Sindrome da Antifosfolipidi

Transcript

Sindrome da Antifosfolipidi
COAGULAZIONE
Tiziano Barbui
Monica Galli
Sindrome da
anticorpi antifosfolipidi
VI
Tiziano Barbui, Monica Galli
Sindrome da
anticorpi antifosfolipidi
Indice
3
Sindrome da anti-fosfolipidi primaria e secondaria:
due facce della stessa medaglia?
Pag.
Fisiopatologia e possibili meccanismi
di trombogenesi degli anticorpi antifosfolipidi
Pag. 15
Aspetti clinici e terapeutici delle trombosi arteriose e venose
Pag. 23
Aspetti clinico-terapeutici delle complicanze ostetriche
Pag. 33
7
Diagnosi di laboratorio degli anticorpi antifosfolipidi.
1. Anticoagulante tipo lupus: diagnosi di laboratorio
Pag. 46
2. Anticorpi anticardiolipina: diagnosi di laboratorio
Pag. 53
3. Anticorpi anti-ß2glicoproteina 1: diagnosi di laboratorio
Pag. 63
4. Anticorpi antiprotrombina: diagnosi di laboratorio
Pag. 81
Prefazione
5
L’esistenza di anticorpi antifosfolipidi fu per la prima volta provata nel 1941
cimentando il siero di pazienti con sifilide ed estratti di cuore bovino. Il siero
interagiva con la cardiolipina ed il test fu ritenuto specifico per la diagnosi
di sifilide e chiamato VDRL (Veneral Disease Research Laboratory).
La specificità diagnostica fu peraltro resa insicura con le osservazioni di
una positività dalla VDRL nei pazienti con malattie autoimmmuni sistemiche
(Lupus Eritematoso Sistemico,LES), in assenza di malattia venerea.
Nel 1983 Harris et al. (Lancet 2: 1211, 1983) pubblicarono un immunoassay
per la misura quantitativa degli anticorpi anticardiolipina e rapidamente si
confermò che la loro presenza si associava a manifestazioni cliniche di
trombosi venosa e arteriosa e ad aborti ripetuti (sindrome da anticorpi
antifosfolipidi; APA).
Una tappa fondamentale per il meccanismo d’azione degli anticorpi fu il
1990. Due gruppi indipendenti dimostrarono che il target antigenico non
era, nei casi associati a malattie autoimmuni e non a sifilide, il fosfolipide
ma la beta2 glicoproteina I che si trovava complessata ai fosfolipidi anionici
(Galli et al., Lancet 335: 1544, 1990; McNeil et al. PNAS 87: 4120, 1990).
Fu poi confermato che in alcuni casi gli anticorpi interagiscono con la beta2
glicoproteina I in assenza di fosfolipidi (Arvieux et al., J. Immunol. Methods
143: 223, 1991) e queste osservazioni spinsero i ricercatori a sviluppare
tests in cui l’antigene non era il fosfolipide ma le proteine legate ai fosfolipidi alimentando nuove ipotesi patogenetiche della sindrome. Le trombosi
sarebbero la conseguenza delle azioni degli anticorpi sul pathway della
proteina C, dell’antitrombina III, sulla protrombina, sugli endoteli, sulle piastrine, sulle cellule apoptotiche, sulle LDL ossidate. Così ciascun ricercatore, di volta in volta, proponeva (e propone) questi tests e li correlava con gli
eventi clinici nell’ambito peraltro di studi il cui disegno non consentiva di
valutarne il significato e quindi la loro utilizzazione nel processo diagnostico rivolto al singolo paziente.
Fortunatamente gli esperti del settore hanno riconosciuto la necessità di
fare ordine nella diagnosi e nella definizione di sindrome da APA che
rischiava di comprendere quadri clinici disparati non facilmente ascrivibili
agli anticorpi in questione. Il consenso internazionale per la diagnosi di sindrome da anticorpi antifosfolipidi comprende criteri clinici e criteri di laboratorio. I primi riguardano le trombosi vascolari (uno o più episodi nelle arterie, vene o piccoli vasi di qualsiasi tessuto od organo) e le complicanze
della gravidanza (una o più morti di feto normale che avvengono dopo la
10° settimana di gestazione; una o più nascite premature di neonati normali
prima della 34° settimana di gestazione; tre o più aborti consecutivi spontanei prima della 10° settimana di gestazione).
Per i criteri di laboratorio gli anticorpi anticardiolipina IgG o IgM devono
essere a titolo elevato o intermedio in due o più occasioni a distanza di
almeno 6 settimane. La definizione di livelli moderati di ACA è insicura (più
di 20-30 unità internazionali?).
Per il lupus anticoagulante si devono seguire le linee guida della Società
Internazionale dell’Emostasi e Trombosi (Thromb. Haemost. 74: 1185,
1995). La diagnosi viene formulata quando vi è presenza di almeno un
criterio clinico e di un criterio di laboratorio.
Pertanto gli ACA IgA, gli anti beta2-glicoproteina1, gli antoprotrombina,
gli antiproteina C o S non fanno parte dei criteri di laboratorio.
La continua produzione di informazioni sui meccanismi d’azione nella clinica, nella profilassi e nella terapia rende necessario aggiornare le conoscenze. In questo volume si è inteso appunto offrire e discutere le risposte
per alcune tra le principali domande che la pratica clinica pone in questa
condizione clinica la cui frequenza sta diventando sempre più rilevante
nell’ambito degli stati trombofilici.
7
Sindrome da anti-fosfolipidi
primaria e secondaria:
due facce della stessa medaglia?
PL Meroni, *A Tincani, *G Balestrieri
Unità di Allergologia e Immunologia Clinica, Dipartimento di Medicina
Interna, Università degli Studi di Milano, IRCCS Istituto Auxologico Italiano;
* Servizio di Reumatologia, Allergologia e Immunologia Clinica,
Spedali Civili, Brescia
8
Introduzione
L’
identificazione di anticorpi anti-fosfolipidi (aPL) risale a più di 40 anni
fa come condizione responsabile delle false positività croniche per i
test sierologici della sifilide (FBP-STS) e genericamente correlata ad
autoimmunità (1). Negli anni ’60 l’identificazione del fenomeno del Lupus
Anticoagulant (LA), la sua dipendenza dalla presenza di aPL, la sua associazione con le FBS-STS e soprattutto con manifestazioni trombotiche,
trombocitopenia ed abortività configurarono per la prima volta l’esistenza
di un subset di pazienti caratterizzati da un quadro clinico peculiare (2).
A dispetto del nome, fondamentalmente dovuto al tipo di patologia in cui
il LA venne individuato inizialmente, fu chiaro sin dall’inizio che non tutti i
pazienti con LA presentavano un lupus eritematoso sistemico (LES). In altre
parole, la dizione Lupus Anticoagulant risultò fuorviante non solo perché in
realtà rappresentava una condizione di rischio trombofilico ma anche perché non necessariamente risultava essere strettamente legata alla malattia
lupica.
L’utilizzo di un test in fase solida per la determinazione degli aPL (test
dell’anti-cardiolipina [aCL]) ha permesso di estendere gli studi epidemiologici e di confermare l’esistenza della sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi
(APS) non solo in pazienti con LES (Secondary APS) ma anche in pazienti
in cui non era diagnosticabile alcuna chiara malattia autoimmuni sistemica
(Primary APS) (3,4,5).
Le forme secondarie, seppur prevalentemente identificabili in pazienti con
LES, sono state descritte in quasi tutte le altre malattie autoimmune sistemiche. Addirittura, se inizialmente la APS fu più frequentemente diagnosticata
in pazienti con LES, risultò successivamente che le forme primitive risultavano essere altrettanto se non più frequenti.
