Il Gusto del Tempo Volume 1

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Il Gusto del Tempo Volume 1
IO E IL TEMPO
Tomo I
A cura di Monica Delmonte
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INDICE
IL TEMPO
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IL TEMPO, da Enciclopedia Universale, Garzanti
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TEMPO, da Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano
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IL TEMPO, da it.wikipedia.org
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L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI TEMPO, a cura di Giovanna Dell’Acqua
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AFORISMI SUL TEMPO
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PROVERBI E MODI DI DIRE SUL TEMPO
L’IO
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L’IO, da Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano
L’IO E IL TEMPO
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SUL TEMPO, da Il Profeta di Gibran Kahil Gibran
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TEMPO DI MORIRE, Storia Zen
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IL TEMPO PER IMPARARE, Storia Zen
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UNA PARABOLA, Storia Zen
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IL TEMPO NECESSARIO, da Pane e Vino di Ignazio Silone
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L’ESEMPIO DELLA LAMPADA, da Il circolo dei cantastorie di Jean-Claude Carrière
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UNA VECCHIA FAVOLA ETIOPE
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IL SAPORE DELLA SPADA DI BANZO, Storia Zen
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Da Il Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry:
cap. XIV (Il quinto pianeta)
cap. XXI (la volpe)
cap. XXIII (il mercante)
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Da Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll:
cap. V – I CONSIGLI DEL BRUCO
cap. VII – UN TÈ DI MATTI
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Da Momo di Michael Ende
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I SETTE MESSAGGERI da La boutique del mistero di Dino Buzzati
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IL PAESE DOVE NON SI MUORE MAI di Italo Calvino
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LA DILIGENZA A DODICI POSTI di Hans Christian Andersen
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IL BUCANEVE di Hans Christian Andersen
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LA RAGAZZA CHE REGALAVA IL TEMPO da Storie del Tic Tac di Marcello Argilli
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PELLE DI VECCHIA, da Fiabe Italiane di Italo Calvino
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LA CANZONE DEL DOMANI, da Favole di Robert Louis Stevenson
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IL CONTADINO CENTENARIO, da Storie del cuore del mondo di Johanna Marin
Coles e Lydia Marin Ross
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LA STORIA DI PRIMAVERA, da Cosa succede nel bosco di notte? Di Martina
Gürth
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LA STORIA D’INVERNO, da Cosa succede nel bosco di notte? Di Martina Gürth
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PARADOSSI DEL TEMPO
IL TEMPO
Da’ Enciclopedia universale’
Garzanti, Milano 2003
p.1517
TEMPO
Ordinamento degli eventi realizzato sulla base del confronto fra il perdurare e
l’avvicendarsi dei diversi fenomeni. La problematicità della nozione è correlata alla
presenza di un aspetto soggettivo (legato al vissuto di chi lo misura) e di uno oggettivo
(connesso alla ciclicità dei fenomeni esterni con cui lo si misura).
La chiara esplicitazione di questo nesso si ebbe per la prima volta in Aristotele; ma da
Agostino in avanti il pensiero critico tese a “interiorizzare” il tempo riducendolo a una
successione di stati psichici (memoria e anticipazione), rompendo altresì la ciclicità
pagana in favore di una visione lineare-progressiva.
Con l’avvento della rivoluzione scientifica galileiana il tempo inizia a essere concepito
come composto da una serie di istanti tra loro omogenei, disposti lungo una retta
percorribile in entrambi i sensi. Ciò rendeva possibile la trattazione matematica dei
fenomeni di moto, sottolineandone altresì l’imprescindibilità per la misura del tempo.
Con diversi accenti però, sia gli empiristi (Berkeley, Hume), sia Leibniz riproposero il
problema della frattura tra il tempo quantitativo della scienza e il tempo dell’esperienza,
frattura che Kant superò attribuendo ad esso, così come allo spazio, il carattere di forma a
priori dell’intuizione sensibile.
Furono tuttavia gli sviluppi stessi delle scienze empiriche a imporre una revisione della
concezione galileiana sancendo il progressivo aumento dell’entropia dell’universo
(ovvero l’irreversibilità dei processi termodinamici).
La seconda legge della termodinamica impone una precisa direzionalità al tempo: la
successione degli eventi non può essere invertita e percorsa a ritroso. Inoltre, in base alla
teoria della relatività (che prendeva le mosse proprio dall’analisi della nozione di
simultaneità), la serie temporale non è assoluta: strettamente legata al sistema di
riferimento in cui ci si trova, essa non determina un quadro coerente, universalmente
valido per tutti gli eventi.
Il tempo diventa così un elemento del continuum spazio-temporale a 4 dimensioni
(Minkowski).
Bergson, Husserl e Heidegger sono alcuni degli autori che, secondo diverse prospettive,
ritengono l’esperienza interiore del tempo assolutamente irriducibile alla sua espressione
quantitativa, e anzi uno degli elementi costitutivi della condizione umana.
TEMPO IN FISICA, grandezza fisica fondamentale; nel SI l’unità di tempo è il secondo.
TEMPO IN MUSICA, velocità nell’esecuzione di un brano musicale (adagio, allegro,
presto…); struttura ritmico-metrica delle battute (4/4, ¾; ovvero tempo binario, tempo
ternario); parte accentata (tempo forte) o no (tempo debole) della battuta. Come sinonimo
di movimento, indica le parti di una composizione strumentale.
TEMPO METEOROLOGICO, condizioni climatiche in un luogo, in un periodo stabilito, di
breve durata(12-24 ore).
TEMPO SIDERALE, tempo in cui l’unità “giorno” viene definita come l’intervallo fra due
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successivi passaggi di una data stella sul meridiano del luogo. Per rendere la definizione
indipendente dai moti propri delle stelle si considera la rotazione del punto equinoziale (o
punto γ): si ha allora il tempo siderale vero, cioè quello derivato dall’osservazione e affetto
da irregolarità legate alla precessione e la nutazione, e il tempo siderale medio, cioè quello
calcolato eliminando i moti periodici di nutazione. (NUTAZIONE, in astronomia = piccolo
spostamento dell’asse giroscopico di un corpo celeste per l’attrazione degli astri vicini; per
la Terra ha un periodo di 19 anni).
TEMPO SOLARE, tempo in cui l’unità “giorno”è definita come l’intervallo fra due
successivi passaggi del Sole sul meridiano di un luogo (tempo solare vero). Poiché il moto
apparente del Sole lungo l’eclittica non ha velocità costante , per gli usi pratici si definisce
un tempo medio solare riferito a un Sole teorico che percorre a velocità angolare uniforme
tutto l’equatore celeste nello stesso intervallo (un anno) impiegato dal Sole vero per
percorrere l’intera eclittica.
Da’ Dizionario di filosofia’ di Nicola Abbagnano
UTET, Torino, 2001
p.1075
TEMPO
Si possono distinguere tre concezioni fondamentali:
1° Il Tempo come ordine misurabile del movimento;
2° Il Tempo come movimento intuito;
3° Il Tempo come struttura delle possibilità.
Alla prima concezione si connettono, nell’antichità, il concetto ciclico del mondo e della vita
dell’uomo (metempsicosi) e, nell’epoca moderna, il concetto scientifico di tempo.
Alla seconda concezione si connette il concetto di coscienza, con il quale il Tempo viene
identificato.
La terza concezione, nata dalla filosofia esistenzialistica, presenta alcune innovazioni
concettuali nell’analisi del concetto di tempo.
…
Da it.wikipdia.org
Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi.
Tutti gli eventi possono essere descritti in un tempo che può essere passato, presente o
futuro. La complessità del concetto è da sempre oggetto di studi e riflessioni filosofiche e
scientifiche.
TEMPO E CAMBIAMENTO
Dalla nascita dell'universo, presumibilmente e secondo la conoscenza umana, inizia il
trascorrere del tempo. I cambiamenti materiali e spaziali regolati dalla chimica e dalla
fisica determinano, secondo l'osservazione, il corso del tempo. Tutto ciò che si muove e si
trasforma è così descritto, oltre che chimicamente e fisicamente, anche a livello temporale.
Alcuni esempi tra i più immediati della correlazione tra tempo e moto sono la rotazione
della Terra attorno al proprio asse, che determina la distinzione tra il dì e la notte, ed il suo
percorso su di un'orbita ellittica intorno al Sole (la cosiddetta rivoluzione), che determina le
variazioni stagionali.
Il dato certo dell'esperienza è che tutto ciò che interessi i nostri sensi è materia, ovvero
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trasformazione di materia, visto che tutti gli oggetti materiali si modificano. Alcuni
impiegano tempi brevi, altri in modo lento; ma tutti sono destinati a trasformarsi. La
materia è, e (contestualmente) diviene (ossia assume altra forma). L'ovvietà di questa
asserzione non tragga in inganno: essa sottende una contraddizione, perché l'essere di un
oggetto è certificato dalla sua identità (nel tempo), ovvero dal suo permanente esistere; il
divenire, invece, presuppone la trasformazione, ovvero la diversità (della forma), per cui
impone un "prima" e un "dopo", vale a dire un (intervallo di) "tempo". Il tempo "origina"
dalla trasformazione della materia. La percezione del "tempo" è la presa di coscienza che
la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se osservo una formica che si
muove, la diversità delle posizioni assunte certifica che è trascorso un "intervallo di
tempo". Si evidenzia "intervallo" a significare che il tempo è sempre una "durata" (unico
sinonimo di tempo), ha un inizio ed una fine.
DISTANZE MISURABILI CON IL TEMPO
Nel linguaggio di tutti i giorni spesso si usa il tempo come misuratore di distanze, per
indicare la durata di un percorso (come ad esempio: "mezz'ora d'automobile", "un giorno di
viaggio", "10 minuti di cammino"). Dato che la velocità è uguale a spazio percorso diviso
l'intervallo di tempo impiegato a percorrere quello spazio, si può fare un'inferenza implicita
sulla velocità media tenuta dal corpo in movimento. Si valorizza così in modo
approssimato la distanza a livello temporale, in relazione al fatto che lo spazio percorso
può essere espresso come la velocità media (all'incirca nota), moltiplicata per l'intervallo di
tempo interessato.
Tecnicamente, però, espressioni come "un anno luce" non esprimono un intervallo di
tempo, ma una distanza avendone nota la velocità: infatti più precisamente l'anno luce si
può esprimere come "la distanza percorsa dalla luce in un anno", conoscendone
esattamente la velocità (appunto la velocità della luce). In questi casi particolari, una
locuzione contenente riferimenti al tempo indica quasi sempre distanze precise nello
spazio, al punto da assurgere al ruolo di unità di misura.
SIMULTANEITÀ E CAUSALITÀ
Eventi distinti tra loro possono essere simultanei oppure distanziarsi in proporzione a un
certo numero di cicli di un determinato fenomeno, per cui è possibile quantificare in che
misura un certo evento avvenga dopo un altro. Il tempo misurabile che separa i due eventi
corrisponde all'ammontare dei cicli intercorsi. Convenzionalmente tali cicli si considerano
per definizione periodici entro un limite di errore sperimentale. Tale errore sarà
percentualmente più piccolo quanto più preciso sarà lo strumento (orologio) che compie la
misura. Nel corso della storia dell'uomo gli orologi sono passati dalla scala astronomica
(moti del Sole, della Terra) a quella quantistica (orologi atomici) raggiungendo
progressivamente precisioni crescenti.
Uno dei modi di definire il concetto di dopo è basato sull'assunzione della causalità. Il
lavoro compiuto dall'umanità per incrementare la comprensione della natura e della
misurazione del tempo, con la creazione e il miglioramento dei calendari e degli orologi, è
stato uno dei principali motori della scoperta scientifica.
UNA CLESSIDRA
L'unità di misura standard del Sistema Internazionale è il secondo. In base ad esso sono
definite misure più ampie come il minuto, l'ora, il giorno, la settimana, il mese, l'anno, il
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lustro, il decennio, il secolo ed il millennio. Il tempo può essere misurato, esattamente
come le altre dimensioni fisiche. Gli strumenti per la misurazione del tempo sono chiamati
orologi. Gli orologi molto accurati vengono detti cronometri. I migliori orologi disponibili (al
2010) sono gli orologi atomici.
Esistono svariate scale temporali continue di utilizzo corrente: il tempo universale, il tempo
atomico internazionale (TAI), che è la base per le altre scale, il tempo coordinato
universale (UTC), che è lo standard per l'orario civile, il Tempo Terrestre (TT), ecc.
L'umanità ha inventato i calendari per tenere traccia del passaggio di giorni, settimane,
mesi e anni.
IL TEMPO NELL'INGEGNERIA E NELLA FISICA APPLICATA
In Fisica, il tempo è definito come distanza tra gli eventi calcolata nelle coordinate
spaziotemporali quadridimensionali. La relatività speciale mostrò che il tempo non può
essere compreso se non come una parte del cronotopo (altra parola per definire lo
spaziotempo, una combinazione di spazio e tempo). La distanza tra gli eventi dipende
dalla velocità relativa dell'osservatore rispetto ad essi. La Relatività Generale modificò
ulteriormente la nozione di tempo introducendo l'idea di uno spazio-tempo capace di
curvarsi in presenza di campi gravitazionali. Un'importante unità di misura del tempo in
fisica teorica è il tempo di Planck (si veda unità di Planck per i dettagli).
CONCETTO DI TEMPO IN GEOLOGIA
Il concetto di tempo in geologia è un argomento complesso in quanto non è quasi mai
possibile determinare l'età esatta di un corpo geologico o di un fossile. Molto spesso le età
sono relative (prima di..., dopo la comparsa di...) o presentano un margine di incertezza,
che cresce con l'aumentare dell'età dell'oggetto. Sin dagli albori della geologia e della
paleontologia si è preferito organizzare il tempo in funzione degli organismi che hanno
popolato la Terra durante la sua storia: il tempo geologico ha pertanto struttura gerarchica
e la gerarchia rappresenta l'entità del cambiamento nel contenuto fossilifero tra un'età e la
successiva.
Solo nella seconda metà del XX secolo, con la comprensione dei meccanismi che
regolano la radioattività, si è iniziato a determinare fisicamente l'età delle rocce. La
precisione massima ottenibile non potrà mai scendere al di sotto di un certo limite in
quanto i processi di decadimento atomico sono processi stocastici e legati al numero di
atomi radioattivi presenti all'interno della roccia nel momento della sua formazione. Le
migliori datazioni possibili si attestano sull'ordine delle centinaia di migliaia di anni per le
rocce con le più antiche testimonianze di vita (nel Precambriano) mentre possono arrivare
a precisioni dell'ordine di qualche mese per rocce molto recenti.
Un'ulteriore complicazione è legata al fatto che molto spesso si confonde il tempo
geologico con le rocce che lo rappresentano. Il tempo geologico è un'astrazione, mentre la
successione degli eventi registrata nelle rocce ne rappresenta la reale manifestazione.
Esistono pertanto due scale per rappresentare il tempo geologico, la prima è la scala
geocronologica, la seconda è la scala cronostratigrafica. In prima approssimazione
comunque, le due scale coincidono e sono intercambiabili.
IL TEMPO NELLA FILOSOFIA E NELLA FISICA
Importanti questioni filosofiche sul tempo comprendono:
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•
•
•
•
Il tempo è assoluto o meramente relazionale?
Il tempo senza cambiamento è concettualmente impossibile?
Il tempo scorre, oppure l'idea di passato, presente e futuro è completamente
soggettiva, descrittiva solo di un inganno dei nostri sensi?
Il tempo è rettilineo o lo è solo nel breve spazio di tempo che l'uomo ha
sperimentato e sperimenta?
CONCETTI E PARADOSSI NELL'ANTICHITÀ CLASSICA
I paradossi di Zenone (che molti secoli dopo sarebbero stati di aiuto nello sviluppo del
calcolo infinitesimale) sfidavano in modo provocatorio la nozione comune di tempo. Il
paradosso più celebre è quello di Achille e la tartaruga: secondo il suo ragionamento,
attenendosi strettamente alle regole logiche, l'eroe greco (detto "pié veloce" in quanto
secondo la mitologia greca era "il più veloce tra i mortali") non raggiungerebbe mai una
tartaruga. L'esempio è molto semplice: supponiamo che inizialmente Achille e la tartaruga
siano separati da una distanza x e che la velocità dell'eroe corrisponda a 10 volte quella
dell'animale. Achille comincia a correre fino a raggiungere il punto x dove si trovava la
tartaruga ma essa, nel frattempo, avrà percorso una distanza uguale a 1/10 di x. Achille
prosegue e raggiunge il punto "x + 1/10 di x" mentre la tartaruga ha il tempo di compiere
una distanza di 1/100 di x (1/10 di 1/10 di x), distanziando nuovamente l'inseguitore.
Continuando all'infinito Achille riuscirà ad avvicinarsi sempre di più all'animale il quale però
continuerà ad avere un sempre più piccolo ma comunque sempre presente distacco. La
paradossale conclusione di Zenone era: Achille non raggiungerà mai la tartaruga.
La posizione di Parmenide è assai diversa da quella dell'allievo Zenone, questi infatti
sosteneva che l'essenza della realtà, l'ancoraggio metafisico del reale, fosse eterno (che
nel senso stretto del termine significa fuori dal tempo da "ex ternum") e che dunque il
tempo fosse una posizione della doxa (opinione), di quella sapienza che non è propria di
chi sa veramente. In seno all'essere (ch'è l'essenza del mondo), in sintesi, non è tempo,
né dunque è moto.
Anche Platone è stato influenzato da questa concezione. Secondo la sua celebre
definizione il tempo è "l'immagine mobile dell'eternità". Per Aristotele, invece, è la misura
del movimento secondo il "prima" e il "poi", per cui lo spazio è strettamente necessario per
definire il tempo. Solo Dio è motore immobile, eterno ed immateriale.
