Settembre-Ottobre N° 7-8 - 2005

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Settembre-Ottobre N° 7-8 - 2005
7-8/2005
Anno 8 - Settembre-Ottobre
Le sindromi istiocitiche.
Uno scenario poco conosciuto
Dennis Quaglino
Massimo Stati
Influenza aviaria: un rischio per l’umanità
Guglielmo Gargani
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, comma 1 DCB Milano
PRIMO PIANO
Novità in tema di terapia
della colestasi intraepatica gravidica
Pietro Cazzola
FARMACOPEDIA
Ibuprofene-arginina: l’analgesico ideale?
Pietro Cazzola
DERMATOLOGIA PLASTICA
Gli effetti
del fumo di sigaretta
sul microcircolo cutaneo:
studio termografico
Aldo Di Carlo
Evoluzione della dermatologia moderna
Antonio Di Maio
INFORMAZIONI SCIENTIFICHE
News on Skin Repair
Fattori che influenzano
la cicatrizzazione
delle ferite cutanee
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
121
Le sindromi istiocitiche.
Uno scenario poco conosciuto
Scripta
MEDICA
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Sviluppo e Nuove Tecnologie
Antonio Di Maio
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Dennis Quaglino, Massimo Stati
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Influenza aviaria: un rischio per l’umanità
Guglielmo Gargani
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PRIMO PIANO
Novità in tema di terapia
della colestasi intraepatica gravidica
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Ibuprofene-arginina: l’analgesico ideale?
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DERMATOLOGIA PLASTICA
Gli effetti del fumo di sigaretta sul microcircolo cutaneo:
studio termografico
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News on Skin Repair
Fattori che influenzano la cicatrizzazione
delle ferite cutanee
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DI UROLOGIA E ANDROLOGIA
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DELL’ADOLESCENZA
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Le sindromi istiocitiche.
Uno scenario poco conosciuto.
Dennis Quaglino*, Massimo Stati**
Introduzione
Le sindromi istiocitiche comprendono
numerosi quadri morbosi che hanno come
comune denominatore la presenza di una
cellula monocito-macrofagica o simil-istiocitaria, che appare come l’elemento caratteristico nelle diverse lesioni patologiche.
Le cellule monocito-macrofagiche e le cellule dendritiche (comprendenti le interdigitate
delle aree linfoidi T-dipendenti, le dendritiche follicolari dei centri germinativi, le cellule intraepiteliali epidermiche di Langerhans)
rappresentano sistemi cellulari, sotto vari
aspetti, notevolmente affini: ambedue sono
infatti impegnati nella processazione e presentazione degli antigeni al sistema linfoide
svolgendo un ruolo importante nelle risposte immuni e infiammatorie.
La differenza fra i due tipi cellulari consiste,
invece, nella loro diversa ontogenesi: mentre
per i monociti-macrofagi è accertata la loro
derivazione midollare, non altrettanto documentata è l’origine delle cellule dendritiche
che, secondo alcuni, potrebbero discendere
direttamente dalle CFU-M. Le diverse caratteristiche citochimiche e citoimmunologiche
fra sistema monocitico-macrofagico e sistema delle cellule dendritiche sono riportate
nella Tabella 1. Comunque, questo insieme
di diversi tipi cellulari, che svolgono funzioni affini, costituisce un sistema che va sotto
la designazione di “Mononuclear Phagocyte
and Immuno-Regulatory Effector” (M-PIRE).
Esso può andare incontro a processi iperplastici di natura benigna (ma talora con
* Professore Emerito di Clinica Medica, Università de L’Aquila;
**Dirigente Medico 1 livello, Ospedale Civile, Avezzano.
espressioni “border line” verso la malignità) e
a processi francamente neoplastici maligni.
Pertanto, non è sempre facile fare rientrare in
schemi particolarmente rigidi quadri morbosi che sono spesso dotati di uno spettro assai
variabile di espressioni cliniche. Per questo
motivo, e anche per le incertezze nosologiche non del tutto chiarite, sono state di volta
in volta proposte diverse classificazioni.
Fra quelle più accreditate e moderne, ne ricordiamo due: la prima, quella di Komp e Perry
(1991) (1), riportata nella Tabella 2, propone
tre classi di istiocitosi.
Le istiocitosi della classe I corrispondono alle
sindromi cliniche, definite come istiocitosi
delle cellule di Langerhans, previamente conosciute come istiocitosi X. Le istiocitosi della
classe II comprendono tre distinte istiocitosi
non-Langerhans e cioè la linfoistiocitosi familiare eritrofagocitica, la sindrome emofagocitica associata ad infezioni e la istiocitosi dei seni
con linfoadenopatia massiva (Malattia di RosaiDorfman). Le istiocitosi della classe III riguardano le proliferazioni maligne della serie
monocito-macrofagica, e cioè le leucemie
monocitiche e mielo-monocitiche acute e croniche, l’istiocitosi maligna nota originariamente come “Hystiocytic medullary reticulosis” di
Scott e Robb-Smith (1939) ed il Linfoma istiocitico, ormai di rarissimo riscontro, dato che la
quasi totalità dei casi descritti come linfoma
istiocitico era in realtà rappresentata da neoplasie di natura linfoide, inseribili nell’ambito
dei linfomi a grandi cellule anaplastiche.
L’ultima classificazione in ordine di tempo è
quella di Favara et al. (1997) (2), riportata
nella Tabella 3 che, analogamente alla precedente, suddivide le istiocitosi in tre diversi
raggruppamenti in base al tipo cellulare
coinvolto e alla trasformazione maligna: a) le
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Sistema Monocitico
Macrofagico
Sistema
Cellule dendritiche
Cellule di
Langerhans
Istochimica enzimatica
(sezioni congelate)
Esterasi non specifiche
Fosfatasi acida
ATPASI
5-Nucleotidasi
α-Mannosidasi
Immunoistochimica
(sezioni incluse in paraffina)
HLA-DR
CD 68
MAC 387
Lisozima
α1-antitripsina
α1-antichimotripsina
Proteina S 100
PNA (“PEANUT”) Agglutinine
Sezioni congelate
CD 14
CD 11c
CD 68
CD 1
CD 4
Cellule
Dendritiche
Interdigitate
Cellule
Dendritiche
Follicolari
+
+
-
+
+
+
-
+
-
+
+
+
+
+
+
Pos. Diffusa
+
+
Pos. Localizzata
o focale o focale
+
+
Pos. Localizzata
+
-
+
+
+
-
+
+
+
solo LCH
+
+
+
-
+
+
-
Tabella 1. Caratteristiche differenziative degli istiociti.
istiocitosi rapportabili alle cellule dendridiche, b) le istiocitosi riconducibili ai macrofagi ed infine c) le istiocitosi maligne. Data la
rarità di alcune di queste sindromi la presente rassegna focalizzerà l’attenzione su quelle
di più frequente riscontro e quindi meglio
caratterizzate, in quanto su di essa sono state
condotte indagini ultrastrutturali, citochimiche, immunocitochimiche, fenotipiche e
genotipiche.
Istiocitosi delle
Cellule di Langerhans o LCH
Nell’ambito dei processi patologici rapportabili alle cellule dendritiche un posto di rilie-
vo spetta alla Istiocitosi delle Cellule di
Langerhans o LCH (“Langerhans Cell
Histiocytosis”). La LCH comprende le entità
storicamente conosciute come granuloma
eosinofilo delle ossa (3), la Malattia di HandSchüller-Christian (4-6) e la Malattia di
Letterer-Siwe (7, 8).
Sebbene sia raramente possibile suddividere
i pazienti nelle entità nosologiche sopraelencate, le designazioni storiche rimangono utili
per definire le diverse e molteplici manifestazioni cliniche della LCH.
Il granuloma eosinofilo delle ossa è stato
descritto come un quadro di istiocitosi,
caratterizzato da lesioni solitarie o multifocali delle ossa. Rappresenta il 60-80% di tutte
le istiocitosi (9). La malattia si manifesta
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Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
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sione dell’osso corticale superficiale con conIstiocitosi
Istiocitosi delle cellule di Langherans (equivalente all’Istiocitosi X)
seguente neoformaziodella classe I a) Granuloma Eosinofilo
ne di periostio.
b) Malattia di Hand-Schüller-Christian
In questi casi, si impoc) Malattia di Letterer Siwe
ne una diagnosi diffeIstiocitosi
Sindromi Emofagocitiche (equivalente alle Istiocitosi delle renziale con il Sarcoma
della classe II cellule non Langherans)
osteogenico, il Sarcoma
a) Linfoistiocitosi emofagocitica familiare
di Ewing e la osteomieb) Sindrome emofagocitica associata a infezione
lite. Spesso vi è caduta
c) Istiocitosi dei seni con linfoadenopatia massiva
dei denti per infiltrazione gengivale e coinIstiocitosi
Sindromi istiocitiche maligne
volgimento della mandella classe III 1) Leucemie
a) leucemia monocitica acuta
dibola.
b) leucemia monocitica cronica
Il diabete insipido colc) leucemia mielomonocitica cronica (dell’adulto e dell’infanzia)
pisce il 5-50% dei
2) Istiocitosi maligna (nota in passato come “Histiocytic Me- pazienti con LCH. Radullary Reticulosis”)
ramente si manifesta
3) Rari linfomi istiocitici veri
all’esordio della malattia e in genere si verifiTabella 2. Le sindromi istiocitiche (Komp e Perry 1991).
ca dopo 4 anni dalla
diagnosi (11). E’ dovuto all’infiltrazione da parte delle cellule di
generalmente in età giovanile (dai 5 ai 10
Langerhans dell’ipotalamo con o senza coinanni) (9) pur potendo colpire persone adulvolgimento dell’ipofisi posteriore (12).
te con dolore osseo circoscritto, coinvolgenInfine, l’esoftalmo è dovuto alla presenza di
te una o più aree del capo, delle coste, dei
cellule tumorali nella cavità orbitale e può
femori, del bacino. Radiologicamente le
condurre a strabismo o cecità per lesioni dei
lesioni sono rotonde o ovali con margini ben
muscoli orbitali o del nervo ottico (13).
definiti (10).
La Malattia di Letterer-Siwe è la forma di istioLa malattia si accompagna ad eosinofilia di
citosi più rara, raggiungendo solo il 10% dei
grado variabile. La Malattia di Hand-Schüllercasi di LCH. Si manifesta con esordio acuto
Christian è stata ritenuta da alcuni una fase
nell’infanzia con febbre, lesioni litiche delle
evolutiva del granuloma eosinofilo. È una
ossa, con predilezione per le estremità supeistiocitosi multifocale presente nei bambini
dai 2 ai 5 anni e rappresenta il 15-40%
Istiocitosi rapportabili
1) Istiocitosi cellule di Langherans
delle istiocitosi (9). È
alle cellule Dendritiche
2) Xantogranuloma giovanile
3) Istiocitomi solitari cellule Dendritiche
contrassegnata dalla
classica, ma rara triaIstiocitosi rapportabili
1) Linfoistiocitosi emofagocitica
de: lesioni litiche, diaalle cellule Macrofagiche
a) primaria
bete insipido ed esofb) secondaria
talmo. Le sedi più fre2) Istiocitosi dei seni con linfoadenopatia massiva
quenti delle lesioni liti3) Istiocitomi solitari macrofagici
che sono le ossa del
Istiocitosi maligne
1) Leucemie acute FAB M4 e M5
cranio, delle coste,
2) Tumori monocitici extramidollari
della pelvi e della sca3) Leucemia mielomonocitica cronica
pola. Nelle ossa lunghe
4) Sarcomi cellule Dendritiche
la pressione esercitata
5) Sarcomi Macrofagici
dalla massa tumorale
nella cavità midollare
Tabella 3. Classificazione delle sindromi istiocitiche (Favara et al. 1997).
può portare alla ero-
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riori, porpora vascolare, lesioni cutanee di
tipo papulare, suscettibili di ulcerazioni e
sanguinamento, polmonite interstiziale,
ingrossamenti linfonodali, epato-splenomegalia. Nei casi più gravi può essere presente
compromissione della funzione epatica con
ipoproteinemia, e ridotta sintesi dei fattori
della coagulazione. Le lesioni epatiche sono
prevalentemente periportali e possono essere
distinte in 4 stadi: proliferativo, granulomatoso, xantomatoso e fibroso (14). Una delle
aree di coinvolgimento più significative è il
sistema emopoietico con possibile insorgenza di anemia e trombocitopenia. La patogenesi della compromissione emopoietica è
ancora del tutto oscura, dato che raramente
si osserva a livello midollare un aumento
degli istiociti e degli eosinofili e infiltrati
midollari significativi sono raramente visibili. La presenza di trombocitopenia sembrerebbe rivestire un significato prognostico sfavorevole (15). I pazienti possono a volte presentare all’esordio notevole linfoadenomegalia estesa a più stazioni linfoghiandolari
senza altre manifestazioni patologiche. In
questi casi, la diagnosi differenziale va posta
nei confronti della istiocitosi dei seni con
linfoadenopatia massiva.
Un’altra manifestazione di esordio della LCH
può consistere nella cosiddetta “Sindrome
polmonare” che colpisce spesso adolescenti e
adulti nella terza e quarta decade. Questo
interessamento esclusivo polmonare è spesso
seguito da una fase caratterizzata da un
decorso prolungato, indolente e gravemente
debilitante (16).
Radiologicamente, può essere presente una
diffusa infiltrazione sotto forma di polmonite interstiziale oppure si possono riscontrare
infiltrati infiammatori peri-bronchiolari che
esitano in fibrosi e formazioni cistiche (17).
Comunque il mezzo di indagine più appropriato per documentare la presenza di interessamento polmonare è la tomografia assiale computerizzata ad alta risoluzione
(HRCT) (18).
Può essere utile anche il lavaggio bronchiale
che evidenzia la presenza di cellule di
Langerhans CD1a+ dato che nei soggetti normali non-fumatori cellule di Langerhans
CD1a+ non sono mai riscontrabili (19).
Infine, è stata descritta nell’infanzia e nell’età
adulta una forma “pura” cutanea di LCH
senza altre manifestazioni cliniche della
malattia (20).
La presenza di un così vasto spettro di manifestazioni cliniche, estremamente variabile
da un caso all’altro, a seconda del sistema di
organo coinvolto, rende ragione dell’opportunità di superare la distinzione fra le vecchie designazioni storiche e di ricorrere, ai
fini della prognosi e della terapia, ad una
classificazione o stadiazione, che prescinda
dalle caratteristiche cliniche della vecchia
nomenclatura.
Questa stadiazione si basa su tre fattori: l’età
del paziente all’esordio della malattia, il numero degli organi coinvolti e il grado di disfunzione dei diversi sistemi d’organo (21, 22).
Pertanto un adolescente o un adulto che in
corso di granuloma eosinofilo, presenta
esclusivamente una lesione monolocale avrà
una prognosi migliore (23), mentre un bambino con molteplici lesioni d’organo avrà la
prognosi peggiore (21, 22, 24).
Più precisamente, un’età maggiore di due
anni è associata ad una buona prognosi,
mentre pazienti di età inferiore ai due anni
hanno un decorso meno favorevole. Quando
un paziente affetto da LCH, supera i 65 anni,
indipendentemente dalle sede e dalla estensione delle lesioni, la prognosi è generalmente sfavorevole.
