Analfabetismo affettivo e cultura dell`amore

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Analfabetismo affettivo e cultura dell`amore
La finanza responsabile, la società e la famiglia
Analfabetismo affettivo
e cultura dell’amore
di Livio Melina
Nella sua udienza al nostro Istituto dell’11 maggio 2006, papa Benedetto XVI ci ha ricordato l’idea fondamentale che costituisce l’eredità di
Giovanni Paolo II e che lo accompagnò poi sempre lungo tutta la sua vita
e il suo ministero pastorale: l’idea che occorre «insegnare ai giovani ad
amare». Ora questa espressione ci sembra difficile da comprendere: cosa
significa “insegnare ad amare”? L’amore non è forse la cosa più spontanea e fuori dal nostro controllo che si possa immaginare, qualcosa che
accade e su cui non abbiamo nessun potere?
Che cos’è dunque l’amore perché si debba dire che occorre imparare
ad amare? L’amore non è un’idea, né una decisione etica ci ha ricordato
sempre il papa nella sua prima enciclica, è invece prima di tutto un’esperienza, «l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita
un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, n. 1).
Esso non è solo un comandamento, ma è una risposta al dono dell’amore, che ci viene incontro.
Così l’esperienza dell’amore ci si presenta come un’avventura, un rischio da correre, un qualche cosa di dinamico, che spinge la vita in avanti,
verso una pienezza nuova e sconosciuta: non si tratta solo di compiacersi
di una sensazione che ci è accaduto di provare verso qualcuno, ma di imparare ad amare, cioè di diventare soggetti capaci di amare davvero. Non
è un’avventura facile, quella dell’amore. L’amore ci destabilizza, perché ci
porta fuori dal nostro egocentrismo e ci mette a confronto con la realtà
di un’altra persona, che con la sua presenza irrompe nella nostra vita,
imprevedibile e sconosciuta eppure così affascinante nel suo irriducibile
mistero. Ecco allora che l’amore ci appare come un cammino, talvolta
difficile e arduo, che implica accettare di entrare nella dimensione nuova
del dialogo con l’altro per costruire insieme una comunione di vita.
Che cosa sarebbe la vita senza amore? Giovanni Paolo II nella sua
enciclica inaugurale, Redemptor hominis ci disse: «L’uomo non può vivere
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senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua
vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra
con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa
vivamente» (n. 10). La sua vita è un fallimento se non incontra l’amore e
non impara ad amare. Il passaggio dall’amore all’essere capaci di amare è
arduo, perché amare significa donarsi: non donare delle cose, ma donare
se stessi all’altro, agli altri. E questo non è immediato né scontato. Risuona qui l’eco delle grandi parole dei Padri conciliari: «L’uomo, che sulla terra è l’unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovare
se stesso se non mediante un dono sincero di sé» (Gaudium et spes, n.
24). È il paradosso evangelico: «Che vale all’uomo guadagnare il mondo
intero, se poi perde o rovina se stesso?… Chi vorrà salvare la propria vita
la perderà, ma chi perderà la propria vita per me la salverà» (Lc 9, 24-25).
Oggi il percorso che permette di incontrare l’amore e di imparare ad
amare è particolarmente arduo, soprattutto per i giovani. Vi sono ostacoli
nuovi e inediti, che occorre riconoscere con lucidità. L’impresa di insegnare/imparare ad amare esige di essere collocata all’interno di una sfida
epocale, dalle dimensioni veramente imponenti. Si tratta di ricostruire una
cultura, cioè un ambiente umano di formazione della persona, che sia in
grado di contrastare un’anti-cultura che impedisce di amare. Così il mio
discorso avrà due momenti: in un primo passo cercherò di mettere in luce
i tratti di quella anti-cultura che rende impossibile l’amore; in un secondo
tempo proverò di delineare le vie per ricostruire una cultura dell’amore,
così decisiva non solo per ogni singola persona, ma anche per la società
nel suo insieme.
Analfabetismo affettivo e l’anti-cultura dell’autonomia:
“liquidare” la famiglia
Forse qualcuno di voi ricorda la figura di un maggiordomo inglese,
Stevens, che compariva in un film di qualche anno fa del regista James
Ivory, dal titolo “Quel che resta del giorno” (Usa, 1993). Si trattava di un
personaggio formale, impeccabile e ingenuo, assolutamente incapace di
esprimere i suoi sentimenti, di cui aveva paura. La storia, drammatica e
caricaturale, vede il maggiordomo preferire la gelida formalità delle relazioni vuote e consuete, cui si è abituato nel suo ruolo, alla possibilità di stabilire un rapporto vivace, ma destabilizzante con la governante, che gli con44
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fessa dopo vent’anni il suo amore. Stevens appare impacciato e incapace
di accettare e di esprimere quel sentimento profondo che pure prova nel
suo cuore. Il suo personaggio provoca in noi ilarità perché richiama lo
stereotipo algido dell’inglese d’altri tempi e sembra non riguardarci molto.
