una cantonata, quei diari sono falsi». E invece no. Non so se a questa storia si possa attribuire una morale, ma se questa ha da esserci, allora: (1) Marcello Dell’Utri, nonostante la fama di grande bibliofilo – resta da stabilire cosa si voglia intendere esattamente con questo termine – ha 83 preso una bidonata e (2) Alessandra Mussolini evidentemente non conosceva – da un punto di vista ‘metafisico’, visto che è nata nel 1962 – così bene il nonno. Sembra davvero d’essere finiti in una commedia di Pirandello, ma purtroppo è la dura realtà, nella quale tutto ha senso un certo giorno e non lo ha più il giorno successivo98. Battaglia della memoria # 3: il convegno (a Torino) sulle SS Il 26 gennaio di quest’anno – 24 ore prima della Giornata della Memoria, del monito di Primo Levi, delle sue accorate parole: «Meditate che questo è stato» – ebbene, quest’anno i signori della sezione torinese di Forza Nuova99, non avendo probabilmente di meglio da fare, hanno indetto una serata in ricordo delle Waffen SS, le truppe speciali di Hitler che nel nostro Paese si sono macchiate di una lunga serie di eccidi. «Per Forza Nuova […] quegli eccidi fanno parte di “un’esperienza politica e militare unica” che è “giusto salutare” e da portare come “un grande esempio di chi vive e muore per un ideale di fuoco”. Non carnefici ma “soldati del più grande esercito ideologico”. Soldati che è “giusto onorare” perché “effettivamente loro che hanno fatto?” se non “battersi per un’Europa devota alla giustizia sociale?”»100. Una curiosa visione della realtà, bisogna ammettere. Il giornalista, di memoria migliore di questi signori che perorano cause al limite del marziano, non aspetta a ricordare DE LUNA (2007,2). Il professor De Luna prosegue sostenendo di aver visionato la perizia calligrafica condotta da una certa Beatrice Zueger Antognoli, «i cui termini sono francamente bizzarri», dal momento che la premessa della Zueger è che ella ha potuto visionare solo delle fotocopie, mentre “per una perizia calligrafica sarebbe auspicabile poter esaminare dei documenti originali e non delle fotocopie” (citazione dall’articolo). De Luna fa giustamente notare che «a questo punto la perizia dovrebbe essere finita», non potendo disporre degli originali in questione, «e invece continua per pagine e pagine», arrivando alla conclusione paradossale che, pur senza oggettivi elementi sufficienti per dare un giudizio «dai riscontri effettuati, la sottoscritta ritiene che [tuttavia] è senz’altro possibile che i diari in esame siano stati redatti da una sola persona e che questa sia anche l’autrice degli scritti di confronto, ossia Benito Mussolini». 96 97 (LA) REPUBBLICA (2007,4). Ma vedi anche AJELLO (2007,1). 98 Si fa notare al lettore che il primo articolo di questa serie è dell’11 febbraio, l’ultimo del 16. 99 Per chi fosse digiuno: organizzazione della estrema destra italiana. 100 TROPEANO (2007). 84 LUCIANO CELI cosa hanno fatto le SS, sottolineando quanto «stabilito [… dal] tribunale militare di La Spezia che il 14 gennaio ha condannato all’ergastolo in contumacia 10 imputati per l’eccidio di Marzabotto: 770 trucidati. Capo dell’operazione: Walter Reder»101. Immediate le reazioni, a partire dalla richiesta formale al prefetto di Torino da parte di Roberto Placido, vicepresidente del Consiglio regionale e presidente del Comitato regionale per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione: «Invito il Prefetto a verificare se ci sono le condizioni per impedire l’incontro sulla Waffen SS organizzato da Forza Nuova che avrebbe unicamente il valore di insulto a milioni di morti nei campi di concentramento»102. A rincarare la dose ci pensa che la presente della Regione Mercedes Bresso: «Condanno con forza anche soltanto l’idea che si possa dedicare una giornata di commemorazioni alle Waffen SS, una delle peggiori degenerazioni umane della storia. Si tratta del tentativo di conquistare spazio con qualche patetica provocazione. [Si auspica che] nel rispetto della democrazia e del pluralismo, ma anche della nostra Costituzione, si possa impedire un assurdo e vuoto rito nel ricordo di aguzzini»103. A fronte di questa reazione un giornalista chiede: «Ma è proprio sicuro che la celebrazione delle SS resterà in programma? “Noi non siamo irresponsabili come i politici che in queste ore stanno fomentando un clima estremamente pericoloso, con i centri sociali che minacciano di sfasciare la città – risponde Stefano Sajia, segretario provinciale di Forza Nuova – noi stiamo valutando l’opportunità di spostare il convegno ad altra data”»104. Non resta che consolarsi pensando che i signori di Forza Nuova non stati lasciati da soli105: «Oggi è il giorno106. Alle 21, nel circolo privato “Il presidio” di via Casalis angolo Corso Francia, militanti di Forza Nuova e simpatizzanti di estrema destra celebreranno le SS in un convegno annunciato da tempo e già rimandato una volta per ragioni di ordine pubblico. Fuori, a meno di cinquanta metri, in piazza Bernini, la Torino antifascista si è data appuntamento per una manifestazione di protesta [… alla quale hanno aderito] diverse cariche istituzionali. Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani, rappresentanti dell’Anpi, oltre ad Askatasuna107, autonomi, anarchici e centri sociali»108. Battaglia della memoria # 4: dalla cronaca: il prof e Israele «Tenuto conto della gravità dei comportamenti illegittimi del professor Pallavidini e dalla loro reiterazione, si propone quanto segue: (a) di sottoporre il docente a visita medico collegiale per accertare la permanenza dell’idoneità psicofisica all’insegnamento. (b) Di irrogare al docente la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento da uno a sei mesi. (c) Di verificare la praticabilità del trasferimento d’ufficio nell’anno corrente»109. Insomma, per arrivare a tanto bisogna davvero averla fatta grossa! Ma così pare che sia, se le accuse di 101 Ibid. 102 Ibid. 103 (LA) STAMPA (2007,1). 104 ZANCAN (2007,1), ma anche (LA) STAMPA (2007,2). 105 L’importante è, parafrasando Fenoglio, che sulla collina ne resti almeno uno a vegliare sulla libertà di tutti noi… 106 8 febbraio 2007. 