Secondo S. Agostino il tempo è stato creato da Dio assieme all'Universo, ma la sua natura
resta profondamente misteriosa, tanto che il filosofo, vissuto tra il IV e il V secolo d.C.,
afferma ironicamente: "Se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono
non lo so". Tuttavia S. Agostino critica una concezione del tempo aristotelica inteso come
misura del moto (degli astri): nelle "Confessioni" afferma che il tempo è "distensione
dell'animo" ed è riconducibile a una percezione propria del soggetto che, pur vivendo solo
nel presente (con l'attenzione), ha coscienza del passato grazie alla memoria e del futuro
in virtù dell'attesa. Da sant'Agostino in poi nel pensiero cristiano il tempo è concepito in
senso lineare-progressivo e non più circolare-ciclico come nel mondo pagano. Dalla
caduta di Adamo l'escatologia cristiana procede verso la "consumazione del tempo", il
riscatto dell'uomo verso Dio, il Giudizio Universale e l'eternità spirituale.[1]
L'EPOCA MODERNA: IL DIBATTITO TRA TEMPO ASSOLUTO E TEMPO ILLUSORIO
Il tempo è stato considerato in vari modi nel corso della storia del pensiero, ma le
definizioni di Platone ed Aristotele sono state di riferimento per moltissimi secoli (magari
criticate o reinterpretate in senso cristiano), fino a giungere alla rivoluzione scientifica. Di
questo periodo è fondamentale la definizione di Isaac Newton (1642-1727), secondo il
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quale il tempo (al pari dello spazio) è "sensorium Dei" (senso di Dio) e scorrerebbe
immutabile, sempre uguale a se stesso (una concezione analoga è presente nelle opere di
Galileo Galilei). Degna di nota è la contesa tra Newton e Leibniz, che riguardava la
questione del tempo assoluto: mentre il primo credeva che il tempo fosse, analogamente
allo spazio, un contenitore di eventi, il secondo riteneva che esso, come lo spazio, fosse
un apparato concettuale che descriveva le interrelazioni tra gli eventi stessi. John Ellis
McTaggart credeva, dal canto suo, che il tempo e il cambiamento fossero semplici
illusioni.
DAL TEMPO SOGGETTIVO ALLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
È stato il filosofo tedesco Immanuel Kant a cambiare radicalmente questo modo di vedere,
grazie alla sua cosiddetta nuova "rivoluzione copernicana", secondo la quale al centro
della filosofia non si deve porre l'oggetto ma il soggetto: il tempo diviene allora, assieme
allo spazio, una "forma a priori della sensibilità". In sostanza se gli esseri umani non
fossero capaci di avvertire lo scorrere del tempo non sarebbero neanche capaci di
percepire il mondo sensibile e i suoi oggetti che, anche se sono inconoscibili in sé, sono
collocati nello spazio. Quest'ultimo è definito come "senso esterno", mentre il tempo è
considerato un "senso interno": in ultima analisi tutto ciò che esiste nel mondo fisico viene
percepito e ordinato attraverso le strutture a priori del soggetto e ciò che, in prima battuta,
viene collocato nello spazio viene poi ordinato temporalmente (come dimostra la nostra
memoria).
Un altro grande progresso del pensiero è stato la formulazione della teoria della relatività
("ristretta" nel 1905 e "generale" nel 1916) di Einstein, secondo la quale il tempo non è
assoluto, ma dipende dalla velocità (quella della luce è una costante universale: c = circa
299.792,458 km al secondo) e dal riferimento spaziale che si prende in considerazione.
Secondo Einstein è più corretto parlare di spaziotempo, perché i due aspetti (cronologico e
spaziale) sono inscindibilmente correlati tra loro; esso viene modificato dai campi
gravitazionali, che sono capaci di deflettere la luce e di rallentare il tempo (teoria della
relatività generale).
Secondo la relatività ristretta il tempo di un osservatore è uguale a quello di un altro
osservatore solo se viene moltiplicato per un certo fattore che dipende dalla velocità
relativa dei due osservatori. Più in particolare le formule di Lorentz sono le seguenti:
ove
e x, y, z rappresentano le tre dimensioni spaziali, t quella
temporale, v la velocità e c è la costante della velocità della luce nel vuoto.
Secondo quest'ultima formula (che riguarda il tempo), se noi rimanessimo sulla Terra e
potessimo vedere un razzo che viaggia velocissimo nello spazio osserveremmo che il suo
equipaggio si muove al rallentatore.
La teoria della relatività genera quindi in merito al tempo anche dei paradossi apparenti.
Uno dei più noti è il cosiddetto paradosso dei gemelli. La premessa del paradosso è che
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esistano due gemelli, di cui uno parte per un viaggio interstellare con un'astronave capace
di andare a una velocità prossima a quella della luce, mentre l'altro rimane sulla Terra.
Secondo le naturali conseguenze della relatività, il primo gemello, al suo ritorno sulla
Terra, sarà più giovane del fratello gemello rimasto. Tuttavia, secondo la stessa relatività
tutti i sistemi di riferimento sottoposti ad uguale moto (e quindi privi di accelerazioni e di
cambiamenti di direzione) sono uguali tra di loro. Secondo il sistema di riferimento del
gemello partito con l'astronave è stata la Terra a muoversi ad una velocità prossima a
quella della luce, e quindi secondo il gemello-astronauta, in maniera del tutto legittima,
dovrebbe risultare più giovane il gemello rimasto sulla Terra. Il paradosso consiste quindi
in questo: Qual è il gemello più giovane? o, in altre parole, per quale dei due è passato
meno tempo? Esso si risolve considerando i cambiamenti di moto che il gemello
sull'astronave ha fatto e che la Terra (verosimilmente) non ha seguito: ha accelerato
durante la partenza, ha "fatto retromarcia" per tornare sulla Terra dopo aver raggiunto la
sua meta, magari quando l'aveva raggiunta si è fermato, e ha decelerato per riuscire a
fermarsi nelle vicinanze della Terra o dell'altra destinazione. Avendo fatto tutti questi
movimenti "in più", ne consegue, relativisticamente parlando, che è il gemello
sull'astronave il più giovane. Premesso questo, quanti saranno gli anni di differenza tra i
due è possibile calcolarlo grazie alle formule della relatività, ma l'aspetto più interessante è
che si possa viaggiare nel futuro, almeno teoricamente (questo pone dei problemi al
concetto di libero arbitrio). La teoria della relatività, tra l'altro, cambia radicalmente la
nozione di simultaneità (due eventi possono avvenire contemporaneamente per un
osservatore ma non per un altro), ma anche di lunghezza (un metro si accorcia più si
avvicina alla velocità della luce, ma solo se confrontato con un altro metro rimasto, ad
esempio, sulla Terra). Anche il concetto di causalità viene in parte modificato, dato che un
certo segnale - che per Einstein non può mai viaggiare più velocemente della luce - deve
avere il tempo di andare da un punto a un altro perché possa influenzare l'altro.
Recentemente nell'ambito della Teoria dei Sistemi di Riferimento è stato introdotto il
concetto di tempo inerziale che consente di superare i paradossi summenzionati e di
pervenire anche a una nuova definizione di simultaneità.
ULTERIORI SVILUPPI: IL TEMPO COME PERCEZIONE, L'INTANGIBILITÀ
Einstein ebbe alcune discussioni sul tempo con grandi pensatori della sua epoca, tra cui il
filosofo francese Henri Bergson, che attribuisce grande importanza agli stati di coscienza
piuttosto che al tempo spazializzato della fisica (si veda "Durata e simultaneità" del 1922).
Per Bergson il tempo concretamente vissuto è una durata "reale" a cui lo stato psichico
presente conserva da un lato il processo da cui proviene (attraverso la memoria), ma
naturalmente costituisce anche qualcosa di nuovo. Dunque non c'è soluzione di continuità
tra gli stati della coscienza: esiste una continua evoluzione, un movimento vissuto che la
scienza non può spiegare pienamente con i suoi concetti astratti e rigidi, nonostante il
riconoscimento dei suoi grandi progressi.
L'ingegnere J. W. Dunne sviluppò una teoria del tempo dove considerava la nostra
percezione del tempo similarmente alle note suonate su un piano. Avendo avuto un
numero di sogni premonitori, decise di tenere traccia dei suoi sogni e trovò che
contenevano eventi passati e futuri in quantità equivalenti. Da questo concluse che nei
sogni riusciamo a sfuggire al tempo lineare. Pubblicò le sue idee in An Experiment with
Time del 1927, cui fecero seguito altri libri.
Possiamo porci, quindi, le seguenti domande:
• "Che cos'è il tempo?"
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"Come si definisce una unità di misura per esso (il tempo) prescindendo dalle
conoscenze late della comune opinione?"
È nel tentativo di dare una risposta rigorosa a queste domande che ci si accorge delle
difficoltà e dei pregiudizi. L'unico modo convincente di rispondere alla domanda "che cos'è
il tempo" è forse quello operativo, dal punto di vista strettamente fisico-sperimentale: "il
tempo è ciò che si misura con degli strumenti adatti". Una analisi microscopica del
problema tuttavia mostra come la definizione di orologio sia adatta solo a una trattazione
macroscopica del problema e quindi non consenta di formulare una definizione corretta
per le equazioni del moto di particelle descritte dalla meccanica quantistica.
Se si segue coerentemente sino in fondo questa definizione, si constata facilmente che
tutti gli strumenti di misura del tempo ("orologi") si basano sul confronto (e conseguente
conteggio) tra un movimento nello spazio (ad esempio la rotazione o la rivoluzione
terrestre) e un altro movimento "campione" (meccanico, idraulico, elettronico), con
sufficienti caratteristiche di precisione e riproducibilità. Può essere interessante anche
notare che il campione di movimento deve essere sempre un moto accelerato (rotazione,
oscillazione lineare o rotatoria), mentre non è campione idoneo il moto rettilineo uniforme.
Altrettanto importante è notare che il metodo di confronto del movimento con il campione
si fonda necessariamente sulla trasmissione di segnali elettromagnetici (es. luminosi, ma
non solo), le cui proprietà influiscono quindi direttamente sul risultato della misura: da ciò
conseguono in modo quasi ovvio le formulazioni della interdipendenza tra coordinate
spaziali, asse temporale e velocità della luce espresse della relatività ristretta.
In base a queste osservazioni, data la totale sovrapponibilità degli effetti operativi, si
potrebbe addirittura assumere direttamente quale definizione del tempo, in fisica, l'identità
con il movimento stesso. In questo senso, l'intero Universo in evoluzione si può
considerare il vero fondamento della definizione di tempo; si noti l'importanza essenziale
della specifica "in evoluzione", ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento,
senza variazione anche il tempo scompare!
Questa è anche la tesi dell'ingegnere Henri Salles, che nel suo libro Does time exist? - an
energetic implementation of motion dimostra che è possibile fare a meno del concetto di
tempo per spiegare il movimento. Salles implementa un modello fisico della realtà basato
unicamente sui concetti di spazio e di energia e mette in luce la mancanza di coerenza
della fisica tradizionale che scade, secondo lui, nella speculazione matematica laddove
costruisce teorie partendo da concetti non fondamentali perché non tangibili (come
appunto sarebbe quello di tempo). Un evidente esempio di contraddizioni, eliminabili con
la definizione di tempo come movimento, sono le questioni del significato del tempo
negativo e della possibilità di tornare indietro nel tempo.
L'idea che una teoria fondamentale non debba contenere il concetto di tempo tra le sue
primitive risale a Bryce DeWitt ed è stata sviluppata successivamente da Carlo Rovelli,
Craig Callender e Julian Barbour. Enrico Prati ha dimostrato che il formalismo
Hamiltoniano di tutte le moderne teorie quantistiche dei campi può essere ricavato senza
fare alcun uso del concetto di tempo, ma entro il medesimo formalismo è possibile definire
il tempo misurato dagli orologi macroscopici rinunciando al concetto di periodicità a favore
di quello di ciclicità nello spazio delle fasi.[2]
•
TEMPO QUANTIZZATO
Il tempo quantizzato è un concetto sviluppato a livello teorico. Il tempo di Planck è il tempo
che impiega un fotone che viaggia alla velocità della luce per percorrere una distanza pari
alla lunghezza di Planck. Il tempo di Planck (~ 5,4 × 10-44 s) è la più piccola quantità di
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tempo tecnicamente misurabile, nonché potrebbe essere la più piccola quantità ad avere
un significato fisico nell'effettivo caso di tempo parcellizzato.
In fisica, nel modello standard il tempo non è quantizzato ma viene trattato come continuo.
LA PERCEZIONE DEL TEMPO
A volte si percepisce il passare del tempo come più rapido ("il tempo vola"), significando
che la durata appare inferiore a quanto è in realtà; al contrario accade anche di percepire il
passare del tempo come più lento ("non finisce mai"). Il primo caso viene associato a
situazioni piacevoli, o di grande occupazione, mentre il secondo si applica a situazioni
meno interessanti o di attesa (noia). Inoltre sembra che il tempo passi più in fretta quando
si dorme. Il problema della percezione del tempo si trova in stretta correlazione con i
problemi relativi al funzionamento ed alla fisiologia del cervello.
LA PERCEZIONE DEL TEMPO NELLE DIVERSE CULTURE
Il tempo, così come lo spazio, è una categoria a priori ma non per questo non gli viene
dato un significato e una rappresentazione diversa in ogni cultura.
Si può affermare, in maniera generale, che esso venga percepito come il variare della
persona e delle cose.
Sempre generalmente, vi sono due idee fondamentali del tempo:
• Pensiero cronometrico occidentale: il tempo viene visto come un'entità lineare e
misurabile. Questa visione risponde alla necessità di ottimizzare il proprio tempo e
dipende dall'organizzazione economica.
• Tempo ciclico e puntiforme: nelle società tradizionali il tempo viene scandito
attraverso il passare delle stagioni o secondo eventi contingenti (es. il mercato della
domenica).
Molte società possono essere comunque considerate "a doppio regime temporale".
C'è quindi un tempo qualitativo, legato all'esperienza, che dipende dalla necessità di
alcune società di frazionare il tempo per contingenza, ed un tempo quantitativo, astratto e
frazionabile, che sta man mano, con la globalizzazione, diventando dominante.
L'antropologo Christopher Hallpike, rifacendosi agli studi dello psicologo Jean Piaget,
affermò che a seconda della cultura il tempo viene percepito come operatorio e preoperatorio (percezione del tempo fino agli otto anni). La visione operatoria del tempo
consente di coordinare i fattori di durata, successione e simultaneità.
Per dimostrare la sua tesi egli fece osservare a degli aborigeni melanesiani due
macchinine su due piste concentriche facendole partire e fermare nello stesso tempo e di
seguito chiedendo quale delle due macchinine avesse percorso più spazio. Gli aborigeni
non seppero rispondere a quella domanda e per questo motivo egli pensò che mancasse
loro la capacità di coordinare i tre fattori.
Ma in Melanesia vengono fatte delle corse di cavalli su piste concentriche e di
conseguenza la mancanza di una correlazione non-lineare e quantificabile del tempo
sembra non escludere la capacità di coordinare durata, successione e simultaneità.
Note
1. ^ Garzantina della Filosofia, p. 1111
2. ^ The Nature of Time: from a Timeless Hamiltonian Framework to Clock Time of
Metrology. URL consultato il 2010-08-08.
Bibliografia
• Mircea Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, Rusconi, Milano 1975
13
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•
•
Stephen Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli,
Milano 1988
Paul Davies, I misteri del tempo, Oscar Saggi Mondadori, Milano 1997 (ISBN 8804-42736-1)
Brian Greene, La trama del cosmo, Einaudi, Torino 2004 (ISBN 88-06-16962-9)
Julian Barbour, La fine del tempo, Einaudi, Torino 2003 (ISBN 88-06-15783-3)
Margherita Hack, Pippo Battaglia e Rosolino Buccheri, L'idea del tempo, Utet
Libreria, Torino, 2005 (ISBN 88-7750-954-6 )
Da http://www.liceogalileict.it/rivistagalilei/articoli/art11.htm
A cura di Giovanna Dell’Acqua
L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI TEMPO
Nella storia del pensiero si è trattato del tempo secondo diversi significati, di cui i principali
sono quello cosmologico, quello gnoseologico e quello etico-religioso. Nel primo significato
il tempo è stato considerato come origine del mondo o elemento costitutivo del medesimo,
come durata fisica, misurabile e misurata, senza inizio e senza fine; nel secondo
significato ne hanno trattato coloro che, riducendolo a sola forma del pensiero, ne hanno
dato una spiegazione o fenomenistica o soggettivistica o idealistica. Nel terzo significato il
tempo è il simbolo delle vite umane, finite, limitate e subordinate alle situazioni più
opposte. Il tempo si presenta dapprima ai pensatori greci come il ritmo oggettivo del
cambiamento ed è soprattutto collegato al movimento del sole e del cielo in generale.
La concezione ciclica del divenire nel tempo che i greci mutuarono dai Babilonesi, si
ritrova nei primi filosofi naturalisti della Grecia antica, nei pitagorici, in Anassimandro, in
Empedocle, in Eraclito che ammettono tutti fasi alterne di formazione e di dissoluzione
del mondo. Cosi per Eraclito il fuoco divino eternamente si accende e si spegne in un
processo indefinito; nel tempo c’è un continuo divenire che sempre muta e si rinnova. Al
tempo come divenire, toglie invece ogni realtà Parmenide, per il quale il processo
temporale è un’illusoria apparenza sensibile, una doxa fallace; l’essere vero è nell’eternità
immutabile: non è né sarà, ma esiste nel presente tutto insieme. Sorge così la
contrapposizione dell’eternità e questa contrapposizione si ritrova in Platone e in
Aristotele, per i quali il tempo è una caratteristica delle cose caduche, ma in esso vi è
qualcosa che partecipa dell’eterno. Aristotele definisce il tempo misura del movimento o
della quiete delle cose, fuori dal tempo egli pone soltanto le cose che sono sempre, e cioè,
l’immutabile e il necessario.
Il cristianesimo ammettendo un inizio della creazione e abbandonando la concezione
ciclica della serie temporale monotona offre le possibilità di un ordine progressivo, in
quanto vi è un termine ultimo che conclude l’esistenza temporale con le sue sublimazioni
in un ordine superiore. Il tempo interiorizzato non è più un qualcosa di oggettivo che pesi
dall’esterno sull’anima, ma vive nell’anima e il futuro è ciò a cui l’anima aspira, è la sua
aspettazione; il passato è ciò che ha superato; il presente è la spirituale tensione del
passaggio dell’uomo vecchio all’uomo nuovo. Questo è il profondo significato dell’analisi di
S. Agostino (Confessioni, Garzanti, Milano 1971). Nel pensiero medievale la
considerazione del tempo fatta da Aristotele è ripresa dagli Scolastici: S. Tommaso, infatti,
afferma che il mondo non è stato creato nel tempo, né il tempo è stato creato con il
14
mondo, non esiste un “prima” riguardo al mondo, esiste al di sopra del tempo, il creatore
del mondo.