Una forma localizzata con il coinvolgimento
di meno di quattro organi ha un indice prognostico favorevole, mentre la disfunzione di
tre sistemi di organo (epatico, polmonare ed
emopoietico) riveste un significato prognostico estremamente sfavorevole.
Fra i pazienti con malattia sistemica, 20-30%
vanno in remissione, 10% va incontro ad
exitus, mentre il rimanente 60-70% presentano i segni di una malattia cronicizzata (25).
Le disfunzioni di un sistema di organi (la
presenza ad esempio di ipoproteinemia e
iperbilirubinemia nel caso del fegato) vanno
differenziate da un semplice coinvolgimento
(ad esempio epatomegalia) dato che il coinvolgimento di per sé non è un indice prognostico sfavorevole.
Assegnando quindi arbitrariamente un punteggio da 0 a 1 per l’assenza o presenza di
Scripta
MEDICA
Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
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Figura 1.
Preparato
per apposizione
da biopsia
linfonodale
n un caso di LCH.
Le cellule
di Langerhans
raggruppate
a nido presentano
aspetto
monocitoide.
uno dei tre parametri prognostici, si ottiene
una suddivisione dei pazienti in relazione
all’età, estensione e gravità delle manifestazioni cliniche e quindi una valutazione prognostica obiettiva ed attendibile.
La cellula di Langerhans è una componente
essenziale delle lesioni della LCH.
Morfologicamente si presenta come una cellula di notevole grandezza, con nucleo
indentato a chicco di caffè e presenza nel
citoplasma di granuli di Birbeck. Carattere
distintivo delle cellule della LCH è la presenza dell’antigene di superficie CD1a.
La cellula, come già menzionato, sembra originare nel midollo dalle CFU-M e attraverso la
corrente sanguigna si localizza nella pelle, nei
polmoni, nel timo e nei linfonodi (Figura 1).
Il meccanismo patogenetico alla base della
LCH è la proliferazione inappropriata di
queste cellule che si infiltrano e si accumulano nei tessuti. La esatta causa di questa reazione è ancora del tutto oscura.
Studi immunoistochimici hanno dimostrato
che la cellula nella LCH è una cellula di
Langerhans attivata che si è arrestata in una
fase precoce della sua attivazione (26).
Le caratteristiche fenotipiche delle cellule di
Langerhans normali, delle cellule di
Langerhans attivate e quelle delle cellule della
LCH sono riportate nella Tabella 4.
La fosfatasi alcalina placentare è un marcatore importante della LCH. È stata riscontrata
nell’80% delle biopsie tessutali prelevate da
pazienti con LCH. Le cellule di Langerhans
normali, quelle verosimilmente attivate nelle
dermatosi infiammatorie, sono negative per
la fosfatasi alcalina placentare.
Studi in vitro (26) hanno evidenziato che la
fosfatasi alcalina placentare viene espressa
dalle cellule di Langerhans esposte a stimola-
Cellula di Langherans
Marcatori
Normale
Attivata
Cellula della LCH
HLA-DR
+
+
+
CD 1a
+
+
+
Granuli di Birbeck
+
+
+
CD 4
-
+
+
B7
-
+
+
Recettore interleuchina 2
-
+
+
S 100
+
+
+
PNA (“PEANUT”) agglutinine
citoplasmatico
citoplasmatico
superficiale e paranucleare
Fosfatasi alcaline placentari
-
+ (fugace)
+
Tabella 4. Il fenotipo delle cellule di Langherans e delle cellule della LCH.
Scripta
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zione antigenica alla 24a ora per poi scomparire alla 72a ora. Pertanto, la fosfatasi alcalina
placentare rappresenta un marcatore precoce, anche se fugace, nella attivazione delle
cellule di Langerhans. Indagini da parte di
vari ricercatori (27, 28) hanno dimostrato
che la LCH rappresenta una espansione clonale di cellule con fenotipo delle cellule di
Langerhans.
Le cellule di Langerhans normali sono estremamente attive nella loro funzione di presentazione degli antigeni, mentre le cellule
della LCH si mostrano del tutto inefficienti
nella loro capacità di presentazione degli
antigeni (29), per cui la proliferazione clonale delle cellule di Langerhans comporta
anche un difetto funzionale. Un’altra differenza, che è stata riscontrata fra le cellule di
Langerhans normali e quelle della LCH, è la
presenza fortemente espressa in queste ultime del recettore per il γ-interferone (26).
Nella LCH si osservano generalmente cariotipi normali, tuttavia, in un gruppo di 13
pazienti, con LCH generalizzata è stato
osservato un aumento nella frequenza e
numero delle rotture dei cromosomi e cromatidi, come pure la presenza di punti di
instabilità cromosomica (30).
Tecniche di ibridizzazione in situ e di immunoistochimica hanno evidenziato la presenza
di elevati livelli di citochine nelle lesioni
della LCH (31). In particolare, l’accumulo di
interleuchina 1 e di prostaglandina E2, a
causa della loro azione sugli osteoclasti,
potrebbe spiegare la frequenza con cui le
lesioni della LCH sono accompagnate da
significative perdite di sostanza ossea.
Per quanto riguarda la terapia della LCH
nelle lesioni ossee isolate, l’introduzione
intraossea di metilprednisolone è risultato
essere di notevole efficacia, mentre nei
pazienti con lesioni ossee multifocali può
essere di notevole efficacia l’impiego dell’indometacina (19). Nelle lesioni cutanee isolate, l’approccio terapeutico iniziale sia negli
adulti che nei bambini è generalmente basato sull’uso della mecloretamina per uso topico. Nei pazienti che non rispondono a questo trattamento, si ricorre all’impiego di un
prodotto attivato da raggi ultravioletti ad
onde lunghe, quale è l’8-metoxipsoralene
(PUVA). Il farmaco viene somministrato due
ore prima dell’esposizione del paziente ai
raggi UV e le applicazioni debbono essere
ripetute per alcune settimane (19).
Nei bambini con lesioni cutanee recidivanti
o con malattia sistematica ma non negli
adulti può essere utile ed efficace il prednisolone alla dose di 2 mg/kg al giorno.
Alcuni studi hanno sperimentato e raccomandato l’impiego della talidomide nella
terapia della LCH (32).
La 2-clorodeossiadenosina è un analogo
della purina già utilizzata per la terapia della
leucemia a cellule capellute (“Hairy Cell
Leukaemia”). Questo farmaco è risultato efficace anche nei pazienti affetti da LCH con
manifestazioni cutanee (33).
La ciclosporina, alla dose di 12 mg/kg/die è
stata utilizzata nelle forme sistemiche gravi
della LCH con buoni risultati, anche se la
percentuale delle recidive, specie a livello
cutaneo, è piuttosto elevata (34).
L’etoposide (VP16) è un derivato semisintetico
della epipodofilotossina ed è uno dei farmaci
più efficaci nella terapia delle forme sistemiche di LCH. Il farmaco è somministrato per
via endovenosa alla dose di 100 mg/m2/die
per tre giorni ed il ciclo viene ripetuto ogni
quattro settimane. A questo dosaggio il rischio
di una leucemia secondaria è trascurabile,
mentre è in grado di guarire completamente le
lesioni cutanee dopo 3 o 4 cicli (19).
Nei pazienti che hanno avuto solo una risposta parziale all’azione dell’etoposide o che
presentano una ricaduta nelle tre settimane
che intercorrono fra un ciclo e l’altro, si può
ricorrere all’azatioprina a 150 mg/die o alla
6-mercaptopurina (200 mg/die) con o senza
l’aggiunta di methotrexate alla dose di 5-10
mg settimanalmente (19).
Linfoistiocitosi emofagocitica
La linfoistiocitosi emofagocitica o “Haemophagocytic lymphohistiocytosis” (HLH) è una
malattia ben definita della prima infanzia,
descritta per la prima volta da Scott e RobbSmith nel 1939 (35).
È una condizione rara ma fatale, in cui i
linfociti T, NK, ed i macrofagi sono abnor-
Scripta
MEDICA
Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
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Figura 2.
Preparato per apposizione linfonodale in un
caso di linfoistiocitosi
emofagocitica. Esempio
di fagocitosi multipla.
La cellula istiocitaria
più grande contiene
all’interno del citoplasma due cellule fagocitate, di cui una in mitosi, l’altra probabilmente
un centroblasto.
L’elemento
istiocitario più piccolo
contiene frammenti di
materiale cellulare.
memente attivati, con conseguente ipercitochinemia, che danneggia le cellule e provoca
disfunzioni in vari organi ed apparati.
La HLH si riscontra in associazione con la
mononucleosi infettiva (36, 37), con una
cronica infezione da EBV (38, 39), in casi di
HLH familiare (40, 41), in casi di “X-linked
lymphoproliferative disease” (XLP) (42) in
pazienti con un linfoma periferico a cellule T
(43) ed infine in leucemie a cellule NK (44).
Le caratteristiche cliniche principali della HLH
consistono in febbre persistente, presenza di
epato-splenomegalia, linfoadenomegalia, infiltrati polmonari, interessamento del sistema
nervoso centrale e lesioni cutanee (45-47).
Il riscontro di anemia e piastrinopenia possono far sospettare una leucemia acuta, ma
l’esame del midollo osseo, potrà dirimere
ogni dubbio diagnostico. Infatti il quadro clinico sopra descritto, l’assenza di cellule maligne ed il riscontro di emofagocitosi, a livello
del midollo osseo, nella milza e nei linfonodi sono elementi discriminanti per confermare la diagnosi di HLH (48) (Figura 2).
Le alterazioni biochimiche sono largamente
sovrapponibili a quelle riscontrabili nella
sindrome da iperattivazione macrofagica
(49) e comprendono ipertrigliceridemia,
ipofibrinogenemia, iponatriemia, livelli elevati di ferritina, e lattico deidrogenasi.
Pleiocitosi è frequentemente presente nel
liquor. I livelli del recettore solubile di interleuchina 2 (CD25) sono elevati.
Indicatori clinici e di laboratorio di infezioni
associate sono stati osservati in 50 dei 122
(41%) bambini iscritti nel registro internazionale dell’HLH. Di questi 50 bambini, 25 avevano una storia di HLH familiare e le loro
caratteristiche cliniche non differivano da
quelle degli altri 25 bambini con HLH non
familiare o dei 72 bambini (34 con HLH familiare) senza segni di infezioni associate all’esordio. Gli agenti infettivi di più frequente riscontro comprendono il citomegalovirus, il virus di
Epstein-Barr, adenovirus, parvovirus, virus
dell’epatite B, herpes e coxsakie (45, 50).
La HLH da EBV merita una considerazione
particolare in quanto sono richieste speciali
misure terapeutiche per controllare la ipercitochinemia indotta dall’EBV e per eradicare
le cellule clonali proliferanti contenenti il
genoma dell’EBV (51).
L’incidenza dell’HLH-EBV associato è in
Giappone di 25 casi all’anno (52).
Sono state individuate 4 varianti di HLHEBV associato. Nella prima variante la HLH
insorge nel corso di una forma rapidamente
fatale di mononucleosi infettiva. Nella seconda variante la HLH ha un decorso progressivo in pazienti con sintomi caratteristici per
una forma protratta di mononucleosi infettiva. Nella terza variante l’HLH si presenta
all’esordio o come evento terminale di una
infezione cronica da EBV ed infine nella
quarta variante l’HLH assume un andamento
aggressivo e si presenta in associazione con
un linfoma periferico a cellule T (51, 53).
Le caratteristiche cliniche dell’HLH-EBV
associato sono simili a quelle già descritte
per le varie altre forme di HLH, ma tendono
ad essere più precoci e più gravi.
Marcatori genetici sono stati ricercati invano
per molti anni nella HLH. Studi di citogenetica sono generalmente risultati negativi e
sporadiche segnalazioni di alterazioni cromosomiche non sono state confermate in
studi su casistiche più ampie (45).
L’alterazione genetica più consistente fino ad
ora riscontrata consiste in una serie di mutazioni del gene codificante la perforina (54).
La perforina è una proteina che è espressa
nei linfociti, ma anche nei macrofagi ed in
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
130
altri precursori midollari (55). Il suo ruolo
principale nel processo litico è quello di formare pori nella membrana della cellula bersaglio. Dopo attivazione delle cellule, la
perforina è inserita nella membrana plasmatica ed è sottoposta a polimerizzazione per
formare pori che conducono alla lisi osmotica delle cellule bersaglio.
Dopo che la membrana cellulare è stata perforata mediante la creazione di pori, i granzimi
ed altre molecole entrano nella cellula bersaglio e danno luogo alla morte cellulare.
Nei pazienti con HLH l’incapacità di rilasciare perforina riflette la deficiente funzione
effettrice della stessa. Inoltre, se la perforina
è difettosa le cellule presentanti gli antigeni
non possono essere eliminate efficacemente
e questo fatto determina una persistente stimolazione delle cellule T. Ciò può rappresentare un addizionale meccanismo mediante cui la perforina può alterare la risposta
immunitaria.
Le mutazioni del gene che codifica la perforina sarebbero quindi responsabili del quadro clinico dell’HLH e della ridotta capacità
di questi pazienti di controllare le infezioni.
Se il meccanismo di difesa delle infezioni è
meno efficiente, come nel caso dell’HLH,
l’infezione virale si protrae a causa dell’esaurimento della specifica attività citolitica.
Nei bambini con mutazioni della perforina, i
linfociti T, sebbene attivati, sono incapaci di
eliminare le cellule infette e di neutralizzare
la fonte principale di stimolazione antigenica. La persistente attivazione T-cellulare,
antigenicamente indotta, produce grandi
quantità di citochine, comprese γ-IFN, e
GM-CSF, entrambi riconosciuti come principali attivatori di macrofagi. Questa prolungata attivazione macrofagica e T cellulare è
causa di infiltrazione tessutale e produzione
di elevati livelli di TNF-α, IL-1, IL-6, che
sono i principali responsabili del danno tessutale e dei conseguenti sintomi clinici.
Per quanto riguarda la terapia, sono stati utilizzati protocolli comprendenti etoposide, in
associazione con prednisolone, e più recentemente con desametazone (56). Il protocollo prevede che al paziente siano somministrate due dosi di etoposide alla settimana
con elevate dosi di desametazone che vengo-
no gradualmente ridotte nelle successive otto
settimane.
Nel 1989 Oyama et al. (57) per primi segnalarono l’utilità dell’impiego della ciclosporina nella terapia di mantenimento dell’HLH.
La ciclosporina viene somministrata dopo la
terapia di induzione con etoposide e desametazone. La ciclosporina può anche essere
utile nei casi di HLH decorrenti con neutropenia, dato che essa è in grado di aumentare
il livello dei globuli bianchi (58).
La terapia con ciclosporina può causare effetti collaterali come tossicità epatica, e renale,
ma soprattutto danni a livello del sistema
nervoso centrale, con segni e sintomi che
mimano l’encefalopatia ipertensiva (59).
Per i casi refrattari alla terapia con etoposide
e desametazone è stata utilizzata la globulina
anti-timocita per via della sua azione antagonista nei confronti delle citochine (60).
La immunochemioterapia con desametazone, etoposide e ciclosporina è efficace per un
breve periodo di tempo per attenuare e tenere sotto controllo le manifestazioni della
malattia e per prolungare la sopravvivenza
dei pazienti.