107 Centro sociale tra i più attivi e meglio organizzati di Torino. 108 (LA) REPUBBLICA (2007,2). 109 ZANCAN (2007,3). “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... negazionismo partite dai genitori della prima classe, sezione E, del liceo classico “Cavour” di Torino sono fondate. Soprattutto se, come sembra, hanno precedenti in altri episodi, altre valutazioni, altri anni scolastici. Episodi per i quali, in sostanza, pare che egli cerchi di far passare nelle giovani menti la sua personale visione politica. Oppure, ancorché fuori dalle mura scolastiche, «in un forum110, discettando sulle responsabilità di Israele, Pallavidini ha scritto: “Mi viene proprio voglia di rileggere il Mein Kampf di Hitler! Lo consiglierò ai miei studenti”»111. Pallavidini ovviamente si difende112, passa per vittima di un complotto, la butta sulla politica citando affiliazioni e tessere sindacali dei colleghi docenti, minaccia di querelare la classe e i genitori che gli muovono le accuse. Soprattutto, incredibile, si definisce un “nazional-comunista”113. È possibile che gli estremi si tocchino, ci mancherebbe. Anche se sfugge il senso di tale affermazione, soprattutto perché sotto (o dietro) le bandiere – portatrici troppo spesso di ideologie, in senso non sempre positivo – ci stanno le persone. La polemica prosegue114, sfuma nel provvedimento disciplinare citato all’inizio, si spegne nella eco di studenti che difendono il professore115. Siamo di nuovo a Pirandello, alla mistificazione 85 di una verità che non si capisce più dove stia di casa, e se una casa ce l’abbia ancora o ne sia stata definitivamente sfrattata. Battaglia della memoria # 5: il caso Pansa Giampaolo Pansa, giornalista, scrittore, memorialista, è salito negli ultimi anni alla luce della ribalta soprattutto con due volumi116. Volumi che fanno parte di una specie di “storia dei vinti”117 e culminano con l’ultimo118, meno documentaristico e più orientato alle repliche che tanta parte del mondo antifascista – al quale Pansa sostiene di appartenere da sempre119 – gli ha mosso. Per ribattere alle sue affermazioni, basterebbero le parole di Giorgio Lindi, che cita anche una novità importante in relazione alla modifica dello statuto ANPI: «Il capitolo finale del libro120, è dedicato all’A.N.P.I. oggi, dopo il congresso nazionale e la modifica dell’articolo 23 del suo statuto e la conseguente apertura a coloro che per motivi anagrafici non sono stati partigiani, ma sono antifascisti. Ciò è tanto più necessario sia per il normale passare del tempo, l’età dei nostri partigiani comincia a essere molto alta, sia per i continui attacchi che in tutta Europa subiscono coloro che si sono opposti al nazifascismo. Faccio riferimento allo storico 110 Su internet, sul sito de La Stampa. Sembra però impossibile rintracciare l’originale. 111 MARTINENGO (2007,1). «Non ho mai negato l’Olocausto davanti ai miei studenti – dice subito – e se ho citato il Terzo Reich o il Mein Kampf, l’ho fatto esclusivamente su un blog, in rete, dove mi sono sfogato. Erano i giorni successivi all’invasione israeliana del Libano. Ho sempre amato il gusto della provocazione, questo sì. Ma in classe no, nessun riferimento positivo al nazismo, proprio per evitare polemiche». In ZANCAN (2007,2). Inoltre lo fa (anche) in una lettera pubblicata sul sito web Il Cannocchiale, all’indirizzo: http://www.ilcannocchiale.it/blogs/style/orange/dettaglio.asp?id_blog=24951&id_blogrub=77182. 112 113 MARTINENGO (2007,2). 114 ROSSI (2007,1). 115 (LA) STAMPA (2007,3). 116 PANSA (2003) e (2006). 117 Per completezza è bene citare anche le altre due fonti: I figli dell’Aquila e Sconosciuto 1945. 118 PANSA (2006), appunto. 119 «Per concludere, rammento al lettore che la Resistenza è, da sempre, la mia patria morale», PANSA (2006), p. X. 120 ANPI CARRARA, LINDI (a cura di, 2006). 86 LUCIANO CELI tedesco Ernst Nolte che in sostanza giustifica il nazismo come risposta al comunismo sovietico, a Pansa che ne “La grande bugia” identifica la Resistenza rossa con morte e alle tante pubblicazioni che cercano affannosamente, anche a distanza di 60 anni, memorie alternative. Memorie decontestualizzate dal clima di violenza a cui fascismo e guerra avevano educato il popolo italiano, specialmente le generazioni più giovani, per mettere sotto accusa e diffamare la Resistenza; per equiparare qualunquisticamente, le violenze sistematiche, programmate, istituzionali e statali del fascismo e del nazifascismo, con quelle dell’altra parte, degli antifascisti e dei resistenti»121. Ma partiamo pure dalle parole di Pansa: «Che cosa può capitare a un autore che pubblichi libri come “Il sangue dei vinti” e “Sconosciuto 1945”? A me è successo di imbattermi in tre sorprese. La prima è di essere aggredito dalla mia parte culturale, quella antifascista. Non da tutti, ma da molti sì. La stima è scomparsa. E al suo posto è emersa l’ostilità […]. La seconda sorpresa è l’aver potuto condurre un test sul grado di tolleranza della sinistra. […] In Italia la sinistra non esiste più. Esistono tante sinistre, spesso in contrasto rabbioso. La loro forza va scemando. Per esempio non riescono più a 121 controllare il passato122, ossia la storia di quel che è accaduto nel nostro paese. […] La terza sorpresa riguarda il mio lavoro. Le reazioni al “Sangue dei vinti” e allo “Sconosciuto” mi hanno indotto a riflettere sul modo nel quale, per sessant’anni abbiamo narrato la guerra civile del 1943-1945»123. La cosa che più stupisce nelle affermazioni di Pansa è quella che sembra essere una assoluta mancanza dell’ovvio. È come se un alieno fosse giunto sul nostro pianeta e non fosse in grado di capire e decifrare la logica che soggiace ai comportamenti più comuni degli esseri umani. Sorprende, in sostanza, che Pansa si sorprenda di essere attaccato dalla parte culturale e politica cui sostiene di appartenere. Corre quindi l’obbligo di leggere quel che scrive, ma con un malizioso accorgimento che consiste nel non voler acquistare i volumi dell’autore in questione. Un noto