Nella filosofia moderna fino a Kant si interiorizza sempre più l’interpretazione del tempo,
riducendolo ora al suo aspetto psicologico, ora a quello filosofico. In Cartesio e Spinoza il
tempo risulta distinto nettamente dalla durata, come un modo proprio dell’uomo comune,
di pensare la durata stessa che possiede effettive realtà. Successivamente con Locke e
Leibniz, invece, si attribuisce al tempo un significato più che altro psicologico e
fenomenistico, relativo alle nostre esperienze e sia l’uno che l’altro non dissociano le
spiegazioni dell’idea di eternità dall’idea di tempo. Con il criticismo kantiano si passa poi
dall’interpretazione psicologica a quella fenomenologica del tempo; questo, infatti, non è,
secondo lui, un concetto empirico ricavato da una esperienza, ma “una rappresentazione
necessaria che sta alla base di tutte le intuizioni”. Il tempo, pertanto, è dato a priori come
intuizione pura (Critica della ragion pura, SEI, Torino 1992 ). Kant aveva considerato lo
spazio e il tempo come due forme distinte: se questa distinzione sia possibile è stato
discusso nella fisica contemporanea, in seguito all’opera di Einstein; la rivoluzione attuale
dello scienziato tedesco con le sua famosissima “teoria della relatività” non ha investito
solo il campo scientifico, ma anche il mondo della filosofia, assestando il colpo di grazia al
Positivismo, che difendeva la concezione di un universo regolato da leggi meccaniche e
deterministiche.
Lo sviluppo del concetto di tempo nella teoria scientifica dimostra che esso non è un’idea
innata e neppure una immutabile forma a priori, ma è una costruzione che il nostro
pensiero fa partendo dall’esperienza; giustamente Bergson ha contrapposto al tempo
scientifico ed astratto, la durata reale, vissuta nello scorrere incessante della nostra vita
spirituale, che di continuo si arricchisce di nuove qualità (Saggio sui dati immediati della
coscienza, Mondadori, Milano 1986). La durata vissuta da noi nella sua immediatezza è
senza dubbio un momento della realtà, ma unilaterale, frammentario, fuggevole e
incomunicabile, se non la condividiamo con la durata di cui hanno immediata esperienza
gli altri individui.
Nelle filosofie contemporanee all’intuizione bergsoniana del tempo come processo
creativo si contrappone quella dell’esistenzialista Heidegger, nel quale ritorna la
concezione mistica dell’esistenza come un cadere nel nulla. L’uomo nel suo nascere si
trova “gettato” nel mondo con un certo numero di possibilità da realizzare, egli non crea se
stesso, come pretendono gli idealisti che identificano l’uomo con Dio, ma si trova già
costituito. L’uomo deve accettare la sua sorte e se agisce con la coscienza
dell’insignificanza del suo operare, del nulla in cui tutto va a finire, la sua vita è una vera e
propria esistenza autentica; se invece, vuole illudersi, distrarsi dalle morte che lo aspetta,
si disperde nella vita banale (Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970). Ora vi è un punto
debole, comune a Heidegger e a Bergson: la negazione che l’uno annulla nel
preformismo delle possibilità limitate, che l’uomo trova già in sé nel suo nascere, e che
l’altro “annega” nel flusso dello slancio vitale (L’evoluzione creatrice, a cura di E. Paci,
UTET, Torino 1971). Non c’è personalità senza libertà e questa è una parola priva di
senso per Heidegger, che pone il futuro già nel passato e a ciascun individuo affida solo il
compito di svolgere le sue potenzialità limitate. Nell’evoluzione creatrice di Bergson
l’autonomia dell’individuo e la personalità dei singoli uomini scompaiono nel flusso
generale del tempo, e la creazione continua che l’evoluzione realizza in ciascuno, non è
atto libero di singole persone, ma slancio impersonale che le trascina dall’interno in una
corrente cosmica. Per Sartre il tempo risulta dalla funzione nullificante del pour soi (il per
sé), poiché il pour soi ossia la coscienza è “ciò che non è ciò che è, e che è ciò che non è”
(L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1970), il suo essere è un continuo sfuggire a se
15
stesso, un continuo protendersi oltre di sé. Nel passato, nel presente e nel futuro il pour
soi si mostra come mancanza, come vuoto, come funzione nullificante.
In psicologia il tempo è studiato come un aspetto direzionale dell’esperienza, che è vissuta
come un protrarsi da un momento iniziale verso momenti ulteriori e una fine. Nella
psicologia di laboratorio si è data molta importanza alla misura che intercede tra una
stimolazione e la risposta: il cosiddetto tempo psicologico o tempo di reazione. I tempi di
reazione sono di varia lunghezza per i diversi stimoli e nei diversi individui, mutando
continuamente anche nello stesso soggetto (studi più approfonditi sono stati fatti da Piaget
e dal Fraise nell’ambito della psicologia evolutiva).
In conclusione, all’universo deterministico, materialistico e meccanicistico considerato da
Cartesio, Leibniz, Kant, Newton e Laplace si è andato sostituendo un universo
probabilistico nel quale nulla è certo, tutto è possibile anche le esperienze di esseri che
continuamente si interrogano sulla sua natura.
AFORISMI SUL TEMPO
Quelli che non sanno ricordare il passato, sono condannati a ripeterlo.
George Santayana
Tre sono le dimensioni temporali: passato, presente, futuro; di questi, solo il passato ci
appartiene veramente.
Seneca
La memoria è il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé.
O.Wilde
C’è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo.
Charles Baudelaire
La fantasia non è altro che un aspetto della memoria svincolato dall’ordine del tempo e
dello spazio.
Samuel Taylor Coleridge
Il tempo è un grande insegnante, ma sfortunatamente uccide tutti i suoi alunni.
Hector Berlioz
Mentre si perde tempo a decidere, spesso si perde l’occasione favorevole.
Publio Siro
Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.
Paul Valéry
Dieci anni prima del suo tempo una moda è indecente; dieci anni dopo, è orrenda; ma un
secolo dopo, è romantica.
James Laver
Quanto il tempo è più felice, altrettanto è più breve.
16
Plinio
Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio.
Theodor Adorno
Quando un’opera sembra in anticipo sul suo tempo, è vero invece che il tempo è in ritardo
rispetto all’opera.
Jean Cocteau
Tutte le cose che si giudicano antichissime un tempo furono nuove.
Tacito
Non “troverai” mai il tempo per una cosa che vuoi fare: se hai bisogno di tempo, devi
crearlo tu.
Charles Buxton
Il tempo e la pazienza possono più della forza o della rabbia.
Jean de La Fontaine
Non aspettare il momento opportuno: crealo!
George Bernard Shaw
Le persone passano la maggior parte del loro tempo a guardare al passato.
John Osborne
Quanto tempo risparmia chi non sta a guardare ciò che il suo vicino dice o pensa.
Marco Aurelio
Ogni volta che si parla del tempo ho la netta sensazione che si intenda parlare di
qualcos’altro.
O.Wilde
Il tempo è il più saggio dei consiglieri.
Plutarco
A che serve passare dei giorni se non si ricordano?
Cesare Pavese
A essere giovani s'impara da vecchi.
Proverbio Popolare
Ami la vita? Allora non sciupare il tempo, perché è la sostanza di cui vita è fatta.
Benjamin Franklin
Ammazzare il tempo è forse l'essenza della commedia, proprio come l'essenza della
tragedia è uccidere l'eternità.
Miguel De Cervantes
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Anche per il pensiero c'è un tempo per arare e un tempo per mietere. Ludwig Wittgenstein
Anche un orologio fermo segna l'ora giusta due volte al giorno.
Hermann Hesse
Basta poco per rimproverare un uomo, ma occorre molto tempo per dimenticare un
rimprovero.
Proverbio cinese
Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo.
Giovanni Verga
C'è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo.
Charles Baudelaire
C'é un tempo giusto per andarsene anche quando non si ha un posto dove andare.
Anonimo
C'è un tempo per pescare e un tempo per asciugare le reti. Proverbio cinese
Che altro vedi negli oscuri abissi del tempo?.
W.Shakespeare
Che cosa non mi piace della morte? Forse l'ora.
Woody Allen
Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.
George Orwell
Chi impiega male il proprio tempo si lamenta di non averne mai abbastanza.
Anonimo
Chi non applica nuovi rimedi dev'essere pronto a nuovi mali; perché il tempo è il più
grande degli innovatori.
Francesco Bacone
Chi vive troppo tempo in un luogo perfetto finisce per annoiarsi.
Paulo Coelho
Chi tempo ha e tempo aspetta, perde l’amico e danari non ha mai.
Leonardo da Vinci
Ci si mette molto tempo per diventare giovani.
Pablo Picasso
Ci sono persone che non vivono la vita presente, ma si preparano con grande zelo come
se dovessero vivere una qualche altra vita e non quella che vivono: e intanto il tempo si
consuma e fugge via.
Antifonte
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Chi smette di amare per paura di soffrire ancora è come se fermasse l'orologio per
risparmiare tempo. Anonimo
Ci sono momenti in cui tutto va bene, ma non ti spaventare, non dura.
Jules Renard
Ciò che accade prima non è necessariamente l'inizio.
Henning Mankell
Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.
Lao Tse
Con te conversando, dimentico ogni tempo e le stagioni e i loro mutamenti: tutte mi
piacciono allo stesso modo.
John Milton
Cosa sono i millenni? Un manciata di tempo. Polvere in confronto a un unico sguardo
dell'eternità. Hermann Hesse
Del passato dovremmo riprendere i fuochi, e non le sue ceneri.
Jean Juares
Dobbiamo fare il miglior uso possibile del tempo libero.
Gandhi
Dobbiamo usare il tempo come uno strumento, non come una poltrona.
J.F. Kennedy
È dolce fare follie quando tempo e luogo lo permettono.
Orazio
È impossibile che un uomo si bagni due volte nel medesimo fiume, perchè il fiume non è lo
stesso e l'uomo non è lo stesso uomo.
Eraclito
È matematicamente dimostrabile che la concezione del tempo è in stretto rapporto con
l'età: per i vecchi il tempo passa più in fretta.
Alvin Toffler
E' più tardi di quanto pensi.
Proverbio cinese
E' purtroppo destino ineluttabile che il tempo distrugga ogni cosa nel suo fluire perenne.
Ugo Foscolo
È sempre l'ora del tè, e negli intervalli non abbiamo il tempo di lavare le tazze.
Lewis Carroll
Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato.
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Walt Whitman
Estremamente breve e travagliata è la vita di coloro che dimenticano il passato, trascurano
il presente, temono il futuro: giunti al momento estremo, tardi comprendono di essere stati
occupati tanto tempo senza concludere nulla.
Seneca
Gli arpisti spendono il novanta per cento del loro tempo accordando le loro arpe e il dieci
percento suonando scordati.
Igor Stravinsky
Ho scritto questo racconto più lungo del solito, semplicemente perché non ho avuto il
tempo per farlo più corto.
Blaise Pascal
Ho sciupato il tempo, e ora il tempo sciupa me.
William Shakespeare
Il cammino attraverso la foresta non è lungo se si ama la persona che si va a trovare.
Proverbio Africano
Il grande poeta, mentre scrive se stesso, scrive il suo tempo.
Charles Eliot
Il lavoro duro paga nel lungo periodo. La pigrizia paga subito. Anonimo
Il mio corpo è una clessidra, la mia mente è la sabbia che vi scorre attraverso. Anonimo
Il nostro tempo e il tempo di Dio non vengono misurati con lo stesso orologio.
Charles Spurgeon
Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun
altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del
pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra
voce interiore.
Steve Jobs
Il pensiero successivo è immancabilmente più saggio.
Euripide
Il segreto del tuo futuro è nascosto nella routine del tuo presente.
Mike Murdock
Il segreto per essere infelici è di avere il tempo di chiedersi continuamente se si è felici o
no.
George Bernard Shaw
Il senno si affida molto al passar del tempo.
William Shakespeare
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Il tempo, a volte, sembra che non passi, è come una rondine che fa il nido sulla grondaia,
esce ed entra, va e viene, ma sempre sotto i nostri occhi. José Saramago
Il tempo di trascorrere il tempo, è l'arte di non inseguirlo.
Leo Longanesi
Il tempo è come un fiume: non risale mai alla sorgente.
Antoine De Rivarol
Il tempo è il mezzo di cui dispone la natura per impedire che le cose avvengano tutte in
una volta.
J. Wheeler
Il tempo è la più indefinibile e paradossale delle cose; il passato non c'è più. Il futuro non
c'è ancora, il presente diviene passato proprio mentre cerchiamo di definirlo e, come un
lampo di luce, nasce e nel medesimo istante muore.
I.N.Kugelmass
Il tempo è il più saggio dei consiglieri.
Plutarco
Il tempo è l'unico, vero capitale che un essere umano ha, e l'unico che non può
permettersi di perdere.
Thomas Edison
Il tempo è la cosa più preziosa che un uomo può spendere.
Teofrasto
Il tempo è lo specchio dell'eternità.
Diogene di Sinope
Il tempo è medico per ogni dolore.
Anonimo
Il tempo ha voglia di essere ascoltato per non passare.
Renato Cherchi
Il tempo non esiste, è solo una dimensione dell'anima. Il passato non esiste in quanto non
è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante
inesistente di separazione tra passato e futuro!
Sant'Agostino
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
Daniel Pennac
Il tempo porta via tutte le cose.
Virgilio
Il tempo raffredda, il tempo chiarifica; nessuno stato d'animo si può mantenere del tutto
inalterato nello scorrere delle ore.
21
Thomas Mann
Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila.
Giordano Bruno
Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. E' per questo che
l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione.
Milan Kundera
Invece di "Cos'è il tempo?" potremmo chiederci "Chi è il tempo?" cioè "Sono io il tempo?"
Heidegger
Io sono un clown e faccio collezione di attimi.
Heinrich Böll
PROVERBI E MODI DI DIRE SUL TEMPO
Chi tempo ha e tempo aspetta, tempo perde.
Chi ha tempo non aspetti tempo.
Col tempo e con la paglia si maturan le sorbe.
Faccia chi può, prima che il tempo mute; chè tutte le lasciate son perdute.
Il tempo consuma ogni cosa.
Rode il tempo ogni cosa e non si sente.
Il tempo dà consiglio.
Il tempo è denaro.
Il tempo è come il denaro: non ne dissipate e ne avrete sempre d'avanzo.
Il tempo mitiga ogni gran piaga.
Il tempo suol far lieto ogni dolore
Il tempo scorre incessantemente come l'acqua.
Vassene il tempo e l'uom non se n'avvede.
Il tempo scuopre ogni cosa.
Ogni cosa ha il suo tempo.
Le cose tutte quante han ordine tra loro.
Ogni cosa si sa comportare eccetto che il buon tempo.
Il buon tempo fa scavezzare il collo.
Rosso di sera bel tempo si spera, rosso di mattina la pioggia s'avvicina.
Sera rossa e nero mattino, rallegra il pellegrino.
Il tempo perduto mai non si riacquista.
Pensa che questo dì mai non raggiorna.
Le ore non son legate ai bastoni.
Il tempo passa e se ne porta il tutto.
Non sono tutti uguali i giorni.
Un giorno è madre, l'altro è matrigna.
Del primo giorno scolare è il secondo.
Non vè si lungo giorno che nol segua la notte.
Ogni dì vien sera.
Ogni giorno deve avere il suo compito.
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Nessun giorno sia da te vissuto inutilmente.
Val più un buon giorno con uovo, che un mal'anno con un bue.
Il tempo è un bene: che tanto n'ha il povero, quanto il ricco.
Tempo e fantasia si varia spesso.
Il gran tempo a' grandi nomi è gran veleno.
Il tempo doma ogni cosa.
Chi compra a tempo, vende nove per altri e un per sé.
Dio non paga il sabato ma a otta e tempo.
Il tempo scuopre tutto.
Il buon marinaio si scuopre al cattivo tempo.
A lasciar ci è sempre tempo.
Il bel tempo non viene mai a noia.
Al buon tempo ognun sa ire.
Chi comincia a aver buon tempo, l'ha per tutta la vita.
Arco da mattina empie la mulina; arco da sera tempo rasserena.
La nebbia lascia il tempo che trova.
Quando il tempo è dritto non vuol cantare il picchio.
Quando Dio vuole ad ogni tempo piove.
Quando il tempo è in vela, ogni nuvolo porta sereno.
Quando il tempo è molle il dente è più folle.
Quando il tempo si muta, la bestia starnuta.
Quando tira vento, non si può dir buon tempo.
Tempo rimesso di notte non val tre pere cotte.
Facendo male, sperando bene, il tempo va, e la morte viene.
Tempo, vento, signor, donna, fortuna voltano e tornan come fa la luna.
Dai tempo al tempo.
Niuno è savio d'ogni tempo.
Il tempo è buon testimone.
Il tempo è padre della verità, e l'esperienza madre delle cose.
Bisogna darsi ai tempi.
In tempo di poponi non prestare il coltello.
Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa.
Il tempo è galantuomo e puntuale.
Chi ha tempo ha vita.
Il tempo viene per chi lo sa aspettare.
Non è più il tempo che Berta filava.
23
L’IO
Da’ Dizionario di filosofia’ di Nicola Abbagnano
UTET, Torino, 2001
p.611
IO
Questo pronome, con cui l’uomo designa se stesso, è diventato oggetto di investigazione
filosofica dal momento in cui il riferimento dell’uomo a se stesso, come riflessione di sé o
coscienza, è stato assunto a definizione dell’uomo.
Ciò è avvenuto con Cartesio, e da Cartesio appunto il problema dell’io è stato per la prima
volta posto in termini espliciti.
“Che cosa dunque io sono?”, chiedeva Cartesio.
Una cosa che pensa.
Ma che cos’è una cosa che pensa?
E’ una cosa che dubita, concepisce, afferma, nega, vuole o non vuole, immagina e sente.
Certo non è poco se tutte queste cose appartengono alla mia natura.
Ma perché non le apparterrebbero?…
E’ di per sé evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero e che non c’è
bisogno di aggiungere nulla per spiegarlo (Méd..II).
Come si vede la posizione del problema dell’io è qui subito accompagnata dalla sua
soluzione: l’io è coscienza cioè rapporto con se stesso, soggettività. Questa è la prima
delle interpretazioni storicamente date dell’io. Possono poi enumerarsi le altre
interpretazioni seguenti:
l’io come autocoscienza;
l’io come unità;
l’io come rapporto.
1° La definizione cartesiana dell’io come coscienza fu immediatamente accolta e
incorporata nella tradizione filosofica.
Locke la faceva sua e la rielaborava allo scopo di giustificare una caratteristica formale
dell’io: l’unità o l’identità.
Egli diceva: “Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gustiamo, tocchiamo, meditiamo o
vogliamo una cosa, noi ci accorgiamo di farla. Altrettanto accade nel caso delle nostre
percezioni o sensazioni attuali; e in tal modo ognuno è a se stesso ciò che chiama se
stesso: e in questo caso non si prende in considerazione il fatto che il medesimo io si
continui nelle stesse sostanze o in sostanze diverse. Poiché la consapevolezza sempre
accompagna il pensiero ed essendo quella che fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama
se stesso e in tal modo distingue se stesso da tutte le altre cose pensanti, in ciò solo
consiste l’identità personale (Saggio, II, 27, 11). In altri termini, secondo Locke, l’identità
dell’io non è fondata sull’unità o semplicità della sostanza-anima ma unicamente sulla
coscienza; ed è, anzi, questa coscienza in quanto si riconosce nella diversità delle sue
manifestazioni.