Lo studio multicentrico più recente coordinato da R. Cervera per l’European
aPL Forum su una casistica di 1000 pazienti ha chiaramente confermato
questa tendenza (Tabella 1) (6).
Malattia sottostante
PAPS
LES
Lupus-like
Sindrome di Sjogren 1a
Artrite Reumatoide
Sclerodermia
Vasculiti sistemiche
Dermatomiosite
No.
531
370
47
23
20
8
7
2
Tabella 1: Classificazione dei pazienti con APS
%
53
37
4
2
2
1
1
0.2
9
APS: un’unica malattia con diverso spettro clinico
o entità cliniche diverse?
La APS è formalmente caratterizzata dalla presenza persistente di aPL e di
trombosi arteriose e/o venose e/o abortività ricorrente (7). La letteratura ha
tuttavia indicato negli ultimi anni la possibilità di uno spettro di presentazioni
della APS (Tabella 2)(8). L’insieme di queste segnalazioni suggerisce che i
pazienti con APS rappresentino un gruppo eterogeneo e che essi costituiscano modalità diverse di presentazione di una stessa malattia piuttosto
che entità cliniche distinte. In quest’ottica vanno considerati i report di casi
in cui un Lupus Eritematoso Sistemico (LES) conclamato si è sviluppato nel
tempo in pazienti diagnosticati inizialmente come forme primitive (9).
1. APS associata ad una malattia autoimmune sistemica, prevalentemente LES
(Secondary APS);
2. pazienti con APS ma senza una malattia autoimmune sistemica diagnosticabile
(Primary APS);
3. pazienti con APS e con “lupus-like disease”, che in altre parole manifestano segni
di interessamento sistemico ma per i quali non è formalmente possibile soddisfare
i criteri di classificazione per il LES;
4. presenza di aPL legati ad altre cause, quali farmaci, neoplasie, processi infettivi.
La maggior parte di questi pazienti non presentano le manifestazioni tipiche della
sindrome ma solo un titolo elevato di aPL. In taluni report è stata anche descritta
la comparsa di manifestazioni cliniche (solitamente trombosi), ma questi casi
sembrano rappresentare più l’eccezione che non la regola.
Tabella 2: Spettro delle presentazioni cliniche della APS
Forme primitive e secondarie
Quadro clinico
Dall’analisi della letteratura emerge che essenzialmente il quadro clinico di
presentazione della APS sia in corso di LES (o di altre malattie autoimmuni
sistemiche) sia nelle forme primitive è sostanzialmente sovrapponibile.
La tabella 3 riporta la prevalenza delle diverse manifestazioni cliniche nelle
PAPS e nelle APS associate a LES riscontrate nella casistica di 1000
pazienti dell’European aPL Forum (6).
Va sottolineato che quanto descritto più recentemente coincide con i risultati riportati in varie casistiche numericamente inferiori e pubblicate negli
anni antecedenti (8).
Sono tuttavia riscontrabili alcune differenze che appaiono per la maggior
parte imputabili all’esistenza della malattia di fondo delle forme secondarie.
Questo vale soprattutto per la maggiore prevalenza di artriti franche, di epilessia, di osteonecrosi, di interessamento renale, di valvulopatie cardiache,
di anemia emolitica e leucopenia. Tutte le sopracitate manifestazioni non
solo fanno parte del contesto clinico del LES - patologia prevalentemente
associata – ma costituiscono anche criteri classificativi noti per la malattia
lupica stessa (10). La stessa associazione con il sesso femminile (rapporto
maschi/femmine di 7:1 nella APS associata LES vs 3.5:1 in corso di PAPS)
o con l’età di insorgenza (più giovane nella APS associata al LES rispetto
alla PAPS) sono chiaramente influenzate dalla malattia lupica.
Sovrapponibili appaiono le caratteristiche delle principali manifestazioni
cliniche (abortività e trombosi) nelle due forme.
10
In particolare è prevalente l’interessamento dell’albero venoso rispetto a
quello arterioso ed in quest’ultimo caso la predilezione per il distretto del
sistema nervoso centrale. Le recidive degli eventi trombotici sembrano
inoltre prediligere sia nella PAPS sia nella forma secondaria le stesse sedi
dell’evento primitivo. Infine, analoghe sono le caratteristiche istologiche dei
tessuti interessati dalla trombosi con scarsa o completamente assente
infiammazione.
Tipo delle manifestazioni
Artrite
Livedo reticularis
Tromboflebiti superficiali
Epilessia
Necrosi cutanea superficiale
Lesioni cutanee pseudo-vasculitiche
Osteonecrosi
Miocardiopatia cronica
Trombosi glomerulare
Anemia emolitica
Leucopenia
Stroke
Trombosi arti superiori
Valvulopatia cardiaca
PAPS %
4
17
8
4
1
2
1
1
21
5
3
22
2
37
APS associata a LES %
62
35
17
9
4
6
4
4
38
16
36
16
0.4
63
Tabella 3: Prevalenza delle diverse manifestazioni cliniche in corso di
PAPS e di APS secondaria a LES.
Profilo Sierologico
Da un punto di vista sierologico le forme primitive e quelle secondarie presentano una reattività nei confronti degli antigeni cosiddetti “fosfolipidici”
del tutto sovrapponibile:
a) i sieri di entrambe le forme cross-reagiscono con i fosfolipidi (PL)
a carica elettrica anionica e
b) riconoscono le principali PL-binding protein attualmente considerate
i veri target antigenici (ß2 glicoproteina 1 [ß2GP1], protrombina).
Inoltre sia nelle PAPS sia nelle APS secondarie è stato da più gruppi
descritto un identico profilo autoanticorpale costituito da reattività anticorpali associate agli aPL ma apparentemente distinte da essi da un punto di
vista di specificità antigenica: anti-proteina C/S, anti-trombomodulina, antikininogeno, anti-Annessina V, anti-LDL ossidate, anti-mitocondrio di tipo
M5, anti-lamine nucleari, anti-endotelio, anti-eritrociti, anti-piastrine (11).
La specificità e la sensibilità dei principali test diagnostici per APS (LA,
aCL e anti-ß2GP1) risultano essere analoghe nelle due forme (8).
Identico discorso sembra poter essere fatto anche per il valore prognostico
degli stessi test. Il LA ed alti titoli di IgG aCL mostrerebbero infatti un maggiore peso prognostico sulla comparsa/recidiva delle manifestazioni cliniche; ancora dibattuto resta il peso prognostico della presenza di anticorpi
anti-ß2GP1 (8, 12).
D’altra parte non sorprende che la prevalenza di marcatori sierologici
specifici quali ANA e anti-dsDNA o le alterazioni dei livelli sierici del complemento sia maggiore in corso di APS associata a LES (6).
11
Quando e come formulare la diagnosi di PAPS
Una diagnosi di PAPS può essere formulata se il paziente soddisfa i criteri
classificativi della APS (7) e se può essere esclusa la contemporanea presenza di una malattia autoimmune sistemica. La stragrande maggioranza
delle forme secondarie sono state riportate in corso di LES conclamato.
Quando la patologia sistemica associata non può essere formalmente classificabile come tale a causa della mancanza di un numero sufficiente di criteri classificativi, la maggior parte degli autori parla di sindromi lupus-like.
Appare quindi essenziale per una diagnosi di PAPS poter escludere un tipo
di patologia simile. In pratica è esperienza comune come ciò sia difficile in
considerazione del fatto che molte manifestazioni cliniche della APS costituiscono esse stesse criteri classificativi (o manifestazioni) del LES.