Per quelli che hanno risposto positivamente
alla terapia sopraccitata, e sono quindi in
buone o per lo meno discrete condizioni cliniche, è necessario procedere al trapianto di
cellule staminali (61, 62) sia nei casi di HLH
familiare, sia in quelli associate ad infezioni
con EBV. È ormai ben documentato che questa procedura porta alla guarigione dei casi
di HLH familiare e così pure dei pazienti con
HLH-EBV associati, refrattari alla immunochemioterapia e infine anche dei casi con
anomalie cariologiche, specialmente in considerazione del fatto che per questi ultimi
due gruppi di pazienti, la prognosi è spesso
infausta (63).
Istiocitosi dei seni
con linfoadenopatia massiva
(SHML)
La Istiocitosi dei seni con linfoadenopatia
massiva (SHML) è stata descritta per la prima
volta da Rosai e Dorfman nel 1969 (64) e successivamente è stata meglio definita in tutte
Scripta
MEDICA
Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
131
le sue connotazioni cliniche da Foucar et al
nel 1990 (65).
È una linfopatia a carattere benigno, che si
presenta in individui giovani, ma raramente
anche in soggetti anziani (66) con l’estrinsecazione di linfoadenopatia massiva, non
dolente, specie in corrispondenza del
distretto cervicale, e meno frequentemente a
livello ascellare, ilare, peritracheale, inguinale (67) spesso associata a febbre e leucocitosi neutrofila.
È possibile anche osservare un interessamento extra-nodale nel 28% dei pazienti, con
coinvolgimento della cute, dei tessuti periorbitali, del polmone e vie respiratorie, dei
testicoli e tessuti peridurali (65).
Sebbene la SHML sia una malattia benigna,
essa può essere associata a notevole morbidità e a volte anche mortalità, a causa della
massiva invasione tessutale del fegato, dei
reni, del polmone e di altri organi e apparati
importanti (65). In questi casi la malattia ha
un decorso rapidamente fatale con insufficienza respiratoria dovuta ad ostruzione
bronchiale (68) o paraplegia dovuta ad interessamento epidurale (69). Il decesso può
anche avvenire come conseguenza di una
grave anemia emolitica (70).
Gli esami di laboratorio evidenziano una
VES elevata, una moderata ipergammaglobulinemia, quasi sempre policlonale, e solo
raramente monoclonale (71).
L’eziologia di questa forma non è nota: sono
stati invocati processi infettivi specifici o, in alFigura 3.
Preparato ottenuto da
puntura splenica in un
caso di istiocitosi dei
seni con linfoadenopatia massiva. La cellula
istiocitica presenta
all’interno del citoplasma 4 eritroblasti
fagocitati.
Il citoplasma dell’istiocita mostra la presenza di glicogeno
come evidenziato
dalla reazione al PAS.
ternativa, meccanismi immunitari alterati (71).
Istologicamente, il reperto distintivo è caratterizzato da una marcata distensione dei seni, che
appaiono ripieni di istiociti, spesso in attività
eritro-e linfo-fagocitica (Figura 3) e da una plasmocitosi reattiva disposta fra i seni stessi (72).
Gli istiociti proliferanti presentano caratteristiche tipiche sia degli istiociti che delle cellule interdigitate. Queste grandi cellule di
colore pallido sono S-100 positive (73). Esse
si differenziano morfologicamente dalle cellule di Langerhans, presenti nei linfonodi dei
pazienti con LCH, per via dell’assenza dei
granuli di Birbeck, dal fenotipo di superficie
determinato dagli anticorpi monoclonali ed
infine dalla presenza della α1-antichimotripsina (68). La malattia ha una risoluzione
progressiva nel corso di mesi o anni. Quando
la malattia di avvia alla guarigione naturale,
le manifestazioni extra-nodali regrediscono
più rapidamente delle manifestazioni nodali.
In una casistica di 215 pazienti (74), nel
21% si è osservata una guarigione spontanea. Tuttavia, 14 pazienti erano deceduti: 5 a
causa di complicazioni “immunologiche“
come una grave emolisi, 3 a causa di infezioni e 6 probabilmente come diretta conseguenza della infiltrazione tessutale.
La malattia ha una variabile, ma in genere
scarsa, sensibilità agli steroidi, agli antitimociti ed alla terapia radiante (75, 76). I tentativi di terapia dovrebbero essere circoscritti a
casi speciali con compressione tracheale ed
epidurale.
Istiocitosi maligna
e il Linfoma istiocitico vero
L’ Istiocitosi maligna e il Linfoma istiocitico
vero sono una proliferazione maligna degli
istiociti descritta per la prima volta da Scott e
Robb-Smith nel 1939 (77) ed etichettata
come “Histocytic medullary reticulosis”.
Questa patologia colpisce prevalentemente
l’adulto, più raramente l’età infanto-giovanile, senza preferenza di sesso.
Può avere, già all’esordio, diffusione sistemica
all’apparato linfonodale superficiale e profondo ed in circa il 50% dei casi interessa precocemente anche sedi extra-linfonodali.
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
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Si parla, in tal caso, di istiocitosi maligna in
senso proprio. L’entità patologica denominata “Histocytic medullary reticulosis” deve oggi
essere considerata come sinonimo di istiocitosi maligna, anche se, secondo uno studio
retrospettivo di Falini et al. nel 1990 (78), il
quadro descritto nel 1939 comprendeva
patologie diverse, come T-linfomi con sindrome emofagocitica, linfomi anaplastici a
grandi cellule, istiocitosi di Langerhans, casi
di morbo di Hodgkin.
Se l’esordio della patologia istiocitaria è strettamente circoscritto ad una o poche stazioni
linfonodali, o ad una sola sede extra-linfonodale (localizzazione primaria) e mostra scarsa progressione sistemica, si tende ad etichettare il processo come linfoma istiocitico
vero (Figura 4).
Clinicamente (79), l’istiocitosi maligna è
caratterizzata da febbre, dimagrimento,
linfoadenopatia dolente, epatosplenomegalia, dolori addominali. Può essere interessato
sia l’intestino tenue che il colon, a livello dei
quali sono riscontrabili una o multiple localizzazioni che danno luogo a stenosi, emorragie e sindromi da malassorbimento. Nel
tubo digerente le cellule neoplastiche infiltrano la tonaca propria provocando ispessimento della mucosa, e talora masse protrudenti nel lume.
La linfoadenopatia è frequentemente sopraclaveare e ascellare. Le localizzazioni mediastiniche, periaortiche e iliache sono meno comuni.
Nell’infanzia, in modo particolare, sono presenti noduli cutanei, singoli o multipli, di
colorito roseo o violaceo, talora ulcerati riscontrabili soprattutto sulla superficie anteriore del
torace. Nella cute le cellule neoplastiche, a
proliferazione non coesiva, infiltrano sia il
derma superficiale e profondo, che l’ipoderma,
ma mostrano scarso epidermotropismo.
Sono pure stati osservati versamenti pleurici,
infiltrati polmonari e lesioni osteolitiche.
È presente pancitopenia progressiva, e coagulazione intravascolare disseminata (CID). Gli
esami di laboratorio sono aspecifici e consistono in iperbilirubinemia, ipocolesterolemia, positività del test di Coombs, leucocitosi o leucopenia, piastrinopenia, ed elevati livelli di LDH.
Gli istiociti maligni sono cellule di grandi
dimensioni con ampio citoplasma basofilo,
Figura 4.
Preparato ottenuto
per apposizione
linfonodale.
Linfoma istiocitico.
Le cellule maligne
sono caratterizzate
da forme e dimensioni irregolari,
citoplasma abbondante e presenza
di materiale
fagocitato.
Figura 5.
Esempio di
eritrofagocitosi a
livello del midollo
osseo in una
cellula istiocitica
maligna.
Caso di istiocitosi
maligna.
Figura 6.
Preparato
ottenuto da
puntura splenica
in un caso di
istiocitosi
maligna. Marcata
eritrofagocitosi
(circa 30 eritrociti)
da parte di una
cellula istiocitica
maligna.
Scripta
MEDICA
Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
133
Figura 7.
Preparato ottenuto per apposizione linfonodale di istiocitosi maligna. Reazione al PAS per la dimostrazione
di glicogeno. Una cellula istiocitaria maligna gigante mostra una intensa e diffusa positività alla reazione.
Figura 8.
Preparato ottenuto per apposizione linfonodale di istiocitosi maligna. Numerosi istiociti maligni mostrano
una forte positività per la reazione alla fosfatasi acida.
Figura 9.
Preparato ottenuto per apposizione linfonodale di istiocitosi maligna. Reazione della doppia esterasi.
Gli istiociti maligni mostrano una discreta attività butirrato-esterasica, mentre l’unico elemento positivo
per la NASDCAE (colore blu) è un granulocito neutrofilo.
Figura 10.
Preparato ottenuto per apposizione linfonodale di istiocitosi maligna. Gli istiociti maligni contengono quantità variabili di materiale fagocitato fra cui emosiderina, colorato con il Blu di Prussia.
talora vacuolizzato, nucleo di forma variabile,
a cromatina finemente dispersa, fornita di uno
o più nucleoli evidenti. Occasionalmente, si
reperiscono cellule giganti plurinucleate.
Sono frequenti le mitosi ed il 40-70% delle
cellule è Ki-67+. Si possono osservare aspetti
di eritrofagocitosi (80, 81) (Figure 5 e 6).
La reazione citochimica del PAS per l’eviden-
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
134
ziazione del glicogeno fornisce positività globulare paranucleare.
Le reazioni per fosfatasi acida (tartrato-sensibile) e per l’α-naftol-acetato esterasi (ANAE)
sono positive in forma di diffusa colorazione
del citoplasma, mentre quella per l’α-naftolo
AS-D cloroacetato-esterasi (NASDCAE) è
negativa (82) (Figure 7-10).
Le cellule neoplastiche risultano positive per
il lisozima (con reazione intracitoplasmatica
granulare) ed anche per l’α1-anti-tripsina e
per l’α1-anti-chimotripsina (83).
Il particolare tipo di reazione per il lisozima
è un marker di grande significato per l’attribuzione delle cellule ad una popolazione
istiocitica ed esclude che si possa trattare di
un assorbimento citoplasmatico per danno
di membrana.
Le indagini immunofenotipiche (84) mostrano positività di marcatura per gli antigeni
HLA-DR, CD11b, CD11c, CD14, BcrMAC3/kiM8, MAC400, CD67, CD68, nonché per CD4 (presente sui monociti oltre che
sui linfociti T) e per Cd45. Assenti il CD30,
gli antigeni propri delle linee linfocitarie B e
T e il R4/23 specifico delle cellule reticolari
dendritiche follicolari.
In alcuni casi si è osservata positività focale
per la proteina S100.
La diagnosi di istiocitosi maligna può essere
notevolmente agevolata se confermata dalla
osservazione di una traslocazione t(2:5)
(p23:q35) (85).
Nei linfonodi gli istiociti neoplastici invadono
prevalentemente i seni linfatici , ma la proliferazione può essere così spiccata da cancellare
diffusamente la struttura linfonodale, la cui
trama fibrillare appare conservata (86).
Nella milza la proliferazione istiocitica interessa sia la polpa rossa che la bianca (80).
Sono stati segnalati casi di neoplasia istiocitaria primaria della milza (87).
Nel fegato sono invasi gli spazi porto-biliari
ed i sinusoidi, con compromissione dei
lobuli epatocitari (80). Il midollo osseo
appare diffusamente infiltrato e mostra iperplasia del reticolo argentofilo.
Un evento anatomo-clinico molto particolare è rappresentato dalla istiocitosi maligna
associata a tumore teratogenico embrionario
in sede mediastinica (88).
Figura 11.
Mielobiopsia
ottenuta da un
caso di FAB M5A.
Gli elementi blastici, molto indifferenziati presentano nuclei rotondeggianti con
contorni irregolari,
scarso citoplasma
basofilo.
Figura 12.
Sangue periferico
di un caso di FAB
M5B. Presenza di
elementi blastici
con caratteristiche morfologiche
chiaramente
riconducibili alla
serie monocitica.
Poiché molti dei casi diagnosticati negli anni
passati e pubblicati in letteratura come esempi di proliferazione istiocitiche sono state poi
riscontrate essere linfomi maligni T o B cellulari, l’istiocitosi maligna ed il linfoma istiocitico dovrebbero essere diagnosticati con
sicurezza sulla scorta del maggior numero
possibile di elementi e cioè dei reperti clinici, istologici, citoenzimatici, immunofenotipici, genotipici e molecolari.
La diagnosi differenziale va posta nei confronti del linfoma anaplastico a grandi cellule, spesso di linea T cellulare, esprimenti il
CD30, i carcinomi anaplastici che presentano emofagocitosi, i linfomi maligni che si
associano alle forme benigne di emofagocito-
Scripta
MEDICA
Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
135
si, le sindromi emofagocitiche, sia familiari
che quelle associate ad infezioni.
Il decorso è per lo più aggressivo con grave
compromissione generale dell’organismo, e
si conclude fatalmente entro un anno con
scarsa risposta alla polichemioterapia antiblastica ed alla radioterapia.
Vi sono casi con terminale espressione leucemica monocitica che rappresentano un
ponte tra l’istiocitosi maligna e la leucemia
acuta tipo FAB M5.
Leucemie monocitiche
FAB M4 e FAB M5
Le leucemie monocitiche FAB M4 e FAB M5
entrano di diritto nell’ambito delle patologie
maligne del sistema istiocitico. Mentre la
FAB M4 rappresenta una proliferazione leucemica mista di elementi mieloidi e monocitici, presenti nei singoli casi in proporzioni
estremamente variabili, la FAB M5 è una
proliferazione monocitica pura che viene
distinta in due sottotipi A e B corrispondenti rispettivamente alle forme monoblastiche
(A) e alle forme monocitiche (B), con maggiore grado di differenziazione. Nel primo
caso gli elementi blastici sono più indifferenziati e solo in alcune cellule è possibile
intravvedere una origine monocitica (Figura
11), mentre nel secondo caso i blasti leucemici, pur nella loro relativa immaturità, preFigura 13.
Reazione della
doppia esterasi in
un caso di FAB M4.
Gli elementi della
serie monocitica
sono colorati in
marrone (butirrato
esterasi), quelli della
serie mieloide in blu
(NASDCAE).
sentano caratteri morfologici chiaramente
riconducibili alla loro origine monocitica
(89) (Figura 12).
Le reazioni citochimiche, pur essendo
sostanzialmente sovrapponibili nelle due
forme della FAB M5, presentano una maggiore espressività nella forma B maggiormente differenziata (89).
Pertanto, la reazione perossidasica è di debole intensità o addirittura negativa, mentre
invece la reazione al Sudan Black B presenta
una positività di tipo granulare finemente
dispersa. Sono intensamente positive le
butirrato esterasi. La reazione al PAS è negativa o di debole intensità con a volte fini granuli PAS+.
Dal punto di vista immunofenotipico i blasti
leucemici sono CD13+, CD14+, CD33+,
CD68+ (89).