politico italiano sosteneva che a pensar male si commette peccato, ma spesso ci si azzecca. Ora, visto che il nostro ‘extraterrestre’ incredulo pare abbia venduto qualcosa come 380 mila copie124 solo per l’ultimo volume in ordine di tempo, l’accorgimento del non acquistare il volume, ma prenderlo piuttosto in prestito alla biblioteca, è cautelativamente d’obbligo125. Del resto l’unico potere In ANPI CARRARA, LINDI (a cura di, 2006), p. 8. Vediamo qui, come si potrà notare altrove, l’uso di una terminologia che tradisce un preciso intento polemico: pur condividendo la regola ‘aurea’ della storiografia, altrove citata, secondo la quale “la storia la scrivono i vincitori”, mi pare vi sia un bel salto logico tra questo e il “controllare il passato” di cui parla Pansa, a proposito delle sinistre. Il controllo del passato avviene nei regimi totalitari e per quanto mi è dato vedere, almeno formalmente, il nostro Paese non è ancora a questi punti. Quindi quella che Pansa cita come una “debolezza” delle “sinistre” che non riescono a “controllare il passato”, a me pare piuttosto e per fortuna il segno di una democrazia dove il “controllo” deve essere esercitato, ma non su un passato di cui si può e si deve discutere – prendendosi ovviamente carico anche dei dissapori e delle polemiche che queste discussioni possono recare con sé. Sempre da un punto di vista del tutto personale, la percezione è che vada più che altro difesa una memoria storica, messa in discussione continuamente negli ultimi anni. 122 123 PANSA (2006), pp. IX-X. 124 Il dato non è aggiornato e potrebbero tranquillamente essere molte di più. Del resto ciò che induce il forte sospetto di un atteggiamento da ‘marchetta’, che lascia per altro nel lettore uno sgradevole retrogusto, è questa sorta di self marketing, questo essere autoreferenziale e citare unicamente se stesso all’interno dei due volumi in questione – PANSA (2003) e (2006) – come se tutto l’universo, perché di un vero e proprio universo storiografico si tratta, nulla contasse. Del resto, per sua stessa ammissione (PANSA, 2006, p. 16) egli sostiene: «Mentre leggevo tutto quello che trovavo sulla Resistenza […] l’arroganza tipica dei giovani, e io ero un arrogante come pochi, 125 “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... che abbiamo come consumatori è quello di scegliere cosa meriti di essere acquistato e cosa no. Giusto per evitare il pericolo più banale della società dei consumi: contribuire all’arricchimento materiale di una persona che narra una storia capziosamente (?) ‘vista’ dai vinti, in modo da alimentare una bagarre politica, istituzionale, di salotto, giornalistica e quant’altro che accenda un interesse potenzialmente sopito e, soprattutto, rimpingui il conto corrente e, perché no, corrobori l’ego individuale. La considerazione più banale in tal senso è che se Pansa avesse scritto una storia di partigiani126, avrebbe venduto meno, forse sarebbe stata una storia tra le tante e il suo nome non sarebbe stato famoso come lo è oggi – almeno per quel che riguarda questi spinosi argomenti. Così scopro, per esempio, che non è facilissimo neppure trovarlo in biblioteca127: buon segno, segno che l’argomento interessa, che le persone vogliono sapere, conoscere, capire. Allora si inizia a leggere e, dal proprio punto di vista, si cerca di farsi un’idea di quel che si va leggendo. *** Il sangue dei vinti ha come tema cardine ciò che avvenne in Italia nei mesi – diciamo fino a un anno di distanza – successivi alla data del 25 aprile 1945, data ufficiale della fine della guerra 87 nel nostro Paese. Il libro inizia con una precisazione, legata all’escamotage letterario che vede in Livia – persona di fantasia, bibliotecaria a Firenze – una sorta di alter ego che mette, sin dall’inizio del loro incontro, in guardia il Pansa letterario dai pericoli in cui sta incorrendo: «[…] il libro che lei vuole scrivere le attirerà una tempesta di critiche […]. L’accuseranno di rivalutare i fascisti, come vittime di tante vendette difficili da giustificare. Le rinfacceranno il suo scarso senso dell’opportunità, perché fa il gioco degli altri, della destra che oggi è al potere in Italia128. La incolperanno di voler aprire porte che debbono restare sbarrate, per non aggiungere legna al fuoco del revisionismo»129. Parola ‘magica’ quest’ultima che, come abbiamo visto in precedenza, non è priva dei suoi concreti pericoli. Lo stesso Pansa quindi, per bocca di Livia, ha ben chiaro il panorama e, nonostante questo si “stupisce” delle critiche che “le sinistre” gli muovono e gli hanno mosso: cos’altro avrebbe dovuto aspettarsi? Che lo invitassero ai dibattiti e gli dicessero bravo, dandogli pacche sulle spalle e ammettendo che siamo una branca di ignoranti che non conosciamo la recente storia d’Italia? Soprattutto quando la risposta a Livia è del tipo: «Bene: me ne infischio! Voglio provare a scrivere un libro sereno anche quando racconta gli orrori messi in scena dai propri antenati»130. Andiamo quindi a vedere di che ‘orrori’ si sono mi indusse a pensare che anch’io potevo scrivere sugli stessi anni che avevo vissuto da bambino». Arroganza che, in certi frangenti, il tempo sembra non aver mitigato. Una arroganza che, come sostiene una grande lezione di Ugo Cerrato, è guarda caso proprio tipica di un certo ‘metafisico’ fascismo, inteso non come movimento politico, ma come attitudine alla prevaricazione, come atteggiamento nei comuni comportamenti verso il prossimo. Penso espressamente a MACCHIAVELLI, GUCCINI (2007): è un romanzo certo, ma forse per rendere attuali certe storie è importante passare da lì, dalla letteratura, da una finzione che incuriosisca e possa condurre per mano le giovani generazioni nell’esplorazione di radici storiche recenti, che connotano a tutt’oggi il mondo e il modo in cui viviamo. 126 Torino ha fortunatamente un buon sistema interbibliotecario grazie al quale è possibile visualizzare tutte le copie di un volume disponibili al momento della ricerca – avvenuta, nella fattispecie, il 28 febbraio 2007 – che ha portato i seguenti risultati: su 18 biblioteche 7 davano PANSA (2006) come non disponibile (quindi in prestito), 8 disponibile e per 3 il dato sulla disponibilità alla consultazione era non pervenuto. 