Queste considerazioni hanno spinto alcuni autori a suggerire specifici criteri di esclusione, in presenza dei quali la diagnosi di PAPS non sarebbe possibile (Tabella 4) (13). Anche seguendo questi suggerimenti rimarrebbe tuttavia aperta la possibilità che il paziente possa avere una forma di passaggio
quale una lupus-like APS e pertanto solo un follow-up sufficientemente
lungo potrà dirimere la questione in ultima istanza.
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Rash malare
Rash discoide
Fotosensibilità
Ulcere orali o naso-faringee (con l’esclusione di un’ulcerazione del setto nasale)
Artrite
Pleurite (in assenza di un’embolia polmonare od uno scompenso sinistro)
Pericardite (in assenza di un infarto miocardio o di un’uremia)
Proteinuria persistente (> 0.5 gr/die) dovuta a glomerulonefrite da immunocomplessi
Anticorpi anti-dsDNA (individuati con tecnica di Farr o CLIFTI
Anticorpi anti-ENA
ANA a titolo>1:320
Terapia con farmaci noti per indurre aPL
Linfopenia < 1.0/10 g/l
Un follow-up maggiore di 5 anni dopo la comparsa delle prime manifestazioni è necessario
per escludere un’eventuale comparsa di LES.
Tabella 4: Criteri di esclusione per la diagnosi di PAPS (13)
Esiste veramente una forma primitiva?
Sebbene vi siano solide evidenze che più della metà dei pazienti possa
all’esordio manifestare solo sintomi associati agli aPL (6), è altrettanto noto
in letteratura che nel lungo decorso un numero consistente sviluppi progressivamente manifestazioni che consentano di formulare una diagnosi
di LES o di lupus-like disease (8, 9, 13).
Vi è accordo che ciò avvenga in un lasso di tempo lungo, giustificando
la necessità di un follow-up di almeno 5 anni (8, 9, 13). Mancano tuttavia studi
multicentrici e sufficientemente ampi per poter documentare l’entità numerica di questo fenomeno.
12
In linea con l’ipotesi che la presenza degli aPL sia espressione di una
forma autoimmune potenzialmente evolventesi nel tempo, vi è la recente
osservazione della comparsa di manifestazioni cliniche della sindrome in
quasi la metà di pazienti con aPL e trombocitopenia idiopatica nell’arco di
38 mesi (14).
Una terapia diversa per la forma primitiva?
Il trattamento delle forme primitive ricalca in linea di massima quello attuato
nelle forme associate ad altre malattie autoimmune sistemiche sia per
quanto riguarda la terapia delle manifestazioni acute sia per quanto concerne la profilassi. Ciò è vero tanto per le manifestazioni trombotiche quanto per l’abortività e le complicanze gravidiche. La differenza fondamentale
risiede nell’uso di steroidi e/o di farmaci immunosoppressori necessario
per il controllo della malattia di fondo nelle forme secondarie.
La presenza di aPL influenza il decorso delle forme secondarie?
La descrizione relativamente recente delle forme primitive non consente al
momento attuale una valutazione oggettiva della loro prognosi. Tuttavia
questo sembra essere possibile nelle forme secondarie a LES. In effetti,
alcuni anni fa era stato suggerito da più gruppi che la mortalità tra i pazienti
lupici con aPL fosse maggiore rispetto a quella dei pazienti senza aPL.
Eventi tromboembolici (arteriosi e/o venosi), trombocitopenia ed anemia
emolitica furono riportati quali fattori responsabili della maggiore mortalità
(15, 16, 17, 18)
. Pazienti con LES e positività per LA avrebbero una probabilità del
50% di manifestare un evento trombotico arterioso e/o venoso in un followup di 20 anni (19). La terapia profilattica con aspirina sarebbe d’altra parte in
grado di ridurre significativamente questo rischio (20, 21). Che l’approccio terapeutico sia capace di migliorare la prognosi è suggerito anche da una
recente analisi di Alarcon Segovia et al. in un’ampia casistica seguita per
un lungo periodo di tempo (22). Questi autori hanno infatti riportato una diminuzione dell’incidenza delle manifestazioni legate alla APS nel tempo ed
hanno messo in relazione questo dato alla terapia profilattica con antiaggreganti e/o anticoagulanti orali. L’attuale approccio terapeutico sarebbe
inoltre responsabile di una sopravvivenza a 15 anni maggiore rispetto a
quella riportata per il LES in generale (22-25). Alternativamente non si può tuttavia escludere che la prognosi migliore possa essere in relazione ad
un’associazione tra APS e forme meno aggressive di LES (22).
Più recentemente, la presenza di aPL è stata anche associata ad un inte
ressamento renale su base vasculopatica e caratterizzato da ipertensione
arteriosa e fibrosi interstiziale; l’interessamento renale condizionerebbe
una maggiore morbidità dei pazienti con LES e aPL (23).
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13
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Corrispondenza: PL Meroni
Unità di Allergologia e Immunologia Clinica, IRCCS Istituto Auxologico Italiano
Via L. Ariosto, 13 - 20145 Milano - Fax 02-58211-559
e-mail:[email protected]
15
Fisiopatologia e possibili meccanismi
di trombogenesi degli anticorpi antifosfolipidi
Monica Galli
U.S. Emostasi e Trombosi, U.O. Ematologia,
Ospedali Riuniti, Bergamo
16
Introduzione
L
a Sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS) è un disordine acquisito
di origine ignota, caratterizzato da trombosi arteriose e/o venose e
complicanze della gravidanza che si associano alla presenza nel
sangue degli anticorpi antifosfolipidi (aPL) (1).
Gli aPL allungano i tempi di coagulazione dei tests fosfolipide-dipendenti
della coagulazione (si parla in questo caso di anticoagulante tipo lupus,
LAC) (2), oppure sono evidenziati mediante metodiche ELISA che utilizzano
la cardiolipina o altri fosfolipidi a carica netta negativa come antigeni in fase
solida (anticorpi anticardiolipina, aCL) (3).
In realtà, gli aPL non reagiscono direttamente con i fosfolipidi, bensì sono
diretti contro proteine plasmatiche che hanno affinità per le superfici a carica netta negativa. Tra queste proteine, le più importanti sono la ß2-glicoproteina 1 (ß2GP1) (4) e la protrombina (PT) (5), che sono il bersaglio antigenico
della maggior parte degli aPL. Queste proteine sono trattate estensivamente in altre parti di questo libro. In questo capitolo ci occuperemo degli
altri bersagli antigenici degli aPL, dei meccanismi di trombogenesi e dei
modelli sperimentali di APS.
17
Antigeni degli aPL
Gli antigeni degli aPL sono indicati nella Tabella 1 (6-12).
Poichè la maggior parte di queste proteine sono coinvolte nella regolazione
della coagulazione del sangue, è verosimile che anticorpi capaci di
ridurre la loro concentrazione plasmatica e/o di interferire con le loro
funzioni possano produrre uno squilibrio dei sistemi pro- ed anti-coagulanti.
Questo rappresenta il razionale dell’aumentato rischio trombotico dei
pazienti con aPL.
I dati disponibili riguardo alla prevalenza e al significato clinico di anticorpi
diversi dal LAC, aCL, anti-ß2GP1 ed aPT sono piuttosto limitati e derivano,
in genere, da studi retrospettivi su piccoli gruppi di pazienti.