Nella FAB M4 le reazioni citochimiche mettono in evidenza la percentuale relativa delle due
diverse popolazioni, quella mieloide e quella
monocitica, la quale presenta le stesse caratteristiche della FAB M5. Particolarmente utile
nella FAB M4 è la reazione della doppia esterasi (Figura 13) che, sfruttando il contrasto fra
il colore blu della reazione NASDCAE ed il
colore marrone della reazione per la butirrato
esterasi, dimostra la percentuale variabile delle
due diverse popolazioni. Le caratteristiche
immunofenotipiche sono sovrapponibili a
quelle della FAB M5.
Le alterazioni citogenetiche più frequenti
nella FAB M5 consistono in riarrangiamenti
del braccio lungo del cromosoma 11, specialmente evidenti nella variante M5A (90).
Altre alterazioni di notevole importanza e
frequente riscontro sono le traslocazioni
t(4:11) (q21:q23) e t(9:11) (p21:q23) e
t(11:19) (q23:p13.1) (91, 92).
Nella FAB M4 le alterazioni citogenetiche più
comuni sono una delezione del (16q), una
inv(16)(p13:q22) e una traslocazione reciproca del 16 t(16:16)(p13:q23) (93).
La presenza di una particolare alterazione
citogenetica non è solo utile ai fini di una
migliore definizione diagnostica, ma è di
notevole importanza per le implicazioni terapeutiche che comporta.
Ad esempio, nel caso particolare delle leucemie monocitiche, il riscontro di una inver-
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
136
Figura 14.
Preparato ottenuto da apposizione linfonodale in un caso di sarcoma delle cellule dendritiche follicolari.
Le cellule maligne, di forma ovale, sono riunite in ammassi simil-sinciziali.
Figura 15.
Preparato ottenuto da apposizione linfonodale in un caso di sarcoma delle cellule dendritiche interdigitate.
Gli istiociti della varietà delle cellule intergiditate presentano caratteristiche morfologiche simili a quelle dei
linfomi a grandi cellule. Il nucleo è a volte leggermente convoluto, mentre il citoplasma, debolmente basofilo
è finemente granuloso e contiene scarso materiale fagocitato contrariamente agli altri elementi.
sione del 16 o traslocazione reciproca del 16
riveste un significato prognostico favorevole
per cui i pazienti con questa anomalia possono andare in remissione completa con una
polichemioterapia intensiva, senza alcuna
necessità di ricorrere ad un trapianto allogenico. Per contro, i pazienti FAB M5 con alterazioni a livello 11q23, essendo resistenti
alla polichemioterapia, hanno una prognosi
sfavorevole, per cui in questi casi è senz’altro
necessario procedere ad un trapianto allogenico alla prima remissione.
Sarcoma delle cellule
dendritiche follicolari
Il Sarcoma delle cellule dendritiche follicolari è una eccezionale neoplasia identificata da
Pallesen e Mysthe-Jensen nel 1987 (94). Nella
letteratura mondiale sono stati descritti circa
30 casi ben documentati.
L’età media di esordio è di 46,5 anni (range
27-72), senza differenziazioni fra i due sessi.
La più comune forma di esordio è quello di
un lento coinvolgimento di linfonodi laterocervicali; meno frequenti sono le localizzazioni ai linfonodi mediastinici e ascellari, alle
tonsille, alla milza, al tessuto molle peri-splenico e peri-pancreatico. La massa neoplastica è solitamente unica, relativamente ben circoscritta, di vario volume anche in rapporto
alla sede coinvolta. In sede latero-cervicale
comporta diametro massimo di 1-6, cm in
sede ascellare e mediastinica e nelle stazioni
addominali diametro di 6-13 cm; la milza
sede di tumore può pesare 1500 gr. (95).
Il sarcoma delle cellule dendritiche follicolari è
una neoplasia di basso grado di malignità con
discreta tendenza alla recidiva locale dopo
radio e/o chemioterapia e con occasionale diffusione metastatica (polmone e fegato). La
neoplasia è costituita da cellule ovali o fusate,
disposte in spirali con citoplasma a margini
indistinto, aspetto simil-sinciziale), nuclei
allungati con cromatina dispersa e piccoli
nucleoli (Figura 14). Raramente le cellule sono
plurinucleate. L’esame in microscopia elettro-
Scripta
MEDICA
Le sindromi istiocitiche. Uno scenario poco conosciuto.
137
nica mostra la presenza di propaggini citoplasmatiche, congiunte da desmosomi ben sviluppati. Citochimicamente, le cellule presentano una forte postività per la 5-nucleotidasi.
L’esame immunoistochimico mostra positività
di CD21 e CD35, di Ki-M4p e Ki-FDRCIp
(marcatori specifici delle cellule dendritiche e
follicolari, talora della proteina S100, di
vimentina raramente di actina. Negativi Cd45,
Cd1a, CD20, EMA, HHB-45. I geni Ig e TCR
(T cell receptor) sono in configurazione “germ
line”. La terapia di elezione è l’exeresi chirurgica, se tecnicamente effettuabile.
Sarcoma delle cellule
dendritiche interdigitate
Nel Sarcoma delle cellule dendritiche interdigitate, sono eccezionali i casi in cui la natura reticolare intedigidata della neoplasia può
essere ritenuta provata con rigore (96). Il
processo colpisce prevalentemente maschi in
età adulta: interessa soprattutto i linfonodi,
talora con carattere monostazionale, ma può
presentare diffusione sistemica con poliadenomegalie superficiali e profonde (mediastino), epato-splenomegalia, localizzazione al
rinofaringe e all’intestino.
La morfologia delle cellule neoplastiche è
quella di elementi fusiformi, con nuclei allineati e cromatina finemente dispersa piccolo
nucleolo oppure si tratta di grandi elementi
simili a quelli propri della istiocitosi maligna
o dei linfomi a grandi cellule, con ampio
citoplasma finemente granuloso e debolmente basofilo, nucleo a contorni irregolari, talora inciso o convoluto (Figura 15).
La proliferazione maligna interessa la paracorticale dei linfonodi o regioni T cellulari
spleniche. Non si osservano emorragie intraparenchimali, necrosi, fenomeni di eritrofagocitosi (86).
La microscopia elettronica mostra reperti
ultrastrutturali analoghi a quelli delle cellule
interdigitate normali (proiezioni digitate,
granuli elettrondensi di tipo lisosomiale, ma
non veri desmosomi né corpi di Birbeck.
Risultano positive le reazioni citochimiche
per l’ATPasi e le fosfatasi acide, mentre quelle per l’α1-antitripsina, per α1-antichimotri-
psina e per il lisozima sono incostanti e
deboli.
Il fenotipo non è ancora ben definito: le cellule sono HLA-DR+ ed esprimono tipicamente
CD45, CD4, CD14, CD26, proteina S100,
talora l’antigene identificato da Ki-M1; negativi CD21 e CD35; CD1a spesso negativo. I geni
delle Ig e TCR sono in configurazione “germ
line”. L’attività proliferativa non è elevata e non
più del 20% delle cellule è Ki-67+.
Il decorso clinico è generalmente aggressivo
con esito fatale a distanza di pochi mesi dall’esordio, ma sono stati osservati anche casi
sopravissuti 6 anni.
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Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 7-8, 2005
1143
Influenza aviaria:
un rischio per l’umanità.
Guglielmo Gargani
Introduzione
Nel maggio 1997, una bambina affetta da
morbo di Reye, complicato da grave sintomatologia polmonare, morì in un ospedale
di Hong Kong. La morte era dovuta probabilmente alla patologia di base, ma dall’apparato respiratorio fu isolato un virus
influenzale, A(H5N1), lo stesso sottotipo che
in quel periodo stava provocando una epizoozia, a discreta letalità, fra i polli di vari
mercati cittadini.
Questa coincidenza richiamò l’attenzione
delle autorità sanitarie sulla patologia respiratoria acuta e fra l’estate e l’autunno furono
accertati 18 casi di malattia polmonare da
virus A(H5N1), 6 dei quali ad evoluzione
letale. Le modalità di contagio non erano
chiare, ma si poté escludere tassativamente il
passaggio interumano; mentre fu accertato
che tutti gli ammalati avevano avuto contatti con i mercati avicoli. Le ricerche in tali
mercati , sia su polli ed altri volatili, sia su
materiali dalle gabbie portò alla identificazione nel 20% dei campioni del virus H5N1
e nel 5% del virus H9N2. Le indagini sierologiche sugli addetti ai mercati misero in evidenza con una discreta frequenza anticorpi
per H5 ed H9 a dimostrazione del passaggio
all’uomo dell’infezione senza, per fortuna,
evoluzione in malattia. Questa mancata evoluzione in individui a continuo contatto con
il pollame indicherebbe una immunizzazione da piccole cariche virali, probabilmente
già stabilita da qualche anno data la documentata presenza del sottotipo H5N1, a
virulenza più bassa, negli uccelli di tutto il
Professore emerito di Microbiologia,
Università di Firenze
sud-est asiatico. Le forme cliniche ad evoluzione spesso letale erano interpretabili come
conseguenza di infezione, con forti cariche
infettanti, in occasionali visitatori dei mercati avicoli, privi di qualsiasi esperienza immunitaria specifica.
Individuata la fonte di infezione, si provvide
a bloccare l’epidemia eliminando circa un
milione e mezzo di capi di pollame sospetti
presenti nei mercati. Questo provvedimento
fu certamente efficace; non vi furono casi
umani di malattia da H5N1 in Hong Kong.
non solo negli anni successivi, ma anche fra
il dicembre 2004 e il settembre 2005 quando 68 casi accertati, con 18 morti, furono
segnalati in Viet Nam (1).
Ci furono invece nel 1999 due casi ad evoluzione benigna, dovuti all’altro sottotipo,
A(H9N2), identificato due anni prima nei
mercati. Gli stipiti da ambedue i pazienti
apparvero all’analisi molecolare derivati da
quello isolato da una quaglia del mercato nel
1997, ma d’altra parte i geni delle proteine
non di superficie avevano omologia con
quelli analoghi di A(H5N1). Probabilmente
c’era stata una ricombinazione genetica, di
cui è premessa la coinfezione H5N1/H9N2
sporadicamente rilevata nei polli durante le
ricerche di quell’anno.
Il virus H9N2 (di circolazione finora limitata) ha qualche possibilità di passare sui
mammiferi; come dimostrerebbe una pubblicazione (impossibile leggere l’originale
cinese) del 1998 di 5 casi di infezione nell’uomo in concomitanza con una epizoozia
nei suini; nella provincia cinese del
Guangdong. Secondo l’analisi molecolare
comunque gli stipiti isolati da questi casi
appartenevano ad una linea filogenetica
diversa di quella degli stipiti di Hong Kong;
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 7-8, 2005
144
non c’era quindi alcun legame epidemiologico fra i due gruppi di casi.
Non risulta alcuna ulteriore apparizione nell’uomo di questo stipite che rimane comunque un candidato al ruolo di virus pandemico, ma con non molte, almeno per ora, probabilità di divenirlo, mentre candidato ad
alta probabilità è H5N1 del quale si dice
“Non si sa quando né dove, ma la pandemia
verrà”.
I casi umani
dell’ultimo biennio
Dopo l’episodio del 1997 e la sua drastica eliminazione, il pericolo era per il momento
scongiurato, ma
un nuovo allarme scattò ad
Hong Kong nei
primi mesi del
2003, non per
casi umani autoctoni ma per
casi importati.
Una famiglia di
quattro persone, padre, madre, una figlia
ed un figlio si
recarono nella
provincia cinese Fuijian, dove per una causa imprecisata
morì la figlia; al
ritorno il padre
ed il bambino si ammalarono di una forma
respiratoria acuta, che nel secondo ebbe evoluzione letale: le indagini di laboratorio
dimostrarono la presenza di H5N1. Gli stipiti isolati differivano da quelli di Hong Kong
del 1997, soprattutto per la assenza dei
caratteri molecolari necessari per l’attacco ai
polli domestici, conservando invece quelli
per gli uccelli acquatici. L’episodio non ha
quindi alcun legame epidemiologico con
quello del 1997 (2)
Nei mesi seguenti fu segnalata in Cina malattia nei volatili domestici, senza casi umani;
questi comparvero in Viet Nam qualche
mese più tardi (prima segnalazione 23 ottobre). Nel primo periodo di rilevamento
WHO, fine ottobre/marzo, indicato poi
come “prima epidemia”, vi furono 23 casi
accertati, dei quali 16 ad evoluzione fatale.
In una seconda epidemia, fra il dicembre
2004 e il settembre 2005, i casi furono 68,
dei quali 20 ad evoluzione fatale.
L’anno 2005 vide da un lato la scomparsa
della malattia umana in Tailandia (17 casi 12
morti nel 2004) e dall’altro la espansione all’
Indonesia con 4 casi, 3 ad esito letale, e 4,
confermati e, come i precedenti, ad evoluzione fatale in Cambogia Il Viet Nam è attualmente il paese maggiormente colpito, prevalentemente in zone rurali dove vi sono allevamenti di tipo
famigliare con
notevoli probabilità di contatto fra uomini e volatili domestici.
In Indonesia e
in Cambogia
tutti, o quasi, i
casi, sporadici,
sono ad evoluzione letale;
ma è probabile
che vi sia un
difetto di informazione:
vengono segnalati i più
gravi, probabilmente punta di iceberg di un maggior numero di infezioni ad evoluzione benigna.
L’epizoozia dell’ultimo biennio
La epizoozia è indubbiamente più estesa.
Fra il dicembre 2003 e l’agosto 2004 focolai
di influenza aviaria ad alta letalità da H5N1
in uccelli domestici furono segnalati più o
meno simultaneamente in 8 paesi del sud est
asiatico; tutti gli stipiti, sia pure con una
certa variabilità fra loro, derivano da.
Scripta
MEDICA
Influenza aviaria: un rischio per l’umanità
145
“Goose/GD/96” isolato da un’oca nella Cina
meridionale nel 1996 (3) . Questo isolamento segnò l’ingresso nel sud est asiatico del
sottotipo H5N1, isolato la prima volta nel
1961 in Sud Africa da un gabbiano, che fino
al 2003 circolò in uccelli selvatici acquatici e
terrestri, senza dare manifestazioni cliniche.
Considerata questa filogenesi non è probabile che gli stipiti virulenti post 2003 siano di
nuova introduzione, ma è possibile una selezione attraverso ospiti relativamente sensibili: un meccanismo che viene ipotizzato
anche per i virus umani.
Fra gli uccelli domestici la specie più colpita
è l’anatra, alla quale l’infezione si sarebbe trasmessa agli inizi del 2000, e che dal 2004
avrebbe aumentata l’escrezione di virus,
tanto da rendere possibile la trasmissione
agli uccelli selvaggi, divenendo una specie
deposito. Una possibile conseguenza del
ritorno dell’infezione dall’anatra domestica a
quella selvaggia potrebbe essere l’incremento
di virulenza per quest’ultima, testimoniato
dal fatto che tutti gli uccelli selvatici dai quali
fu isolato il virus erano morti o sofferenti.
Questo ne fa dei cattivi diffusori a distanza
del virus, che verrebbe trasferito più probabilmente dagli scambi commerciali di pollame domestico.
Nel 2005 l’epizoozia permase in questi paesi
e si estese nella primavera alla Corea del
nord dove fu segnalata in allevamenti di tipo
industriale, e poco dopo a quella del Sud (4)
senza alcun caso umano, ma soprattutto
avanzò verso occidente.