127 128 Si ricorda che al momento dell’uscita del volume, nel 2003, era in carica il governo Berlusconi. 129 PANSA (2003), p. 22. 130 Ibid. 88 LUCIANO CELI macchiati coloro che hanno liberato l’Italia dall’oppressione fascista. Il primo, in ordine di tempo nel libro, compare a pagina 6: si parla di Casale Monferrato, luogo che ha dato i natali allo scrittore, e dal quale lo scrittore stesso parte avviando la narrazione dai suoi ricordi di bambino. Siamo agli sgoccioli e i fascisti al potere capiscono che è ora di battere in ritirata. Palazzo Langosco, sede della Guardia nazionale repubblicana (Gnr), era stato fino a quel momento il teatro della ‘giustizia’ fascista e, per l’ironia della sorte tipica dei capovolgimenti di una guerra, divenne, nel maggio ’45 il teatro dei processi ai fascisti. La corte d’assise, commentata in modo beffardo “casa e bottega” da «un vecchio socialista, manganellato nel 1922, che aveva atteso quello spettacolo per più di vent’anni»131, fa sorgere nel lettore una domanda che, con le varianti del caso, sarà sempre la stessa e cioè: cosa avrebbe dovuto pensare e commentare uno pestato vent’anni prima, magari vessato lungo tutti quei vent’anni di fascismo? Forse per Pansa questo “beffardo socialista” avrebbe dovuto mettere da parte rancori, lividi e manganellate e correre incontro a braccia aperte ai gerarchi del fascio, magari difendendone la causa davanti al tribunale dei vincitori. O cos’altro? È questo che spiazza continuamente il lettore: le cose più ovvie sembrano non esserlo. Ma passiamo oltre. Il libro prosegue prendendo in esame, a partire da Casale Monferrato, tutto il nord Italia e ciò che vi avvenne dopo il fatidico 25 aprile. Mi sono divertito a tenere traccia di nomi ed eventi – almeno per le prime cento pagine del libro – per comprendere meglio la portata delle ingiustizie commesse dalle forze partigiane. Dall’analisi di quel che scrive Pansa emerge che il totale degli uccisi dopo la fine della guerra – secondo stime che egli stesso fa – sono 2715 131 (ricordo che mi sono fermato alle prime cento pagine). Uccisioni anche barbare e cruente, come del resto lo furono quelle dei partigiani nella zona apuana e non solo. Non si può pensare di essere ripagati con una moneta diversa da quella con la quale fino a quel momento si è condotto il gioco. Del resto anche i recenti accadimenti in Afghanistan e Iraq non possono non farci riflettere: cambiano luoghi, persone, zone geografiche, ma la cruenza rimane la stessa – da una parte e dall’altra. Comunque: a fronte dei 2715 morti fascisti elencati da Pansa almeno 14 nomi eccellenti vengono sottoposti a regolare processo, a partire dal maresciallo Rodolfo Graziani, da Julio Valerio Borghese e consorte, per arrivare a ai meno celebri, come Rino Parenti, capo della provincia di Sondrio. Mi si dirà: certo che però c’è sempre una sproporzione enorme. Sì, peccato però che Pansa stesso affermi in più di una occasione che un numero imprecisato di fascisti si salvò: la prima (p. 6) è quando parla di Casale Monferrato e afferma che: «Gli scontri per la liberazione della città durarono tre giorni. La maggior parte132 dei fascisti se ne andò nella notte fra il 24 e il 25 aprile». La seconda (p. 43) quando si parla dell’avanzata partigiana che arrivarono «a occupare il comando della Muti, in via Rovello, nel cuore della città, dove due anni dopo sarebbe sorto il Piccolo Teatro. I militi133 avevano già tagliato la corda, la sede era vuota, con le cantine zeppe di viveri, liquori, tabacco». L’ultima citazione, che ribalta completamente la prospettiva, ha a che fare con l’esodo verso “il Ridotto”, una specie di zona di rifugio che coincide press’a poco con la Valtellina, pensata come luogo nel quale concentrarsi in ritirata, in caso di sconfitta. Il Ridotto si rivelò una specie di bufala, ma l’esodo vi fu comunque. E anche Ibid., p. 6 Quanti? 1, 10, 100, 1000? Non ci è dato saperlo. Data la pignoleria nel conteggio dei giustiziati dalle forze partigiane, sarebbe stato bello avere anche qualche riferimento più preciso su quanti la fecero franca, visto che la tendenza è quella di una par condicio tesa a rivalutare le morti fasciste. 132 133 Di nuovo: quanti erano questi ‘valorosi’ che vista la mal parata si sono dati prontamente alla fuga? “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... a Torino il 24 aprile vi fu un ultimo incontro tra i capi fascisti della città per decidere il da farsi. E la decisione fu che «bisognava uscire da Torino, dalla Vandea partigiana del Piemonte, come l’aveva definita Mussolini, per raggiungere la Valtellina […]. La colonna Cabras, chiamiamola così, […] si riunì la sera del 27 aprile nella piazzetta di Palazzo Reale, che dà su Piazza Castello. Quanti erano? Se si pensa che a Torino le forze armate fasciste ammontavano a molte migliaia di uomini, possiamo ipotizzare che fossero almeno 10-15000, compresi i famigliari. Nella notte fra il 27 e il 28 aprile, la colonna lasciò la città. […] E si fermò a Strambino, a 43 chilometri da Torino. In quel momento con Cabras erano rimasti circa 10000 uomini, tanta Gnr, militari di tutti i corpi, poca Brigata nera, e niente tedeschi che a Caluso se n’erano andati per proprio conto. Nel pomeriggio del 5 maggio, la colonna si arrese agli americani della Divisione Buffalo. In questo modo quasi tutti salvarono la pelle. Cabras sarà poi processato a Torino, nell’autunno 1945, ma la scamperà. E morirà di vecchiaia negli anni Settanta, nella sua casa natale in Sardegna»134. Questi dati si possono commentare in molti modi. E sicuramente molto dipende dalle proprie convinzioni personali. Certo, quasi tremila morti sono tanti, ma già solo a quegli oltre diecimila in fuga da Torino mi pare sia andata molto bene. L’impressione è che in questo volume volutamente si voglia differenziare un ‘prima’ e un ‘dopo’ 25 aprile, come se non vi fosse nesso causale tra il prima e il dopo (di per sé piuttosto