Leibniz, pure insistendo sulla importanza di quella che egli chiamava coscienza o
sentimento dell’io, non riteneva che essa sola costituisse l’identità personale e vi
aggiungeva “l’identità fisica e reale” (Nuouv. Ess., II, 27, 10)..
Questo punto di vista si trova frequentemente espresso nella filosofia contemporanea, che
24
talora ha accentuato il carattere attivo o volitivo della coscienza.
Così ha fatto, per esempio, Maine de Biran. … (Nouv. Ess. d’Anthropologie, II, 1). L’io è
così, per Maine de Biran, la coscienza originaria dello sforzo.
Ma la migliore espressione della dottrina dell’io come coscienza è stata data da Kant.
Diceva Kant: “Io, come pensante, sono un oggetto del senso interno, e mi chiamo anima.
Ciò che è oggetto del senso esterno si chiama corpo.
Pertanto l’espressione io, come essere pensante, designa già l’oggetto della psicologiia
che può dirsi la dottrina razionale dell’anima, quando io dell’anima non voglio sapere più di
quanto, indipendentemente dall’esperienza (la quale mi determina più da vicino e in
concreto) può essere concluso da questo concetto dell’io presente in ogni pensiero” (Crit.
R. Pura, Dialettica, II, cap.1).
Accanto a quest’io come “oggetto del senso interno” cioè coscienza (cfr. Prol., par. 46)
Kant ammette poi un’altra specie di io che segna il passaggio a una seconda
interpretazione di questo concetto.
L’interpretazione dell’io come coscienza è rimasta frequente nella filosofia moderna e
contemporanea.
Diceva Rosmini: “La parola io al concetto generale dell’anima unisce ancora la relazione
dell’anima a se stessa, relazione d’identità; ella contiene dunque un secondo elemento
distinto dal concetto dell’anima, è un’anima che percepisce se stessa, si pronuncia, si
esprime (Psicol, par.6).
2° L’interpretazione dell’io come Autocoscienza nasce dalla distinzione che Kant aveva
fatto tra l’io come oggetto della percezione o del senso interno e l’io come soggetto del
pensiero o dell’appercezione pura, cioè l’io della riflessione (Antr., I, par. 4, nota).
Questa distinzione che in Kant non avrebbe mai potuto condurre ad una
sostanzializzazione metafisica dell’io, data la funzionalità che Kant attribuisce all’io stesso,
doveva essere assunta da Fichte, come punto di partenza per la dottrina dell’Io assoluto.
L’iodella riflessione o della appercezione pura è, secondo Kant, la condizione ultima del
conoscere; Fiche ne fa il creatore della realtà. …
Queste tesi venivano fatte proprie e amplificate da Schelling per opera del quale divennero
una delle espressioni caratteristiche del Romanticismo.
Gentile …
3° Già nell’interpretazione dell’io come coscienza e come autocoscienza si insiste talora
su un carattere formale dell’io, cioè sulla sua unità o identità. Si è visto che per Locke l’io è
la coscienza in quanto fonda l’identità personale; e per Kant l’io della riflessione è “l’unità
dell’appercezione pura” (Crit. R. Pura, par.16).
Hume stesso aveva visto in una certa forma di unità, sia pure fittizia, il carattere
fondamentale dell’io; che egli aveva paragonato a una repubblica, che può mutare negli
uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle sue leggi, senza
perdere la sua identità.
L’uomo, allo stesso modo, può mutare le sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo
stesso io (Treatise, I, 4, 6). Tuttavia per Hume, come si vede da questa stessa immagine,
l’unità dell’io non è assoluta o rigorosa; è l’unità formale o approssimativa, fondata sulla
relativa costanza di certi rapporti fra le parti o i momenti dell’io.
Questo punto di vista rende forse conto, meglio di quello che afferma la rigorosa unità
dell’io, dei limiti e dei pericoli a cui l’io va soggetto nell’esperienza effettiva.
4° Il concetto dell’io come rapporto nasce dal riconoscimento del più vistoso carattere con
25
cui l’io si presenta a questa esperienza: il carattere della problematicità per cui esso è una
formazione instabile e può andare soggetto alla malattia e alla morte. La nozione di
rapporto è difatti più generica e meno impegnativa della nozione di unità.
L’unità è una forma di rapporto necessaria, immutabile ed assoluta; un rapporto può
essere più o meno saldo e può rompersi. Proprio sotto l’angolo visuale della “malattia
mortale” dell’io, che è la disperazione, Kierkegaard definì l’io come “rapporto che si
rapporta a se stesso”. L’uomo è una sintesi di anima e di corpo, d’infinito e di finito, di
libertà e di necessità, ecc. Una sintesi è un rapporto; e il ritorno su questo rapporto, cioè la
relazione del rapporto con se stesso, è l’io dell’uomo (Die Krankheit zum Tode, 1849,
cap.1).
…
IO E IL TEMPO
SUL TEMPO
di Gibran Kahil Gibran
E un astronomo disse: Maestro Parlaci del Tempo.
E lui rispose:
Vorreste misurare il tempo, l'incommensurabile e l'immenso.
Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito secondo le ore e le
stagioni.
Del tempo vorreste fare un fiume per sostare presso la sua riva e guardarlo fluire.
Ma l'eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo
E sa che l'oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi.
E ciò che in voi è canto e contemplazione dimora quieto entro i confini di quel primo attimo in cui le
stelle furono disseminate nello spazio.
Chi di voi non sente che la sua forza d'amore è sconfinata?
E chi non sente che questo autentico amore, benché sconfinato, è racchiuso nel centro del proprio
essere, e non passa da pensiero d'amore a pensiero d'amore, né da atto d'amore ad atto d'amore?
E non è forse il tempo, così come l'amore, indiviso e immoto?
Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le
altre,
E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l'attesa.
TEMPO DI MORIRE
Storia Zen
Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino.
Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu
ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell'insegnante, nascose i cocci
della tazza dietro la schiena.
Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: «Perché la gente deve morire?».
«Questo è naturale» spiegò il vecchio. «Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è
destinato».
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Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: «Per la tua tazza era venuto il tempo di morire».
IL TEMPO PER IMPARARE
Storia Zen
Un giovane, ma scrupoloso studente, si avvicinò al suo Maestro e gli domandò:
"Se lavoro duramente e mi applico con diligenza, quanto impiegherò a realizzare lo Zen (pratica di
meditazione)?"
Il Maestro rifletté sulla domanda, ed infine rispose: "Dieci anni".
Lo studente allora disse: "Ma se mi applico molto, molto duramente, e mi sforzo veramente al
massimo per imparare velocemente, quanto tempo?"
Il Maestro rispose: "Bene, allora vent'anni".
"Ma se veramente mi impegno con ogni mia forza, quanto tempo?" Insistette il discepolo.
"Allora trent'anni" replicò il Maestro.
"Ma io non capisco - disse lo studente deluso - ogni volta che dico che lavorerò più duramente, Voi
rispondete che impiegherò più tempo. Perché dite così?"
Il Maestro rispose: "Quando tieni un occhio rivolto al traguardo, hai solo un occhio rivolto al
sentiero".
UNA PARABOLA
Storia Zen
In un sutra, Buddha raccontò una parabola: Un uomo che camminava per un campo si imbatté in
una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una
vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l'orlo. La tigre lo fiutava dall'alto. Tremando, l'uomo guardò
giù, dove, in fondo all'abisso, un'altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva.
Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L'uomo scorse
accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l'altra spiccò la
fragola. Com'era dolce!
IL TEMPO NECESSARIO
da Vino e pane di Ignazio Silone
“Per fare il pane ci vogliono nove mesi” disse il vecchio Murica.
“Nove mesi?” domandò la madre.
“A novembre il grano è seminato, a luglio mietuto e trebbiato”.
il vecchio contò i mesi: “Novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno,
luglio. Fanno giusto nove mesi. Per maturare l’uva ci vogliono anche nove mesi, da marzo a
novembre”.
Egli contò i mesi: “Marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre.
Anch’essi fanno nove mesi”.
“Nove mesi?” domandò la madre.
Essa non vi aveva mai riflettuto.
Lo stesso tempo ci vuole per fare un uomo. Luigi nacque nel mese di aprile.
Sottovoce ella contò i mesi all’inverso: “Aprile, marzo, febbraio, gennaio, dicembre, novembre,
ottobre, settembre, agosto”.
Da agosto ad aprile ci vollero nove mesi.
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L’ESEMPIO DELLA LAMPADA
da Il circolo dei cantastorie
di Jean-Claude Carrière
Un vecchio, la cui memoria cominciava a vacillare, era assai desideroso d’istruirsi.
Si recò da un uomo famoso per la sua sapienza e l’interrogò sull’oblio. L’uomo gli parlò.
Il vecchio soddisfatto ritornò nella sua cella. Ma, appena chiusa la porta, si rese conto che aveva
già dimenticato tutto che gli era stato appena detto.
Ritornò dal santo e l’interrogò una seconda volta. Il santo gli rispose allo stesso modo.
Il vecchio ritornò nella sua cella. Appena chiusa la porta, aveva di nuovo dimenticato.
Qualche tempo dopo, fatti altri analoghi tentativi, andò a trovare il santo e gli confidò le ragioni del
suo disagio: “Dimentico tutto ciò che mi dici, e non ho più il coraggio di farti domande”.
“Va’ ad accendere una lampada”, gli disse il santo.
Il vecchio obbedì. Ritornò con una lampada accesa.
“Adesso porta altre lampade”, disse il santo, “e accendile tutte alla fiamma della prima lampada”.
Il vecchio fece come gli era stato detto. E subito arsero tante lampade.
“La prima lampada”, disse il santo, “ha forse subito un danno dal fatto che tante lampade sono
state accese alla sua fiamma?”.
“No”, disse il vecchio.
“Allora non esitare”, gli disse il santo. “Ogni volta che vorrai, vieni a farmi domande. Ti risponderò”.
UNA VECCHIA FAVOLA ETIOPE
Una donna sposa un vedovo con un figlio ancora bambino, molto addolorato per la morte della sua
mamma. La donna, commossa dalla pena del bambino, nel giorno del suo matrimonio promette a
se stessa: “Sarò io una buona mamma per lui, così il suo dolore avrà fine!”.
E quel giorno decide di impiegare tutte le sue energie per conquistarsi l’amore del bambino.
Quando torna nella capanna per i pasti gli prepara i cibi migliori che sappia cucinare, ma lui li
allontana con un gesto stizzito: Quello che cucinava la mia mamma sì che era buono; questa roba
a me non piace, mi fa proprio schifo!”.
Quando la mattina esce per andare a scuola o a giocare con gli altri bambini, gli fa trovare i suoi
abiti in ordine, lavati e rammendati durante la notte, ma lui ogni sera torna nella capanna con gli
abiti sporchi e strappati, come se lo facesse di proposito.
Quando tenta di dargli un bacio sulla guancia, lui se la pulisce arrabbiato col dorso della mano,
come se fosse la maggiore offesa che possa ricevere. Insomma, per quanto la donna si sforzi di
conquistare il bambino e di consolare il suo dolore, che le fa così male vedere sempre davanti agli
occhi, giorno dopo giorno, nessun tentativo le riesce, anzi naufraga miseramente nel fallimento.
Alla fine, disperata e piangente, la donna decide di andare a consultare lo stregone del villaggio.
“Preparami una magia per conquistare l’amore del mio nuovo bambino! Te lo pagherò a qualsiasi
prezzo” lo implora.
“Va bene” le risponde lo stregone dopo averci pensato un po’ “te lo preparerò. Però per farla mi
servono due baffi del leone più feroce che stia nella foresta! Quelli me li devi portare tu!”.
“E come faccio a procurarmi i baffi del leone?” ribatte la donna spaventata e scoraggiata. “Lo sai
benissimo anche tu che nessuno si può avvicinare al suo territorio!”.
“Mi spiace” risponde lo stregone. “Ma se vuoi che io ti prepari la magia, tu mi devi proprio portare
quei baffi, altrimenti non potrà avere nessun effetto!”.
“Oh, povera me si dice la donna ancora più scoraggiata, e se ne torna piangente più di prima nella
capanna. Ma durante la notte continua a pensare ed è tale il suo desiderio di conquistare l’affetto
del bambino che alla fine prende la grande decisione di provare a conquistare anche i baffi del
leone.
Il giorno seguente si procura un gran vassoio di carne, di quella preferita dagli animali selvatici, e
lo porta nella foresta, al confine estremo del territorio del leone, poi lo deposita per terra e se ne
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va.
Il giorno seguente prende un altro gran vassoio di carne e lo porta di nuovo nella foresta, ma
questa volta lo lascia qualche passo avanti, già nel territorio del leone.
Il terzo giorno lo deposita ancora qualche passo più avanti e lo stesso fa anche il quarto, il quinto e
il sesto giorno e… e… il ventesimo, il cinquantesimo, il centesimo e così via. E così, di passo in
passo, trascorrono prima i giorni e poi anche i mesi e la donna col suo vassoio avanza sempre di
più nel territorio del leone, fino a quando incomincia, con grande terrore, a vedere la tana e poi
anche lui che si è ormai abituato a lei e al suo vassoio di carne e li aspetta da lontano. E così, a
poco a poco, ecco che arriva finalmente anche il giorno che la donna, spaventatissima ma
determinata, depone direttamente il vassoio di carne davanti al leone che comincia tranquillamente
a mangiare.
E allora con una mossa furtiva, lei gli stacca due baffi, col cuore che le galoppa nel petto, ma il
leone, preso dal piacere del pasto, non se ne accorge nemmeno, con tutti i baffi che ha.
Allora la donna se li stringe felice al cuore, riattraversa correndo la foresta e va dritta dallo
stregone:
“Ecco qua, questi sono i due baffi del leone! Adesso preparami finalmente la magia per
conquistare il mio nuovo bambino!”.
Lo stregone la guarda a lungo in silenzio e poi le dice: “Mi spiace, ma quello che tu mi chiedi non
te lo posso fare. Non bastano i baffi di un leone per conquistare un figlio!”.
“Ma tu l’avevi promesso” singhiozza la donna disperata. “E io ho rischiato la vita per andare a
prenderli! Che cos’altro può fare una povera donna per conquistare l’affetto del suo bambino?”.
“Questo non lo so io, lo sai già tu. Sai perché non ti posso preparare la magia? Le risponde allora
lo stregone. “Perché non è più nelle mie mani, ormai ce l’hai già tu nelle tue.
E la magia è semplicemente questa: devi fare col tuo bambino esattamente quello che hai fatto col
leone!”.
IL SAPORE DELLA SPADA DI BANZO
Storia Zen
Matajuro Yagyu era il figlio di un famoso spadaccino.
Suo padre, convinto che l'attitudine del figlio fosse troppo scarsa per fargli raggiungere la maestria,
lo disconobbe.
Così Matajuro andò sul Monte Futara e là trovò il famoso spadaccino Banzo.
Ma Banzo confermò il giudizio del padre. «Tu vuoi imparare a maneggiare la spada sotto la mia
guida?» domandò Banzo. «Ti mancano i requisiti indispensabili».
«Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare un maestro?» insistette il giovane.
«Il resto della tua vita» rispose Banzo.
«Non posso aspettare tanto» disse Matajuro. «Se accetti di darmi lezione, sono pronto a
sottopormi a qualunque fatica. Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo ci vorrà?».
«Oh, dieci anni, forse» disse Banzo addolcendosi.
«Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di lui» continuò Matajuro. «Se
lavoro ancora più assiduamente, quanto tempo mi ci vorrà?».
«Oh, forse trent'anni» rispose Banzo.
«Ma come!» disse Matajuro. «Prima hai detto dieci anni, e ora trenta! Accetterò qualunque
privazione pur di imparare quest'arte nel tempo più breve!».
«Bè,» disse Banzo «allora dovrai restare con me settant'anni. Un uomo che ha tanta fretta di
ottenere dei risultati raramente impara alla svelta».
«E va bene» dichiarò il giovane, comprendendo infine che gli si stava rimproverando la sua
impazienza. «Accetto».
Matajuro ebbe l'ordine di non parlare mai di scherma e di non toccare mai una spada. Cucinava
per il suo maestro, lavava i piatti, gli rifaceva il letto, puliva il cortile, curava il giardino, tutto senza
che si parlasse mai di scherma.
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Passarono tre anni. Matajuro continuava a lavorare. Pensando al proprio avvenire era triste. Non
aveva ancora cominciato a imparare l'arte alla quale aveva votato la propria vita.
Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo terribile con una spada di legno.
L'indomani, mentre Matajuro stava cucinando del riso, Banzo tutt'a un tratto gli saltò di nuovo
addosso.
Da allora, giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti inaspettati. Non c'era giorno, non
c'era momento che non dovesse pensare al sapore della spada di Banzo. Imparò così in fretta che
la faccia del suo maestro era raggiante di sorrisi. Matajuro divenne il più grande spadaccino del
paese.
Da IL PICCOLO PRINCIPE
Antoine de Saint-Exupéry
XIV
Il quinto pianeta era molto strano. Vi era appena il posto per sistemare un lampione e l'uomo che
l'accendeva. Il piccolo principe non riusciva a spiegarsi a che potessero servire, spersi nel cielo, si
di un pianeta senza case, senza abitanti, un lampione e il lampionaio. Eppure si disse: "Forse
quest'uomo è veramente assurdo. Però è meno assurdo del re, del vanitoso, dell'uomo d'affari e
dell'ubriacone. Almeno il suo lavoro ha un senso. Questo accende il suo lampione, è come se
facesse nascere una stella in più, o un fiore. Quando lo spegne addormenta il fiore o la stella. È
una bellissima occupazione, ed è veramente utile, perché è bella". Salendo sul pianeta salutò
rispettosamente l'uomo: "Buon giorno. Perché spegni il tuo lampione?" "È la consegna" rispose il
lampionaio. "Buon giorno". "Che cos'è la consegna?" "È di spegnere il mio lampione. Buona sera".
E lo riaccese. "E adesso perché lo riaccendi?" "È la consegna". "Non capisco", disse il piccolo
principe. "Non c'è nulla da capire", disse l'uomo, "la consegna è la consegna. Buon giorno". E
spense il lampione. Poi si asciugò la fronte con un fazzoletto a quadri rossi. "Faccio un mestiere
terribile. Una volta era ragionevole. Accendevo al mattino e spegnevo alla sera, e avevo il resto del
giorno per riposarmi e il resto della notte per dormire...".
"E dopo di allora è cambiata la consegna?" "La consegna non è cambiata", disse il lampionaio, "è
proprio questo il dramma. Il pianeta di anno in anno ha girato sempre più in fretta e la consegna
non è stata cambiata!"