Al formalismo di quella società puritana, che reprime le emozioni, sembra
contrapporsi radicalmente il mondo in cui viviamo, nel quale l’assenza apparente di regole ha provocato la piena libertà di manifestare e realizzare
le nostre emozioni, secondo le modalità confacenti alle sensazioni e alle
opinioni di ciascuno.
Analfabetismo affettivo
Eppure anche questa esibizione incontrollata del sentire immediato,
questo dare libero sfogo all’emotività può celare un dramma speculare e
simile al precedente, diffuso soprattutto tra i ragazzi ed i giovani. Si è cominciato a parlare di “analfabetismo affettivo” diffuso nelle nuove generazioni. Sempre per restare in Inghilterra, un’inchiesta recente svolta in ben
90 scuole nell’area di Southampton, tra una popolazione di studenti che
appartengono al ceto medio-basso, in cui il 40% dei casi vive in famiglie
composte da un solo genitore, ha mostrato che questi ragazzini conoscono al massimo una decina di parole relative alle emozioni e all’affettività: sono parole scarsamente differenziate, generalmente volgari, che non
consentono sottigliezze quando si tratta di definire il proprio stato d’animo
o di comprendere quello altrui1. Il fenomeno è allarmante: l’incapacità di
rientrare in contatto con il mondo delle proprie emozioni implica infatti una
conseguente incapacità di comunicare e stabilire relazioni adeguate con
gli altri. Diversi drammatici fatti di cronaca mostrano come nel tessuto sociale in cui viviamo lo spazio dell’affettività e della comunicazione emotiva
vada restringendosi tra molti giovani, provocando improvvise esplosioni
distruttive, soprattutto negli ambiti dove vengono consumate emozioni
di massa.
Potremmo dire che questo analfabetismo emotivo, rilevato dai sociologi e dagli psicologi, significa quindi una incapacità di leggere e di scrivere. Incapacità di leggere le proprie emozioni e i propri sentimenti, che
fa sì che essi siano rimossi oppure che esplodano incontrollatamente;
incapacità di interpretare il proprio mondo interiore e di dargli un senso
1 A. Oliveiro, “Le nostre emozioni alla ricerca di un alfabeto”, in Avvenire, 1 marzo 2001. Dello
stesso: “Ragione e passione nelle emozioni”, in Psicologia 130 (luglio agosto) 1995, 52.
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all’interno di un quadro complessivo di significato. Incapacità di scrivere nella trama della propria esistenza e della storia ciò che si sente nel
proprio intimo, che rimane dunque inespresso o male espresso, incomprensibile e irrealizzabile. La solitudine del contesto, la mancanza di punti
autorevoli di riferimento, di maestri, di storie narrate, di comunità vissute
impedisce l’interpretazione delle emozioni e degli affetti, il riconoscimento
di un senso che li qualifichi e li orienti. Senza vocabolario, senza grammatica, senza maestri non si impara a leggere e a scrivere. È così emerso
il problema decisivo per la formazione della persona: la necessità di un
quadro di riferimento interpretativo del fenomeno emotivo e affettivo, che
possa costituire un contesto di senso capace di integrare l’esperienza, di
renderla comprensibile e costruttiva.
“Liquidare” la famiglia
A questo punto dobbiamo però confrontarci con una difficoltà specifica, che viene dal contesto culturale nel quale ci troviamo a vivere: esso
non ci presenta semplicemente una crisi della famiglia e del suo ruolo
educativo tradizionale, ma ci mostra come sia operante un attacco alla
famiglia, una strategia ben organizzata per ”liquidarla”. La parola va presa nel suo significato letterale, prima che in quello metaforico, secondo
l’analisi del noto sociologo polacco, che insegna a Leeds (Inghilterra),
Zygmunt Bauman, uno dei massimi interpreti del nostro tempo. Egli definisce la nostra epoca come “modernità liquida”, caratterizzata dalla deregolamentazione e privatizzazione dei compiti e dei doveri propri della modernizzazione. Si può chiamarlo individualismo: dall’accento sulla società
giusta siamo passati a quello sui diritti umani, ridotti però «al diritto degli
individui di restare diversi e di scegliere e adottare a personale piacimento
i propri modelli di felicità e uno stile di vita loro consono»2. La modernità
liquida non può tollerare i corpi solidi. I suoi valori sono la velocità, il cambiamento, il flusso, il temporaneo e la precarietà; come tale la modernità
non può tollerare la famiglia, la classe, il vicinato, la comunità parrocchiale:
deve “liquefarli” o “liquidarli”.