Alla fine di luglio Russia e Kazakistan comunicarono l’apparizione di focolai di influenza
fra i polli, fino ad allora indenni, accompagnata, come del resto già segnalato in oriente, da moria negli uccelli migratori, per probabile contagio fra domestici e selvaggi nei
luoghi di abbeverata.L’epizoozia è dovuta a
H5N1, che inizialmente confinato alla
Siberia si è progressivamente esteso a 6
regioni amministrative e alle aree confinanti
del Kazakistan: colpendo sia grossi allevamenti sia piccoli allevamenti domestici, ma
senza casi umani.
Altre due segnalazioni di malattia negli uccelli con segni di incremento di virulenza, vengono la prima dalla Cina con la morte fra
maggio e giugno 2005 sulle rive del lago
Qinghaihu di oltre mille uccelli con necrosi
pancreatica e disturbi neurologici: patologia
riprodotta mediante inoculazione sperimentale. Il virus in causa era A(H5N1) e lo studio
del genoma ipotizzò un ricombinante di uno
stipite isolato da un falco pellegrino ad Hong
Kong. già noto per le caratteristiche di alta
patogenicità (5) La seconda recentissima
segnalazione è dei primi di agosto, la
Mongolia segnala la morte di 89 uccelli
migratori in due laghi del Nord del paese,
con isolamento di virus influenza A, del quale
non è stato finora identificato il sottotipo.
La contaminazione
di mammiferi non umani
Nel quadro di un possibile trasferimento
all’uomo del virus A(H5N1) con conseguente epidemia a contagio interumano ha interesse il passaggio dell’infezione ai mammiferi non umani, fra i quali, dato il precedente
della “spagnola”, è di speciale interesse il
maiale. I dati in proposito sono scarsissimi e
si riducono ad un rapporto presentato a
Pechino il 20 agosto del 2004 sulla presenza
di infezione da H5N1, ma che non mi risulta sia stato confermato, e ad una indagine
sierologica su 3.175 maiali normali in Viet
Nam che rilevò anticorpi sottotipo specifici
nello 0.25%.
Una esperienza di infezione sperimentale del
maiale con gli stipiti H5N1 isolati in Asia
dimostrò moltiplicazione virale nel tratto
respiratorio, ma scarsa eliminazione e non
trasmissione orizzontale (6)
Altri casi di passaggio di infezione a mammiferi sono segnalati in Tailandia durante l’epidemia del gennaio 2004: trasmissione in un
giardino zoologico a tigri e leopardi, presumibilmente contaminati per via alimentare
da carcasse di polli (7) , mentre in un altro
caso si prospetta. oltre ad un possibile diretto contagio da uccelli. trasmissione orizzontale fra tigri.(8)
Nello stesso paese, dopo la segnalazione di
casi in gatti domestici, se ne è verificata sperimentalmente la sensibilità all’infezione,sia per
via endotracheale, sia per via alimentare (9)
Scripta
M E D I C A Volume 7, n. 7-8, 2005
146
Considerazioni
Il virus A(H5N1) presente attualmente in
Asia, che ha procurato un certo numero di
casi umani di notevole gravità, ha subito certamente un aumento di virulenza messo in
evidenza dalla elevata letalità della malattia
non solo per gli uccelli domestici, ma nel
periodo più recente per quelli selvatici, finora considerati animali deposito in quanto
portatori di una malattia cronica non evolvente verso la morte.
Ciò che più interessa tuttavia non è tanto
l’incremento di virulenza per le specie aviarie, abitualmente colpite, pur se con malattia
ad evoluzione meno grave, ma il passaggio
all’uomo. La malattia umana, fino al 1997
estremamente sporadica ed estremamente
lieve, comparsa in quell’anno in forma grave
(18 casi 6 morti letalità 33,33%) e subito
bloccata da una operazione preventiva sui
polli, si è fatta preoccupante alla fine del
2003 con diffusione in quattro paesi orientali, prima Viet Nam e Tailandia, poi Indonesia
e Cambogia, fino a un totale di 113 casi con
58 morti e un incremento della letalità
(51,11%) rispetto all’episodio di Hong Kong.
I virus A che infettano gli uccelli hanno una
struttura dell’acido sialico presente nelle glicoproteine delle unità emoagglutinanti che
differisce da quella dei virus dei mammiferi,
con una ulteriore variabilità a un livello
molto sottile a seconda della specie aviaria,
ed è pertanto possibile che la trasmissione
all’uomo sia in dipendenza della specie aviaria (10). Dipenderebbe da questo la diffusione dell’infezione umana soprattutto negli
addetti agli allevamenti domestici di polli.
Qualche differenza fenotipica dell’attuale virus
A (H5N1) dai precedenti è stata verificata sperimentalmente. Lo stipite isolato dall’uomo nel
1997 ad Hong Kong ha recettori sia su globuli rossi umani sia su globuli rossi di pollo,
mentre lo stipite A/turkey/Ontario/7732/66
(H5N9), li ha solo su quelli di pollo (11).
Gli stipiti isolati dall’uomo in Asia nel 2003
e nel 2004 hanno inoltre un grado di virulenza per il furetto maggiore non soltanto di
quelli aviari, ma anche di quelli umani del
1997 (12).
È opinione generale che il virus dell’influenza
A abbia il suo deposito negli uccelli acquatici
dai quali occasionalmente passa ai mammiferi,
cavalli, visoni, foche, soprattutto maiali ed è
ormai dimostrato che da questi sia passato
all’uomo dando inizio alla pandemia del 1918.
Il virus A(H5N1), attualmente circolante in
Asia orientale ha certamente la capacità di
infettare l’uomo, e piuttosto sporadicamente
altri mammiferi, ma finora non si trasmette
orizzontalmente nella popolazione umana.
D’altra parte non risulta finora passaggio ai
maiale,questo sembrerebbe un intermediario
non necessario; è evidente infatti la contaminazione diretta dai polli all’uomo, legata ad
una modificazione genetica dei virus degli
uccelli, dimostrata dal sequenziamento del
genoma di quelli isolati dall’uomo e dal
punto di vista fenotipico dalla loro maggior
virulenza per il furetto ed il topo.
Esistono due precedenti di passaggio diretto
dagli uccelli all’uomo, le pandemie del 1957
e del 1968, ma il dato è retrospettivo e basato sulle caratteristiche biomolecolari dei
virus, in quanto all’epoca non vi furono
riscontri epidemiologici; probabilmente i
casi iniziali sfuggirono all’osservazione, c’era
stata una serie di passaggi interumani a livello subclinico per la selezione di virus capace
di rapida espansione territoriale per contagio
interumano?
Il virus A(H5N1) attuale per il momento
infetta l’uomo con altissime dosi infettanti
(probabilmente questo è il caso in Viet Nam)
o forse trovando individui in condizioni
immunologiche depresse (non mi sembra
che ci siano finora segnalazioni).
La strada futura potrebbe essere una serie di
passaggi di adattamento (le segnalazioni di
contagio interumano sono però dubbie e
sporadiche) o la ricombinazione con un
virus umano.
L’estensione all’occidente con gli uccelli
migratori sembra non molto probabile: l’infezione di questi non decorre come per il
passato, o per altri sottotipi, in modo latente, ma provoca malattia e morte: gli uccelli
malati hanno poca possibilità di fare lunghe
migrazioni. Come forse è avvenuto in Asia il
virus potrebbe viaggiare per vie commerciali
con il pollame vivo, non con il pollame
morto, infatti il virus influenzale ha poca
Scripta
MEDICA
Influenza aviaria: un rischio per l’umanità
147
sopravvivenza, e tanto meno con il consumo
della carne dato che viene rapidamente
distrutto dal calore.
Il rischio maggiore è che in Asia orientale
cominci il contagio interumano e si abbia così
ancora una volta un inizio di pandemia in questa area come nel 1889, nel 1957, nel 1968,
non nel 1918 quando fu implicato il maiale.
La WHO indica tre punti principali per bloccare o limitare la diffusione del contagio.
1. Ridurre le occasioni di infezione per l’uomo
con il controllo dei mercati avicoli ed eventualmente la vaccinazione del pollame;
2. Rafforzare il sistema di segnalazione dei
casi, attualmente difficile per la presenza
di casi in aree agricole per lo più sottosviluppate;
3. Limitare o ritardare il contagio.
L’ultimo punto sarà certamente determinante
se si potranno curare tempestivamente i
malati con chemioterapici antivirali e immunizzare la popolazione indenne dell’area.
Ambedue questi provvedimenti sono teoricamente facili, ma incontrano difficoltà in
campo pratico. Le scorte dell’unico chemioterapico valido “Oseltamivir” sono scarse, la
WHO avrà a disposizione 10 milioni di
capsule solo agli inizi e 20 milioni a metà
2006, da destinare ai paesi sottosviluppati,
mentre i paesi ricchi dovranno provvedere
direttamente. La preparazione del vaccino
specifico è ancora agli inizi e, d’altra parte,
porterebbe un tale impegno degli istituti
produttori da limitare quella del vaccino per
gli stipiti umani in circolazione, che non può
essere abbandonata.
Complessivamente la situazione non è rosea,
ma si può sperare che i primi due punti
WHO funzionino e la comparsa vera dello
stipite pandemico sia ritardata sufficientemente per poter affrontare razionalmente il
punto 3. Nel frattempo dobbiamo affidarci
alle misure di polizia veterinaria bloccando il
transito del pollame vivo.
A mio modesto parere non è poi così certo
che la pandemia venga e soprattutto non
verrà fra un mese. Stiamo attenti a non prendere per pandemia la prossima ondata
influenzale che certamente ci sarà fra dicembre e febbraio e provvediamo per questa ad
estendere quanto possibile la vaccinazione.
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Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
151
Novità in tema di terapia
della colestasi intraepatica gravidica
Pietro Cazzola
Colestasi
intraepatica gravidica
La colestasi intraepatica gravidica
nei paesi occidentali si manifesta
con una incidenza variabile dallo
0,01% allo 0,7% delle gravidanze
(1, 2). L’osservazione di una sua
maggiore frequenza in donne
consanguinee ed in alcune popolazioni (svedesi, cileni) ha fatto
supporre che nella patogenesi di questa affezione possano svolgere
un ruolo primario alcuni fattori genetici:
studi indirizzati in tal
senso hanno confermato questa ipotesi
(3). Clinicamente la
colestasi intraepatica
insorge nel terzo trimestre di gravidanza e si
manifesta con prurito.
Quest’ultimo nell’80%
dei casi rimane l’unico
sintomo, mentre nel rimanente 20% si accompagna ad ittero o a
subittero. I parametri
ematochimici mostrano un aumento della
bilirubina (in genere <
6 mg/dL), della fosfatasi alcalina
(> del fisiologico aumento in gravidanza), della colalemia e delle
Specialista in Anatomia Patologica
e Tecniche di Laboratorio, Milano
transaminasi (lieve).
Il quadro istologico è caratterizzato dalla colestasi intraepatica (deposizione di pigmento biliare negli epatociti, nei canalicoli e nel
lume delle fini diramazioni delle
vie biliari) con modesti segni di
sofferenza epatocitaria (4).
È da sottolineare che la colestasi
intraepatica gravidica è una affezione generalmente benigna per la
madre, ma che frequentemente si
associa a complicanze fetali, come
prematurità, episodi di asfissia
neonatale e elevata mortalità perinatale (5).
L’acido
ursodesossicolico
L’acido ursodesossicolico (UDCA)
è un acido biliare terziario impiegato sino dalla fine degli anni ‘70
nella terapia della colelitiasi.
Il suo utilizzo nel trattamento delle epatopatie ad impronta colestatica è in progressiva crescita.
Evidenze sperimentali suggeriscono per l’UDCA tre
principali meccanismi
d’azione (6):
protegge i colangiociti dall’azione tossica degli acidi biliari
idrofobici;
stimola la secrezione
epatobiliare;
protegge gli epatociti dall’apoptosi indotta dagli acidi biliari.
Nella colestasi intraepatica gravidica è stato osservato che
l’UDCA riduce la concentrazione degli acidi biliari nel compartimento fetale, ripristina la capacità della
placenta di trasferire
questi composti verso il compartimento materno, diminuisce la
loro concentrazione nel siero materno (7).
Un’analisi retrospettiva dei risul-
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
152
tati conseguiti in 12 anni di impiego di UDCA nella colestasi intraepatica gravidica ha evidenziato che esso determina un duplice
effetto benefico: nella madre una
significativa riduzione del prurito,
della bilirubinemia, delle transaminasi e della concentrazione
sierica degli acidi biliari; nel feto
favorisce l’incremento ponderale
ed il parto a termine (8).
In uno studio clinico di confronto
UDCA è risultato simile a S-adenosil-l-metionina nel migliorare il
prurito delle pazienti con colestasi intraepatica gravidica, ma significativamente più efficace nel ridurre la concentrazione sierica
degli acidi biliari, delle transaminasi e della bilirubina (9).
Molto recentemente sono stati
pubblicati i risultati di uno studio
di confronto tra UDCA e colestiramina nel trattamento della colestasi intraepatica gravidica (10).
Ottantaquattro pazienti con tale affezione sono state assegnate in modo randomizzato a ricevere UDCA
(8-10 mg/kg per die; n= 42) o colestiramina (8 mg/die; n= 42), per
14 giorni.
L’endpoint primario era rappresentato da una riduzione del prurito superiore al 50% dopo 14
giorni di trattamento.
L’endpoint secondario comprendeva: esito della gravidanza, riduzione delle transaminasi e dei livelli sierici degli acidi biliari, tollerabilità dei due farmaci.
L’analisi dei dati conseguiti ha fornito i seguenti risultati:
Il prurito è risultato più efficacemente ridotto da UDCA che
da colestiramina (66,6% vs
19%; p<0,005).
Il parto è avvenuto più vicino al
termine naturale tra le donne
trattate con UDCA che tra quel-
le del gruppo colestiramina
(38,7 settimane vs 37.4 settimane; p <0,05).
L’alanina aminotransferasi (ALT)
e l’aspartato aminotransferasi
(AST) sono risultate rispettivamente ridotte del 78,5% e del
73,8% dopo UDCA, e solamente del 21,4% dopo terapia con
colestiramina (p <0,01 vs UDCA).
I livelli sierici degli acidi biliari
endogeni si sono ridotti del
59,5% nel gruppo UDCA e del
19% nel gruppo colestiramina
(p <0,02).
UDCA, a differenza di colestiramina, non ha causato effetti collaterali.
In conclusione i dati del presente
studio indicano che nella colestasi intraepatica gravidica UDCA è
più efficace e più sicuro di colestiramina.
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Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
155
Ibuprofene-arginina: l’analgesico ideale?
Pietro Cazzola
Meccanismo
d’azione dei FANS
I farmaci antinfiammatori non
steroidei (FANS) sono una categoria eterogenea di composti,
spesso chimicamente dissimili,
che tuttavia condividono alcune
attività terapeutiche ed effetti collaterali.
Essi sono dotati di attività antinfiammatoria, analgesica ed antipiretica, attività che generalmente
vengono ricondotte ad un comune meccanismo d’azione: l’inibizione delle ciclossigenasi, il sistema enzimatico responsabile della
biosintesi delle prostaglandine
per catabolismo dell’acido arachidonico.