"Ebbene?" disse il piccolo principe. "Ebbene, ora che fa un giro al minuto, non ho più un secondo
di riposo. Accendo e spengo una volta al minuto!" "È divertente! I giorni da te durano un minuto!"
"Non è per nulla divertente", disse l'uomo. "Lo sai che stiamo parlando da un mese?" "Da un
mese?" "Si. Trenta minuti: trenta giorni!. Buona sera". E riaccese il suo lampione. Il piccolo
principe lo guardò e sentì improvvisamente di amare questo uomo che era così fedele alla sua
consegna. Si ricordò dei tramonti che lui stesso una volta andava a cercare, spostando la sua
sedia. E volle aiutare il suo amico: "Sai ... conosco un modo per riposarti quando vorrai ..." "Lo
vorrei sempre", disse l'uomo. Perché si può essere nello stesso tempo fedeli e pigri. E il piccolo
principe continuò: "Il tuo pianeta è così piccolo che in tre passi ne puoi fare il giro. Non hai che da
camminare abbastanza lentamente per rimanere sempre al sole. Quando vorrai riposarti
camminerai e il giorno durerà finché tu vorrai". "Non mi serve a molto", disse l'uomo. "Ciò che
desidero soprattutto nella vita è di dormire". "Non hai fortuna", disse il piccolo principe. "Non ho
fortuna", rispose l'uomo. "Buon giorno". E spense il suo lampione. Quest'uomo, si disse il piccolo
principe, continuando il suo viaggio, quest'uomo sarebbe disprezzato da tutti gli altri , dal re, dal
vanitoso, dall'ubriacone, dall'uomo d'affari. Tuttavia è il solo che non mi sembri ridicolo. Forse
perché si occupa di altro che non di se stesso. Ebbe un sospiro di rammarico e si disse ancora:
Questo è il solo di cui avrei potuto farmi un amico. Ma il suo pianeta è veramente troppo piccolo
non c'è posto per due... Quello che il piccolo principe non osava confessare a se stesso, era che di
questo pianeta benedetto rimpiangeva soprattutto i millequattrocentoquaranta tramonti nelle
ventiquattro ore.
30
XXI
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Và a rivedere le rose. Capirai
che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto". Il piccolo
principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete
ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi
siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio
amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete
vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe
che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho
innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col
paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho
ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa". E ritornò dalla
volpe. "Addio", disse.
" "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore.
L'essenziale è invisibile agli occhi". "L'essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe,
per ricordarselo.
"È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante". "È il tempo
che ho perduto per la mia rosa..." sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. "Gli uomini hanno
dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di
quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..." "Io sono responsabile della mia
rosa..." ripetè il piccolo principe per ricordarselo.
XXIII
"Buon giorno", disse il piccolo principe. "Buon giorno", disse il mercante. Era un mercante di pillole
perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il
bisogno di bere. "Perché vendi questa roba?" disse il piccolo principe. "È una grossa economia di
tempo", disse il mercante. "Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatrè minuti la
settimana". "E che cosa se ne fa di questi cinquantatrè minuti?" "Se ne fa quel che si vuole..." "Io",
disse il piccolo principe, "se avessi cinquantatrè minuti da spendere, camminerei adagio adagio
verso una fontana..."
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
di Lewis Carroll
1865
Capitolo 1 -- Nella tana del coniglio
Capitolo 2 -- Un lago di Lacrime
Capitolo 3 -- Una corsa elettorale e una lunga storia
Capitolo 4 -- Il coniglio presenta un conticino
Capitolo 5 -- I Consigli di un Bruco
Capitolo 6 -- Porco e pepe
Capitolo 7 -- Un tè di matti
Capitolo 8 -- La partita a croquet della Regina
Capitolo 9 -- La Storia della Finta Tartaruga
Capitolo 10 -- La Quadriglia delle Aragoste
Capitolo 11 -- Chi ha rubato le paste?
Capitolo 12 -- La deposizione di Alice
La trama.
Seguendo un coniglio bianco (in certe traduzioni "Bianconiglio"), Alice cade letteralmente in un
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onirico mondo sotterraneo fatto di paradossi, di assurdità e di nonsensi. Nella sua caccia al
coniglio le accadono le più improbabili disavventure. Segue il coniglio attraverso la tana, ma cade
(lentamente) in uno strano tunnel. Arrivata in fondo, trova una stanza piena di porte, ma tutte
chiuse e tutte minuscole. Guardando attraverso una serratura, scorge un bellissimo giardino e
vuole raggiungerlo, ma è troppo grande. Allora scorge su d'un tavolo di vetro una chiave, ma lei è
sempre troppo grande per passare attraverso la porta. Viene in suo aiuto una bottiglia con su
scritto "bevimi". Infatti il contenuto la fa rimpicciolire, ma giunta alla porta, si rende conto d'aver
lasciato la chiave sul tavolo. Assaggiato un pasticcino comparso dal nulla con su scritto
"mangiami" diventa enorme. Ora può prendere la chiave ma di nuovo non passa dalla porta.
Affranta, scoppia in lacrime, che allagano la stanza. Ritrovata la bottiglia, riesce a rimpicciolirsi e
scomparsa la stanza, si trova in compagnia d'un topo e altri animali (parrocchetto, dodo, aquilotto).
Il topo abbozza una storia ma poi scatta la "corsa confusa" dove tutti gli animali corrono in circolo,
chi inizia dopo chi smette prima. Alla fine della corsa, però, tutti sono asciutti.
Allontanatasi da questa compagnia, Alice ritrova il coniglio bianco e la sua casetta. Entrata in casa
per cercare guanti e ventaglio del coniglio, mangia di nuovo, diventando ancora una volta enorme,
tanto che le braccia le escono dalle finestre. Il coniglio, allarmato, chiama a raccolta Bill la lucertola
che prova a passare attraverso il camino, ma Alice lo scaccia con un calcio. Fallita la spedizione di
Bill, il coniglio tira sassi ad Alice che però diventano pasticcini. Mangiatone uno, ridiventa
piccolissima e fugge dalla casa. Scansato il pericolo del cucciolo gigante, Alice s'intrattiene col
Brucaliffo, che trova su d'un fungo a fumare un Narghilè. Prima d'andarsene, dopo essere
diventato farfalla usando una nuvola di fumo come bozzolo, il bruco le rivela che le due parti del
fungo la possono far crescere e rimpicciolire a suo piacimento.
Al primo tentativo, Alice si ritrova con un collo lunghissimo, che fa sì che un piccione la scambi per
un serpente. Ritrovate le giuste proporzioni, Alice si rimette in moto. Nel bosco giunge alla casa
della duchessa. Assiste allo scambio d'inviti dei due messi (un pesce e un ranocchio) col quale la
regina di cuori invita la duchessa ad una partita di croquet. La casa della duchessa è molto strana:
lei sta infastidita, a cullare un bambino che urla e starnuta per l'aria satura di pepe, mentre la
cuoca che rimesta la zuppa, di tanto in tanto, lancia stoviglie e pentole in ogni dove. La duchessa
lascia però presto Alice per andare a prepararsi alla partita, donandole il bimbo in fasce che si
trasforma in porcellino e corre via nel bosco. Dopo aver scambiato quattro chiacchiere col gatto del
Cheshire che sogghigna e compare e scompare a pezzi, Alice giunge alla casa della Lepre
Marzolina che sta prendendo il te' col Cappellaio Matto.
Questi due personaggi, in compagnia del ghiro, prendono il tè cambiando continuamente posto,
spostandosi di tazza in tazza. Alice viene così a sapere che l'orologio del cappellaio segna sempre
il giorno, ma non l'ora, e le viene sottoposto un indovinello: "perché uno scrittoio è come un corvo",
indovinello al quale non c'è soluzione. Dopo aver lasciato il pazzo ricevimento del tè, Alice trova la
strada per il castello della regina, dove trova i soldati con il corpo costituito da carte da ramino di
picche che dipingono di rosso le rose che per sbaglio sono state piantate bianche. In quel
momento arriva il corteo della regina: ci sono le picche (in inglese "spades", spade o anche
vanghe, quindi sono i giardinieri), quadri (in inglese "diamonds", i cortigiani), fiori (in inglese "clubs"
ma anche bastoni, quindi le guardie), cuori (in inglese "hearts") che rappresentano i principi di
sangue reale..
Alice cerca di controllare il suo fenicottero per iniziare la partita a croquet.
la Regina, subito aggressiva (rappresenta la Furia), invita Alice a giocare a croquet, ma il campo è
pieno di buche, si utilizzano le carte come porte, istrici come palle e fenicotteri come mazze. Il
gioco è subito una gran confusione di giocatori che urlano e giocano all'unisono. Spesso le porte
(le carte) devono assentarsi per decapitare chiunque capiti a tiro alla regina che ne sentenzia la
morte. Riappare la duchessa, momentaneamente uscita dalla prigione in cui la regina l'aveva
destinata, e presenta ad Alice il grifone che con fare autoritario, la porta a fare la conoscenza della
"finta tartaruga". La finta tartaruga serve a fare il finto brodo di tartaruga (allegoria del vero brodo di
tartaruga che si fa con la carne di vitello). La tartaruga racconterà ad Alice di come studiava sul
fondo del mare e mostra in coppia col grifone, la quadriglia delle aragoste. Alice si deve
interrompere perché nel frattempo è stato istituito il processo, nel quale si giudicherà il fante di
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cuori, accusato d'aver rubato le tartine pepate. Al processo, annunciato dal coniglio bianco che ora
è abbigliato come un araldo, sono presenti i giurati (varie specie di animali), i testimoni (il
cappellaio matto, la cuoca della duchessa e la stessa Alice). Il ritrovamento di una lettera senza
firma con una poesia senza senso, convince tutti che il vero colpevole sia il fante di cuori.
"Sentenza prima, verdetto poi" declama la regina, ma Alice (che ha iniziato a diventare sempre più
grande) dissente e quando si alza per testimoniare, la sua gonna spazza il tavolo della giuria
facendo cadere tutti i giurati. Dopo poco è diventata così grande che non si preoccupa più di re e
regine ritrovando la giusta misura della realtà: "non siete altro che un mazzo di carte"... Il sogno
finisce con Alice che si risveglia tra le braccia della sorella e quindi si dirige a casa per l'ora del tè.
L’IO CHE LAVORA NEL TEMPO.
Capitolo 5 - I CONSIGLI DEL BRUCO
Il Bruco e Alice si guardarono a vicenda per qualche tempo in silenzio; finalmente il Bruco staccò
la pipa di bocca, e le parlò con voce languida e sonnacchiosa:
Chi sei? - disse il Bruco.
Non era un bel principio di conversazione. Alice rispose con qualche timidezza: - Davvero non te lo
saprei dire ora. So dirti chi fossi, quando mi son levata questa mattina, ma d'allora credo di essere
stata cambiata parecchie volte.
- Che cosa mi vai contando? - disse austeramente il Bruco. - Spiegati meglio.
- Temo di non potermi spiegare, - disse Alice, - perchè non sono più quella di prima, come vedi.
- Io non vedo nulla, - rispose il Bruco.
- Temo di non potermi spiegare più chiaramente, - soggiunse Alice in maniera assai gentile, perchè dopo esser stata cambiata di statura tante volte in un giorno, non capisco più nulla.
- Non è vero! - disse il Bruco.
- Bene, non l'hai sperimentato ancora, - disse Alice, - ma quando ti trasformerai in crisalide, come
ti accadrà un giorno, e poi diventerai farfalla, certo ti sembrerà un po'strano, - non è vero?
- Niente affatto, - rispose il Bruco.
- Bene, tu la pensi diversamente, - replicò Alice; - ma a me parrebbe molto strano.
- A te! - disse il Bruco con disprezzo. - Chi sei tu?
E questo li ricondusse di nuovo al principio della conversazione.
Alice si sentiva un po' irritata dalle brusche osservazioni del Bruco e se ne stette sulle sue, dicendo
con gravità: - Perchè non cominci tu a dirmi chi sei?
- Perchè? - disse il Bruco.
Era un'altra domanda imbarazzante. Alice non seppe trovare una buona ragione. Il Bruco pareva
di cattivo umore e perciò ella fece per andarsene.
- Vieni qui! - la richiamò il Bruco. - Ho qualche cosa d'importante da dirti.
La chiamata prometteva qualche cosa: Alice si fece innanzi.
- Non arrabbiarti! - disse il Bruco.
- E questo è tutto? - rispose Alice, facendo uno sforzo per frenarsi.
- No, - disse il Bruco.
Alice pensò che poteva aspettare, perchè non aveva niente di meglio da fare, e perchè forse il
Bruco avrebbe potuto dirle qualche cosa d'importante. Per qualche istante il Bruco fumò in
silenzio, finalmente sciolse le braccia, si tolse la pipa di bocca e disse:
- E così, tu credi di essere cambiata?
- Ho paura di sì, signore, - rispose Alice. - Non posso ricordarmi le cose bene come una volta, e
non rimango della stessa statura neppure per lo spazio di dieci minuti!
- Che cosa non ricordi? - disse il Bruco.
- Ecco, ho tentato di dire «La vispa Teresa» e l'ho detta tutta diversa! - soggiunse
melanconicamente Alice.
- Ripetimi «Sei vecchio, caro babbo», - disse il Bruco.
Alice incrociò le mani sul petto, e cominciò:
«Sei vecchio, caro babbo» - gli disse il ragazzino «sulla tua chioma splende - quasi un candore alpino;
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eppur costantemente - cammini sulla testa:
ti sembra per un vecchio - buona maniera questa?»
«Quand'ero bambinello» - rispose il vecchio allora «temevo di mandare - il cerebro in malora;
ma adesso persuaso - di non averne affatto,
a testa in giù cammino - più agile d'un gatto.»
«Sei vecchio, caro babbo» - gli disse il ragazzino e sei capace e vasto - più assai d'un grosso tino:
e pur sfondato hai l'uscio - con una capriola;
«dimmi di quali acrobati - andasti, babbo, a scuola?»
«Quand'ero bambinello.» - rispose il padre saggio,
per rafforzar le membra, - io mi facea il massaggio
sempre con quest'unguento. - Un franco alla boccetta.
«chi comperarlo vuole, - fa bene se s'affretta»
«Sei vecchio, caro babbo,» - gli disse il ragazzino, «e tu non puoi mangiare - che pappa nel brodino;
pure hai mangiato un'oca - col becco e tutte l'ossa
Ma dimmi, ove la pigli, - o babbo, tanta possa?»
«Un dì apprendevo legge» - il padre allor gli disse, «ed ebbi con mia moglie continue liti e risse,
e tanta forza impressi - alle ganasce allora,
tanta energia, che, vedi, - mi servon bene ancora.»
«Sei vecchio. caro babbo,» - gli disse il ragazzino
«e certo come un tempo - non hai più l'occhio fino:
pur reggi in equilibrio - un pesciolin sul naso:
or come così desto - ti mostri in questo caso?»
«A tutte le domande - io t'ho risposto già,
«e finalmente basta!» - risposegli il papà:
«se tutto il giorno poi - mi vuoi così seccare.
ti faccio con un calcio - le scale ruzzolare»
- Non l'hai detta fedelmente, - disse il Bruco.
- Temo di no, - rispose timidamente Alice, - certo alcune parole sono diverse.
- L'hai detta male, dalla prima parola all'ultima, - disse il Bruco con accento risoluto.
Vi fu un silenzio per qualche minuto.
Il Bruco fu il primo a parlare:
- Di che statura vuoi essere? - domandò.
- Oh, non vado tanto pel sottile in fatto di statura, - rispose in fretta Alice; - soltanto non è piacevole
mutar così spesso, sai.
- Io non ne so nulla, - disse il Bruco.
Alice non disse sillaba: non era stata mai tante volte contraddetta, e non ne poteva proprio più.
- Sei contenta ora? - domandò il Bruco.
- Veramente vorrei essere un pochino più grandetta, se non ti dispiacesse, - rispose Alice, - una
statura di otto centimetri è troppo meschina!
- Otto centimetri fanno una magnifica statura! - disse il Bruco collerico, rizzandosi come uno stelo,
mentre parlava (egli era alto esattamente otto centimetri).
- Ma io non ci sono abituata! - si scusò Alice in tono lamentoso. E poi pensò fra sè: «Questa
bestiolina s'offende per nulla!»
- Col tempo ti ci abituerai, - disse il Bruco, e rimettendosi la pipa in bocca ricominciò a fumare.
Questa volta Alice aspettò pazientemente che egli ricominciasse a parlare. Dopo due o tre minuti,
il Bruco si tolse la pipa di bocca, sbadigliò due o tre volte, e si scosse tutto. Poi discese dal fungo,
e se ne andò strisciando nell'erba, dicendo soltanto queste parole: - Un lato ti farà diventare più
alta e l'altro ti farà diventare più bassa.
«Un lato di che cosa? L'altro lato di che cosa?» pensò Alice fra sè.
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- Del fungo, - disse il Bruco, come se Alice lo avesse interrogato ad alta voce; e subito scomparve.
Alice rimase pensosa un minuto guardando il fungo, cercando di scoprirne i due lati, ma siccome
era perfettamente rotondo, trovò la cosa difficile. A ogni modo allungò più che le fu possibile le
braccia per circondare il fungo, e ne ruppe due pezzetti dell'orlo a destra e a sinistra.
- Ed ora qual è un lato e qual è l'altro? - si domandò, e si mise ad addentare, per provarne l'effetto,
il pezzettino che aveva a destra; l'istante dopo si sentì un colpo violento sotto il mento. Aveva
battuto sul piede!
Quel mutamento subitaneo la spaventò molto; ma non c'era tempo da perdere, perchè ella si
contraeva rapidamente; così si mise subito ad addentare l'altro pezzo. Il suo mento era talmente
aderente al piede che a mala pena trovò spazio per aprir la bocca; finalmente riuscì a inghiottire
una briccica del pezzettino di sinistra.
- Ecco, la mia testa è libera finalmente! - esclamò Alice gioiosa; ma la sua allegrezza si mutò in
terrore, quando si accorse che non poteva più trovare le spalle: tutto ciò che poteva vedere,
guardando in basso, era un collo lungo lungo che sembrava elevarsi come uno stelo in un mare di
foglie verdi, che stavano a una bella distanza al di sotto.
- Che cosa è mai quel campo verde? - disse Alice. - E le mie spalle dove sono? Oh povera me!
perchè non vi veggo più, o mie povere mani? - E andava movendole mentre parlava, ma non
seguiva altro effetto che un piccolo movimento fra le foglie verdi lontane.