Uno degli studi più ampi è stato recentemente pubblicato da Nojima e collaboratori (13) su 168 pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico: la prevalenza degli anticorpi diretti contro la proteina C, la proteina S e l’annessina
V era compresa da 21 e 56% quando i tests ELISA erano eseguiti con piastre gamma-irradiate. La rilevanza clinica di questi dati era, peraltro, modesta, poiché solo gli anticorpi anti-proteina S risultavano associati alle trombosi venose.
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
ß2 glicoproteina 1
Protrombina
Proteina C (attivata)
Proteina S
Trombomodulina
Annessina V
Attivatore tissutale del plasminogeno
Chininogeni a basso ed alto peso molecolare
Fattore XII della coagulazione
Lipoproteine a bassa densita’ ossidate (ox-LDL)
Tabella 1. Antigeni degli aPL
Proposti meccanismi di trombogenesi
Le ipotesi via via suggerite per spiegare la trombogenesi nell’APS sono
indicate nella Tabella 2.
Interferenza con il sistema anticoagulante della proteina C
Il sistema della proteina C è uno dei principali sistemi di controllo della
coagulazione del sangue. Difetti qualitativi e/o quantitativi della proteina C
e del suo cofattore, la proteina S, sono associati ad aumentato rischio di
trombosi venose ed embolie polmonari (14). Gli aPL sono in grado di inibire
l’inattivazione del fattore V attivato da parte della proteina C attivata (aPC)
su una superficie fosfolipidica (15). Il termine “resistenza acquisita” all’aPC
identifica questa condizione, che potrebbe spiegare, almeno in parte,
l’aumentato rischio di trombosi venose dei pazienti con aPL.
Il nostro gruppo (15) ha studiato l’inattivazione del fattore Va nel plasma di 42
pazienti con aPL, dimostrando che in 26 di loro (62%) rimanevano livelli più
alti di fattore Va rispetto ai controlli. In un sistema plasmatico abbiamo, inoltre, dimostrato la capacità degli anti-ß2GP1 di inibire l’inattivazione del fattore Va da parte del sistema della proteina C endogena.
18
• Interferenza con meccanismi antitrombotici dipendenti dai fosfolipidi
Interferenza con il sistema anticoagulante della proteina C;
Inibizione del TFPI (“tissue factor pathway inhibitor”);
Esposizione di fosfolipidi anionici a seguito della dislocazione dell’annessina V;
Ridotta fibrinolisi a seguito della riduzione dell’autoattivazione del fattore XII
della coagulazione fosfolipide-dipendente;
Inibizione dei complessi eparina-antitrombina.
• Stimolazione della sintesi/esposizione del fattore tissutale su monociti e cellule endoteliali
• Danno vascolare/induzione di apoptosi
• Promozione dell’adesione cellulare a superfici vascolari
•
•
•
•
•
Attivazione piastrinica/Rilascio di miscrovescicole
Cross-reattivita’ con ox-LDL
Aumento dell’endotelina 1
Alterazione della sintesi degli eicosanoidi
Aumento del PAI-I (“plasminogen activator inhibitor-1”)
Tabella 2. Proposti meccanismi di trombogenesi nell’APS
Interazione con l’annessina V
L’annessina V è un potente inibitore fisiologico della coagulazione che, in
presenza in presenza di ioni calcio, forma una struttura cristallina bidimensionale sulla superficie fosfolipidica. In tal modo riesce a dislocare i fattori della
coagulazione ed esercita anche un ruolo di protezione dei meccanismi di
apoptosi. Gli aPL in presenza di ß2GP1 sono risultati in grado di dislocare
l’annessina V dalla superficie fosfolipidica, rendendola, pertanto, nuovamente
disponibile per i fattori della coagulazione (16). Inoltre, alcuni aPL che reagiscono con l’annessina V inducono apoptosi delle cellule endoteliali (17).
Effetti sulle cellule endoteliali
Gli aPL sono in grado di riconoscere, danneggiare e/o attivare le cellule
endoteliali (18). Cellule endoteliali incubate con aPL e ß2GP1 esprimono livelli
aumentati di molecole di adesione (19), possono aumentare l’adesione leucocitaria e stimolare i processi di flogosi e trombosi. Questi effetti sono verosimilmente mediati da molecole quali ICAM-1, VICAM-1, P-selettina, come suggerito da un modello di topo carente di ICAM-1 e P-selettina. Pazienti aPLpositivi con trombosi arteriosa esprimono livelli aumentati di endotelina-1 (20).
Si tratta di una molecola il cui ruolo fisiologico non è ancora ben definito, ma
che potrebbe essere implicata nei processi di regolazione del tono arterioso
e del vasospasmo. Anticorpi LAC sono risultati capaci di stimolare il “release”
di miscrovescicole da parte delle cellule endoteliali (21).
Induzione del fattore tissutale
Gli aPL sono in grado di stimolare la sintesi leucocitaria di fattore tissutale (22).
Dopo appropriata stimolazione, i monociti isolati da pazienti con APS, ma non
quelli di pazienti aPL-positivi senza complicanze trombotiche, producevano
livelli aumentati di fattore tissutale (22). Ciò richiedeva la presenza di linfociti
CD 4+ e molecole del sistema maggiore di istocompatibilita’ di classe II.
In uno studio, la capacità degli aPL di stimolare l’espressione di fattore tissutale era associata a ridotti livelli di proteina S libera ed aumento di alcuni marcatori di stato protrombotico (23). Gli aPL possono aumentare il fattore tissutale
anche inibendo l’attività del TFPI (tissue factor pathway inhibitor) (24).
19
Effetto sulle piastrine e sul metabolismo degli eicosanoidi
Alcuni ricercatori hanno dimostrato la presenza di piastrine attivate nel sangue dei pazienti con APS (25), e che gli aPL possono stimolare l’aggregazione piastrinica (26) e favorirne l’agglutinazione (27). Gli aPL possono alterare
l’equilibrio della sintesi degli eicosanoidi in senso protrombotico, come suggerito dall’aumentata escrezione urinaria dei metaboliti del trombossano (28).
Peraltro, altri ricercatori non hanno confermato questi dati (29).
Inibizione dell’antitrombina
L’antitrombina e’ un inibitore fisiologico della coagulazione, la cui azione è
accelerata dall’eparina. I pazienti congenitamente carenti di antitrombina
sono ad elevato rischio di complicanze trombotiche venose.
E’ stato dimostrato che in alcuni casi gli aPL cross-reagiscono con l’eparina
e con sostanze eparino-simili, in tal modo inibendone il loro effetto di accelerazione dell’azione dell’antitrombina (30).
Altri effetti
Gli aPL possono cross-reagire con le ox-LDL (7), stimolando, in tal modo, il
processo di aterogenesi. Inoltre, è stato suggerito anche che gli aPL possono interferire con la fibrinolisi. Infatti, livelli aumentati di PAI-I (“plasminogen
activator inhibitor-I”) sono stati trovati in donne aPL-positive (31).
Inoltre, gli anti-ß2GP1 possono inibire l’autoattivazione del fattore XII (32), perciò riducendo la callicreina e l’urochinasi. Infine, mutazioni genetiche - quali
la mutazione G1691A del gene del fattore V e la mutazione G20210A del
gene della protrombina, la cui presenza aumenta il rischio di trombosi
venose – possono contribuire a definire il rischio trombotico nell’APS (33).