esplicito ed evidente), come se la fine formale di un conflitto potesse compiere la magia di far terminare di colpo gli odii e i rancori, per i quali la memoria rimane invece 134 89 piuttosto ferrea, perché è memoria di giustizia, impressa come un marchio a fuoco in chi è stato schiacciato e ha dovuto subire umiliazioni, torture, morti. Raramente nel volume si fa un esplicito cenno a questo ‘prima’, pur essendone chiare all’autore le conseguenze: «La sua Sicherheits135 esordì il 10 luglio 1944, fucilando quattro giovani di Zavatello per vendicare la morte di Alfieri. Poi, in un primo rastrellamento di quell’Appennino, furono giustiziati 8 partigiani. Seguirono nuove incursioni, con altri paesi bruciati e ostaggi prima torturati e poi soppressi. In settembre, Fiorentini lasciò Varzi che stava per essere occupata dai garibaldini. E s’insediò a Broni, sulla via Emilia, nell’ex albergo Savoia, la sua nuova base per le scorrerie nell’Oltrepò. In dicembre ebbe in consegna dai tedeschi il castello di Cigognola, a poca distanza da Broni, sui primi rilievi collinari. Con Fiorentini il castello divenne un luogo maledetto, di torture indescrivibili e di decine di uccisioni: tutta legna sul fuoco destinato a divampare alla fine della guerra civile»136. Da notare che questo Fiorentini dopo essere stato catturato rischiò più volte il linciaggio da parte della popolazione e scampò la fucilazione da parte dei partigiani: venne regolarmente processato anche su intercessione di un prete partigiano. In conclusione: l’impressione che rimane una volta chiuso il libro è che ai fascisti sarebbe comunque potuta andare molto ma molto peggio. Solo la nostra ‘italianità’, il nostro modo di fare mai serio e determinato fino in fondo, la nostra ‘pietas’ civile, ha permesso di limitare i danni, senza considerare che per tanta parte di questi “regolamenti di conti” esiste anche una preciso motivo storico: «Il grande movimento, possen- PANSA (2003), p. 94. Si fa espresso riferimento alla vicenda di Guido Alberto Alfieri, legionario e squadrista, che dopo la nascita della Rsi costituì a Casteggio un suo reparto di (spietata) polizia alle dipendenze della 162esima Divisione tedesca, alla quale volle dare appunto un nome tedesco: Sicherheits Abteilung, ossia Reparto di sicurezza. Ironia volle che Alfieri venisse ucciso da quel che si definisce il “fuoco amico”, durante un’incursione per il quale fu scambiato per un partigiano. Il ‘sua’ della frase è quindi da riferirsi non ad Alfieri, ma al suo successore, l’ingegner Felice Fiorentini. 135 136 PANSA (2003), p. 61. 90 LUCIANO CELI te e unitario137, che fu la Resistenza e che vide migliaia e migliaia di giovani mettere in gioco la propria vita, il proprio futuro, aveva sollevato anche grandi entusiasmi e speranze di un cambiamento radicale della società, ma venne, anche per questo, immediatamente dopo, guardato con sospetto, nel periodo della normalizzazione, da parte dei vecchi ceti che avevano prosperato durante il fascismo e che, grazie anche alla protezione di americani e inglesi e agli accordi di Yalta, stavano riprendendo il controllo politico ed economico dell’Italia. Per questo, in tutto il Paese, furono centinaia i giovani che si ribellarono al ritorno pubblico di personaggi dichiaratamente fascisti o collusi con il passato regime. Così nacquero la volante rossa, il triangolo rosso, Schio-Valdagno, ecc.»138. *** La grande bugia ha lo stesso impianto de Il sangue dei vinti: la distinta bibliotecaria di Firenze, Livia, invenzione letteraria che fa da alter ego al Pansa protagonista del volume precedente, lascia il posto a una giovane avvocatessa di Milano. L’autore espone le ragioni che lo spingono a scrivere questo libro, un po’ come fa già per il precedente e, in molti punti, ripete il cliché legato ai ricordi di infanzia che usa come escamotage per rispondere in realtà a chi lo critica. Per rinfrescare la memoria al lettore, non perde occasione di fare del self marketing, citando i suoi libri precedenti, anche quelli molto datati, per i quali, con una modestia che a questo punto non può che apparire falsa, sostiene che «è sempre molto difficile giudicare i propri lavori»139. L’occasione viene utile per offrire una sorta di nota metodologica al lettore: «Lei deve sapere come la penso: un ricercatore, anche un ricercatore dilettante come me, può essere antifascista o fascista o agnostico. Ha diritto di pensarla come gli pare. Ma i suoi lavori dovrebbero essere il più impossibile imparziali. E mai annullare o forzare la verità, anche quando non gli piace perché non coincide con le sue opinioni»140. Infatti, spesso non si discute la verità delle affermazioni che sono contenute nei suoi libri, quanto piuttosto il modo in cui queste vengono presentate: il fatto che il tedesco – e forse anche iscritto formalmente al partito nazista – Schindler abbia salvato dalle camere a gas qualche decina, centinaia o migliaia di ebrei, non significa e non nega la portata di quel che altri tedeschi nazisti hanno fatto! È semplicemente una eccezione che conferma una regola, una storia che dice esattamente l’opposto. In altri termini: non si vogliono negare i singoli episodi che Pansa narra nei suoi documentati volumi, ma quegli episodi, proprio perché singoli talvolta appaiono pretestuosi, come nel caso del padre di Giuseppe Manfredi, ucciso dai partigiani comunisti141. Che il movimento fosse (sufficientemente) unitario lo documenta un recente video, restaurato ad opera del regista Giancarlo Bocchi (presidente dell’omonima fondazione), uno dei pochi non girato dalle truppe alleate – che avevano al loro interno personale preposto a tale compito – che, in presa diretta, mostra la liberazione della città di Parma. Il video, proiettato in occasione dei festeggiamenti del 25 aprile di quest’anno al Museo Diffuso della Resistenza e della Deportazione di Torino, mostra chiaramente i tricolore sventolare in ogni dove e non, come insinuato da molti, bandiere comuniste o di altra fazione partigiana. 