E siccome non sembrava possibile portar le mani alla testa, tentò di piegare la testa verso le mani,
e fu contenta di rilevare che il collo si piegava e si moveva in ogni senso come il corpo d'un
serpente. Era riuscita a curvarlo in giù in forma d'un grazioso zig-zag, e stava per tuffarlo fra le
foglie (le cime degli alberi sotto i quali s'era smarrita), quando sentì un sibilo acuto, che glielo fece
ritrarre frettolosamente: un grosso Colombo era volato su di lei e le sbatteva violentemente le ali
contro la faccia.
- Serpente! - gridò il Colombo.
- Io non sono un serpente, - disse Alice indignata. - Vattene!
- Serpente, dico! - ripetè il Colombo, ma con tono più dimesso, e soggiunse singhiozzando: - Ho
cercato tutti i rimedi, ma invano.
- Io non comprendo affatto di che parli, - disse Alice.
- Ho provato le radici degli alberi, ho provato i clivi, ho provato le siepi, - continuò il Colombo senza
badarle; - ma i serpenti! Oh, non c'è modo di accontentarli!
Alice sempre più confusa, pensò che sarebbe stato inutile dir nulla, sin che il Colombo non avesse
finito.
- Come se fosse poco disturbo covar le uova, - disse il Colombo. - Bisogna vegliarle giorno e notte!
Sono tre settimane che non chiudo occhio!
- Mi dispiace di vederti così sconsolato! disse Alice, che cominciava a comprendere.
- E appunto quando avevo scelto l'albero più alto del bosco, - continuò il Colombo con un grido
disperato, - e mi credevo al sicuro finalmente, ecco che mi discendono dal cielo! Ih! Brutto
serpente!
- Ma io non sono un serpente, ti dico! - rispose Alice. - lo sono una... Io sono una...
- Bene, chi sei? - chiese il Colombo. - È chiaro che tu cerchi dei raggiri per ingannarmi!
- Io... io sono una bambina, - rispose Alice, ma con qualche dubbio, perchè si rammentava i molti
mutamenti di quel giorno.
- È una frottola! - disse il Colombo col tono del più amaro disprezzo. - Ho veduto molte bambine in
vita mia, ma con un collo come il tuo, mai. No, no! Tu sei un serpente, è inutile negarlo.
Scommetto che avrai la faccia di dirmi che non hai assaggiato mai un uovo!
- Ma certo che ho mangiato delle uova, - soggiunse Alice, che era una bambina molto sincera. Non son soli i serpenti a mangiare le uova; le mangiano anche le bambine.
- Non ci credo, - disse il Colombo, - ma se così fosse le bambine sarebbero un'altra razza di
serpenti, ecco tutto.
Questa idea parve così nuova ad Alice che rimase in silenzio per uno o due minuti; il Colombo
colse quell'occasione per aggiungere: - Tu vai a caccia di uova, questo è certo, e che m'importa,
che tu sia una bambina o un serpente?
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- Ma importa moltissimo a me, - rispose subito Alice. - A ogni modo non vado in cerca di uova; e
anche se ne cercassi, non ne vorrei delle tue; crude non mi piacciono.
- Via dunque da me! - disse brontolando il Colombo, e si accovacciò nel nido. Alice s'appiattò
come meglio potè fra gli alberi, perchè il collo le s'intralciava tra i rami, e spesso doveva fermarsi
per distrigarnelo. Dopo qualche istante, si ricordò che aveva tuttavia nelle mani i due pezzettini di
fungo, e si mise all'opera con molta accortezza addentando ora l'uno ora l'altro, e così diventava
ora più alta ora più bassa, finchè riuscì a riavere la sua statura giusta.
Era da tanto tempo che non aveva la sua statura giusta, che da prima le parve strano; ma vi si
abituò in pochi minuti, e ricominciò a parlare fra sè secondo il solito. - Ecco sono a metà del mio
piano! Sono pure strani tutti questi mutamenti! Non so mai che diventerò da un minuto all'altro! Ad
ogni modo, sono tornata alla mia statura normale: ora bisogna pensare ad entrare in quel bel
giardino... Come farò, poi?
E così dicendo, giunse senza avvedersene in un piazzale che aveva nel mezzo una casettina alta
circa un metro e venti. - Chiunque vi abiti, - pensò Alice, - non posso con questa mia statura fargli
una visita; gli farei una gran paura!
E cominciò ad addentare il pezzettino che aveva nella destra, e non osò di avvicinarsi alla casa, se
non quando ebbe la statura d'una ventina di centimetri.
UNA QUESTIONE DI TEMPO
Capitolo 7 - UN TÉ DI MATTI
Sotto un albero di rimpetto alla casa c'era una tavola apparecchiata. Vi prendevano il tè la Lepre di
Marzo e il Cappellaio. Un Ghiro profondamente addormentato stava fra di loro, ed essi se ne
servivano come se fosse stato un guanciale, poggiando su di lui i gomiti, e discorrendogli sulla
testa. «Un gran disturbo per il Ghiro, - pensò Alice, - ma siccome dorme, immagino che non se ne
importi nè punto, nè poco.»
La tavola era vasta, ma i tre stavano stretti tutti in un angolo: - Non c'è posto! Non c'è posto! gridarono, vedendo Alice avvicinarsi.
- C'è tanto posto! - disse Alice sdegnata, e si sdraiò in una gran poltrona, a un'estremità della
tavola.
- Vuoi un po' di vino? - disse la Lepre di Marzo affabilmente.
Alice osservò la mensa, e vide che non c'era altro che tè. - Non vedo il vino, - ella osservò.
- Non ce n'è, replicò la Lepre di Marzo.
- Ma non è creanza invitare a bere quel che non c'è, - disse Alice in collera.
- Neppure è stata creanza da parte tua sederti qui senza essere invitata, - osservò la Lepre di
Marzo.
- Non sapevo che la tavola ti appartenesse, - rispose Alice; - è apparecchiata per più di tre.
- Dovresti farti tagliare i capelli, - disse il Cappellaio. Egli aveva osservato Alice per qualche istante
con molta curiosità, e quelle furono le sue prime parole.
-Tu non dovresti fare osservazioni personali, - disse Alice un po' severa; - è sconveniente.
Il Cappellaio spalancò gli occhi; ma quel che rispose fu questo: - Perchè un corvo somiglia a uno
scrittoio?
- Ecco, ora staremo allegri! - pensò Alice. -Sono contenta che hanno cominciato a proporre degli
indovinelli... credo di poterlo indovinare, - soggiunse ad alta voce.
- Intendi dire che credi che troverai la risposta? - domandò la Lepre di Marzo.
- Appunto, - rispose Alice.
- Ebbene, dicci ciò che intendi, - disse la Lepre di Marzo.
- Ecco, - riprese Alice in fretta; - almeno intendo ciò che dico... è lo stesso, capisci.
- Ma che lo stesso! - disse il Cappellaio.
- Sarebbe come dire che «veggo ciò che mangio» sia lo stesso di «mangio quel che veggo.»
- Sarebbe come dire, - soggiunse la Lepre di Marzo, - che «mi piace ciò che prendo», sia lo stesso
che «prendo ciò che mi piace?»
- Sarebbe come dire, - aggiunse il Ghiro che pareva parlasse nel sonno, - che «respiro quando
dormo», sia lo stesso che «dormo quando respiro?»
36
- È lo stesso per te, - disse il Cappellaio. E qui la conversazione cadde, e tutti stettero muti per un
poco, mentre Alice cercava di ricordarsi tutto ciò che sapeva sui corvi e sugli scrittoi, il che non era
molto.
Il Cappellaio fu il primo a rompere il silenzio. - Che giorno del mese abbiamo? - disse, volgendosi
ad Alice. Aveva cavato l'orologio dal taschino e lo guardava con un certo timore, scuotendolo di
tanto in tanto, e portandoselo all'orecchio.
Alice meditò un po' e rispose: - Oggi ne abbiamo quattro.
- Sbaglia di due giorni! - osservò sospirando il Cappellaio. - Te lo avevo detto che il burro avrebbe
guastato il congegno! - soggiunse guardando con disgusto la Lepre di Marzo.
- Il burro era ottimo, - rispose umilmente la Lepre di Marzo.
- Sì ma devono esserci entrate anche delle molliche di pane, - borbottò il Cappellaio, - non dovevi
metterlo dentro col coltello del pane.
La Lepre di Marzo prese l'orologio e lo guardò malinconicamente: poi lo tuffò nella sua tazza di tè,
e l'osservò di nuovo: ma non seppe far altro che ripetere l'osservazione di dianzi: - Il burro era
ottimo, sai.
Alice, che l'aveva guardato curiosamente, con la coda dell'occhio, disse:
- Che strano orologio! segna i giorni e non dice le ore.
- Perchè? - esclamò il Cappellaio. - Che forse il tuo orologio segna in che anno siamo?
- No, - si affrettò a rispondere Alice - ma l'orologio segna lo stesso anno per molto tempo.
- Quello che fa il mio, - rispose il Cappellaio.
Alice ebbe un istante di grande confusione. Le pareva che l'osservazione del Cappellaio non
avesse alcun senso; e pure egli parlava correttamente. - Non ti comprendo bene! - disse con la
maggiore delicatezza possibile.
- Il Ghiro s'è di nuovo addormentato, - disse il Cappellaio, e gli versò sul naso un poco di tè
bollente.
Il Ghiro scosse la testa con atto d'impazienza, e senza aprire gli occhi disse: - Già! Già! stavo per
dirlo io.
- Credi ancora di aver sciolto l'indovinello? - disse il Cappellaio, volgendosi di nuovo ad Alice.
- No, ci rinunzio, - rispose Alice. - Qual'è la risposta?
- Non la so, - rispose il Cappellaio.
- Neppure io, - rispose la Lepre di Marzo.
Alice sospirò seccata, e disse: - Ma credo potresti fare qualche cosa di meglio che perdere il
tempo, proponendo indovinelli senza senso.
- Se tu conoscessi il tempo come lo conosco io, - rispose il Cappellaio, - non diresti che lo
perdiamo. Domandaglielo.
- Non comprendo che vuoi dire, - osservò Alice.
- Certo che non lo comprendi! - disse il Cappellaio, scotendo il capo con aria di disprezzo Scommetto che tu non hai mai parlato col tempo.
- Forse no, - rispose prudentemente Alice; - ma so che debbo battere il tempo quando studio la
musica.
- Ahi, adesso si spiega, - disse il Cappellaio. - Il tempo non vuol esser battuto. Se tu fossi in buone
relazioni con lui, farebbe dell'orologio ciò che tu vuoi. Per esempio, supponi che siano le nove, l'ora
delle lezioni, basterebbe che gli dicessi una parolina all orecchio, e in un lampo la lancetta
andrebbe innanzi! Mezzogiorno, l'ora del desinare!
(«Vorrei che fosse mezzogiorno,» bisbigliò fra sè la Lepre di Marzo).
- Sarebbe magnifico, davvero - disse Alice pensosa: - ma non avrei fame a quell'ora, capisci.
- Da principio, forse, no, - riprese il Cappellaio, - ma potresti fermarlo su le dodici fin quando ti
parrebbe e piacerebbe.
- E tu fai così? - domandò Alice.
Il Cappellaio scosse mestamente la testa e rispose: - Io no. Nel marzo scorso abbiamo litigato...
proprio quando diventò matta lei... - (e indicò col cucchiaio la Lepre di Marzo...) Fu al gran
concerto dato dalla Regina di Cuori... ivi dovetti cantare:
Splendi, splendi, pipistrello!
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Su pel cielo vai bel bello!
- Conosci tu quest'aria?
- Ho sentito qualche cosa di simile, - disse Alice.
- Senti, è così, - continuò il Cappellaio:
Non t'importa d'esser solo
e sul mondo spieghi il volo.
Splendi... splendi...
A questo il Ghiro si riscosse, e cominciò a cantare nel sonno:
Teco il pane; teco il pane aggiungerò...
e via via andò innanzi fino a che gli dovettero dare dei pizzicotti per farlo tacere.
- Ebbene, avevo appena finito di cantare la prima strofa, - disse il Cappellaio, - quando la Regina
proruppe infuriata: - Sta assassinando il tempo! Tagliategli la testa!
- Feroce! - esclamò Alice.
- E d'allora, - continuò melanconicamente il Cappellaio, - il tempo non fa più nulla di quel che io
voglio! Segna sempre le sei!
Alice ebbe un'idea luminosa e domandò: È per questo forse che vi sono tante tazze
apparecchiate?
- Per questo, - rispose il Cappellaio, - è sempre l'ora del tè, e non abbiamo mai tempo di
risciacquare le tazze negl'intervalli.
- Così le fate girare a turno, immagino... disse Alice.
- Proprio così, - replicò il Cappellaio: a misura che le tazze hanno servito.
- Ma come fate per cominciare da capo? s'avventurò a chiedere Alice.
- Se cambiassimo discorso? - disse la Lepre di Marzo sbadigliando, - Questo discorso mi annoia
tanto. Desidero che la signorina ci racconti una storiella.
- Temo di non saperne nessuna, - rispose Alice con un po' di timore a quella proposta.
- Allora ce la dirà il Ghiro! - gridarono entrambi. - Risvegliati Ghiro! - e gli dettero dei forti pizzicotti
dai due lati.
Il Ghiro aprì lentamente gli occhi, e disse con voce debole e roca:
- Io non dormivo! Ho sentito parola per parola ciò che avete detto.
- Raccontaci una storiella! - disse la Lepre di Marzo.
- Per piacere, diccene una! - supplicò Alice.
- E sbrigati! - disse il Cappellaio, - se no ti riaddormenterai prima di finirla.
- C'erano una volta tre sorelle, - cominciò in gran fretta il Ghiro. - Si chiamavano Elsa, Lucia e Tilla;
e abitavano in fondo a un pozzo...
- Che cosa mangiavano? - domandò Alice, la quale s'interessava sempre molto al mangiare e al
bere.
- Mangiavano teriaca, - rispose il Ghiro dopo averci pensato un poco.
- Impossibile, - osservò gentilmente Alice. - si sarebbero ammalate.
- E infatti erano ammalate, - rispose il Ghiro, - gravemente ammalate.
Alice cercò di immaginarsi quella strana maniera di vivere, ma ne fu più che confusa e continuò: Ma perchè se ne stavano in fondo a un pozzo?
- Prendi un po' più di tè! - disse la Lepre di Marzo con molta serietà.
- Non ne ho avuto ancora una goccia, - rispose Alice in tono offeso, - così non posso prenderne un
po' di più.
- Vuoi dire che non ne puoi prendere meno. - disse il Cappellaio: - è molto più facile prenderne più
di nulla che meno di nulla.
- Nessuno ha domandato il tuo parere, - soggiunse Alice.
- Chi è ora che fa delle osservazioni personali? - domandò il Cappellaio con aria di trionfo.
Alice non seppe che rispondere; ma prese una tazza di tè con pane e burro, e volgendosi al Ghiro,
gli ripetè la domanda: - Perchè se ne stavano in fondo a un pozzo?
Il Ghiro si prese un minuto o due per riflettere, e rispose: - Era un pozzo di teriaca.
- Ma non s'è sentita mai una cosa simile! interruppe Alice sdegnata. Ma la Lepre di Marzo e il
Cappellaio facevano: - St! st! - e il Ghiro continuò burbero: - Se non hai educazione, finisciti da te
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la storiella.
- No, continua pure! - disse Alice molto umilmente: - Non ti interromperò più. Forse esiste un pozzo
così.
- Soltanto uno! - rispose il Ghiro indignato. A ogni modo acconsentì a continuare: - E quelle tre
sorelle... imparavano a trarne...
- Che cosa traevano? - domandò Alice, dimenticando che aveva promesso di tacere.
- Teriaca, - rispose il Ghiro, questa volta senza riflettere.
- Mi occorre una tazza pulita, - interruppe il Cappellaio; - moviamoci tutti d'un posto innanzi.
E mentre parlava si mosse, e il Ghiro lo seguì: la Lepre di Marzo occupò il posto del Ghiro, e Alice
si sedette di mala voglia al posto della Lepre di Marzo. Il solo Cappellaio s'avvantaggiò dello
spostamento: e Alice si trovò peggio di prima, perchè la Lepre di Marzo s'era rovesciato il vaso del
latte nel piatto.
Alice, senza voler offender di nuovo il Ghiro disse con molta discrezione: - Non comprendo bene.
Di dove traevano la teriaca?
- Tu puoi trarre l'acqua da un pozzo d'acqua? - disse il Cappellaio; - così immagina, potresti trarre
teriaca da un pezzo di teriaca... eh! scioccherella!
- Ma esse erano nel pozzo, - disse Alice al Ghiro.
- Sicuro, e ci stavano bene, - disse il Ghiro.
- Imparavano a trarre, - continuò il Ghiro, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi, perchè cadeva di
sonno; - e traevano cose d'ogni genere... tutte le cose che cominciano con una T...
- Perchè con una T? - domandò Alice.
- Perchè no? - gridò la Lepre di Marzo.
Alice non disse più sillaba.
Il Ghiro intanto aveva chiusi gli occhi cominciando a sonnecchiare; ma, pizzicato dal Cappellaio, si
destò con un grido, e continuò: - Che cominciano con una T. come una trappola, un topo, una
topaia, un troppo... già tu dici: «il troppo stroppia», oh, non hai mai veduto come si tira il troppo
stroppia?»
- Veramente, ora che mi domandi, - disse Alice, molto confusa, - non saprei...
- Allora stai zitta, - disse il Cappellaio.
Questo saggio di sgarbatezza sdegnò grandemente Alice, la quale si levò d'un tratto e se ne uscì.
Il Ghiro si addormentò immediatamente, e nessuno degli altri due si accorse che Alice se n'era
andata, benchè ella si fosse voltata una o due volte, con una mezza speranza d'essere richiamata:
l'ultima volta vide che essi cercavano di tuffare il Ghiro nel vaso del tè.
- Non ci tornerò mai più, - disse Alice entrando nel bosco. - È la più stupida gente che io m'abbia
mai conosciuta.
Mentre parlava così osservò un albero con un uscio nel tronco. «Curioso, - pensò Alice. - Ma ogni
cosa oggi è curiosa. Credo che farò bene ad entrarci subito». Ed entrò.
Si trovò.di nuovo nella vasta sala, e presso il tavolino di cristallo. - Questa volta saprò far meglio, disse, e prese la chiavetta d'oro ed aprì la porta che conduceva nel giardino. Poi si mise a
sbocconcellare il fungo (ne aveva conservato un pezzetto in tasca), finchè ebbe un trenta
centimetri d'altezza o giù di lì: percorse il piccolo corridoio: e poi si trovò finalmente nell'ameno
giardino in mezzo alle aiuole fulgide di fiori, e alle freschissime fontane.
MOMO
di Michael Ende
1973
39
La trama.
