Sulle tracce di “Un amore” - Biblioteca Provinciale di Foggia La

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Sulle tracce di “Un amore” - Biblioteca Provinciale di Foggia La
Sulle tracce di “Un amore”
di
Davide Grittani
Sebbene molto antico il palazzo conserva un aspetto borghese che a
guardarlo mette grande soggezione. Tuttavia a spaventarmi non fu la sua albagia quanto l’increscioso affanno che sopraggiunse non appena intravidi il portone. Ancora oggi lo stabile porta il nome di Casa della Fontana, e a sorvegliarne
gli inquilini si erige mastodontico una specie di Poseidone, una statua di Dio
marittimo che veglia sulla fragilità umana dall’alto di una decina di metri.
Quanto basta per tenersi a galla sull’oblio.
Se in tutto il mondo esiste un luogo dove invertire le usanze diventa
abitudine inviolabile questo è Milano, dove il pranzo si chiama colazione, la cena
focolaio delle mascelle, e la notte è solo un’alba un pò più livida di quella solita.
Incontrarla appena dopo colazione mi soggiogava anche le intenzioni più bellicose, sarei certamente capitolato sotto le incessanti pulsioni di quello che si annunciava come un memorabile caffè.
«Chi è?»
«Sono Grittani, vengo per Buzzati.»
«Ah finalmente. Salga, salga. Ultimo piano.»
E’ ridicolo che a casa di Buzzati io ricordi il movente di questa visita
guidata, ma l’emozione m’ha preso sottobraccio e non riesco a fare a meno di
sorreggermi.
«Bella lì, lo sa che è in ritardo giovanotto?»
«Mi dispiace ma c’era abbastanza traffico ... »
Sono imperdonabile lo so, ma come faccio a confessarle il rispetto incestuoso che ho per il tempo: più sono in ritardo e più cresce l’interesse ‘che
m’accompagna a un appuntamento, tanto che avrei preferito consacrale questa
giornata non venendoci affatto.
«Allora, lei vorrebbe visitare casa di Dino vero?»
«E’ stata davvero gentile, signora, ad accogliermi.»
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«Si figuri. Cominci però col fare attenzione a dove mette i piedi perché
ogni mattonella che schiaccia custodisce un pezzo di letteratura nazionale. Prende un caffè?»
«Bello forte, se vuole che resti in piedi.»
L’Almerina conobbe Dino Buzzati all’età di vent’anni, quando lo scrittore veneto viveva da tempo a Milano con sua madre e si occupava di cronaca al
Corriere della Sera. A presentarli fu un amico in comune, forse in una sera viziata
dal destino, scavata dal mistero, in cui ti accorgi che l’incontro che sta per avvenire in qualche modo risulterà fatale. Presto cominciarono a uscire insieme, da
soli e senza un pretesto di scorta che potesse giustificare quella complicità così
sfacciata tra lui, già gagliardo del successone del Deserto dei Tartari, e lei famosissima modella di un collirio, con i suoi occhi felici a spasso su tutti gli autobus e i
tram della città.
«Ma lei come ha scoperto Buzzati?» mi chiese.
«La prima cosa che ho letto è stato Un amore?»
«Ah sì, bel romanzo quello - quasi rinvenendo -… che storiaccia però.»
«Ma è proprio vero che Buzzati passò tutto quell’inferno?»
«Ma si che è vero. Ma scherza, io l’ho conosciuto qualche tempo dopo,
ma i suoi amici m’assicurano che non riuscivano più a tenerlo lontano da quella
ragazza. Si era come ammalato, durante il giorno non faceva altro che pensare
a lei, a questa maschietta che - si dice - gliene abbia fatte passare di tutti i colori.»
L’ipotesi che davanti a me potesse sedere proprio il personaggio femminile di quel bellissimo romanzo, la Laide, si dissolse quindi dopo poche battute, miseramente. Mi aveva chiaramente messo in guardia, non era lei la bambola spietata che aveva fatto di Buzzati un uomo profondamente infelice. Si sa
che un lettore volentieri difenderebbe – qual’ora fosse chiamato a farlo - il suo
autore preferito, ne renderebbe il capezzale inaccessibile, conserverebbe il suo
maestro a debita distanza da ogni raffreddore, e se necessario lo tumulerebbe
vivo in una campana con una macchina per scrivere. Veicolo di sogno e
nient’altro. Eppure qualcosa non tornava, qualcosa mi consigliava di indagare a
fondo nei ricordi e nelle date. Di Buzzati conosco tutto a memoria, se solo
avesse provato a mentire mi avrebbe servito su di un piatto d’argento la nuda
verità.
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«Allora le dicevo di Dino - proseguì come riapparsa dopo un’assenza -: era
un uomo molto elegante, davvero lasciava poco al caso. Tutta Milano lo conosce
per le sue abitudini borghesi, ma un borghese di quelli alla buona. Uno che quasi si
pentiva di esserlo, un po’ vittima della noiosa vita dei nobili.»
«Chi lo conosceva bene? Chi erano i suoi amici?»
«Di amici Dino ne aveva tanti, eppure la sua discrezione più di una volta lo
ha reso difficile da interpretare agli occhi di qualcuno. Con Montanelli, per esempio, vissero insieme le prime soddisfazioni, i primi incarichi importanti come inviati.
Si fidava molto anche di Gaetano Afeltra, di Sergio Quinzio, di Montale e di molta
parte della redazione letteraria del Corriere.»