Così Bauman parla di amore liquido: anche l’amore diventa un fatto
commerciale, mercantile, da ipermercato. Nella modernità liquida diventa “normale” adeguare i rapporti di coppia ai rapporti commerciali, con
l’amore e il partner alla stregua di un bene, cui ho diritto o prendo e get2 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002.
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to via quando mi sono stancato e all’orizzonte si profila un “prodotto”,
che promette di gratificarmi di più. La modernità liquida è dominata dalle
voglie che contrastano con i desideri coltivati, principio di stabilità; scrive Bauman: «Mentre il principio del togliersi-le-voglie è inculcato a fondo
nella condotta quotidiana dai poteri forti del mercato dei beni di consumo, il coltivare un desiderio sembra inquietantemente, inopportunamente, fastidiosamente propendere dalla parte dell’impegno amoroso»3. Se le
cose stanno così, ecco spiegata l’offensiva contro la famiglia fondata sul
matrimonio, che non si adegua alle regole, anzi alla deregulation: occorre
liquidarla.
Così entrano in questo attacco discreto e sottile, costante e martellante, i programmi televisivi e più in generale le rappresentazioni dell’amore
nei mass media. Nel flusso delle fiction o dei talk show viene sistematicamente denigrata la figura della famiglia naturale tradizionale, messa alla
berlina e ridicolizzata come repressiva e nemica della possibilità di dare
sfogo alle voglie. Viene invece presentato in maniera neutra, “sdoganato”,
cioè consegnato alla normalità, ogni comportamento o tendenza, fosse
anche il più assurdo e balordo4. Subdolamente o apertamente si suggerisce e si favorisce quello che papa Benedetto XVI ha chiamato “l’amore
debole”, senza impegno di fedeltà nel tempo e senza progetti impegnativi
per il futuro.
Qualcuno potrebbe però chiedersi se questo amore debole non corrisponda più realisticamente alla possibilità degli uomini e delle donne concreti, rispetto ad un impegno di fedeltà sancito anche istituzionalmente,
se proprio questa liquidità dell’amore non renda più felici. È vero proprio
il contrario, e le osservazioni a sostegno di ciò provengono da pensatori tutt’altro che tradizionalisti o clericali. Il pubblicitario francese Frédéric
Beigbeder, nichilista e anarchico, ha scritto che l’insoddisfazione è la vera
anima del commercio: chi ci impone gli stili di vita attraverso la comunicazione non desidera la nostra felicità, per la semplice ragione che la gente
felice non consuma5. Nel film di Alessandro D’Alatri, Casomai, l’attrice
Stefania Rocca dice: «Ogni tanto penso che l’infelicità è quella che produce reddito e sviluppo. Due che si separano danno lavoro ad avvocati e
giudici, raddoppiano case e macchine, moltiplicano i consumi. Io quando
3 Z. Bauman, L’amore liquido, Laterza, Bari 2004.
4 Cf. U. Folena, I Pacs della discordia. Spunti per un dibattito, Ancora, Milano 2006, 37-54.
5 Cf. F. Beigbeder, Lire 26.900, Feltrinelli, Milano 2000, 17.
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mi sento infelice vado a comprarmi un vestito rosso. La persona felice
consuma di meno». Ancora una volta in Inghilterra si è identificata una
nuova categoria sociale emergente: i Dink, acronimo che sta per double
income no kids: coppia con doppio stipendio e senza figli. «I Dink non
hanno passato né pretendono di avere futuro. Galleggiano in un eterno,
provvisorio, liquidissimo presente. Non fanno progetti, se non a brevissimo termine: come potrebbero farne se non pensano al futuro, ignorando
se il futuro li vedrà ancora insieme? Per questo motivo i Dink sono molto
più docili alle lusinghe della pubblicità. Allo stimolo (“spendi così!”) fanno
immediatamente seguire la reazione»6. Mentre i Dink sono consumatori
perfetti, la coppia stabile, sposata e con figli rappresenta un consumatore imperfetto: prima di cambiare automobile, televisore o telefonino deve
pensarci non una, ma dieci volte…
L’anti-cultura dell’autonomia assoluta
A questi fenomeni di carattere economico, sociale e di costume è sottesa anche una ben organizzata strategia culturale, una vera e propria
rivoluzione, che a partire dal linguaggio tende ad insediarsi nella mentalità
e nelle istituzioni giuridiche dell’Occidente e poi via via a livello globale, in
tutto il mondo come una sorta di neo-colonialismo7. Il principio del diritto
di scelta da parte dell’individuo viene affermato come un assoluto nell’ambito della sessualità, della riproduzione, della vita, ed esso funziona come
un fattore di decostruzione delle forme naturali e tradizionali dei rapporti
nella famiglia, nella comunità locale e nella società.