Vicino ad una città senza nome, vi sono i resti di un piccolo ed antico anfiteatro, simbolo in passato
di arte e divertimento. Qui vi trova rifugio una piccola bambina dalle misteriose origini ed i cittadini
di questa innominata città, oltre a prendersene cura, trovano in lei alcune potenzialità fuori dal
comune: fa sbocciare la fantasia dei suoi coetanei, è capace di riappacificare gli animi litigiosi, di
far comprendere gli errori e trovare le soluzioni dei problemi. E questo avviene solo tramite la sua
capacità di ascoltare. Tutto trascorre tranquillo per Momo ed i suoi amici, finché la città non viene
invasa dai misteriosi Signori grigi, vestiti di scuro e dal volto cinereo, che mirano ad impadronirsi
del tempo degli uomini. Per colpa loro, la vita della gente diventa più frenetica e vuota. Momo, che
è l'unica a non risentire dell'effetto di questi loschi personaggi, è la loro principale nemica. Questi
ultimi cercano di sbarazzarsi di lei offrendole dei giocattoli, ma lei non si fa ingannare e riesce
persino a far parlare uno di questi antagonisti guardandolo negli occhi. Con l'aiuto della tartaruga
Cassiopea, riesce a raggiungere la dimora del Mastro Hora ed a escogitare insieme a lui un piano
per combattere i Signori grigi e far tornare la normalità in città. Quando i cattivi riescono a
penetrare nel Vicolo di Mai, mettono in atto il piano: Mastro Hora ferma il tempo che distribuisce
agli uomini e sulla mano di Momo appare un Orafiore che le dà a disposizione un'ora per poter
sistemare le cose. Notando che il tempo si è fermato, i Signori grigi corrono ad avvisare gli altri,
ammassandosi tutti alla porta per poter uscire, iniziano a litigare per chi deve oltrepassare la
porticina per primo, così, erano entrati in quattordici e ne escono in tre. Momo li insegue con
l'Orafiore in mano e la fedele Cassiopea sotto il braccio. La città è completamente immobile a
causa della mancanza di tempo, gli unici esseri animati sono la protagonista e i tre Signori grigi.
Uno di questi conduce inconsapevolmente Momo al loro nascondiglio, ossia una stanza sotto alle
fondamenta di un terreno in costruzione, dove si trova anche la cassaforte con le Orafiore sottratte
agli uomini. La bambina deve chiudere la porta di questa cassaforte, per impedire che le Orafiore
si scongelino e che muoiano, pertanto per raggiungerla si infila sotto al tavolo dove stanno
conversando gli ultimi sei uomini cinerei rimasti. La chiusura, però, emette un tonfo che fa
sussultare la piccola e viene così notata dai cattivi grigio vestiti, i quali cercano di acciuffarla.
Quattro si dissolvono nella rincorsa, rimangono in due, fino a quando uno toglie all'altro il sigaro di
bocca. Ormai Momo non può più sfuggirgli, ma, mentre l'uomo pronuncia le parole per convincerla
a consegnargli il prezioso fiore, gli cade il mozzicone e svanisce. La bambina si reca allora alla
porta della cassaforte, la riapre e le Orefiori vengono così liberate restituendo il tempo agli uomini,
tutto quello che era stato loro sottratto da quegli individui. Momo torna a casa spinta dalla forza di
quei meravigliosi fiori e può così riabbracciare tutti i suoi amici.
Tema principale
Il tema centrale del romanzo è quello del tempo e del modo in cui esso viene impiegato nella
società occidentale moderna. Attraverso un simbolismo fantastico e immaginario, esso porta una
feroce critica al consumismo e alla frenesia del vivere moderno, che nel suo progresso tecnologico
e produttivo perde completamente di vista l'obiettivo della felicità delle persone e della qualità della
vita. Il tempo rubato dagli uomini grigi agli abitanti della città è un'evidente metafora dei piaceri che
si ricavano dall'assaporare, nell'attimo, le piccole belle cose della vita.
da MOMO
UN’ORA VIVA CONTRO TEMPO MORTO
(testo adattato per bambini)
«Gli Uomini Grigi vogliono che tu, Mastro Hora, dai tutto il tempo degli uomini», disse Momo,
«però non lo fai, vero? »
«No, bambina mia, non lo farò mai», rispose Mastro Hora.
«Il tempo finirà soltanto quando gli uomini non ne avranno più bisogno. Da me i Signori Grigi
non riceveranno nemmeno il più breve istante ».
« Ma loro dicono che possono obbligarti ».
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« Desidero che tu stessa li veda », rispose Mastro Hora, molto serio.
Si tolse gli occhiali d'oro e li porse a Momo che se li mise.
A poco a poco i suoi occhi si abituarono alla Cosmovista e videro l'esercito dei Signori Grigi
che assediavano le case degli uomini e formavano un gran cerchio che circondava l’intero
quartiere. L'accerchiamento era assoluto, senza la più piccola breccia. E Momo vide anche
qualcos'altro, qualcosa di strano e sgradito. Dapprima pensò che le lenti degli occhiali fossero
appannate perché una singolare nebbia sfumava i contorni dei Signori Grigi: ma poi capì che
quella nebbia non aveva niente a che fare con gli occhiali o con i suoi occhi e che invece era
là, si alzava là fuori, nelle strade. In alcuni punti era densa e impenetrabile, in altri cominciava
appena a salire.
I Signori Grigi stavano immobili. Avevano la bombetta in testa, la cartella in pugno e tra le
labbra un sigaro grigio che mandava un fumo grigio.
Il fumo stendeva un velo viscoso come una ragnatela, serpeggiava sulle strade, saliva lungo le
facciate delle case, si stendeva come un manto da un cornicione all'altro e avvolgeva le case
degli uomini come una barriera invalicabile.
Momo vide anche che ogni tanto arrivavano Signori Grigi a dare il cambio a quelli schierati in
fila. Ma perché mai? Che piano avevano i ladri di tempo?
Si tolse gli occhiali e guardò Mastro Hora con aria interrogativa.
« Hai visto abbastanza? » le chiese. E poi continuò: « Hai chiesto se mi possono obbligare. Non
possono raggiungere me, ma possono nuocere agli uomini assai di più di quanto abbiano
fatto finora. Io assegno ad ogni uomo il suo tempo. E contro questo i Signori Grigi non possono fare
alcunché. E nemmeno possono arrestare il tempo che distribuisco. Però possono avvelenarlo ».
« Avvelenare il tempo? ». Momo era rattristata.
« Possono avvelenarlo col fumo dei loro piccoli sigari », spiegò Mastro Hora. « Hai mai visto
uno di loro senza il suo piccolo sigaro? Certo che no, dato che senza fumare non potrebbero
esistere ».
« Che c'è in quei sigari?».
«Ogni uomo, continuò Mastro Hora, possiede il luogo segreto del tempo, possiede tante
Orefiore, perchè ha un cuore; ma se gli uomini permettono ai Signori Grigi di penetrarci, allora
essi riescono a impadronirsi di un numero sempre più grande di fiori. Ma le Orefiori così strappate dal cuore degli uomini non possono morire, perché non sono appassite naturalmente.
Ma nemmeno possono vivere separate dal loro vero proprietario e lottano con tutte le forze
del loro essere per tornare all'uomo cui appartengono ».
Momo ascoltava col fiato sospeso.
« Io non so dove i Signori Grigi conservano le Orefiori rubate. So soltanto che le congelano con il
loro proprio freddo finché i fiori diventano rigidi come calici di cristallo e non possono tornare ai
loro cuori. Da qualche parte, nella profondità della terra, devono esistere depositi enormi nei
quali giace tutto il tempo congelato.»
Le guance di Momo cominciarono a infiammarsi per lo sdegno.
« I Signori Grigi strappano i petali alle Orefiori, li fanno seccare finché diventano grigi e rigidi e poi,
arrotolandoli fra le dita, ne ottengono i loro piccoli sigari. Tuttavia rimane ancora un piccolo
resto di vita nei petali e il tempo vivo è nocivo per i Signori Grigi. Per questo accendono e
fumano i loro sigari. Solo così, nel fumo, il tempo muore totalmente. E con questo tempo morto
loro prolungano la propria esistenza. Il fumo sta avvolgendo le nostre case. Per ora il cielo
qui è ancora aperto ma quando la nebbia di fumo sarà sopra di noi ogni ora che io manderò
sarà contaminata dal tempo ucciso dai Signori Grigi e quando gli uomini lo riceveranno, si ammaleranno e moriranno ».
Momo domandò: « E come fa questa malattia? ».
« Dapprincipio non si nota. Capita che un giorno uno non ha più voglia di niente. Niente lo
interessa, si annoia; questa svogliatezza non passa, resta e aumenta. Peggiora di giorno in
giorno, di settimana in settimana; sempre più insoddisfatto di se stesso e del mondo intero.
Poi gradatamente sparisce anche questo sentimento e più nulla conta. Diventa grigio e
indifferente, estraneo a tutto il mondo, senza rabbie o entusiasmi, incapace di essere
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felice o di soffrire, disimpara a ridere o a piangere. E questo succede perché si è diventati
freddi dentro e non si è più capaci di amare niente e nessuno. Quando la malattia arriva a
questo punto è incurabile. Non c'è ritorno. Si diventa simili ai Signori Grigi. Si è uno di loro.
Questa malattia si chiama Noia».
Momo rabbrividì e disse:
«Allora se tu non dài ai Signori Grigi il tempo di tutti gli uomini, essi fanno diventare gli uomini grigi e
freddi come loro? ».
« Sì, questo è il ricatto che intendono impormi », rispose Mastro Hora. « Gli uomini avrebbero
potuto liberasi da soli da questi oppressori dato che gli uomini stessi hanno contribuiti al loro
formarsi. Ma ora non posso più aspettare, devo fare qualche cosa. Però da solo non posso.
Vuoi aiutarmi? ». « Sì », bisbigliò Momo.
« Il rischio è incalcolabile. Dipenderà da te, Momo, se il mondo si fermerà per sempre o se
ricomincerà a vivere. Ne hai il coraggio? ».
« Sì », ripeté Momo e questa volta la sua voce era risoluta.
« Allora sta bene attenta a quello che ti dirò », proseguì Mastro Hora. « Devi sapere che
io non dormo mai. Se mi addormentassi il Tempo, nel medesimo istante, cesserebbe. Il mondo si
fermerebbe. Ma se il tempo non c'è più, i Signori Grigi non possono più rubarlo. Potrebbero
prolungare la loro esistenza per un altro po', dato che posseggono grandi provviste di tempo. Ma
quando anche queste riserve saranno esaurite, loro dovranno dissolversi nel nulla ».
« Ma allora è tanto facile! » disse Momo.
« Purtroppo no, altrimenti non avrei bisogno del tuo aiuto, bimba mia. Se davvero non ci
fosse più il Tempo anch’io non potrei risvegliarmi e il mondo rimarrebbe silenzioso e fermo per
l'eternità. Tuttavia io darò a te, Momo, un'Orafiore. Così, quando sarà finito tutto il Tempo
del mondo, tu avrai ancora un'ora ».
« E allora io ti sveglio! » concluse Momo.
« No, bimba mia. Il compito che tu devi assolvere è molto più difficile. Appena i Signori
Grigi si accorgeranno che il Tempo si è fermato leveranno l'assedio e correranno a raggiungere i
loro depositi. E tu, Momo, dovrai seguirli. Quando avrai trovato il loro nascondiglio dovrai impedir
loro di accedere alle provviste. Appena finiscono i loro sigari, finiscono anche loro. Dopo ti
resta ancora una cosa da fare, la più difficile. Quando l'ultimo ladro di tempo sarà sparito,
tu dovrai mettere in libertà tutto il tempo rubato, che deve tornare agli uomini. Perché
soltanto quando tornerà al cuore degli uomini, il mondo non sarà più silenzioso ed immobile
e io stesso potrò risvegliarmi. E per tutto questo avrai a disposizione una sola ora».
Momo guardò incerta Mastro Hora; non aveva immaginato di dover affrontare una simile
montagna di pericoli e difficoltà.
« Vuoi tentare, nonostante tutto il rischio? » domandò Mastro Hora. « È l'unica ed ultima
possibilità ». Momo taceva. Le sembrava impossibile riuscire nell'impresa.
Ad un tratto in Momo sembrò risvegliarsi la volontà di agire e disse: « Bene. Che facciamo
adesso? » « Adesso ci diciamo addio », rispose Mastro Hora.
Momo era commossa e disse a bassa voce:
« Vuoi dire che non ci rivedremo mai più? ».
« Ci rivedremo, Momo, » replicò Mastro Hora.
« Sì », ripetè Momo.
« Ora vado via », proseguì Mastro Hora, « appena io me ne sarò andato, devi subito aprire le
due porte, quella piccola che porta il mio nome e quella grande di metallo verde perché non
appena il Tempo si fermerà ogni cosa resterà immobile e nessuna forza al mondo potrà aprire
quelle porte. Hai capito tutto? Ricordi tutto, bimba mia? ».
« Sì, ma come farò a capire che il Tempo si è fermato? ».
« Sta pur tranquilla, te ne accorgerai. «Addio, piccola Momo.»
E subito Mastro Hora divenne vecchissimo. Si voltò e uscì rapido dalla stanzetta. Momo udì i
suoi passi risuonare sempre più lontani fino a che non li distinse più dal ticchettio degli
innumerevoli orologi. Per Momo era iniziata la suprema avventura.
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I SETTE MESSAGGERI
da La boutique del mistero di Dino Buzzati.
La struttura è costituita da una situazione iniziale (il presente), l'esordio della vicenda viene
recuperato con il flash-back, c'è uno svolgimento (il viaggio) e la ricomposizione provvisoria di un
equilibrio (riflessione del protagonista sul futuro) destinato probabilmente ad essere alterato ma in
una direzione non univocamente interpretabile dal lettore. Il protagonista, figlio minore di un re,
lascia poco più che trentenne la sua reggia per raggiungere il confine del regno di suo padre. Il
viaggio si rivela tutt'altro che rapido e il raggiungimento dei confini gradualmente si profila come
un'utopia. Gli eventi sono presentati in ordine parzialmente sfasato rispetto alla fabula; l'intreccio,
infatti, si apre con una riflessione sul presente per lasciare poi posto ad un consistente flash-back
(analessi) che recupera l'antefatto ("Mi misi in viaggio che avevo più di trent'anni…il messo partiva
nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate"),
per proseguire, poi, la descrizione del presente ("Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera…")
con anticipazioni sul futuro mediante prolessi ("Ripartirà per l'ultima volta…"; "entrerà nella mia
tenda…si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con
le torce, morto."). Incipit ed explicit sono sostanzialmente narrativi sebbene il secondo non segni la
conclusione definitiva della vicenda lasciandola altresì sospesa.
I SETTE MESSAGGERI
Da ‘ La boutique del mistero’
di Dino Buzzati
1968
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le
notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto
anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche
settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre
nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di
essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre
verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la
distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo
giunti all’estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza
limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse.
Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della
vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire.
Sebbene spensierato - ben più di quanto sia ora! - mi preoccupai di poter comunicare, durante il
viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da
messaggeri.
Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con l’andar del
tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e sì che nessuno di essi è mai caduto
malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito
con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.
Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro,
Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio.
Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo
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giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe.
La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni,inviai il secondo, poi il terzo, poi il
quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era
ancora tornato.
Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle
disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato
che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo
tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una
giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.
Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla
quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che
bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe
ripresi.
Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo
cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi
sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo
intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca;
intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.
Trascorsi che furono sei mesi - già avevamo varcato i monti Fasani - l’intervallo fra un arrivo e
l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano ormai notizie lontane; le
buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da
chi me le portava.
Procedemmo ancora.
Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della
mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi
sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le
nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi
sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io
incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggianti che si facevano sulle loro
labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia
casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio
e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose
lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti
che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci
rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che
da parecchio tempo io avevo apprestate.
Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato
Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo
rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto altro che correre, attraverso
praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di
buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso
all’alba.
Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il
cammino come ha fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni.
Io allora ne avrò settantadue.
Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai
più rivedere.
Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà e si domanderà perché mai
nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella
mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma
si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce,
morto.
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Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Tu sei il superstite legame con il mondo che
un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono
cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi
considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto
cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.Tu sei l’ultimo legame
con loro, Domenico.
Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà
ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che
finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non
esiste frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. non ci sono
muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente
varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente
raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a procedermi, affinché io
possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.
Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me la sera, e non è più rimpianto delle gioie
lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre
ignote a cui mi dirigo.
Vado notando - e non l’ ho confidato finora a nessuno - vado notando come di giorno in giorno,
man mano che avanzo verso l’ improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è
apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di
una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che
le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico
scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio
messaggio.
IL PAESE DOVE NON SI MUORE MAI
di Italo Calvino
C'era una volta un giovane che, salutati i genitori e gli amici, partì per cercare il paese dove non si
muore mai. A tutti quelli che incontrava chiedeva: "Sapete dove si trova il paese in cui non si
muore mai?". Ma nessuno sapeva rispondergli.
Un giorno, incontrò un vecchio che spingeva una carriola piena di pietre.
"Non vuoi morire? - chiese il vecchio - Resta con me! Non morirai finché io non avrò trasportato
tutta questa montagna con la mia carriola, pietra dopo pietra".
"Quanto tempo occorrerà?".
"Almeno 100 anni".
"E dopo morirò?".
"Naturalmente".
"Allora non è ciò che desidero". Il giovane proseguì e giunse in una vasta foresta; un vecchio stava
tagliando i rami con un falcetto.
"Se non vuoi morire, rimani con me; non potrai morire prima che io abbia finito di tagliare tutta
questa foresta con il mio falcetto".
"E quanto occorrerà?".
"Almeno 200 anni".
"E dopo morirò? Non è quello che voglio". Il giovane ripartì e arrivò in riva al mare; trovò un
vecchio che stava osservando un'anatra che beveva l'acqua del mare.
"Non morirai finché l'anatra non avrà bevuto tutta l'acqua del mare" disse il vecchio.
"E quanto ci vorrà?".
"Almeno 300 anni".
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"E dopo dovrò morire?".
"Ovvio". "Allora non è ciò che desidero". Una sera, giunse presso un magnifico palazzo. Bussò e
comparve un vecchio.
"Sapete dirmi dove si trova il paese in cui non si muore mai?".
"È questo! Finché abiterai qui non morirai!". Il giovane rimase con il vecchio per lunghi anni senza
rendersi conto del tempo passato. Un giorno disse:
"Mi piacerebbe andare a vedere cosa è successo ai miei genitori.".
"Sono morti, ormai" disse il vecchio.
"Vorrei rivedere il mio paese".