Quest’ultimo è un acido grasso
polinsaturo a venti atomi di carbonio, appartenente al gruppo
degli acidi grassi essenziali, che si
libera dai fosfolipidi presenti nelle
membrane cellulari delle cellule
dei vari tessuti coinvolti nel processo infiammatorio; l’acido arachidonico viene metabolizzato
attraverso un sistema enzimatico
costituito dall’enzima lipossigenasi e dall’enzima ciclossigenasi
(COX) che dispone di due isoforme definite COX-1 e COX-2.
La cascata metabolica dell’acido
arachidonico, conduce da un lato,
per azione della lipossigenasi alla
Specialista in Anatomia e Istologia Patologica
e Tecniche di Laboratorio, Milano
formazione di leucotrieni, dall’altra, per azione delle COX, alla formazione di prostaglandine, prostacicline e trombossani (Figura 1).
Le prostaglandine e la prostaciclina posseggono un’azione proflogistica attraverso meccanismi di
chemiotassi, aumentata permeabilità vasale e vasodilatazione,
oltre ad un’azione algesica.
Le prostaglandine, infatti, sensibilizzano le terminazioni nervose
abbassandone la soglia di risposta
e i nocicettori inviano stimoli al
SNC dando origine al dolore.
Alcuni mediatori dell’infiammazione, bradichinina in particolare,
concorrono a stimolare il dolore
attraverso meccanismi di vasodilatazione e aumento della permeabilità vasale.
Tali fenomeni dipendono sia dai
mediatori citati, sia dalla produzione di ossido nitrico (NO) a
partire dalle cellule endoteliali.
Il NO infatti è un trasmettitore
chimico mediatore dell’eccitotossicità nel SNC implicato anch’esso nelle reazioni infiammatorie,
soprattutto per il coinvolgimento
degli enzimi NO-sintetasi (NOS)
stimolati anche dalle citochine ad
azione proflogistica prodotte in
vari tessuti.
Figura 1.
Rappresentazione schematica della sintesi di prostaglandine,
trombossani, prostacicline e leucotrieni.
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
156
L’associazione
ibuprofene-arginina
L’associazione ibuprofene-arginina
appartiene alla famiglia dei FANS.
L’ibuprofene è un derivato dall’acido arilpropionico la cui associazione con arginina è giustificata
dal fatto che quest’ultima ne permette, dopo somministrazione
orale, un ottimo e rapido assorbimento a livello della mucosa
gastrica ed enterica, senza alterarne la stabilità chimica.
Ibuprofene
L’ibuprofene inibisce sia la COX-1
che la COX-2 (1).
La sua prevalente azione sulla
COX-2 è responsabile dell’azione
antiflogistica a livello dei siti dell’infiammazione, unitamente a
quella analgesica e antipiretica (1).
Oltre all’azione periferica sulle
COX, l’efficacia analgesica di ibuprofene si avvale di un meccanismo d’azione a livello del SNC (1).
Tale meccanismo, non ancora del
tutto chiarito, è probabilmente
legato ad un blocco delle prostaglandine in questa area.
L’azione ipotizzata avverrebbe
attraverso riduzione dello stimolo
evocato a livello dei neuroni talamici, grazie alla stimolazione delle
fibre C afferenti al talamo stesso.
In uno studio condotto sul ratto, è
stato infatti possibile riscontrare,
dopo somministrazione di ibuprofene, una depressione dell’attività
dei neuroni talamici che era stata
evocata da una stimolazione elettrica del nervo surale. (2).
L’azione analgesica centrale di ibuprofene è stata confermata da un
successivo studio in doppio cieco
condotto in volontari sani in cui il
farmaco, alla dose di 600 mg per
via orale, ha aumentato la soglia del
riflesso nocicettivo di flessione dell’arto inferiore (riflesso di Rill) (3).
L-arginina
La L-arginina è un aminoacido
naturale basico che ha la proprietà di aumentare la percentuale di
assorbimento gastrico di ibuprofene. Ciò si traduce in una maggiore rapidità d’azione del FANS
con conseguente pronta analgesia
e attività antinfiammatoria.
La L-arginina, inoltre, gioca un
ruolo importante nella gastroprotezione, probabilmente attraverso
l’enzima ossidonitrico sintetasi
(NOS) di cui essa costituisce un
substrato (4).
Un recente studio ha evidenziato
che l’arginina a livello gastrico favorisce il processo di guarigione delle
ulcere mantenendo elevati i livelli
di PGE2 in questa sede ed aumen-
tando l’espressione dell’FGF-2
(Fibroblast Grow Factor-2) (5).
Farmacocinetica
La combinazione con l’arginina ha
modificato sensibilmente la cinetica di assorbimento per via orale
dell’ibuprofene. Infatti con la somministrazione contemporanea di
ibuprofene ed arginina si ottiene
un picco della concentrazione plasmatica massima (Cmax) di ibuprofene quasi raddoppiato rispetto a
quello osservato in seguito alla
somministrazione della stessa dose
del solo ibuprofene (Figura 2).
È da rilevare che tale picco viene
raggiunto con un Tmax pari circa
ad un terzo rispetto al Tmax rilevato in seguito ad un trattamento
con solo ibuprofene: infatti con
una dose di 400 mg si sono ottenuti valori di Tmax di 24,4’ per ibuprofene-arginina e di 63,8’ per il
solo ibuprofene (6).
Figura 2.
Livelli plasmatici di ibuprofene e ibuprofene-arginina
dopo singola dose di 400 mg per os.
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
Ibuprofene-arginina: l’analgesico ideale?
157
Un altro aspetto interessante della
farmacocinetica di ibuprofenearginina è la possibilità di incrementare ulteriormente i livelli
plasmatici di ibuprofene mediante la somministrazione di dosi
successive del prodotto.
La Figura 3 mostra l’effetto additivo sui livelli plasmatici di ibuprofene di due somministrazioni
successive alla prima, di 400 mg
di ibuprofene-arginina, intervallate di 30 minuti l’una dall’altra.
Il profilo che si ottiene è un tipico andamento a denti di sega, che
dimostra come sia possibile, in
condizioni di particolare necessità, sostenere rapidamente livelli
plasmatici particolarmente elevati
senza osservare evidenti diminuzioni della capacità di assorbimento da parte della mucosa intestinale.
È da sottolineare che la curva di
assorbimento di ibuprofene a
seguito della somministrazione
orale di ibuprofene-arginina a stomaco pieno risulta uguale a quella ottenuta dopo il trattamento
con il solo ibuprofene.
Questo aspetto, che a prima vista
può essere valutato come un fatto
negativo, si traduce in realtà nel
grande vantaggio di disporre del
primo farmaco analgesico somministrabile a stomaco vuoto, in
quanto, per il suo assorbimento
particolarmente rapido, il rischio
di danni gastro-intestinali è ridotto al minimo.
Le AUCs per ciascuna dose confrontabile di ibuprofene-arginina e
ibuprofene singolo sono simili e
dimostrano che la biodisponibilità
dei due preparati è comparabile.
L’ibuprofene si lega ampiamente
alle proteine plasmatiche (>
Figura 3.
Livelli plasmatici di ibuprofene dopo somministrazione orale. singola e ripetuta,
di ibuprofene-arginina bustine da 400 mg.
98%), ma alle concentrazioni
usuali occupa soltanto una frazione della totalità dei siti d’azione
per il farmaco (7, 8).
La concentrazione di ibuprofene
dopo singola dose di 400 mg è
risultata maggiore nel siero che
nel liquido sinoviale.
Ciò nonostante le concentrazione
rilevate a livello del liquido sinoviale sono rimaste significative
anche dopo la riduzione dei livelli plasmatici (8).
Il volume di distribuzione di ibuprofene negli adulti è pari a valori compresi tra 0,12 e 0,2 L/kg.
Il farmaco oltrepassa la barriera
placentare e non sembra passare
nel latte materno.
La concentrazione plasmatica
decresce in maniera bifasica.
L’emivita plasmatica è stata calcolata fra le 2 e 4 ore.
Ibuprofene è ampiamente meta-
bolizzato a livello epatico, mediante ossidazione, in due metaboliti inattivi.
L’ibuprofene viene escreto nel 5060% nelle urine sotto forma di
metaboliti o coniugati con acido
glicuronico. Meno del 10% del
farmaco escreto con le urine in
forma immodificata.
La rimanente parte di farmaco
viene eliminata per via fecale.
L’escrezione di ibuprofene si completa entro 24 ore.
Nei soggetti sani non si è dimostrato accumulo di ibuprofene o
dei suoi metaboliti anche con dosi
ripetute.
Nei pazienti affetti da insufficienza renale sono stati osservati un
incremento dei valori plasmatici
di ibuprofene e dell’AUC e inoltre
è stata documentata una riduzione della clearance dell’enantiomero attivo di ibuprofene (8).
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
158
Indicazioni terapeutiche
Trattamento del dolore: mal di testa, mal di denti, dolori mestruali, nevralgie, dolori osteoarticolari e muscolari, dolori da episiotomia e post-partum, dolore
da avulsioni dentarie, dolore postoperatorio, dolore causato da piccole lesioni o traumatismi.
Forme di reumatismo infiammatorio: artrite reumatoide, spondilite anchilosante, morbo di Still.
Figura 4.
Estrazione chirurgica dentaria: intensità del dolore dopo somministrazione
di ibuprofene-arginina 400 mg, naprossene sodico 550 mg o placebo.
Forme di reumatismo degenerativo: osteoartrosi (artrosi cervicale, dorsale, lombare, gonartrosi, coxartrosi, poliartrosi ecc.).
Forme reumatiche extra articolari: tendinite, fibrosi, borsiti,
mialgie, lombaggine, periartrite
scapolo-omerale, sciatalgie, radicolo-nevriti.
Ibuprofene-arginina
nel dolore di natura
odontoiatrica
Da un punto di vista patogenetico
si distinguono vari tipi di dolore
odontogeno: dolore pulpare, dolore da periodontite periapicale,
dolore post- avulsione e dolore da
infezione. Nell’ambito della chirurgia odontoiatrica l’ibuprofene
si è dimostrato efficace nel trattamento del dolore dentale in generale (9) e nel prevenire il dolore
conseguente ad estrazione del
terzo molare (10, 11) (Figura 4).
Figura 5.
Cefalea muscolo-tensiva: valori medi dell’intensità del dolore dopo somministrazione di ibuprofene-arginina, piroxicam-β-ciclodestrina o placebo.
Ibuprofene-arginina
nella cefalea
e nell’emicrania
I FANS rappresentano una valida
opzione terapeutica nei pazienti
affetti da cefalea muscolo-tensiva
che spesso non rispondono
all’ASA e al paracetamolo.
Uno studio comparativo condotto
in pazienti con cefalea muscolotensiva recidivante, ha mostrato
che ibuprofene-arginina possiede
un’efficacia simile al piroxicam-βciclodestrina, nel ridurre l’intensità del dolore. In particolare ibuprofene-arginina ha confermato la
sua rapidità d’azione evidenziando un’effetto progressivo nella
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
Ibuprofene-arginina: l’analgesico ideale?
159
riduzione della VAS (scala analogica visiva) nel tempo (12)
(Figura 5).
In ambito pediatrico, è stato evidenziato che ibuprofene è circa
due volte più efficace di paracetamolo nel risolvere la crisi di emicrania entro 2 ore (13).
Ibuprofene-arginina
nel dolore
ginecologico
La dismenorrea rappresenta un
frequente quadro clinico che interessa il 71, 6% delle donne di età
compresa tra i 18 e i 35 anni.
La sua intensità varia da lieve/tollerabile a severa.
Spesso la dismenorrea causa una
significativa riduzione della qualità
della vita, coinvolgendo anche l’attività lavorativa della paziente che
frequentemente deve assentarsi dal
lavoro. L’inizio della sintomatologia coincide con il primo giorno
del ciclo e dura circa due giorni.
Il meccanismo patogenetico della
dismenorrea è un’aumentata produzione di prostaglandine responsabili di un incremento delle
contrazioni uterine.
Diversi studi hanno evidenziato
che ibuprofene è più efficace di
altri FANS nel controllo del dolore
mestruale e, nello stesso tempo,
determina minori effetti sulla
coagulazione, non prolungando il
tempo di emorragia alle dosi usualmente prescritte per un periodo
limitato di tempo (14-16).
In un recente studio condotto in
1093 donne affette da dismenorrea primaria, ibuprofene-arginina, somministrato oralmente in
singola dose, ha significativamente migliorato la sintomatologia
algica nell’82,2% delle pazienti
già 15’ dopo l’assunzione e tale
percentuale ha raggiunto il
99,2% dopo 45’ (17).
Ibuprofene-arginina si è dimostrato efficace anche in altre situazioni
Figura 6.
Taglio cesareo: valori medi dell’intensità del dolore dopo somministrazione
di ibuprofene-arginina 400 mg per os, ketorolac 30 mg i.m. o placebo.
algiche ginecologiche. In particolare, in pazienti con dolore conseguente a taglio cesareo, ibuprofene-arginina per via orale ha ridotto l’intensità del dolore in maniera
sovrapponibile a ketorolac per via
parenterale (18) (Figura 6).
Ibuprofene-arginina
nel dolore
post-operatorio
Anche nel dolore post-operatorio
di origine non ginecologica ibuprofene-arginina per os ha offerto
risultati comparabili a quelli ottenuti con ketorolac intramuscolare.
Infatti, in uno studio condotto in
124 pazienti maschi, sottoposti a
intervento chirurgico per ernia
inguinale, con dolore post-operatorio da moderato a severo, ibuprofene-arginina 400 mg per os
ha ridotto l’intensità di quest’ultimo in maniera analoga a ketorolac 30 mg iv (19).
La percentuale di pazienti che ha
richiesto un trattamento analgesico aggiuntivo è risultata simile
per i due farmaci (35,7% e 29,3%
rispettivamente per ibuprofenearginina e ketorolac), ma con
compliance di ibuprofene-arginina nettamente migliore rispetto al
farmaco di confronto (19).
In chirurgia pediatrica l’efficacia
e la tollerabilità di ibuprofene nel
dolore post-operatorio sono state
evidenziate in corso di interventi
per ernia inguinale, idrocele, circoncisione, orchipessi e ipospadia: in tale casistica ibuprofene
ha permesso di ridurre significativamente la necessità di ricorrere alla morfina per il controllo del
dolore (20).
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
160
Ibuprofene-arginina
nel dolore
di natura reumatica
I FANS rappresentano la principale terapia in numerose forme reumatiche di natura acuta e cronica.
In queste condizioni gli obiettivi
principali della terapia con FANS
sono alleviare il dolore articolare e
muscolo scheletrico e ridurre il
processo infiammatorio.
A tale scopo nella pratica clinica è
necessario poter contare su farmaci capaci di indurre una rapida
analgesia e disporre di trattamenti
che, se prolungati, possano garantire un’elevata tollerabilità.
Nel dolore muscolare di natura
reumatica ibuprofene alla dose di
400 mg 3 volte al giorno ha dimostrato un’efficacia sovrapponibile a
quella di indometacina nel ridurre
la sintomatologia algica (21).