137 In ANPI CARRARA, LINDI (a cura di, 2006), p. 55. Una breve ma utile nota esplicativa rende conto delle diverse realtà citate, vale a dire: «Voltante rossa: partigiani milanesi che continuarono la lotta fino al ’48. Triangolo rosso: zona tra Reggio Emilia, Parma e Modena. Schio-Valdagno: partigiani che prelevarono fascisti dal carcere cittadino e li giustiziarono dopo il 25 aprile». 138 139 PANSA (2006), p. 27. 140 Ibid. 141 Ibid., pp. 35-45, nel capitolo titolato “Io, cittadino di serie B”. Il cittadino di serie B, per la cronaca, è lo stesso Giusep- “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... Oppure, quando egli afferma che: «Ancora oggi, per gran parte della storiografia resistenziale, gli ‘altri’, i fascisti, non esistono. Non gli si riconosce di soggetti storici autonomi. Il loro ruolo è appena quello delle comparse. E comparse sempre e soltanto cattive: le carogne, i torturatori, i rastrellatori, i responsabili degli eccidi, i servi ottusi e crudeli dei nazisti»142. Perché, scusate, nella stragrande maggioranza dei casi non è stato forse così? Certo: è impensabile che tutti coloro che aderirono al Partito Nazionale Fascista potessero essere persone di questa specie – anche perché altrimenti sarebbero dovute esserlo quasi tutti gli italiani – ma gli anni 1943-45 sono stati inequivocabilmente anni di sangue, di rastrellamenti, di eccidi. E per colpa di chi? Dei partigiani? Per lo più ragazzi di vent’anni – di cui Pansa è stato pronto a condannare errori politici e strategici143 – che, in nome di una idealità e di una libertà, si ritrovarono dopo l’8 settembre a fare una guerriglia senza indossare una divisa. «‘L’espresso’ ha avuto per quattordici anni un grande direttore: Livio Zanetti. Era del 1924 e a vent’anni aveva aderito alla Rsi. Dopo aver frequentato la scuola allievi ufficiali di Modena, era diventato sottotenente di complemento della Gnr. Finita la guerra, aveva maturato una posizione politica diversa, anzi opposta. Un giorno un’agenzia romana di notizie rivelò che era stato con la Repubblica Sociale: in- 91 somma un repubblichino, come si usa dire con disprezzo. Sa che cosa fece Zanetti? Lasciò il giornale e andò a rifugiarsi nella propria casa di montagna, voleva nascondersi per la vergogna. […] Nelle ricerche per i miei libri ho incontrato molte persone che mi hanno raccontato di aver combattuto per la Rsi. E parecchie di loro mi hanno pregato di non rivelare a nessuno che avevano vestito la divisa di Salò»144. Non posso fare a meno di ripetere nuovamente le parole che Ugo Cerrato espresse nel suo intervento a Bariano, in provincia di Bergamo: «la libera scelta resta tutta la vita, non la puoi cancellare, altrimenti smentiresti te stesso!». Perché di questo si tratta. O queste persone si sono convinte di aver commesso un tragico errore aderendo a Salò, oppure non si capisce quale sia il motivo di tanta vergogna! A meno che la vergogna non sia quella legata all’italico opportunismo, per il quale la ‘redenzione’, il ‘pentimento’ è il frutto di un bel calcolo grazie al quale aver salva la pelle e aver la possibilità di condurre una vita normale, alla faccia di ogni ideale. Pansa cita poi – e noi lo citiamo come ultimo145 – un episodio della sua vita di giornalista alla redazione de “Il Giorno”, a Milano, dove il direttore, Italo Pietra, pare riuscisse a scherzare con i suoi redattori che arrivavano tutti dall’esperienza di guerra, ma di cui una parte era senz’altro quella dei vinti, quella dei fascisti: «Nell’agosto 1944, la zona attorno al Peni- pe Manfredi, figlio dell’ucciso, comunque andato in pensione come direttore di banca. Certo è che se fosse il ‘perseguitato’ che si tratteggia in queste pagine, forse gli sarebbe potuta andare pure peggio. Si ricorda che c’è gente che per molto meno è finita nei campi di concentramento. 142 Ibid, p. 28. «Raccontavo anche gli errori militari e politici compiuti dai partigiani. I disastri provocati dalla loro incapacità, inevitabile, di affrontare una guerra di tipo nuovo». (PANSA 2006, p. 19). Certo: una guerra che molti di essi – se non chi prima dell’8 settembre 1943 era nelle fila dell’esercito – non avevano mai combattuto. 143 144 PANSA (2006), p. 29. In questa sommaria analisi del libro ci fermiamo qui per non annoiare il lettore. Anche perché di eventi – cioè questioni sulle quali è possibile intessere una discussione – se ne parla principalmente in questa parte del volume. Il prosieguo scivola nell’italico abbaiare da salotto, con invettive, aggressioni pseudo-intellettuali, sfottò sull’avversario – a turno: il comandante partigiano Aldo Aniasi, i giornalisti Giorgio Bocca e Sandro Curzi, giusto per citare i primi tre in ordine temporale. Invettive per le quali si comprende sin da subito che è meglio dedicarsi ad altre e più ludiche o/e costruttive attività, piuttosto che proseguire nella lettura. 145 92 LUCIANO CELI ce146 subì un grande rastrellamento, durato più giorni. Proprio sul passo del Penice, o nelle immediate vicinanze, c’era una villetta di proprietà della famiglia Pietra, abitata dal padre, un medico, e dalla madre di Italo. I tedeschi sapevano che il loro figlio era un comandante partigiano. E la casa venne bruciata. Ogni mattina al ‘Giorno’ si teneva la riunione del vertice con i capiservizio e gli inviati. Quand’era di buon umore, Pietra osservava la sua squadra e chiedeva, sornione: chi di voi ha bruciato la mia casa sul Penice in quel rastrellamento? Le risposte, altrettanto sardoniche, erano le più varie: io no perché sono arrivato sul passo a cose fatte con una compagnia di allievi ufficiali della Gnr, io no perché stavo nella Brigata Nera a Varese, io no perché stavo con la Repubblica in un’altra zona, io nemmeno perché ero nella San Marco, ma in Liguria…»147. Difficile e persino un poco imbarazzante commentare questo passo, nel quale, in primo luogo, c’è uno scarto comunque importante del quale l’autore non sembra tenere conto: fascisti è diverso da tedeschi (che qui ha l’ovvio significato di nazisti) che, da quel che si legge, sembrano essere i concreti responsabili e del rastrellamento e della villetta bruciata. In secondo luogo si dipinge questo specie