Modelli animali di APS
Diversi modelli murini di APS suggeriscono che gli aPL possano svolgere
un ruolo causativo nello sviluppo delle trombosi e delle complicanze ostetriche. Infatti, l’immunizzazione con ß2GP1 (34) o con aPL (35) comporta un
aumentato riassorbimento fetale (l’equivalente murino della poliabortività),
mentre la somministrazione di un anticorpo monoclonale umano derivato
da un paziente con APS provoca trombosi nei topi (36). Topi sottoposti ad
infusione endovenosa di aPL e successivamente a danno della vena femorale sviluppano trombi nella sede di ingiuria vascolare, che sono di dimensioni maggiori rispetto agli animali di controllo (37). In un modello di aterosclerosi murina (topi “knock out” per il gene del recettore delle LDL) l’immunizzazione con aCL umani accelera i processi di aterosclerosi (38), fornendo
un’ulteriore prova della patogenicità degli aPL.
Una relazione causa-effetto diretta tra gli aPL e le complicanze trombotiche
e ostetriche non è ancora stata data negli esseri umani. Tuttavia, la recente
caratterizzazione della ß2GP1 nello scimpanzé, insieme al riscontro di
un’elevata prevalenza di anticorpi anti-ß2GP1 in questi animali (39) offre la
possibilità di studiare l’APS in un modello animale più simile all’uomo.
Conclusioni
In condizioni di laboratorio particolari, gli aPL esercitano numerosi effetti a
causa dei molteplici processi biologici che coinvolgono i fosfolipidi e le membrane fosfolipidiche. E’, peraltro, difficile stabilire quali di questi effetti siano
biologicamente rilevanti, basti pensare, ad esempio, all’effetto paradosso del
LAC sui tests fosfolipide-dipendenti della coagulazione. Perciò, la rilevanza
clinica di ogni proposto meccanismo d’azione basato su studi “in vitro” deve
essere validato mediante modelli animali e studi clinici ben disegnati.
20
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23
Aspetti clinici e terapeutici delle
trombosi arteriose e venose
Guido Finazzi
U.S. Emostasi e Trombosi, U.O. Ematologia,
Ospedali Riuniti, Bergamo
24
Introduzione
L
e trombosi arteriose e venose rappresentano l’evento clinico più frequente e clinicamente rilevante della sindrome da anticorpi antifosfolipidi (aPL) (1). Dati epidemiologici indicano che circa il 30-40% dei
pazienti con gli anticorpi ha una storia di trombosi, venosa nel 70% e arteriosa in circa il 30% dei casi (2).
Le trombosi profonde degli arti inferiori, con o senza embolia polmonare,
sono gli eventi venosi più frequenti, mentre il circolo cerebrale è la sede più
comune delle occlusioni arteriose.
Le trombosi tendono a recidivare, tipicamente nello stesso distretto del
primo evento, e pertanto richiedono una attenta valutazione prognostica e
terapeutica. In questo capitolo, prenderemo in esame i fattori di rischio clinici e di laboratorio per lo sviluppo di eventi vascolari e discuteremo le
opzioni terapeutiche per il trattamento di questi pazienti.
25
Fattori di rischio trombotico
Clinici
La storia naturale e i fattori di rischio per le trombosi nei pazienti con anticorpi antifosfolipidi sono stati analizzati in dettaglio in uno studio prospettico del Registro Italiano (3). Trecentosessanta pazienti consecutivi (M/F
118/242, età mediana 39 anni, range 2-78), con diagnosi di lupus anticoagulant (LA) secondo i criteri internazionalmente stabiliti (4) e/o con aumentati
livelli di anticorpi anticardiolipina (aCL) di classe IgG sono stati seguiti da
16 Centri Italiani. Dopo un follow-up mediano di 3.9 anni (range 0.5-5), 34
pazienti hanno sviluppato una complicanza trombotica, con una incidenza
totale di 2.5% pazienti-anno. L’analisi multivariata dei fattori di rischio ha
identificato l’anamnesi positiva per un precedente evento vascolare come
il più forte predittore clinico di trombosi (Tab.1). I pazienti con storia positiva
per trombosi presentavano un’incidenza di complicanze vascolare pari a
5.4% pazienti-anno in confronto a 0.95% pazienti-anno nei soggetti asintomatici. L’età, il sesso, un precedente evento abortivo, la diagnosi di lupus
eritematosus sistemico (LES) o malattie correlate, la piastrinopenia e il fumo
non erano fattori di rischio indipendenti per trombosi. Invece, una storia di
aborto era significativamente associata ad un fallimento gravidico anche
nel follow-up.
Questi dati sono stati confermati da altri studi. In uno studio multicentrico
europeo (5), l’incidenza di trombosi ricorrenti è stata di 4.5% pazienti-anno,
molto simile a quanto osservato nello studio italiano. Inoltre, nessuna differenza di rischio trombotico è stata osservata fra pazienti con o senza LES,
ipertensione arteriosa, iperlipidemia o diabete.
In un altro studio in donne con LES (6), una precedente gravidanza abortiva
è stata identificata come il più importante predittore di aborto ricorrente.
Pertanto, i pazienti con anticorpi antifosfolipidi possono essere suddivisi in
due classi di rischio: i pazienti asintomatici hanno una bassa incidenza di
complicanze vascolari e necessitano solo di attenta sorveglianza; i pazienti
con pregressa trombosi, o gravidanza abortiva, sono invece candidati ad
una terapia anticoagulante.
Variabile
Età < 40 anni
Sesso femminile
Precedente trombosi
SLE o malattia “SLE-like”
Rischio Relativo (95% CI)
1.02 (0.54-1.90)
1.41 (0.49-4.06)
4.90 (1.76-13.7)
1.72 (0.81-4.02)
P
0.96
0.52
<0.005
0.10
Precedente aborto, piastrinopenia, e fumo non significativi in analisi univariata
(da Finazzi G et al. Am J Med 1996; 100: 530-6)
Tabella 1. Multivariata dei fattori di rischio trombotico in 360 pazienti
con anticorpi antifosfolipidi.
Laboratoristici
Molti studi hanno valutato il ruolo dei differenti anticorpi antifosfolipidi come
potenziali fattori di rischio trombotico. In una recente revisione sistematica
della letteratura dal 1988 al 2000 (7), è stato analizzato il rischio relativo
(espresso come odds ratio, OR) per trombosi arteriose e venose dei principali di questi anticorpi.
Per il LA, sono stati considerati solo studi prospettici, cross-sectional, casocontrollo e ambispettivi, escludendo gli studi con disegno retrospettivo.
26
L’analisi di 12 studi in 1608 pazienti ha dimostrato che l’associazione del
test con la trombosi era sempre statisticamente significativa con un odds
ratio compreso fra 7.3 e 10.7. Peraltro, il LA è un fenomeno di laboratorio
eterogeneo in termini di bersagli antigenici, di meccanismi di interferenza
con i fosfolipidi della cascata coagulatoria e quindi anche di test coagulativi
necessari per la diagnosi. Ne consegue che nessun singolo test coagulativo è al 100% sensibile e specifico per la diagnosi di LA. Ci si può pertanto
chiedere quale sia il singolo test coagulativo che, nell’ambito della diagnosi
di LA, è il miglior predittore del rischio trombotico.
Il Russell’s Viper Venom Time diluito (dRVVT) e il Kaolin Clotting Time (KCT)
sono due test di coagulazione comunemente usati per la diagnosi di LA.