In nome di questo concetto individualistico di libertà e di autonomia si
afferma che qualsiasi concezione della propria sessualità ha eguale diritto di essere praticata e si esige l’equiparazione giuridica di ogni pratica,
dalle unioni di fatto all’omosessualità, al transessualismo; si rivendicano
come diritti appartenenti alla “salute riproduttiva” quelli alla contraccezione, all’aborto libero, alla fecondazione artificiale. Il principio di autonomia
si associa a quello di uguaglianza, nel configurare un’assoluta neutralità
da parte dello Stato di fronte a giudizi circa le diverse forme di realizzazione della sessualità umana. Esse apparterrebbero alla sfera privata;
alla legge civile spetterebbe solo di garantire l’eguaglianza dei diritti. Ma
6 U. Folena, I Pacs, cit., 53.
7 In merito si veda: M.A. Peeters, The specificity of Christian kerygma in the face of the new global
ethic, Kampala, 9 June 2005; E. Roccella - L. Scaraffia, Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione
Europea come nuova ideologia, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2005.
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tale neutralità dello Stato implica la considerazione della famiglia come
una sovrastruttura puramente convenzionale, una forma transeunte tra le
tante, da cui ci si può e anzi ci si deve emancipare. In realtà si ha qui un
esempio perfetto di quel totalitarismo del relativismo, denunciato dal Cardinale Ratzinger, che minaccia la libertà autentica delle persone e mette a
rischio la sopravvivenza stessa delle civiltà europea8.
Agenzie internazionali come le organizzazioni delle Nazioni Unite o
dell’Unione Europea si fanno promotrici di questa concezione, attraverso
strategie di carattere culturale ed economico, legando gli aiuti ai paesi poveri con l’adozione di misure legislative in tale senso. Il 18 gennaio 2006
il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che invita ad equiparare le coppie omosessuali a quelle tra uomo e donna ed ha condannato
come omofobici gli Stati e le Nazioni che si opponessero al riconoscimento delle coppie gay. Nelle conferenze internazionali del Cairo (1994) e di
Pechino (1995) parole come marito, sposo, complementarietà, madre,
padre, amore, verginità, famiglia, identità, sofferenza, servizio sono state
eliminate dal vocabolario della nuova cultura. Si pensi al fatto paradossale che il documento finale della Conferenza di Pechino, dedicato alla
donna, di ben duecento pagine, riesce ad evitare l’uso della parola “madre”. Il mutamento del linguaggio subdolamente o apertamente imposto
è lo strumento di una manipolazione culturale di vasta portata. Si impone
l’ideologia del “genere”, secondo cui l’identità sessuale maschile o femminile, stabilita sulla base anatomica, sarebbe solo una convenzione, una
costruzione culturale della società, che limita la libertà dell’individuo di
definirsi secondo le sue inclinazioni ed anche di rimanere aperto a plurime
e successive qualificazioni9.
Negando ciò che è, il dato della creazione, la scelta totalmente autonoma dell’individuo tende a diventare una negazione radicale del Donatore, di Dio creatore. Si ha qui un tentativo di mutamento radicale
della concezione della persona umana: la decostruzione dell’immagine
trinitaria e teologica della persona umana come padre-madre, figlio-figlia,
marito-moglie, fratello-sorella. Si propone un solidarietà universale senza
riconoscimento della sorgente trascendente della fraternità, il Padre, e
8 Cf. J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, Conferenza per la consegna del Premio San
Benedetto, Subiaco 1 aprile 2005.
9 Cf. J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London
1990. Per una valutazione critica: J. Burggraf, “Genere” (“Gender”), in Pontificio Consiglio per la
Famiglia, Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Ed. Dehoniane,
Bologna 2003, 421-429.
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senza rispetto dell’unicità della persona. In realtà non è solo un regresso
alla civiltà pre-cristiana, ma un rifiuto della stessa sensibilità naturale, presente nelle diverse culture e civiltà religiose dell’umanità.
Per una cultura dell’amore
Il Professor Joseph Raz, che insegna etica all’università di Oxford, ha
scritto: «la monogamia, ammesso che rappresenti l’unica valida forma
di matrimonio, non è alla portata dell’individuo. Per poterla vivere, essa
richiede una cultura che la riconosce e che la sostenga attraverso l’atteggiamento del settore pubblico e delle istituzioni»10.
Certamente questa affermazione non vuole negare la possibilità che
uomini e donne riescano a vivere il matrimonio monogamico, fedele e indissolubile anche in un contesto ostile come quello che abbiamo appena
delineato, ma mette l’accento sul fatto che il matrimonio è di per sé un
istituto fragile se non viene sostenuto da una cultura ambiente e da istituzioni adeguate. Vi è dunque la necessità di creare una cultura favorevole
all’amore e alla famiglia. Proprio in questo senso, nel suo ultimo discorso
al nostro Istituto, Giovanni Paolo II ci invitava a promuovere sul piano accademico che ci è proprio, una “cultura della famiglia”11.