Se continuo a darle tanto filo finirò per farmi seminare dagli aneddoti di
Buzzati. Toccherà inventarmi qualche stratagemma per sapere se Almerina assomiglia o meno alla Laide di Un amore.
«Ecco vede: questa è la macchina di Dino. Qui ha scritto fino a quando ha
potuto. Gliela regalarono quando la malattia non gli permise più di andare al Corriere.»
E come faccio a distranni, a fare finta di niente, a insinuare come un pettegolo di fronte alla sua macchina per scrivere. Ho così infantilmente sperato di toccare quei tasti, di ascoltare il ticchettìo di un maestro, di celebrare come un sacramento il giorno in cui avrei visitato la fabbrica di Paura alla Scala, I sette messaggeri e
In quel preciso momento. Ho sempre creduto che degli scrittori bastasse - e talvolta
avanzasse – l’opera letteraria in sé, il frutto clandestino delle vicende umane e personali, che insomma farne la diretta conoscenza non sarebbe valso a niente se non a
dissiparne la stima. Le pagine scritte sono il loro volto, il titolo dell’opera le loro
mani, la copertina il loro abito liso. Conoscerli non serve, se non alle vanità della
memoria. Eppure già dall’atrio di Casa della Fontana m’era parso di vederlo, da
lontano di spalle, col volto asciutto, la sagorna spossata, il suo andare incerto e vissuto. Allegramente perduto nel mondo.
«Con quale collega Buzzati riuscì a diventare veramente amico?» le chiesi con
curiosità.
«Sicuramente con Chiara. A dire il vero Piero l’ho conosciuto prima io,
quando girava voce che ci provasse con tutte quelle che incontrava. Un giorno venne a trovarmi a casa, senza però sapere che io abitassi già con Dino. Continuò serenarnente nella sua serie infinita di avance senza neppure impensierirsi quando gli
confessai che ero già impegnata. Erano le otto di un sabato sera, e Dino tornò a
casa dal Corriere. Quando lo
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presentai a Piero Chiara come il mio compagno per poco non svenne lungo sul
pavimento. Da quel giorno sono diventati grandi amici, tanto che io e Dino riuscimmo anche a mitigargli quel triste mal vezzo dell’avarizia.»
Dal terrazzo di questo appartamento si amoreggia con l’anima di una Milano addirittura bella. Appena appena le guglie del Duomo, mentre agli occhi segreti
del mondo, immobili come gli involucri dell’eternità, appaiono tutte intere le vesti
della Madonnina. Che strano. Avevo a mia disposizione l’infinito tempo
dell’incoscienza quando mi trovai invece a dover elemosinare la scaltrezza della celebrità. Solo grazie a quel caffè, in ritardo di venti secoli, imparai che anche la fama
è un castigo di Dio.
Non potevo concedermi altre pause, non potevo permettere che la poesia
mi prendesse la mano. Nata sotto la stella del dubbio, quella visita in casa Buzzati
era diventata la tana segreta della mia inquietudine. Niente altro mi doveva allontanare dal segreto della Laide.
«E al corrente delle segnalazioni per il Nobel che alcuni quotidiani mossero
in favore di Buzzati?»
«Premio Nobel? Questa non la sapevo?»
«Come non la sapeva? Che studioso è, fece molto scalpore. Oltre ai giornali
francesi anche quelli tedeschi segnalarono Buzzati come favorito, tant’è che si attendeva il parere decisivo del Corriere della Sera.»
«E come andò a finire?»
«Quando si dice la fortuna. All’epoca, se non ricordo male ai principi degli
anni settanta, il direttore era Giovanni Spadolini, e l’imbarazzo nel segnalare un redattore della sua stessa testata giocò un ruolo determinante. Spadolini finì per indicare il nome di Moravia, così le segnalazioni risultarono insufficienti sia per lui che
per Buzzati.» Dino Buzzati è stato anche un bravo pittore, “anzi un grande pittore,
forse l’ultimo vero pittore del nostro secolo.” Fotografando i volti dei suoi quadri
si finisce per essere defraudati delle proprie certezze, come esangui di fronte a tanta
scomoda bellezza del vivere.
Il pomeriggio in casa Buzzati finì quasi al tramonto, mi toccava tornare uomo e scendere di nuovo sulla terra. Anche l’aroma invadente del caffè svanì nelle
follie del centro. Adesso toccava a Milano. Al solito la città si sarebbe data a
un’animazione forsennata. Le genti si sarebbero perse in un pranzo affrettato per
riaversi poco più tardi lungo le vie della fatalità, degli amori clandestini. In poco
tempo la sera cambierà scenario, dagli operai alle puttane, dal sole coraggioso di
aprile alla notte delle lucciole leggere. Per fortuna, prima di andar via, convinsi
l’Almerina a
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incontrarci ancora per andare a prendere un gelato dal Peppino, pasticciere di razza
che sembra aver retto bene gli urti feroci della modernità.
«A dopodomani Almerina, e scusi il disturbo.»
«Ma si figuri. Sapesse quali invadenti ho conosciuto che lei in confronto
sembra un angelo.»
Allora avrà fatto davvero imbarazzanti conoscenze, amicizie sconvenienti che
le hanno cambiato i modi e le maniere. L’indomani non avrebbe avuto tregua. «0
me lo confessa o glielo chiederò io stesso.» Quel giorno però era un timido bocciolo, un furtivo amplesso di primavera: lei l’Almerina, unica sposa del grande Buzzati.
Milano, 1994
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