In uno studio recente, questi due test si sono dimostrati differentemente
associati al rischio di sviluppare eventi vascolari (8). Infatti, nessuna correlazione è stata osservata tra la storia trombotica dei pazienti e il grado di
positività del KCT, indipendentemente dal laboratorio dove è stato eseguito
il test e dal tipo di strumentazione usata. La stessa mancanza di associazione è stata osservata analizzando separatamente le trombosi arteriose e
venose. Invece, la maggior parte dei tests basati sul dRVVT erano associati
con una storia di eventi vascolari quando si considerava un dRVVT ratio
>1.5. Questi risultati sono in accordo con un altro studio di 100 pazienti
LA-positivi seguiti per una mediana di circa 3 anni: più alto era il valore di
dRVVT ratio, più alta la frequenza di trombosi (9). Peraltro, bisogna considerare un punto importante circa l’associazione fra grado di positività al
dRVVT e rischio trombotico. I vari tipi di dRVVT commercialmente disponibili o preparati “in-house” dai singoli ricercatori sono diversi fra loro per
composizione e concentrazione dei reagenti fosfolipidici (10).
Questo può modificare la loro specificità e sensibilità diagnostica e può
spiegare i risultati di alcuni studi che hanno dimostrato l’associazione fra
dRVVT e trombosi con alcuni tipi di reagenti ma non con altri (11).
E’ pertanto necessario un ulteriore lavoro di standardizzazione del test
prima di raggiungere conclusioni definitive. Certamente, comunque, il
dRVVT appare oggi come il più promettente candidato per identificare
i pazienti con LA ad alto rischio trombotico.
Per quanto riguarda gli anticorpi aCL, l’analisi sopra citata (7) ha valutato 14
studi (esclusi quelli retrospettivi) che hanno riportato l’OR del test nei confronti del rischio trombotico. L’associazione risultava statisticamente significativa solo nel 50% degli studi (OR compreso fra non significativo e 4.9).
L’associazione degli aCL con la trombosi era comunque strettamente
dipendente dal titolo anticorpale. Infatti, negli studi nei quali erano inclusi
solo pazienti con aCL >40 U GPL l’associazione con gli eventi vascolari
raggiungeva la significatività statistica con un OR compreso fra 1.5 e 10.
Il significato clinico degli anticorpi anti-ß2-glicoproteina 1 (anti-ß2GP1) e
anti-protrombina (aPT) è stato analizzato principalmente in studi retrospettivi (7). La maggioranza degli studi relativi agli anti-ß2GP1 ha dimostrato una
significativa associazione con le trombosi: l’analisi cumulativa di 1506
pazienti ha dato un OR di 5.3 (4.06-6.98), indipendentemente dall’isotipo
dell’anticorpo e dalla sede di trombosi. Quando le trombosi arteriose e
venose venivano analizzate separatamente, solo uno studio riportava una
significativa associazione tra anti-ß2GP1 di tipo IgM e trombosi arteriose
(peraltro non confermata in analisi multivariata), mentre cinque studi
mostravano che anticorpi anti-ß2GP1 di classe IgG conferivano un OR
statisticamente significativo per trombosi venose. Dieci studi retrospettivi
o caso-controllo hanno valutato l’associazione tra aPT e trombosi.
Sette studi hanno trovato un OR statisticamente significativo in analisi univariata, ma solo in due l’associazione si è confermata in analisi multivariata.
In conclusione, l’insieme di questi studi indica che il LA è il più potente pre-
27
dittore di laboratorio del rischio trombotico in questi pazienti. Fra i test coagulativi per la diagnosi di LA, il dRVVT è stato più frequentemente associato
agli eventi trombotici rispetto al KCT, ma discrepanze fra i risultati ottenuti
con diversi tipi di dRVVT sottolineano la necessità di una migliore standardizzazione del test. I dati relativi agli aCL suggeriscono che solo alti titoli
anticorpali possono essere considerati come eventuali predittori di trombosi. Rispetto agli aCL, gli anticorpi anti-ß2GP1 sembrano mostrare una
migliore associazione con gli eventi vascolari ma mancano studi prospettici
definitivi. Infine, il dosaggio degli aPT non sembra attualmente di grande
utilità nel singolo paziente e dovrebbe essere eseguito solo nell’ambito di
studi clinici ‘ad hoc’ (tab. 2)
Tipo di anticorpo
Forza dell’associazione con la trombosi
Studi Retrospettivi
Studi Prospettici
Lupus Anticoagulant
dRVVT test *
KCT test
Anticardiolipina
Alti titoli
Bassi titoli
Anti-ß2-glicoproteina 1
Antiprotrombina
++
-
++
-
+
+
+/-
+
ND
+/-
dRVVT= dilute Russell Venom Viper Test; KCT=Kaolin Clotting Time;
++ associazione forte;
+ associazione significativa;
+/- associazione incerta;
- nessuna associazione
* risultati eterogenei con diversi reagenti
(da Galli M, Haemostasis 2000; 30: 57-62)
ND non disponibili
Tabella 2. Fattori laboratoristici di rischio trombotico in pazienti con
Sindrome da Anticorpi Antifosfolipidi. Analisi cumulativa della letteratura
1988-2000.
Prevenzione e trattamento delle trombosi
Non ci sono studi clinici controllati sul trattamento o la profilassi delle trombosi nei pazienti con aPL e le raccomandazioni attuali sono basate, nel
migliore dei casi, su serie retrospettive di pazienti consecutivi. C’è un generale consenso sul fatto che i soggetti asintomatici non debbano ricevere
una profilassi primaria e la bassa incidenza di trombosi osservata nello studio italiano sostiene questa raccomandazione (3). Una profilassi con eparina
non frazionata o a basso peso molecolare, alle dosi usuali, è indicata nelle
situazioni ad aumentato rischio tromboembolico come la chirurgia, la gravidanza, il puerperio o in caso di immobilizzazione prolungata. L’assunzione
dei contraccettivi orali è sconsigliata, sebbene non ci siano studi conclusivi
al riguardo. L’evento tromboembolico acuto viene trattato come nei pazienti
senza aPL. Un problema particolare riguarda il monitoraggio della terapia
eparinica, perchè l’APTT è fortemente influenzato dalla presenza del LA.
Si raccomanda di utilizzare un test basato sull’attività anti-Xa, mantenendo
un range terapeutico compreso fra 0.35 e 0.7 U/ml.
Dopo il primo evento trombotico, è indicata la profilassi secondaria con
anticoagulanti orali. Due studi recenti hanno confermato che il sistema di
monitoraggio della terapia basato sull’International Normalized Ratio (INR)
è valido anche per i pazienti con LA (12,13).
28
Si raccomanda, però, attenzione nell’uso di alcune tromboplastine ricombinanti (Innovin e Thromborel R) che hanno prodotto significative sovrastime
dell’INR. La durata e l’intensità del trattamento anticoagulante orale in questi pazienti non sono chiaramente stabiliti. Derksen et al. (14) hanno riportato
che la probabilità di non avere ricorrenze di trombosi in un periodo di otto
anni era 100% nei pazienti trattati con anticoagulanti orali con INR tra 2.5 e
4.0 contro 22% tra i pazienti che avevano sospeso la warfarina. Rosove et
al. (15) hanno osservato in 70 pazienti che la terapia anticoagulante orale ad
alta intensità (PT INR >3) conferiva una migliore protezione antitrombotica
(0 eventi per anno) rispetto a quella ad intensità intermedia (INR 2-2.9; 7%
eventi per anno), bassa (INR<1.9; 57% eventi per anno), all’aspirina (32%
eventi per anno) o a nessun trattamento (19% eventi per anno), ma cinque
pazienti hanno presentato eventi emorragici rilevanti con la warfarina ad
alte dosi (3.1% eventi per anno). Questi risultati sono stati confermati in
uno studio di 147 pazienti (16). Il trattamento con warfarina ad alta intensità
(INR>3), con o senza aspirina, è stato significativamente più efficace che il
trattamento con warfarina a bassa intensità (INR<3) o con aspirina da sola
nella prevenzione di ulteriori eventi tromboembolici (incidenza di recidive
1.3%, 23% e 18% per anno, rispettivamente). Emorragie gravi sono state
osservate in 29 pazienti durante la terapia anticoagulante orale (7.1% per
anno).