La cultura, aveva suggerito sempre papa Wojtyla nella celebre allocuzione all’Unesco del 1980, «è ciò per cui l’uomo diventa più uomo, “è” di
più, accede di più all’essere»12. La verità di una cultura deve quindi potersi
verificare in un incremento di luce, di gusto, di vita e di amore, che essa rende possibile proprio nell’esperienza umana dell’affettività. Ritroviamo qui la
grande sfida che papa Benedetto XVI non si stanca di rilanciare, fin dall’inizio del suo pontificato, e che ha trovato voce soprattutto nella sua Enciclica
Deus caritas est: il cristianesimo lungi dall’avvelenare l’eros, rendendo amara la cosa più bella della vita, ne costituisce la guarigione in vista della sua
vera grandezza (n. 5). Ci resta dunque da compiere la seconda parte del
nostro cammino di riflessione, mostrando dove si può attingere per costruire questa autentica cultura, quali ne siano i tratti fondamentali. Sarà anche
così possibile mostrare come al bene comune di una società sia necessaria
una concezione autentica dell’amore e della famiglia, che corrisponda a
quella sua configurazione naturale, che anche la ragione può cogliere.
10 Dal sito www.zenit.org.
11 Giovanni Paolo II, Discorso del 31 maggio 2001.
12 Giovanni Paolo II, Allocuzione all’Unesco del 2 giugno 1980.
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Ritornare alle evidenze del cuore per ritrovare la ragione
La questione di fondo che decide della possibilità e della legittimità di
una cultura come quella che stiamo auspicando è in fondo la seguente:
esiste davvero un modo di vivere l’amore e una forma della famiglia, che
nel suo nucleo essenziale si radica nella natura della persona umana e
che quindi dev’essere favorita nella società e nelle sue leggi, oppure il matrimonio e la famiglia sono configurazioni puramente culturali, che variano
e possono, anzi debbono essere cambiati nelle varie epoche della storia?
Esiste, certo, una risposta chiara che ci viene dalla fede e che rimanda
alla Rivelazione, custodita nella Sacra Scrittura. Con l’autorità di Pietro,
papa Benedetto XVI ha recentemente ribadito la convinzione della Chiesa
che «il matrimonio e la famiglia sono radicati nel nucleo più intimo della verità sull’uomo e sul suo destino»13. Gesù, pienezza della Rivelazione, nella
sua celebre risposta ai farisei sulla questione del divorzio ha rimandato ad
una verità originaria, che si radica in quel “principio” che è la creazione, e
che non è lecito all’uomo manipolare: «Non avete letto che il Creatore da
principio li creò maschio e femmina e disse: per questo l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne
sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che
Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Mt 19, 5-6). La Chiesa, nel corso
dei secoli, ha sempre attinto da questo insegnamento di Gesù la luce per
interpretare il fenomeno sessuale e affettivo, per riconoscere nel matrimonio un segno speciale dell’Alleanza, per configurare di conseguenza
una cultura basata sul matrimonio e la famiglia. Ora la risposta della fede,
limpida e certa per i credenti, corroborata dalla testimonianza della comunità cristiana e dei santi lungo i secoli, è oggi messa radicalmente in
questione. Per dialogare sul piano pubblico si tratta per noi di mostrare la
rilevanza e la pertinenza umana della visione naturale e tradizionale della
famiglia, cercando una luce che sia accolta anche da chi non crede, una
luce che possa guidare anche la sola ragione umana, la quale sembra
essersi smarrita e non riesce più a ritrovare i principi adeguati a guidare il
cammino morale e a costruire una società giusta14.
Da dove partire se non dall’esperienza, nella sua forma più spontanea
e originaria, per ritrovare la testimonianza del “cuore”, come criterio in13 Benedetto XVI, Discorso in occasione del XXV anniversario dalla fondazione del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, 11 maggio 2006.
14 Riprendo qui la linea argomentativa usata dal Cardinale Carlo Caffarra in un suo recente intervento dal titolo “Che cos’è la famiglia” (San Pietro in Casale, 30 maggio 2006).
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fallibile di discernimento fra la realizzazione vera e buona della vita e una
falsa configurazione di essa? Il criterio della verità e della bontà dev’essere
infatti in noi stessi, altrimenti saremmo alienati. Che cos’è dunque il cuore? È l’insieme di quelle esigenze ed evidenze originarie e fondamentali
con cui la natura ci lancia verso la realtà e a partire dalle quali ogni essere
umano, volente o nolente, sapendolo o senza saperlo, spontaneamente
giudica tutto ciò che gli accade15. Si tratta delle evidenze ed esigenze di
giustizia, di verità, di bontà, di bellezza. La tradizione di pensiero tomista
ha fatto riferimento ad “inclinazioni naturali”: orientamenti nativi verso determinati beni che riconosciamo corrispondenti a noi: l’istinto a conservare
e promuovere la nostra vita, a vivere in società con altri uomini, a cercare
la verità, a sentire compassione e aiutare chi soffre. Tra queste inclinazioni
spontanee c’è certamente, anzi singolarmente imponente, quella sessuale. Benedetto XVI ha chiaramente riconosciuto che tra la molteplicità delle
relazioni che si possono stabilire «l’amore tra uomo e donna, nel quale
corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude
una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo
di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di
amore sbiadiscono»16.