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Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
163
Gli effetti del fumo di sigaretta
sul microcircolo cutaneo: studio termografico
Aldo Di Carlo
Introduzione
Istituto Dermatologico S. Gallicano-IRCCS, Roma
La teletermografia è una tec- capillari che decorrono parallelamente La metodica della termostimolazione
introdotta nel 1980, ha consentito di
nica di recente impiego in campo clini- alla superficie stessa (Figura 2).
co-diagnostico che si basa sull’impiego Questa particolare selettività della me- superare il problema della termografia
di telecamere a infrarosso o “termoca- todica, ne consente un utile impiego “diretta” (8-15).
mere”, idonee a captare l’energia termi- nello studio di molte dermopatie in cui Applicando infatti un criostimolo sulla
ca ed a trasformarla in segnale video. sono primariamente interessati i vasi cute, è possibile valutare l’intervallo di
Sul monitor compaiono immagini in dell’interfaccia dermo-epidermica, tra tempo che intercorre dalla fine del terbianco e nero le cui tonalità chiare cor- cui il diabete, la sclerodermia, le radio- mostimolo (= tempo T0), al ripristino
delle isoterme iniziali.
rispondono a zone più
Detto intervallo o tempo di
calde, od a colori in cui il
Figura 1.
ripresa termico (TRT,
bianco corrisponde conespresso in minuti o seconvenzionalmente alla isoterSchematica rappresentazione di un teletermografo.
di), è direttamente correlama più calda e il blu a quelto al gradiente di base,
la più fredda (scale da 5 a
risultando ovviamente più
12 colori).
breve se lo stimolo è appliCompletano l’apparecchiacato su aree più calde, più
tura, dei moderni sistemi di
prolungato se più fredde, a
interfacce digitali standard,
parità di termostimolo.
per una costante regolazioDati sperimentali, rilevati su
ne e per la possibilità di
oltre 200 soggetti, hanno
acquisire, elaborare ed
mostrato che in condizioni
archiviare le immagini su
ambientali ottimali, ed imsupporti permanenti (1, 2)
piegando parametri di crio(Figura 1).
stimolo di +5°C x 20”, i TRT
In campo vascolare la
metodica termografica (TTG) può esse- dermiti croniche professionali, la variano da 2 a 7 minuti (= da 120 a 420
re di particolare utilità nello studio di malattia di Raynaud, la cosiddetta cel- secondi), a seconda delle regioni esaminate. Analogo procedimento può essere
vasi superficiali, dato l’elevato gradien- lulite, il fotoinvecchiamento, etc. (6).
te termico, quali arterie temporali, vene In campo sperimentale la TTG può tro- adottato se si vuole impiegare uno stress
safene, varicocele, fistole artero-ve- vare indicazione nello studio di topici termico caldo, per esempio di +40 °C.
nose, etc. (3).
vasoattivi di cui è possible valutare le L’apparato vascolare è tra i più interesIl grande vantaggio che la TTG offre è la modificazioni emodinamiche indotte a sati agli effetti del fumo. Le alterazioni
possibilità di studiare il microcircolo livello cutaneo, senza la necessità di do- croniche a carico delle pareti arteriose,
cutaneo, affiancandosi validamente ad ver disegnare la “mappa termica” come più evidenti nei fumatori cronici,
rispetto ai soggetti di pari età non
altre metodiche, come la pletismogra- avveniva nella termometria classica (7).
fia, il Doppler e la pCO2, correntemen- Peraltro va precisato che le variazioni fumatori, sono note in letteratura sia in
te impiegate in questo campo (4, 5). dei gradienti termici cutanei sono spes- campo anatomo-clinico che epidemioQuesta indicazione è basata sul fatto che so inferiori ad un decimo di grado e logico, e ne sono un esempio il magil calore emesso dalla superficie cutanea talora dell’ordine di centesimi di grado, giore spessore delle placche di ateroè direttamente correlato al flusso cu- e pertanto di difficile valutazione con sclerosi nei primi (16-19).
taneo ed in particolare al plesso papilla- gli attuali apparecchi di TTG (sensibi- Meno numerosi sono gli studi sugli
effetti acuti indotti sui vasi ed in partire, complessa rete di arteriole, venule e lità: ≥ 0,1°C).
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
164
Figura 2.
Lo schema rappresenta i livelli di captazione delle varie
metodiche di studio della circolazione cutanea.
colare su arterie, vene e
capillari a seguito dell’aspirazione di una o più
sigarette (20-22). A tale
scopo l’area volare della
falangetta si presta bene
all’esplorazione termografica del microcircolo cutaneo, essendo in tale sede
assente il tessuto muscolare che, per l’elevata termogenesi, interferirebbe con
la temperatura cutanea.
In studi precedenti (23)
abbiamo osservato che, a
seguito delle aspirazioni
di 1-4 sigarette fumate consecutivamente in un’ora, si manifesta una caduta dei gradienti termici e parallelamente un aumento della pressione arteriosa
sisto-diastolica; peraltro il limitato
numero di soggetti esaminati e la variabilità di risposta osservata da soggetto a
soggetto, ha portato all’indicazione di
uno studio più ampio, riguardante un
maggior numero di pazienti.
Materiale e metodi
x 20”, temperatura ambiente: +21°C, umidità relativa
50%.
una miscela acqua-alcool al 50%. Per
l’esecuzione della prova, la miscela portata alla temperatura desiderata (da 0 a
+50°C) tramite una pompa aspirantepremente, viene spinta verso il terminale o termosonda, tramite un cavo di
gomma a doppia via. La termosonda è
formata da un palloncino di lattice a
capienza regolabile da 50 a 200 cc che,
una volta riempito della miscela, viene
appoggiato sulla cute per un tempo
determinato (Figura 3).
I parametri utilizzati per questo studio
sono stati i seguenti: termostimolo: +5°C
Teletermografia. Sono stati impiegati
rispettivamente teletermografi Agema-Flyr 680 e
Agema-Flyr 880.
Criostimolo. È
stato usato un termostimolatore Surgicon. Come
precedentemente descritto (5), esso è composto da
un serbatoio di metallo
termostatato che contiene
Pazienti. Lo studio
è stato eseguito su un gruppo di 50 soggetti maschi,
media 57,8 anni (range 5060 anni). I soggetti erano tra
loro omogenei per età, costituzione fisica (normotipi),
tipo di attività lavorativa
(non addetti a lavori manuali), assenza di diabete o
dislipemia. Inoltre dovevano restare 12 ore senza
avere fumato alcuna sigaretta (astensione
dalla sera precedente).
Metodica. La prova si è svolta
al mattino; i soggetti erano invitati a
fumare, in apposita stanza termostatata
ed aerata, una sigaretta ogni 14 minuti,
per un totale di 4 sigarette (la prima
dopo 18’ di adattamento all’ambiente),
sostando poi per 60’ dall’accensione dell’ultima sigaretta, per il controllo finale.
In totale, per ogni soggetto sono stati
effettuati 6 controlli termografici,
rispettivamente, al tempo 0 (subito
prima della prima sigaretta), dopo ciascuna delle 4
sigarette ed infine, dopo
60’ dall’accensione dell’ultima sigaretta.
Risultati
Figura 3.
Termosonda.
In quasi tutti i soggetti dopo la prima sigaretta
è stato osservato un aumento dei TRT, segno evidente
di vasocostrizione, e tale
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
165
Tabella 1.
Valori di ripresa termica (TRT) espressi in secondi a riposo (1a colonna) e dopo ciascuna delle 4 sigarette fumate
nel corso di un’ora (rispettivamente 1s, 2s, 3s, 4s). In evidenza i “non responders”. Termostimolo +5°C x 20".
SOGGETTI FUMATORI NORMOTESI STUDIO TERMOGRAFICO
T0
1s
2s
3s
4s
dopo 1h
1. AC
2. FM
3. PP
4. SS
5. VI
6. FOM
7. EW
8. AQ
9. RT
10. AS
11. GG
12. LL
13. LE
14. EV
15. EM
16. OM
17. TW
18. TR
19. UF
20. UP
21. TN
22. BC
23. RS
24. MM
25. SW
26. RR
27. NM
28. MM
29. SI
30. RR
31. AS
32. GF
33. LO
34. NM
35. MDC
36. SW
37. AO
38. AS
39. GF
40. LK
41. OO
42. ZW
43. II
44. GM
45. RU
46. UU
47. RR
48. AS
49. GF
50. TT
MEDIA
333
349
330
410
402
385
410
327
348
340
345
320
410
402
388
316
327
348
345
320
401
402
398
363
375
338
398
446
437
355
340
345
420
388
416
427
348
340
345
420
426
437
338
368
446
437
355
350
345
420
368,58
349
367
335
412
404
437
430
345
382
349
367
335
412
421
437
332
366
382
347
335
412
421
399
41
489
382
438
432
469
382
349
367
435
389
432
445
382
349
367
435
432
489
382
437
432
436
382
368
347
445
383,2
368
368
345
440
404
445
448
389
399
368
368
345
440
459
445
339
389
399
346
345
440
459
400
448
489
399
445
448
489
399
368
368
445
391
448
460
399
368
368
445
448
506
399
445
448
436
399
388
378
467
412,78
388
378
387
450
400
456
480
398
402
388
378
387
450
489
456
380
395
402
349
376
450
489
401
480
498
402
456
480
498
402
388
378
487
387
466
468
402
388
378
487
480
523
402
456
480
437
402
398
378
481
428,22
388
388
389
469
399
475
489
400
418
388
388
388
469
521
475
389
501
418
348
388
468
521
398
489
500
418
475
489
501
418
388
388
501
388
489
500
418
388
388
488
489
533
418
475
489
438
418
423
380
490
441,08
334
350
331
412
404
388
412
326
347
344
346
321
412
405
390
317
325
346
346
320
398
405
403
360
380
342
390
450
431
357
344
348
421
390
412
421
344
344
346
421
429
432
340
372
442
440
354
353
346
421
372,5
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
166
Figura 4.
Rilievi termografici
in condizioni basali
e rispettivamente
dopo la 1a, 2a, 3a e 4a
sigaretta e dopo 1 ora
dall’ultima sigaretta.
I tempi di ripresa
termica (TRT)
sono espressi in
secondi.
Termostimolo
di +5°C x 20”
riscontro è apparso evidente ad ogni successiva sigaretta (Figura 4 e Tabella 1).
Infatti, mentre il valore medio di base
era pari a 368,2 secondi, dopo la prima
sigaretta il TRT è salito a 383,2 secondi, con un incremento del 9% rispetto
al valore iniziale e dopo le successive
sigarette sono stati osservati i seguenti
TRT in secondi (media): 412,78 dopo
la seconda, 428,22 dopo la terza ed
infine 441,08 dopo l’ultima sigaretta,
con incremento percentuale rispetto al
TRT di base rispettivamente di 11%,
15% e 17%.
Particolarmente evidente è stato l’incremento osservato dopo la terza sigaretta.
Il controllo finale (eseguito un’ora dopo
l’accensione dell’ultima sigaretta), ha
mostrato in tutti i soggetti il ripristino
dei valori basali.
Da notare che, in alcuni soggetti, la
caduta dei gradienti termici è stata talmente evidente, che già all’osservazione
diretta è stato possibile cogliere sul
monitor un effetto ben visibile di
“amputazione termica” delle dita della
mano (Figure 5, 6 e 7).
ommento
C
Gli effetti del fumo di sigaretta sulla circolazione, generalmente noti
per le alterazioni croniche che le
sostanze tossiche in esso contenute
provocano, trovano conferma anche
nei risultati di questo studio, in cui
invece sono stati evidenziati gli effetti
acuti, da riferire verosimilmente all’azione della nicotina.
L’effetto di vasocostrizione cutanea è
apparso evidente sin dalla prima sigaretta, con particolare accentuazione
dopo la terza sigaretta, documentando
quindi anche un effetto cumulativo.
Peraltro va segnalato che in alcuni soggetti (numero 5, 19, 23, 34 e 46 della
Tabella 1), non è stata osservata alcuna
caduta termica, come atteso.
Ciò fa ipotizzare un’assenza o ridotta
sensibilità dei recettori nicotinici di
questi soggetti; questo dato, peraltro,
richiederà ulteriori indagini sperimentali.
È da presumere inoltre che la vasocostrizione non sia localizzata solo alla
cute, ma diffusa al letto capillare di
altri organi ed apparati e che quindi
l’effetto microangiotossico sia generalizzato.
In precedenti studi (23) eseguiti adottando la stessa metodica (4 sigarette
fumate consecutivamente in un’ora), è
stato inoltre evidenziato che l’effetto
vasocostrittivo cutaneo è più evidente
nei soggetti ipertesi, nei quali inoltre è
stato osservato un parallelo aumento
della pressione arteriosa.
Questo dato appare dimostrativo dell’importanza che il fumo riveste quale
co-fattore di danni vascolari ischemicotrombotici.
Infine le immagini del monitor che evidenziano effetti di “amputazione” delle
dita e che documentano in maniera
evidente l’effetto vasocostrittivo sul
microcircolo cutaneo, possono costituire un utile mezzo a disposizione dei
mass media (televisione - cinema),
nelle campagne di dissuasione al fumo
in quanto le immagini sono di sicuro
ed immediato impatto psicologico,
specie sui giovani in età scolare (24).
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
167
Figura 5.
Soggetto n. 6 (FOM). Osservazione termografica diretta. Evidente caduta dei gradienti termici acrali,
visibile in tutte le dita. FOM 1 TTG base FOM 2-4 TTG dopo la seconda, terza e quarta sigaretta
fumate nel corso di un’ora. FOM 5 TTG dopo un’ora dalla quarta sigaretta.
Figura 6.
RR, di anni 46,
fumatore cronico.
Osservazione
termografica diretta
in b/n ed a colori.
Termogramma
di base.
Figura 7.
Lo stesso soggetto
osservato alla fine
della terza sigaretta.
Evidente la caduta
dei gradienti termici,
con suggestivo
effetto
di “amputazione
termica” delle dita
dell'area ulnare.
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
168
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Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
169
Evoluzione della dermatologia moderna
A cura di Antonio Di Maio
Introduzione
Oggi la Dermatologia sta evolvendo per rispondere alle esigenze di
pazienti orientati sempre più a tematiche di benessere e bellezza della pelle. Il concetto di bellezza, infatti, si sta sempre più avvicinando a quello di salute: la cura
del corpo non si colloca soltanto in un contesto di pura estetica, ma risponde sempre più a motivazioni personali che tendono al concetto generale di benessere.
Il dermatologo, dapprima concentrato solo sulle patologie della cute, deve ormai
prestare sempre maggiore attenzione alle nuove esigenze del paziente e quindi
ricorrere alla dermocosmetologia.
Da una ricerca condotta da Astra (1) si è visto che nel 2004 sono stati visitati il
16,8% degli Italiani, con un significativo trend di crescita rispetto al 2002 (11,6%).