Questi studi suggerirebbero che i pazienti con aPL che abbiano presentato
un evento trombotico maggiore dovrebbero ricevere una terapia anticoagulante orale a lungo termine e ad alte dosi (INR >3.0). Peraltro, diversi Autori
hanno sollevato serie preoccupazioni circa il rischio di raccomandare tale
terapia sulla base solo di studi retrospettivi e non randomizzati (17-19).
Emorragie cerebrali fatali sono possibili in corso di terapia anticoagulante
orale e la probabilità cumulativa di sanguinamenti gravi aumenta sia con la
durata che con l’intensità del trattamento. Inoltre, in studi più recenti, anche
se su casistiche più limitate, il trattamento ad intensità convenzionale (PT
INR 2.0–3.0) è risultato efficace, soprattutto nella prevenzione del tromboembolismo venoso (20-24).
Pertanto, il rischio-beneficio della terapia anticoagulante orale ad alte dosi
e a lungo termine in questi pazienti è ancora incerto e richiede studi prospettici e controllati prima che venga raccomandata.
Uno studio clinico controllato multicentrico in grado di dare una risposta a
questo problema si è recentemente concluso e i dati dovrebbero essere
disponibili entro l’anno 2002 (studio WAPS, Warfarin in AntiPhospholipid
Syndrome) (25). Nel frattempo, la decisione sulla durata e l’intensità della
profilassi con anticoagulanti orali deve essere presa su base individuale
tenendo in considerazione i fattori di rischio trombotico e quelli di complicanze emorragiche del singolo paziente. Le raccomandazioni suggerite
dalla British Society of Haematology a questo proposito sono riassunte
nella Tabella 3 (26).
Aspetti clinici particolari
Due complicanze particolarmente gravi della sindrome da aPL meritano di
essere segnalate a parte. La prima è la rara “catastrophic antiphospholipid
syndrome” (27), caratterizzata da una microangiopatia trombotica multidistrettuale, che si associa ad insufficienza cardiaca e respiratoria ed una
mortalità di circa il 50%. Circa il 30% dei pazienti presenta anche evidenza
di coagulazione intravascolare disseminata.
La patogenesi di questa complicanza è incerta, mentre sono noti alcuni fattori scatenanti fra i quali, infezioni, traumi chirurgici, farmaci o la sospensione del trattamento anticoagulante.
29
Il trattamento che ha dimostrato finora la maggiore efficacia è la plasmaferesi, avvicinando questa condizione clinica alla porpora trombotica trombocitopenica. Altre terapie che hanno dimostrato un beneficio parziale includono gli steroidi ad alte dosi, le immunoglobuline e.v. e la ciclofosfamide.
Un’altra severa manifestazione clinica associata alla sindrome da anticorpi
antifosfolipidi è l’ipertensione polmonare secondaria a tromboembolismo
polmonare ricorrente (28).
La profilassi secondaria con anticoagulanti orali è obbligatoria ma non è
sempre in grado di frenare l’evoluzione peggiorativa della sindrome che
può portare ad una grave insufficienza congestizia del cuore destro.
In questi casi, l’intervento di tromboendoarteriectomia può essere indicato (29).
In due nostri pazienti, la rimozione chirurgica dei trombi ostruenti l’arteria
polmonare ha portato ad un significativo miglioramento delle condizioni cliniche e dei parametri strumentali.
In conclusione, la sindrome da anticorpi antifosfolipidi può presentarsi con
una vasta gamma di manifestazioni cliniche e di laboratorio, che vanno
dalla diagnosi di portatore asintomatico degli anticorpi ad emergenze cliniche e rianimatorie potenzialmente catastrofiche.
Questa eterogeneità di espressione sottolinea l’importanza di un approccio
multidisciplinare ed articolato alla malattia ed al suo trattamento.
Evento
Prima trombosi venosa
Prima trombosi arteriosa
(ictus ischemico)
Trombosi recidivante
Durata
6 mesi*
Indefinita
Range terapeutico (PT INR)
2.0 – 3.0
2.0 – 3.0
Indefinita
3.0 – 4.5 **
* Da prolungare a giudizio clinico sulla base del rischio trombotico ed emorragico del singolo
paziente (vedi testo)
** Se la recidiva è avvenuta con PT INR tra 2.0 e 3.0
(da Greaves M et al. Br J Haematol 2000; 109: 704-15)
Tabella 3. Raccomandazioni della British Society of Haematology
per il trattamento con anticoagulanti orali dei pazienti con Sindrome
da Anticorpi Antifosfolipidi e trombosi.
30
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Corrispondenza: Dr. Guido Finazzi
Unità Semplice Emostasi e Trombosi, Unità Operativa Ematologia,
Ospedali Riuniti, Largo Barozzi 1, 24128 Bergamo, Italy.
Tel 035 269492. Fax: 035 266667.
E-mail: [email protected]
33
Aspetti clinico-terapeutici delle
complicanze ostetriche
Tincani A., Taglietti M., Biasini Rebaioli C., Frassi M., Gorla R., Balestrieri G.,
Meroni P.L.*, Motta M.#, Zatti S, Lojacono A.°, Faden D.°
Servizio di Reumatologia, Allergologia e Immunologia Clinica;
#
Divisione di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale;
° Divisione di Ostetricia e Ginecologia, Spedali Civili di Brescia;
* Unità di Allergologia e Immunologia Clinica,
Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Milano,
IRCCS Istituto Auxologico Italiano, Milano.
34
Introduzione
S
toricamente la prima descrizione di Sindrome da Antifosfolipidi (APS)
risale a più di 20 anni fa, quando fu segnalata la positività del Lupus
Anticoagulant (LA) in pazienti con episodi trombotici e ripetute perdite
fetali nel periodo centrale della gravidanza(1) .
Dagli anni ’80 a oggi sono state approntate varie metodiche per lo studio
dei così detti anticorpi antifosfolipidi (aPL) basate su metodi ELISA e non
funzionali come il LA: il test per anticardiolipina (aCL)(2), per anti-ß2 glicoproteina 1 (anti-ß2GP1)(3), per anti-protrombina (aPT)(4) ed altri ancora.
Il test per gli anticorpi anticardiolipina con le sue caratteristiche di metodo
a largo impiego ha svolto una funzione “trainante” rendendo possibile studi
epidemiologici numericamente significativi. Attraverso questi studi è stato
possibile identificare la sindrome, che comprendeva nei criteri clinici la
patologia ostetrica fino dalla sua prima descrizione(5).
In questi 20 anni, le numerose osservazioni raccolte, gli studi clinici, i protocolli applicati hanno portato al concetto moderno che gli anticorpi antifosfolipidi rappresentino una causa curabile di aborto o di perdita fetale(6).
35
Antifosfolipidi e Patologia Ostetrica
I dati della letteratura sono oggi concordi nel ritenere che la presenza di
aPL, comunque determinati, sia associata a patologia ostetrica.
In effetti, sin dalla sua prima identificazione il LA è stato descritto come un
prolungamento dei test di coagulazione fosfolipido-dipendenti in pazienti
con storia di ripetuti aborti del 2° trimestre di gravidanza, associato o meno
a fatti trombotici, spesso nell’ambito di malattie sistemiche come il lupus eritematoso sistemico (da cui il nome “lupus anticoagulant”, LA) (7-8).