Qual è dunque il significato pienamente umano di questa inclinazione
spontanea? Per contribuire a configurare una vita buona, dev’essere inserita in un quadro complessivo di senso che la interpreti e che va fissandosi
a poco a poco nell’esistenza di ciascuno, in funzione delle esperienze
che si vivono col maturare della persona17. La ragione umana coglie che
il senso pieno dell’attrazione sessuale è rispettato solo quando si tratta
l’altro come una persona e non solo come occasione di piacere. Il “cuore”
è all’origine di quell’indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad
esempio si è trattati solo come oggetto di interesse e di piacere18. Il cuore
suggerisce che l’atteggiamento adeguato verso l’altro è l’amore e che
all’interno di questo dev’essere collocata, interpretata e vissuta l’attrazione sessuale. Così si può cominciare a distinguere tra realizzazioni buone e
convenienti di essa e atteggiamenti inadeguati e sbagliati. San Tommaso
parlava di semi delle virtù, inseriti nelle nostre stesse inclinazioni, che la
15 Cf. L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, 15-21.
16 Deus caritas est, n. 2.
17 Cf. J. Noriega, Il destino dell’eros. Prospettive di morale sessuale, Dehoniane, Bologna 2006,
19-39.
18 Cf. L. Giussani, Il senso religioso, volume primo del PerCorso, Rizzoli, Milano 1997, 14.
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ragione sa vedere e può coltivare, le quali, sviluppate nel tempo mediante
l’esercizio degli atti, danno origine alle virtù morali. Una cultura dell’amore consisterà nel coltivare negli uomini e nelle donne quelle disposizioni
virtuose, che sviluppano un senso pienamente umano della sessualità e
dell’affettività.
Quindi per sapere che cosa sia la sessualità e cosa sia la famiglia,
possiamo rivolgerci alla nostra ragione e alla sua capacità di interpretare le esperienze relative nella luce del “cuore”. Riguardo all’inclinazione
sessuale la ragione che interpreta le nostre esperienze ci rivela che la
differenza sessuale, iscritta nel corpo maschile e femminile, è proprio quel
fattore insuperabile che permette la modalità dell’incontro e del dono di
sé19. Essa ci orienta al dono di noi stessi, il quale ha una sua logica intima
che esige totalità e definitività, e che va rispettato nella sua fecondità.
Scrisse Dietrich von Hildebrand: «Il significato della sessualità consiste
nell’essere la sfera specifica in cui l’amore coniugale trova espressione
e compimento. Solo l’amore è quindi in grado di unire organicamente la
sessualità con il cuore e la mente. E solo l’amore coniugale ha la chiave,
per così dire, che permette di aprire il significato della sessualità, realizzandola come un’esperienza e rivelando alla persona il suo aspetto veramente positivo»20. La forma ragionevole di attuazione della sessualità, cioè
pienamente conforme alla realtà dell’inclinazione sessuale in tutti i suoi
fattori e dimensioni, è dunque il matrimonio, inteso come unione legittima
fra un uomo e una donna.
Ed inoltre la capacità di generare nuove persone umane, che è naturalmente insita nella sessualità tra l’uomo e la donna non è estrinseca a
questo contesto di significato. Anzi: lo conferma e lo rafforza. Per un verso la sessualità umana si manifesta in tutta la sua verità solo quando resta
aperta a questo oltre rispetto alla relazione coniugale originaria tra i due;
come diceva Maurice Blondel, illustrando la strana matematica dell’amore: «è solo quando due diventano uno, che possono diventare tre». La
sessualità è fedele alle esigenze dell’amore autentico solo quando non
esclude deliberatamente l’apertura alla trasmissione della vita. Quando si
ripiega solo su di sé nella ricerca del piacere, diventa sterile anche come
esperienza umana.
19 Cf. A. Scola, Uomo-donna. Il “caso serio” dell’amore, Marietti 1820, Genova-Milano 2002,
15-28.
20 D. von Hildebrand, Purity. The Mystery of Christian Sexuality, Franciscan University Press,
Steubenville 1989, 69.
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La famiglia è ancora un affare?