"Allora prendi il cavallo bianco che corre veloce come il vento e fai attenzione: non mettere i piedi
per terra per nessun motivo, altrimenti morirai!".
Il giovane montò sul cavallo e partì.
Al posto del mare, c'era una grande prateria. "Ho fatto bene a non rimanere qui!" si disse il
giovane.
Dove si trovava la foresta c'era un terreno spoglio, senza neppure un albero. E nel luogo in cui si
ergeva la montagna, ora c'era una pianura.
Giunse nel suo paese: tutto era cambiato. Cercò la sua casa ma non trovò neppure la strada.
Chiese notizie della sua famiglia e dei suoi amici, ma nessuno se ne ricordava.
"Non mi resta che tornare da dove son venuto" pensò.
Sulla strada del ritorno, vide, fermo su un lato della strada, un carretto colmo di vecchie scarpe,
trainato da un bue.
Il carrettiere gli disse: "Signore, per favore, aiutatemi. La ruota è rimasta incastrata".
"Ho fretta - disse il giovane - e poi, non posso mettere i piedi per terra".
"Vi prego; il giorno sta per finire e non posso procedere".
Il giovane ebbe pietà e scese da cavallo, ma appena ebbe posto un piede per terra il carrettiere lo
afferrò per il braccio:
"Finalmente ti ho preso! Sono la Morte e tutte le scarpe che vedi nel carretto le ho consumate per
inseguirti; ma è inevitabile che voi tutti cadiate prima o poi tra le mie mani, tu come gli altri: non c'è
modo di sfuggirmi!".
E il giovane fu costretto a morire come tutti gli altri uomini.
LA DILIGENZA A DODICI POSTI
di Hans Christian Andersen
La notte era gelida e limpidissima: il cielo brillava di stelle. L'orologio della chiesa scoccò dodici
rintocchi, e subito i mortaretti incominciarono a scoppiettare e una vecchia latta volò fuori da una
finestra, perché era l'ultima notte dell'anno. In quel preciso momento, una vecchia diligenza
sconquassata venne a fermarsi alla porta della città; portava dodici viaggiatori, quanti erano i posti.
I nuovi arrivati scesero dalla diligenza. Tutti erano forniti di passaporto e di bagaglio e portavano
persino dei doni per me, per voi, per tutti.
- Buon anno! - augurò la sentinella. - avanti il primo: dichiarate nome e professione.
Il primo viaggiatore era tutto avvolto in una pelliccia d'orso e calzava stivaloni di pelo.
- Potete consultare il mio passaporto-disse - io sono colui a cui tutti guardano sempre con
speranza. Distribuisco mance e regali, e ne darò uno anche a voi, se verrete a trovarmi domani.
Faccio inviti e feste di ballo, ma non posso darne più di trentina. Le mie navi sono imprigionate in
mezzo ai ghiacci, ma nella mia casa fa caldo. Mi chiamo Gennaro.
- Avanti il secondo - disse allora la sentinella.
Questi era un personaggio gioviale e pazzerellone: organizzava balli e divertimenti di ogni genere.
Portava seco un grosso barile.
- Quando c'è questo, c'è baldoria - dichiarò. - Voglio stare allegro, perché ho poco tempo da
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vivere: ventotto giorni soltanto. Ogni tanto mi aggiungono un altro giorno per la buona misura, ma
non ne faccio gran calcolo. - Poco chiasso! - ammonì la sentinella.
- Io posso fare tutto il chiasso che voglio - replicò l'altro. - Sono il Principe Carnevale, ma viaggio in
incognito sotto il nome Febbraio.
Il terzo viaggiatore era magro come la quaresima. Studiava il cielo camminando col naso in aria,
perché predicava il tempo e le stagioni. Al risvolto della giacca portava un mazzolino di violette
piccine, piccine. Il quarto viaggiatore gli batté la mano sulla spalla.
- Don Marzo, - esclamò sento odor di punch! Nella saletta dei doganieri stanno preparando la tua
bevanda preferita. Corri subito a vedere!
Non era vero: il nuovo venuto voleva soltanto giocare un tiro al suo compagno di viaggio; infatti si
chiamava Aprile e incominciava la sua carriera con un pesce. Aveva un aspetto gaio, forse perché
lavorava poco.
Dopo di lui scese una bella fanciulla che si chiamava Maggiolina. Indossava un vestito color
dell'erba tenera. Aveva nei capelli un mazzolino di anemoni e profumava di tino. Quel profumo era
tanto forte che la sentinella starnutì.
- Dio vi benedica! - disse la fanciulla.
- Fate largo che scende la dama di Giugno - avvertì il cocchiere.
La signora scese. Era una dama molto bella e un poco altera. L'accompagnava Luglio, suo fratello
minore. Questi era un giovane grassoccio, indossava abiti estivi e portava sulla testa un largo
cappello di panama.
Un po' affannata e rossa in viso scese poi Mamma Agostina. Era una venditrice di frutta,
proprietaria di molti terreni, sempre in faccende.
Dalla diligenza, dopo di lei, sbucò un pittore: il professor Settembre. Aveva per sbaglio i tubetti del
colore, perché il colore era la sua passione. Infatti appena entrava nelle foreste, gli alberi e le
foglie sfoggiavano la più variopinta magnificenza; qua rosso acceso, là giallo, più in là bruno
dorato.
Comparve poi un gentiluomo di campagna, il Conte Ottobre. Amatissimo della caccia, portava con
sé il fucile, il cane e il carniere pieno di noci.
Novembre, il suo compagno, era tormentato da una violenta infreddatura. Era provveditore dei
Focolari e doveva pensare alle provviste di legna, spaccarla e segarla.
E finalmente ecco l'ultimo viaggiatore: Nonno Dicembre, che stringeva lo scaldino fra le mani. Era
freddoloso e intirizzito, e portava in braccio anche un piccolo abete.
- Voglio che cresca tanto da toccare il soffitto, alla sera di Natale - disse, - Così si potrà adornarlo
con palle d'argento, candeline colorate e angioletti.
Il doganiere lo interruppe:
- Ogni passaporto è valido per un mese - avvertì. - Io lì ritirerò e, scaduto il tempo consentito,
scriverò le note relative alla vostra condotta.
Finito l'anno, cari lettori, credo che anch'io saprò dirvi che cosa i dodici viaggiatori avranno portato
in regalo a me, a voi, a tutti, ma per ora davvero non lo so! Forse non lo sanno neanche loro. Si
vive in tempi così strani…
IL BUCANEVE
di Hans Christian Andersen
Era inverno, l'aria era fredda, il vento tagliente, ma in casa si stava bene e faceva caldo; e il fiore
stava in casa, nel suo bulbo sotto la terra e sotto la neve.
Un giorno cadde la pioggia, le gocce penetrarono oltre la coltre di neve fino alla terra, toccarono il
bulbo del fiore, gli annunciarono il mondo luminoso di sopra; presto il raggio di sole, sottile e
penetrante, passò attraverso la neve fino al bulbo e busso. "Avanti!" disse il fiore. Non posso"
rispose il raggio "non sono abbastanza forte per aprire, diventerò più forte in estate." "Quando
verrà l'estate?" chiese il fiore, e lo chiese di nuovo ogni volta che un raggio di sole arrivava laggiù.
Ma c'era ancora tanto tempo prima dell'estate, la neve era ancora lì e ogni notte l'acqua gelava.
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"Quanto dura!" disse il fiore. "Io mi sento solleticare, devo stendermi, allungarmi, aprirmi, devo
uscire! Voglio dire buongiorno all'estate; sarà un tempo meraviglioso!" Il fiore si allungò e si stirò
contro la scorza sottile che l'acqua aveva ammorbidito, la neve e la terra avevano riscaldato, il
raggio di sole aveva punzecchiato; così sotto la neve spuntò una gemma verde chiaro, su uno
stelo verde, con foglioline grosse che sembravano volerla proteggere. La neve era fredda, ma tutta
illuminata, e era così facile attraversarla, e sopraggiunse un raggio di sole che aveva più forza di
prima. "Benvenuto, benvenuto!" cantavano e risuonavano tutti i raggi, e il fiore si sollevò oltre la
neve nel mondo luminoso. I raggi lo accarezzarono e lo baciarono, così si aprì tutto, bianco come
la neve e adorno di striscioline verdi. Piegava il capo per la gioia e l'umiltà. "Bel fiore" cantavano i
raggi "come sei fresco e puro! Tu sei il primo, l'unico, sei il nostro amore. Tu annunci l'estate, la
bella estate in campagna e nelle città. Tutta la neve si scioglierà; i freddi venti se ne andranno. Noi
domineremo. Tutto rinverdirà, e tu avrai compagnia, il lillà, il glicine e alla fine le rose; ma tu sei il
primo, così delicato e puro!" Era proprio divertente. Era come se l'aria cantasse e risuonasse,
come se i raggi di sole penetrassero nei suoi petali e nel suo stelo, lui era lì, così sottile e delicato
e facile a spezzarsi, eppure così forte, nella sua giovanile bellezza; era lì in mantello bianco e
nastri verdi, e lodava l'estate. Ma c'era ancora tempo prima dell'estate; nuvole nascosero il sole, e
venti taglienti soffiarono sul fiorellino. "Sei arrivato troppo presto!" dissero il vento e l'aria. "Noi
abbiamo ancora il potere, dovrai adattarti! Saresti dovuto rimanere chiuso in casa, non dovevi
correre fuori per farti ammirare, non è ancora tempo." C'era un freddo pungente! I giorni che
vennero non portarono un solo raggio di sole, c'era un tale freddo che ci si poteva spezzare,
soprattutto un fiorellino così delicato. Ma in lui c'era molta più forza di quanto lui stesso
sospettasse, era la forza della gioia e della fede per l'estate che doveva giungere, che gli era stata
annunciata da una profonda nostalgia e confermata dalla calda luce del sole; quindi resistette con
la sua speranza, nel suo abito bianco sulla bianca neve, piegando il capo quando i fiocchi
cadevano pesanti e fitti, quando i venti gelati soffiavano su di lui. "Ti spezzerai!" gli dicevano.
"Appassirai, gelerai! Perché hai voluto uscire? perché non sei rimasto chiuso in casa? Il raggio di
sole ti ha ingannato. E adesso ti sta bene, fiorellino che hai voluto bucare la neve!" "Bucaneve!"
ripeté quello nel freddo mattino. "Bucaneve!" gridarono alcuni bambini che erano giunti nel giardino
"ce n'è uno, così grazioso, così carino, è il primo, l'unico!"
Quelle parole fecero bene al fiore, erano come caldi raggi di sole. Il fiore, preso dalla sua gioia,
non si accorse neppure d'essere stato colto; si trovò nella mano di un bambino, venne baciato
dalle labbra di un bambino, poi fu portato in una stanza riscaldata, osservato da occhi affettuosi, e
messo nell'acqua: era così rinfrescante, così ristoratrice, e il fiore credette improvvisamente
d'essere entrato nell'estate. La fanciulla della casa, una ragazza graziosa che era già stata
cresimata, aveva un caro amico che pure era stato cresimato e che ora studiava per trovarsi una
sistemazione. "Sarà lui il mio fiorellino beffato dall'estate!" esclamò la fanciulla, prese quel fiore
sottile e lo mise in un foglio di carta profumato su cui erano scritti dei versi, versi su un fiore che
cominciavano con «fiorellino beffato dall'estate» e terminavano con «beffato dall'estate». «Caro
amico, beffato dall'estate!» Lei lo aveva beffato d'estate. Tutto questo fu scritto in versi e spedito
come una lettera; il fiore era là dentro e c'era proprio buio intorno a lui, buio come quando era nel
bulbo. Il fiore viaggiò, si trovò nei sacco della posta, venne schiacciato, premuto; non era affatto
piacevole, ma finì.
Il viaggio terminò, la lettera fu aperta e letta dal caro amico lui era molto contento, baciò il fiore che
fu messo insieme ai versi in un cassetto, insieme a tante altre belle lettere che però non avevano
un fiore; lui era il primo, l'unico, proprio come i raggi del sole lo avevano chiamato: com'era bello
pensarlo! Ebbe la possibilità di pensarlo a lungo, e pensò mentre l'estate finiva, e poi finiva il lungo
inverno, e venne estate di nuovo, e allora fu tirato fuori. Ma il giovane non era affatto felice; afferrò
i fogli con violenza, gettò via i versi, e il fiore cadde sul pavimento, piatto e appassito; non per
questo doveva essere gettato sul pavimento! Comunque meglio lì che nel fuoco, dove tutti i versi e
le lettere finirono. Cosa era successo? Quello che succede spesso. Il fiore lo aveva beffato, ma
quello era uno scherzo; la fanciulla lo aveva beffato, e quello non era uno scherzo; lei si era trovato
un altro amico nel mezzo dell'estate. Al mattino il sole brillò su quel piccolo bucaneve schiacciato
che sembrava dipinto sul pavimento. La ragazza che faceva le pulizie lo raccolse e lo mise in uno
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dei libri appoggiati sul tavolo, perché credeva ne fosse caduto mentre lei faceva le pulizie e
metteva in ordine. Il fiore si trovò di nuovo tra versi stampati, e questi sono più distinti di quelli
scritti a mano, per lo meno costano di più.
Così passarono gli anni e il libro rimase nello scaffale; poi venne preso, aperto e letto; era un bel
libro: erano versi e canti del poeta danese Ambrosius Stub, che vale certo la pena di conoscere.
L'uomo che leggeva quel libro girò la pagina. "Oh, c'è un fiore!" esclamò "un bucaneve! È stato
messo qui certamente con un preciso significato; povero Ambrosius Stub! Anche lui era un fiore
beffato, una vittima della poesia. Era giunto troppo in anticipo sul suo tempo, per questo subì
tempeste e venti pungenti, passò da un signore della Fionia all'altro, come un fiore in un vaso
d'acqua, come un fiore in una lettera di versi! Fiorellino, beffato dall'estate, zimbello dell'inverno,
vittima di scherzi e di giochi, eppure il primo, l'unico poeta danese pieno di gioventù. Ora sei un
segnalibro, piccolo bucaneve! Certo non sei stato messo qui a caso!" Così il bucaneve fu rimesso
nel libro e si sentì onorato e felice sapendo di essere il segnalibro di quel meraviglioso libro di canti
e apprendendo che chi per primo aveva cantato e scritto di lui, era pure stato un bucaneve, beffato
dall'estate e vittima dell'inverno. Il fiore capì naturalmente tutto a modo suo, proprio come anche
noi capiamo le cose a modo nostro.
Questa è la fiaba del bucaneve.
LA RAGAZZA CHE REGALAVA IL TEMPO
da Storie del Tic-Tac di Marcello Argilli
1988
Chi ha bisogno di un’ora? Gliela regalo...
Lo diceva camminando per la strada, come un ambulante che offra mazzetti di fiori e accendini.
naturalmente nessuno le badava, pensavano che scherzasse o fosse un po’ matta.
Solo una donna le si avvicinò: stava andando all’ospedale dal vecchio padre moribondo e per
questo le prestò ascolto.
- Davvero puoi darmela? - chiese.
- Certo, - disse la ragazza, e gliela diede.
La donna corse a portarla al padre, che potè così vivere un’ora in più.
Quando la cosa si riseppe, la voce che una ragazza regalava il tempo si sparse in un baleno. La
casetta dove abitava fu assediata, la gente non bussava alla porta, ma anche ai vetri delle finestre.
- A me! ... A me! - gridavano.
- Regalami un mese, te lo pago a peso d’oro! ...
- Dammi una settimana!... - Un giorno solo!
Lei accontentava tutti, e senza farsi pagare.
Una madre le chiese un mese per la sua bambina gravemente ammalata e lo ebbe.
Un’altra, sofferente di cuore, aveva un unico figlio emigrato in Australia.
- Posso morire da un momento all’altro, disse, - e lui ha bisogno di tempo per mettere da
parte i soldi per venire a trovarmi. Posso non rivederlo più, capisci?
La ragazza le regalò un anno.
Regalava ore, mesi, anni, ed erano pezzetti della sua vita che dava via.
Quando le chiedevano: - Perchè lo fai? - non sapeva rispondere.
Qualcuno diceva addirittura: - Non lo farà perchè non ama vivere?
Invece chi è generoso non sa spiegare perchè lo è, o forse lei si vergognava di dire che, essendo
molto povera, non aveva nient’altro da regalare.
Si penserà che a furia di dar via pezzetti della sua vita morì giovane. Invece no: chi regala il suo
tempo agli altri, non lo perde, lo guadagna: gliene ricresce tanto.
PELLE DI VECCHIA
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C’era un Re con tre figlie femmine. Andò alla fiera e prima di partire domandò alle figlie che regalo
volevano. Una disse un fazzolettone, l’altra un paio di stivaletti, la terza disse un cartoccio di sale.
Le due prime sorelle che non potevano vedere la più piccina, dissero al padre :-Lo sapete perché
v’ha chiesto il sale, quella birbante? Perché vuol salarvi le cuoia.
-Ah, si!-disse il padre. -A me vuol salare le cuoia? E io la caccio di casa,- e così fece. Cacciata di
casa con la sua balia, con un sacchetto di monete d’oro, la povera ragazza non sapeva dove
andare. Tutti i giovani che incontrava le davano noia, e allora la balia ebbe un’idea.
Incontrarono un funerale, d’una vecchia morta a cent’anni, e la baia domandò al becchino :-Ce la
vendete la pelle della vecchia?. Dovette contrattare un bel pezzo; poi il becchino prese un coltello,
scorticò la vecchia ruga per ruga e ne vendette la pelle, tutta completa, col viso, i capelli bianchi, le
dita con le unghie.
La balia la fece conciare, la cucì su stoffa di cambrì e ci fece entrare la ragazza. E tutti stavano a
vedere quella vecchia centenaria che parlava con voce argentina e camminava svelta come un
frullino. Incontrarono il figlio del Re. -Quella donna,-disse alla balia,- quanti anni ha codesta
vecchia?
E la balia: -Domandateglielo voi.
E lui : -Nonnina, mi sentite, nonnina?Quanti anni avete?
E la ragazza ,tutta ridente:-Io? Centoquindici!
-Caspita!-fa il figlio del Re.-E di dove siete?
-Del mio paese
-E i vostri genitori?
-Sono il mio babbo e la mia mamma.
-E che mestiere fate?
-Vado a spasso!
Il figlio del Re si divertiva. Disse al Re e alla Regina:-Prendiamo questa vecchia a palazzo; finché
vivrà ci terrà allegri.
Così la balia lasciò la ragazza a palazzo reale, dove le diedero una stanza al mezzanino, e il figlio
del re, quando non aveva nulla da fare andava a discorrere con la vecchia e a divertirsi alle sue
risposte.
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