di bucolico affresco della riunione di redazione, per una storia di guerra che, per come viene raccontata, sembra essere finita a tarallucci e vino. È altamente probabile che nella villetta sul Penice, a parte i danni materiali, Pietra non abbia perso null’altro – o meglio si potrebbe dire: nessun altro. E, dato il frangente, pare francamente ben poca cosa nei confronti di chi, in quello stesso agosto ‘44, in un rastrella- mento, in una incursione dei tedeschi ha perso tutta la sua famiglia, oltre alla propria casa che, nel caso specifico essendo sul Penice, si suppone fosse pure quella delle vacanze. È questo che atterrisce nei libri di Pansa: la mistificazione dell’ovvio, del buon senso, di ciò che è narrazione capziosa, in confronto a quello che è il “grado zero” degli eventi e della cruenza della guerra, dove tedeschi e fascisti hanno fatto ben peggio che bruciare una villetta sulla sommità di un passo, come le stragi di cui si parla nel paragrafo successivo. Sono eventi che non possono stare sullo stesso piano perché la gravità, la portata e il valore che hanno, sono completamente differenti tra loro. Sono cose ovvie, ma paiono non esserlo per Pansa. Battaglia della memoria # 6: le stragi impunite: l’ultima sentenza (Marzabotto) Chiudiamo questo breve elenco di battaglie con uno dei capitoli più amari che riguarda la Storia degli anni 1943-45: le stragi e gli eccidi nazifascisti rimasti, di fatto, impuniti. Al tribunale di La Spezia durante il processo per la strage di Marzabotto148 – tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre dello scorso anno – emergono elementi inquietanti: «Una lettera minatoria scritta in lingua inglese, imbucata in una città italiana, è stata indirizzata alla caserma regionale dell’Arma dei carabinieri del Trentino Alto Adige: con i nomi dei tre investigatori in forza alla procura militare della Spezia, impegnati nelle indagini sui crimini di guerra»149. Ma non è tutto: «Sono emersi anche tentativi di influenzare i testimoni tedeschi chiamati dalla giustizia italiana a chiarire il loro ruolo nelle stragi e l’esistenza di associazioni di mutuo 146 Monte alla fine della valle Staffora, all’incrocio di quattro regioni: Emilia, Lombardia, Piemonte e Liguria. 147 PANSA (2006), p. 24. Ottocento civili, donne e bambini, massacrati fra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 dalle SS della 16esima divisione. «Una donna, Anita Leoni, incinta, fu violentata, le fu squarciato il ventre e tagliato in due il feto. Ferruccio Laffi, che ieri ha partecipato commosso all’udienza insieme a una ventina di abitanti di Marzabotto, quando tornò alla sua cascina vide i cadaveri di 18 persone nell’aia, compreso un neonato di 29 giorni», in SPEZIA (2007,1). 148 149 COGGIO (2006). “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... soccorso fra ex SS, che garantiscono appoggio e sostegno anche legale agli ex nazisti imputati per gli eccidi della seconda guerra mondiale150 […]. Ciclostili sequestrati nelle abitazioni di affiliati alla Iac, una delle principali associazioni di mutuo soccorso per ex nazisti, iniziano testualmente: “Caro camerata, se dovessi essere interrogato non dare informazioni”. Sono stati ritrovati carteggi fra ex SS, con fotocopie di articoli di stampa [che] parlano del processo italiano di Marzabotto: “Se ti chiedono qualcosa – era annotato a margine – rimanda a quanto scritto nella pubblicazione Sulle stesse orme con lo stesso passo”. […] Il processo comunque va avanti. Si punta a chiuderlo con sentenza entro Natale. Dei 21 imputati iniziali, tutti contumaci, ne sono rimasti vivi 18»151. Ed è questo che credo faccia veramente scalpore: è passato talmente tanto tempo che alcuni di questi sono morti. E di quelli rimasti, anziani e chissà dove, sono in contumacia, mentre in un mondo solo un po’ più giusto di questo dovrebbero essere tutti in galera da almeno una quarantina d’anni. Possibilmente a rimpianger d’esser nati. E invece «in un tentativo di vana difesa, un avvocato, Nicola Canestrini, legale di uno degli assolti, ha messo agli atti la foto di papa Ratzinger: “Se basta essere appartenuti alla Gioventù Hitleriana per essere ritenuti corresponsabili delle stragi naziste, allora dobbiamo processare anche Papa Ratzinger e Gunther Grass”, ha 150 Cfr. GUIDI (2006). 151 In COGGIO (2006). 152 SPEZIA (2007,1). 153 SPEZIA (2007,2). 154 SPEZIA (2007,3). 93 detto. Poi, dopo le rimostranze del pm, la foto da giovane del papa in divisa se l’è ripresa»152. A fronte dei dieci ergastoli e dei sette assolti, il commento del presidente del Consiglio Romano Prodi è condivisibile: «Una sentenza che ha “un valore simbolico”, perché i colpevoli “sono diventati quasi irraggiungibili”»153. Anche se qualcuno è stato raggiunto, nel suo paesello del Tirolo austriaco: «“Questa sentenza è proprio una cosa terribile”. L’ex maresciallo capo delle SS Hubert Bichler, 86 anni, è uno dei dieci militari tedeschi condannati all’ergastolo dal Tribunale militare di La Spezia per la strage di Marzabotto. Parla nel salotto della sua villetta con piscina […]. Nessuno lo aveva ancora avvisato della decisione della magistratura italiana, ma la notizia della sua condanna non sembra dargli grande pena. “Fantastico” esclama ironico e impassibile quando viene a sapere che dopo le condanne i parenti delle vittime chiederanno un indennizzo. “Davvero fantastico. Ma se vogliono i danni, perché non li hanno chiesti prima al mio comandante oppure perché non a Hitler o a Mussolini? Non capisco”. Nega di avere responsabilità e si difende come tutti gli imputati ex nazisti: ho solo obbedito agli ordini»154. Non esistono parole per commentare. E non resta davvero che sperare in una giustizia divina. Quella umana sembra proprio incapace di farsi valere155. Esistono però anche episodi che denotano una certa etica e deontologia: «Può essere in questo caso utile ricordare che il prof. Monaco ha svolto alcune ricerche approfondite sui rapporti tra ricerca neurologica in Germania e potere nazista del Terzo Reich. Da questi studi (...) è scaturita la proposta ufficiale, fatta dalla Società Italiana di Neurologia, di eliminare l’eponimo Hallervorden-Spatz da ogni testo e memoria. I due neurologi tedeschi arrivarono infatti alla descrizione della patologia che portava il loro nome attraverso studi su cervelli prelevati da cadaveri di uomini, donne e bambini assassinati nel corso della realizzazione di programmi di eugenetica, finalizzati all’eliminazione fisica di malati neuropsichiatrici». Su TORINO MEDICA (2007). 