D’altra parte il figlio, frutto del dono, dono da dono, non è una cosa,
ma una persona. Esso è convenientemente voluto, chiamato alla vita e
accolto, quando non è trattato come un “prodotto”, che deve corrispondere a certe esigenze e caratteristiche stabilite da chi lo desidera e lo progetta, ma quando è riconosciuto come una persona, unica e irripetibile,
che ha valore per se stessa e merita rispetto perché è qualcuno e non
qualcosa. Si capisce allora perché solo l’atto coniugale tra sposi sia il luogo adeguato per dare origine alla vita di una persona umana, come solo
la famiglia legittimamente stabilita di un uomo e una donna sia l’ambiente
in cui può essere convenientemente educata.
Famiglia e bene comune
Con ciò abbiamo tratteggiato le verità naturalmente iscritte nel cuore
degli uomini e delle donne, e accessibili alla ragione. Tutto questo non è
appena espressione di una visione morale cattolica, valida solo per chi
crede, ma che sarebbe del tutto opinabile per chi non crede, o crede
diversamente. Dobbiamo però riconoscere che accedervi esige un contesto educativo, fatto di una comunità e di testimoni qualificati e credibili, richiede una limpidezza di sguardo, che non sono oggi così comuni.
La stessa idea che esista una forma “naturale” di vivere la sessualità è
ampiamente messa in discussione. L’uomo contemporaneo non riesce
a leggere la propria natura originaria. Dobbiamo allora riprendere pazientemente la nostra questione a partire da una problematica di carattere
sociale, ricorrendo ad una argomentazione, che attinga alle esigenze più
elementari del bene comune.
Perché la legge civile di una società “laica” e pluralistica, come sono
le nostre società occidentali, dovrebbe favorire il matrimonio tra uomo e
donna come forma privilegiata di realizzazione della sessualità umana e
come base per la costruzione della famiglia? La linea della riflessione che
seguiremo non è più basata sulla razionalità intrinseca all’esperienza, ma
sulla natura della società e sul bene comune che la giustifica.
Si tratta innanzitutto di comprendere il significato dell’idea di “bene
comune”, quale fondamento della società21. Essa indica che la relazione
sociale tra gli esseri umani ha una sua bontà propria, che va quindi custodita e promossa come essenziale alla vita personale. Contro l’indivi21 Cf. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della
Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, nn. 164-170.
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La finanza responsabile, la società e la famiglia
dualismo, che pensa all’uomo come ad una monade isolata e che ritiene
estrinseca e non originaria la relazione con le altre persone, va riconosciuto che solo nel rapporto vissuto con l’altro e con gli altri si crea l’ambito
dove ciascuno può crescere nella propria umanità: l’altra persona non è
solo un limite ai miei diritti, ma l’interlocutore che mi permette di prendere
coscienza di me pienamente e di sviluppare la mia personalità. Il bene comune consiste dunque nell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale,
che permettono sia alle collettività, sia ai singoli membri, di raggiungere la
propria perfezione più pienamente e più celermente»22. Una società che si
costruisse solo sull’idea individualistica dei diritti di ciascuno, senza il respiro del bene comune, negherebbe alla fine anche il bene della persona.
Ora la famiglia, fondata sul matrimonio stabile di un uomo e di una
donna, costituisce un elemento essenziale e decisivo del bene comune
della società. Molte costituzioni dei nostri Stati hanno riconosciuto esplicitamente la famiglia come prima cellula naturale della società, fondamento
della vita civile.
Questa antichissima e sempre valida convinzione ha trovato conferma
in una riflessione attuale a livello sociologico, che ha messo a fuoco il
concetto di “capitale sociale”23. Esso indica il patrimonio e la risorsa culturale che sostiene le relazioni fiduciarie, di cooperazione e reciprocità fra
le persone.
Come si può facilmente capire, una società, per non diventare disumana e autodistruggersi fatalmente, ha bisogno di attingere i valori della
fiducia reciproca, della lealtà, della solidarietà, proprio nell’ambito delle
relazioni primarie proprie della famiglia. Essa costituisce il capitale sociale
primario, che fonda poi quello secondario, costituito dalle reti e relazioni
associative nella sfera civica. Il capitale sociale è dunque un bene relazionale prodotto e fruito insieme, senza del quale la società muore.
Il ragionamento è qui estremamente semplice: la società, per la sua
stessa esistenza, ha interesse vitale a favorire quell’agenzia primaria di
formazione del capitale sociale che è la famiglia monogamica stabile, fondata sull’unione feconda tra un uomo e una donna. Proprio nella differenza
sessuale riconosciuta si ha la forma archetipica dell’accoglienza dell’altro
nella sua identità e alterità, che fonda la reciprocità. Solo nella stabilità del
22 Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 26.
23 Si veda in particolare: P. Donati, La famiglia come capitale sociale primario, in P. Donati (a cura
di), Famiglia e capitale sociale nella società italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, 31101, con abbondante bibliografia.