Soprattutto sono i giovanissimi (13-17 anni) quelli che si rivolgono maggiormente al dermatologo, seguiti dagli individui dai 35 ai 54 anni. Questo dato dimostra
come non solo le persone più mature cercano di contrastare e prevenire i segni del
tempo, ma anche e soprattutto i giovani, che, cambiando mentalità, vivono una
nuova dimensione di salute. Dalla ricerca emerge, inoltre, con evidenza, che il
ricorso al dermatologo, nella maggioranza dei casi, è per una consultazione e non
per una cura, in un’ottica di sempre maggiore prevenzione. Infatti, ben il 71,5%
ha effettuato un’unica visita, contro il 16,5% recatosi due volte, il 6,9% con 3-4
contatti e il 5,1% con 5-9 controlli. Da questi dati emerge un approccio più consapevole alla propria salute: il paziente, infatti, non solo non aspetta che i primi
potenziali sintomi di un disturbo cutaneo diventino patologia, ma addirittura si
rivolge allo specialista per un consiglio dermatologico al fine di prevenire l’insorgere di eventuali problemi.
Questa evidenza è una chiara conferma della propensione alla prevenzione, laddove bellezza e benessere si fondono nel più ampio concetto di salute.
La maggiore educazione dermocosmetica e la maggiore conoscenza dei problemi
che i mass media e le aziende cosmetologiche sono riusciti a generare nella popolazione, hanno innescato negli individui una richiesta d’informazione sempre maggiore, accrescendo l’aspettativa di benessere e di miglioramento del proprio aspetto. Questi sono stati i principali motivi che hanno fatto aumentare la richiesta dei
pazienti di una consulenza dermocosmetica a una figura esperta, in grado di
rispondere alle loro esigenze. Interessante sottolineare che, tra le manifestazioni
che più frequentemente portano un soggetto a chiedere una consulenza dermocosmetica, troviamo il cronoinvecchiamento, il fotoinvecchiamento e le modificazioni di pigmentazione.
La trasformazione a livello sociale non ha comportato solo un cambiamento di
mentalità da parte del dermatologo, ma anche un’importante evoluzione da parte
delle aziende cosmetiche.
Queste, infatti, sono oggi in grado di offrire ai dermatologi formulazioni innovati-
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
170
ve ed eccipienti altamente sofisticati e ai pazienti prodotti sempre più efficaci e
sicuri. Le stesse aziende, inoltre, prendono sempre più come riferimento l’universo dermatolgico proponendo risposte tecniche e formulative ispirate ai trattamenti professionali e adeguate ad un utilizzo domiciliare.
Ulteriore evoluzione di questo cambiamento da parte delle aziende cosmetiche è la
definizione di prodotti che associano tecniche ispirate all’universo professionale,
come dermoabrasione e peeling, pur con concentrazioni di attivi inferiori che ne
consentono l’utilizzo domiciliare. Questo permette di coniugare efficacia e sicurezza: la sequenza delle tecniche, infatti, ha un’azione complementare e sinergica per
ottenere risultati significativi impiegando una concentrazione di attivi meglio tollerata dalla pelle.
Bibliografia
1. ASTRA 2004 in collaboration with DEMOSKOPEA. “Gli Italiani e i Dermatologi” .
Scripta
MEDICA
Volume 8, n. 7-8, 2005
173
News on Skin Repair
Fattori che influenzano la cicatrizzazione delle ferite cutanee
Il processo
di cicatrizzazione
delle ferite cutanee
Fattori locali e generali
che condizionano
il processo di cicatrizzazione
Infezione
La cicatrizzazione è un processo complesso e dinamico che coinvolge fattori biochimici, cellulari,
vascolari e immunitari, con l’obiettivo di ristabilire la continuità epidermica.
Gli eventi biologici che si susseguono dopo una
ferita sono articolati in varie fasi embricate tra loro:
emostasi, reclutamento di cellule infiammatorie,
proliferazione di fibroblasti, neoformazione vasale,
sintesi, deposizione e rimodellamento del tessuto
connettivo, epitelizzazione (Tabella 1).
Al processo di cicatrizzazione prendono parte
numerosi elementi cellulari (piastrine, granulociti
neutrofili, linfociti, macrofagi, cheratinociti) che
attraverso la liberazione di chemochine, fattori di
crescita e proteine strutturali della matrice extracellulare (in particolare collagene) determinano la
ricostruzione dell’integrità tessutale.
Fase infiammatoria
Emostasi/formazione
del coagulo
Vasodilatazione
e migrazione
di neutrofili
sul fondo della ferita
Attrazione (chemiotassi)
dei macrofagi
da parte dei neutrofili
(eliminazione
del tessuto necrotico)
Rappresenta la più comune causa di prolungamento del processo di guarigione. Tutte le ferite
sono contaminate dalla flora batterica presente
sulla superficie cutanea, tuttavia l’infezione diventa clinicamente manifesta solo quando i patogeni
raggiungono un numero critico. I batteri allungano la guarigione attivando la via alternativa del
complemento e ampliando la fase infiammatoria.
Essi, inoltre, elaborano tossine e proteasi che possono danneggiare direttamente le cellule contigue.
Da ultimo i batteri competono con i tessuti per
l’ossigeno e l’acido lattico, che viene prodotto in
condizioni di ipossia, favorisce la liberazione di
enzimi proteolitici altamente lesivi.
La presenza di abbondante tessuto necrotico, di
ematomi e di corpi estranei sono condizioni predisponenti l’insorgenza di processi infettivi locali.
Fase proliferativa
Inizio della sintesi di collagene
da parte dei fibroblasti
presenti sul fondo della ferita
Formazione del tessuto
di granulazione
(cellule infiammatorie,
neovasi, fibre collagene)
Attrazione dei fibroblasti
da parte dei neutrofili
(innesco della sintesi
di collagene)
Tabella 1. Le fasi di guarigione delle ferite cutanee.
Fase maturativa
Riorganizzazione della matrice
del tessuto connettivo
Addensamento
delle fibrille collagene
che si trasformano in fibre
Aumento crescente
della resistenza
alla tensione
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
174
Tecnica chirurgica
Sono di fondamentale importanza i seguenti aspetti:
- l’incisione della cute deve avvenire nel rispetto
delle linee di minor tensione, dette di Langier;
- la manipolazione dei margini deve essere delicata;
- la sutura della ferita deve avvenire secondo piani
adeguati;
- il materiale di sutura deve avere caratteristiche
tali da escludere una reazione da corpo estraneo;
- la sutura non deve essere troppo stretta in quanto ciò favorisce l’ischemia e la necrosi tessutale.
Carenza vitaminica Conseguenze
Vitamina A
Riepitelizzazione rallentata,
ridotta sintesi di collagene,
aumentata suscettibilità
nei confronti delle infezioni
Vitamina C
Produzione di collagene instabile
e soggetto a collagenolisi
Vitamina K
Difettosa produzione di alcuni
fattori della coagulazione
(II, VII, IX e X) con conseguente
diatesi emorragica (ematomi)
Reazione da corpo estraneo
La presenza di un corpo estraneo nella ferita attiva
la via alternativa del complemento e prolunga la
fase infiammatoria.
Le ferite contenenti corpi estranei sono caratterizzate da un basso pH e da una bassa PO2, fattori
che rallentano la guarigione.
Ischemia tessutale
L’ipossia locale riduce la resistenza alle infezioni e
rallenta la proliferazione cellulare e la sintesi di
collagene.
Tabella 2. Carenze vitaminiche e cicatrizzazione.
minici ed i conseguenti ostacoli alla guarigione
delle ferite.
Malattie sistemiche
Nella Tabella 3 sono elencate le principali malattie
sistemiche che ostacolano i processi cicatriziali.
In particolare, il diabete, a causa della sua elevata diffusione, rappresenta l’affezione che maggiormente
incide negativamente sulla guarigione delle ferite.
Medicazioni
Il ruolo delle medicazioni occlusive o semiocclusive è sovente misconosciuto in quanto molti erroneamente ritengono che un ambiente umido possa
promuovere le infezioni.
Numerosi studi clinici hanno invece dimostrato il
contrario. Infatti, le medicazioni occlusive sono
relativamente impermeabili ai batteri esogeni e
favoriscono l’accumulo nel liquido presente nella
ferita di sostanze naturali dotate di attività antibatterica. È stato evidenziato che nelle ferite tenute in
ambiente umido la velocità di guarigione è fino al
50% più rapida rispetto a quella riscontrata in
ferite esposte all’aria. Quest’ultime seccando sviluppano croste dure che ostacolano la riepitelizzazione. Da ultimo l’ambiente umido riduce la
fibrosi e favorisce un miglior esito cosmetico del
processo cicatriziale.
Carenze nutrizionali
Un bilancio azotato negativo rallenta la proliferazione dei fibroblasti, la produzione di matrice
extracellulare, la risposta immunitaria umorale e
rende meno efficace la fagocitosi ed il killing batterico. Nella Tabella 2 sono riportati i deficit vita-
Sindrome di Ehlers-Danlos
Disturbi della coagulazione
Anemia
Sindrome di Werner
Vasculopatia aterosclerotica
Vasculiti
Flebopatie con stasi venosa
Linfedema
Scompenso cardiaco
Insufficienza renale cronica
Diabete mellito
Sindrome di Cushing
Ipertiroidismo
Deficit immunitari
Broncopneumopatia cronica
Cirrosi epatica
Tumori
Tabella 3. Malattie che ostacolano la cicatrizzazione.
Scripta
MEDICA
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175
Per spiegare la difficoltà di cicatrizzazione nel
paziente diabetico sono stati chiamati in causa differenti fattori:
- la presenza di disfunzioni cellulari, particolarmente a carico dei fibroblasti e dei neutrofili, dovute
all’effetto tossico esercitato dall’iperglicemia e dall’accumulo dei prodotti della glicosilazione;
- il coinvolgimento della componente nervosa: la
neuropatia sensoriale impedisce la risposta neuroinfiammatoria, mentre la neuropatia autonomica
ostacola il mantenimento dell’integrità della cute,
del tono vascolare e della risposta termoregolatoria;
- la coesistenza di lesioni macro e microvascolari
che determinando ipossia tessutale rallentano la
proliferazione dei fibroblasti e la neoangiogenesi.
Farmaci
Nella Tabella 4 sono elencati alcune categorie di
farmaci che influiscono negativamente nel processo di cicatrizzazione delle ferite.
Glucocorticoidi
Anticoagulanti
Antineoplastici
Ciclosporina A
Colchicina
Penicillamina
Solfato di zinco (alte dosi)
Tabella 4. Farmaci che ostacolano la cicatrizzazione.
In particolare, i glucocorticoidi rallentano la guarigione delle ferite con azione diretta, attraverso
molteplici meccanismi: riduzione della risposta
infiammatoria, inibizione della sintesi delle proteine e del collagene, aumento del catabolismo del
collagene pre-esistente.
Gli anticoagulanti, invece, interferiscono indirettamente nel processo di cicatrizzazione aumentando
la probabilità di emorragie e della formazione di
ematomi.
La cicatrice normotrofica è una cicatrice piatta di
colore roseo che ha raggiunto tale aspetto dopo
aver subito, nell’arco di qualche mese, dei cambiamenti di colore (dal rosso) e di spessore (da lievemente rilevata).
Al contrario, la cicatrice ipertrofica è caratterizzata
dal colore eritematoso, dai bordi rilevati (che rimangono entro il perimetro della ferita originaria), dalla
consistenza dura e dalla sintomatologia pruriginosa.
Il cheloide rappresenta un’esagerazione del processo di ipertrofia: si tratta di una cicatrice molto rilevata, debordante verso il tessuto normale, di colorito vario (rosso nelle forme recenti, bianco nei casi
più inveterati), di consistenza molto dura, sintomatica (pruriginosa o dolente) e senza alcuna tendenza alla risoluzione spontanea. La formazione di una
cicatrice patologica (ipertrofica o cheloide) dipende
da numerosi fattori, come: etnia, reattività individuale, manipolazione chirurgica, trattamenti locali.
Per facilitare la guarigione di una cicatrice normotrofica, e ancor di più per una cicatrice ipertrofica, è
necessario ricorrere all’applicazione di presidi che
velocizzino tale processo. La letteratura scientifica
identifica oggi tre fattori principali in grado di agire
favorevolmente sul processo di cicatrizzazione:
Compressione: è stata ottenuta per anni con
medicazioni sofisticate, ma di difficile applicazione. L’esperienza ha insegnato che i risultati non
sono proporzionali al carico pressorio esercitato:
anche una compressione modesta può infatti
indurre effetti positivi.
Idratazione: riveste un ruolo fondamentale perché
favorisce l’elasticità dell’epidermide e del derma.
Microclima: un ambiente umido accelera la cicatrizzazione.
Nella Tabella 5 sono elencate le terapie maggiormente utilizzate per il trattamento delle cicatrici
ipertrofiche e dei cheloidi:
Asportazione chirurgica
Iniezioni intralesionali di corticosteroidi
Silicone gel sheeting
Pressoterapia
Radioterapia
Aspetti clinici e terapeutici
della cicatrizzazione
Clinicamente le cicatrici si possono dividere in:
normotrofiche, ipertrofiche e cheloidi.
Laserterapia
Cerotto in poliuretano idroattivo
Tabella 5. Principali terapie impiegate nel trattamento di
cicatrici ipertrofiche e cheloidi.
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 7-8, 2005
176
Hansaplast med
Riduzione delle Cicatrici
Aree circostanti
Cicatrice
Deviazione standard
7
Aumento della temperatura (°C)
Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici è un cerotto in poliuretano idroattivo, privo di sostanze farmacologicamente attive, che agisce sul processo di
cicatrizzazione modificando due parametri fisici:
pressione e temperatura.
Klopp R, et al. (J Wound Care 2000), mediante uno
studio di confronto condotto in vivo su volontari
con cicatrici ipertrofiche agli arti inferiori dovute a
rimozione di vene da utilizzare per interventi di
bypass cardiaci, hanno evidenziato che Hansaplast
med Riduzione delle Cicatrici è in grado di indurre
sul tessuto cicatriziale delle modificazioni funzionali e cosmetiche che sono paragonabili a quanto
ottenuto con trattamenti già consolidati (compressione, lamine di gel di silicone).
In particolare è stato osservato che Hansaplast med
Riduzione delle Cicatrici riduce lo spessore massimo
della rugosità cicatriziale in modo più marcato
rispetto alla sola compressione (Figura 1) e che
questa azione è riconducibile ad un positivo effetto sul microcircolo, come testimoniato dall’aumento della temperatura locale (Figura 2).
La riduzione più marcata della rugosità cicatriziale
è stata ottenuta associando Hansaplast med
Riduzione delle Cicatrici alla compressione.
5,2
6
4,2
5
3,3
4
3
4,4
3,7
3,5 3,6
2,4
2
1
0
Compressione
Poliuretano
Poliuretano
Silicone
+
+
compressione compressione
Trattamento
Figura 2.
Aumento della temperatura della cicatrice e delle aree
circostanti in rapporto a 4 differenti trattamenti.
Compressione
4,0
Poliuretano
14 giorni
6,1
Poliuretano più compressione
Silicone più compressione
14,3
Deviazione standard
9,9
22,8
56 giorni
34,3
52,7
44,5
0
10
20
40
30
Riduzione della rugosità
50
60
Figura 1.
Riduzione dello spessore massimo della rugosità cicatriziale in rapporto a 4 differenti trattamenti.
Per ulteriori informazioni su Hansaplast med Riduzione delle Cicatrici o per ricevere gli estratti degli studi clinici pubblicati scrivere a:[email protected]