155 94 LUCIANO CELI CONCLUSIONI non c’è Futuro, inconsistente ora non c’è Passato che significhi ancora niente che valga il buio del Presente Giovanni Lindo Ferretti, Neukolln La guerra è dura, soprattutto quando la memoria viene rimossa: il genitore che compra oggi un libro ‘revisionista’ perché interessato a capire il meccanismo di distorsione, la visione distorta di una realtà storica con un preciso fondamento, rischia di lasciare in eredità nella biblioteca del figlio solo quel libro, senza un contraddittorio, senza accanto un libro che narri le vicende di chi fu sgozzato, impiccato, ucciso a sangue freddo, come nella terribile alba del 12 agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema. Per questo è fondamentale continuare a tenere viva la memoria, far si che questo passaggio si compia, abbia un seguito anche – e forse, a questo punto, soprattutto – artistico156. Molte e degne di tutta l’ammirazione le iniziative su tutto il territorio nazionale: le scuole, nodo fondamentale per le giovani generazioni157, che magari adesso non comprendono il valore e la portata di tanto affaticarsi, ma anche una parte di pubblicistica158. Viviamo di certo in un tempo strano, per descriverlo prendo a prestito le parole di un libro di recente pubblicazione: Il passato è ridotto ad unica valenza negativa. Il nuovo è il solo bene. Più nuovo più bene. La morte è notizia spettacolare pruriginosa o va evitata. Esiste solo io, oggi, primo e ultimo giorno del mondo e un domani preteso garantito e definito, copia dell’oggi, migliore. Tutto è giustificabile, giustificato. I carnefici riscuotono interesse e simpatia, le vittime ripugnanza. Il male è sempre nuovo, eccitante. Il bene superato noioso comunque. Molto moderno e indice di ottimi sentimenti altruistici è il ribaltamento dei ruoli. Il colpevole è vittima. La vittima a ben vedere colpevole159. Vacante il senso di responsabilità e riconoscere le proprie colpe, caso mai succeda, serve a far risaltare quelle ben più gravi degli altri. Perso il senso dell’onore. Tutto è dovuto e un desiderio formulato ed espresso equivale ad un diritto.160 E, più nello specifico: «La Storia ricomincia ogni giorno e continua affondando in un tem- In ordine di tempo, oltre ai citati CSI, vale senz’altro la pena di ricordare, per i documenti video, FERRARIO D., BELPOLITI M. (2006), che ripercorrono la strada, attualizzandola nel presente, che Primo Levi fece per tornare a Torino, narrata ne La Tregua. Belle le scene di ‘repertorio’ con un Primo Levi a passeggio per Torino, ma anche in visita al campo di sterminio di Auschwitz. 156 Cito del tutto occasionalmente, il volumetto a cura di AIRAUDO (2006), donatomi da Ugo Cerrato, nel settembre del 2006. Ma molte, per fortuna, sono ancora le iniziative che coinvolgono i ragazzi delle scuole. 157 Si veda la bibliografia. Molte delle fonti citate sono articoli di giornale, spesso comparsi nel periodo relativo alla Giornata della Memoria (27 gennaio), ma anche per la Festa di Liberazione. Come tutta l’informazione che passa per i quotidiani è oggetto della schizofrenia legata ai tempi stretti delle redazioni, costrette spesso a occuparsi di cronaca più che di questioni di fondo. Sembra quindi non esistere un prima e un dopo, ma è già importante che se ne parli quand’è il momento. 158 Non può non saltare alla mente la recente strage del piccolo paesino del nord Italia, Erba. I giornalisti morbosi, curiosi, improvvisano identikit della devianza della coppia che si è macchiata della distruzione di due famiglie, vanno in carcere a intervistare i coniugi, ecc. Che sia un tempo dell’indifferenza, del virtuale, sul quale diventa possibile scherzare anche sulle questioni più terribili, lo dimostra una specie di proverbio, coniato proprio in occasione della strage, che circola di bocca in bocca: «Meglio l’erba del vicino, che il vicino di Erba». 159 160 FERRETTI (2006), pp. 94-95. “ M ATERIALE RESISTENTE”. SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULL’ATTUALITÀ... 95 po, avanti e indietro, che nessuno possiede e ogni vincitore momentaneo riscrive a proprio tornaconto.»161 Esattamente ciò che sarebbe necessario evitare. «La Repubblica», inserto «Almanacco dei Libri» del 15/7, anno II, numero 27; BIBLIOGRAFIA RAGIONATA162 PASOLINI P. P. (2006), La luce della Resistenza, su «La Repubblica» del 22/4, p. 43; MALVEZZI P., PIRELLI G., a cura di (2002), Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana, Einaudi, Torino; NICODEMI V., LENZETTI G. (2006), Guerra sulle Apuane, Edizioni ANPI, Massa; INQUADRAMENTO GENERALE AA.VV. 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Per agevolare quindi il lettore si è deciso di suddividere in diverse sezioni – che in qualche modo rispecchiano anche la costruzione del presente articolo – la bibliografia stessa. 162 163 Una presentazione dei due film prodotti e diretti da Clint Eastwood Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima. 164 Sui due film prodotti e diretti da Clint Eastwood Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima. 96 LUCIANO CELI e le svastiche negli stadi”, su «La Repubblica» del 6/3, p. XII (cronaca di Torino); CAPRARA F. (2007), Eastwood, l’ultimo samurai165, su «La Stampa» del 12/2, p. 41; CORBI M. (2006), Fascisti su Marte. Balle spaziali, su «La Stampa» del 17/10, p. 32; CROSETTI M. (2007), Primo Levi, la memoria in cento voci, su «La Repubblica» del 27/1, pp. I e XIIXIII (cronaca di Torino); FUSCO M. P. (2007), “Basta con i miti antinazisti”166, su «La Repubblica» del 31/1, p. 55; MACCHIAVELLI L., GUCCINI F. (2007), Tango e gli altri. 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