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La famiglia è ancora un affare?
legame è possibile che si realizzi la funzione positiva per le persone implicate e la capacità educativa. Solo nella generazione e nell’educazione dei
figli la società si assicura il futuro. Solo nel sostegno dei più deboli e degli
anziani, garantito dalla famiglia, è in grado di rispondere adeguatamente
a bisogni sociali emergenti e sempre più imponenti.
È anche chiaro che non ogni forma di convivenza corrisponde alla
produzione di questo capitale sociale primario. Laddove coloro che sono
coinvolti in una relazione di convivenza evitassero di assumersi, secondo
una configurazione di diritto pubblico, i doveri dell’assistenza reciproca,
della fedeltà, della coabitazione stabile, la società non avrebbe nessun
interesse a favorire questo tipo di relazione. Anzi: l’equiparazione con il
matrimonio di forme di convivenza nelle quali si pretendono tutti i diritti
che scaturiscono dal vincolo coniugale, escludendo i correlativi doveri,
porterebbe inevitabilmente all’indebolimento di quell’istituto familiare, che
sostiene la società24. La legge civile ha infatti un valore educativo: come
affermava il criminologo inglese Nigel Walker, le leggi di una generazione
facilmente diventano il costume della generazione successiva25. La privatizzazione dell’amore e la considerazione esclusiva dei diritti individualistici
portano al rapido dissolvimento del capitale necessario, indispensabile
alla vita di una società.
Vi è anche di più da osservare, se si considera il punto di vista del
più debole, che la legge ha il dovere specifico di tutelare e che in questo
caso sono i bambini. L’equiparazione del diritto di adozione dei figli a
convivenze instabili o a convivenze omosessuali, nelle quali le figure di
complementarietà materna e paterna vengono meno, si configura come
una negazione del diritto dei minori di nascere e crescere in un ambiente
familiare adeguato, come quello naturale, senza sapere quali saranno le
conseguenze sulla loro psiche e sulla loro crescita.
Dal momento che così si viola anche il principio di uguaglianza tra le
persone umane, in concreto esponendo alcuni a vivere in contesti inadatti
al loro sviluppo psichico e alla loro formazione, le leggi che equiparano il
24 Cf. V. Marano, Le unioni di fatto. Esperienza giuridica secolare e insegnamento della Chiesa,
Giuffré, Milano 2005; M. Bovini Baraldi, Le nuove convivenze. Tra discipline straniere e diritto interno, Ipsoa, Milano 2005.
25 La più moderna dottrina penalistica ha espressamente e tematicamente riconosciuto il valore
della legge come modello per la formazione degli orientamenti morali nella vita dei cittadini: cf.
Johannes Andenaes, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, in M. Romano - F. Stella (a cura di), Teoria e prassi della prevenzione generale
dei reati, Il Mulino, Bologna 1980, 33 ss., dove ricorre la citazione di Nigel Walker.
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La finanza responsabile, la società e la famiglia
matrimonio con tali forme di convivenze devono essere qualificate come
ingiuste.
Conclusione
«L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia!»: siamo ora in
grado di misurare il carattere veramente profetico di questa affermazione,
usata venticinque anni fa da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Familiaris consortio26. Non è un’esagerazione dire che se si distrugge
la famiglia, verrà meno l’ambito di cultura dove l’uomo può ritrovarsi e
crescere nella sua umanità autentica, nella sua capacità di imparare ad
amare fino al dono di sé. Una società che distrugge la famiglia è una
società votata al suicidio. Ormai la possibilità di questa distruzione è di
fronte a noi. Per questo la sfida ci appare oggi drammatica e urgente. La
risposta deve svilupparsi a molteplici livelli: antropologico, etico, giuridico,
educativo. Soprattutto deve avere il carattere consapevolmente organico
di mirare alla costruzione di un’autentica “cultura della famiglia”.
Benedetto XVI, poche settimane fa ci disse: «La comunione di vita e
di amore che è il matrimonio si configura così come un autentico bene
per la società. Evitare la confusione con altri tipi di unioni basate su un
amore debole si presenta oggi con una speciale urgenza. Solo la roccia
dell’amore totale e irrevocabile tra uomo e donna è capace di fondare la
costruzione di una società che diventi una casa per tutti gli uomini»27. Il
compito che sta davanti a noi è lo stesso indicato da Giovanni Paolo II:
“insegnare ad amare”, affinché la persona e la società abbiano le loro basi
sulla roccia forte dell’amore autentico e le famiglie siano dimore capaci di
coltivare l’uomo, secondo la sua vocazione originaria.
26 Giovanni Paolo II, Es. Ap. Familiaris consortio, n. 86.
27 Benedetto XVI, Discorso in occasione del XXV anniversario, cit.
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