D’altra parte, negli anni ’80, l’introduzione del test aCL (2) ha confermato
come altamente significativa l’associazione con la patologia abortiva, sia
nell’ambito della malattia lupica che in donne altrimenti sane (aborto idiopatico) (9-10). Per questo motivo la presenza di aPL, indagati con il LA e/o con
gli aCL, in donne con taluni problemi ostetrici (più di 3 aborti, o morte
endouterina del feto, o parti pretermine, accompagnati da preeclampsia o
severa insufficienza placentare) è andata configurando una popolazione di
pazienti originariamente definite come “Lupus Ostetrico” (11). Questa definizione è stata successivamente abbandonata, dal momento che la patologia
ostetrica è considerata uno dei due criteri clinici per la diagnosi e la classificazione della Sindrome da Antifosfolipidi (12).
E’ di interesse che la presenza di aCL in donne affette da Lupus eritematoso sistemico si sia dimostrata un fattore di rischio significativo per incidenti
ostetrici (9) e che d’altra parte sia risultata molto compromessa la prognosi
riproduttiva (50% di insuccessi) di donne con riscontro di aCL e/o LAC al
2° trimestre di gravidanza, senza che le pazienti avessero precedenti
anamnestici significativi (10).
Non è ancora oggi chiaro se i titoli, l’isotipo dell’anticorpo o la sua specificità siano influenti nel determinare il livello del rischio. Per quanto riguarda
il titolo dell’anticorpo è interessante notare come taluni trials controllati, tra
quelli che hanno codificato il trattamento, includano pazienti con bassi titoli
di aCL (13); al contrario altri autori associano il rischio di insuccessi gravidici
con l’isotipo IgG a titolo >20 unità GPL (o con LA positivo) (14).
Anche sul ruolo degli anticorpi anti-ß2GP1 nell’inquadrare le pazienti con
problemi ostetrici i pareri non sono concordi. In effetti secondo taluni autori
questo test non aggiungerebbe informazioni rispetto a quelle fornite dai test
classici (aCL e LA) (15) mentre per altri il test avrebbe una specificità maggiore per taluni subset di patologia ostetrica (16). Probabilmente queste
discordanze sono da imputarsi alla mancata standardizzazione delle metodologie applicate per la determinazione degli anticorpi anti-ß2GP1.
Modelli sperimentali: patogenesi della sindrome.
Nonostante le numerose segnalazioni di associazione tra anticorpi antifosfolipidi e perdite fetali, la dimostrazione che gli anticorpi causino le perdite
fetali si è avuta soltanto attraverso la osservazione dell’effetto che la presenza di aPL è in grado di esercitare sull’andamento della gravidanza in
animali da esperimento.
In effetti è stato rilevato che ceppi di animali lupus prone, caratterizzati
dalla presenza di aCL (MRL/lpr), hanno un minor numero di nati vivi rispetto
ad altri ceppi, pure lupus prone, ma senza aCL (NZB x W F1).
D’altra parte, l’infusione di anticorpi in topi naive (BALB/c, ICR, CD1)
durante la gravidanza risulta in un’alta percentuale di riassorbimento fetale,
equivalente a quello che nell’uomo si definisce aborto/morte endouterina
del feto (17).
36
Anche se genericamente il meccanismo patogenetico degli antifosfolipidi
viene ricondotto alla trombofilia, è risultato chiaro nel corso degli anni che i
fenomeni trombotici non sono sufficienti a giustificare la particolare influenza di questi anticorpi sullo sviluppo della gravidanza.
E’ infatti ipotizzabile che gli anticorpi si leghino direttamente al trofoblasto,
dal momento che:
1) è stato dimostrato che alla sua superficie viene esposta, durante la sua
differenziazione in sinciziotrofoblasto, la fosfatidilserina (18) e inoltre
2) nelle placente di pazienti poliabortive con sindrome da antifosfolipidi
è stata rilevata da metodiche di immunoistochimica la presenza di
ß2GP1(19).
Pertanto il trofoblasto verrebbe ad assemblare i possibili bersagli degli anticorpi circolanti. A conferma di questa ipotesi sta la dimostrazione che, in
vitro, gli aPL sono in grado di legare cellule trofoblastiche e di modularne
l’attività interferendo con la formazione del sinciziotrofoblasto, con la sintesi
di gonadotropina corionica e con la capacità di invasione.
In sintesi è stato dimostrato un possibile effetto degli anticorpi sullo sviluppo e l’impianto della placenta, giustificando da un lato un danno non
necessariamente legato a fenomeni trombotici e dall’altro l’associazione
tra aPL ed aborti precoci (20).
D’altra parte, recentemente è stato focalizzato anche il ruolo della annessina V o placental anti-coagulant protein I (PAP-I) nel mantenimento della
integrità della placenta. La annessina V, fortemente espressa sulla superficie apicale dei microvilli del sinciziotrofoblasto (21, 22), è dotata di una potente
attività anticoagulante in quanto ha la capacità di legare le superfici di
fosfolipidi a carica elettrica negativa, formando uno strato protettivo che
impedisce l’avvio di reazioni coagulative.
Nelle placente di pazienti con sindrome da antifosfolipidi è stata riscontrata
una diminuita quantità di annessina V a livello placentare. Inoltre in vitro è
stato dimostrato che gli aPL, probabilmente complessati con ß2GP1, riducono il livello di annessina V di cellule trofoblastiche in coltura (23).
Questa potrebbe essere una seconda via patogenetica di danno aPLmediato della gravidanza, basata su fenomeni trombotici a livello delle
strutture (trofoblasto e/o endotelio) che esprimono annessina V.
La Clinica della Gravidanza nelle Pazienti con la Sindrome.
Molto è stato scritto riguardo al tipo di perdita gravidica associata agli aPL.
In questo senso i criteri internazionali della conferenza di consenso tenutasi
a Sapporo (Giappone) nel 1998(12), hanno permesso un accordo sulle manifestazioni da prendere in considerazione:
1) una o più morti dopo la 10 settimana di gestazione di un feto altrimenti
sano, e con normale morfologia;
2) uno o più parti pretermine ( = 34 settimane) conseguenti a preeclampsia
severa o insufficienza placentare;
3) tre o più aborti spontanei prima della 10 settimana di gestazione,
con escluse altre cause di aborto (genetiche, anatomiche, infettive,
endocrine, anomalie placentari, etc.).
I criteri di consenso hanno fatto chiarezza anche in termini di nomenclatura.
In effetti i dati talora discordanti dei vari reports potrebbero essere dipesi
anche dalla diversa nomenclatura applicata. Ad esempio alcuni gruppi fissavano la differenza tra aborti e morti del feto a 20 settimane mentre altri
a 16 settimane di gestazione.
37
Tuttavia non è ancora chiaro se siano più tipiche della sindrome le perdite
fetali (dopo la 10 settimana di gestazione), come sostenuto da un certo
numero di autori tra quelli che ne hanno inizialmente disegnato il profilo (2426)
, o le perdite preembrioniche/embrioniche (prima della 10a settimana di
gestazione), come risulterebbe da altre più recenti segnalazioni (13).
Oltre agli aborti spontanei e alle perdite fetali del 2° e 3° trimestre, numerose complicanze ostetriche materno-fetali sono associate alla sindrome: la
preeclampsia-HELLP, la insufficienza uteroplacentare, lo IUGR (intrauterine
growth retardation) ed il parto pretermine (27).
In questo ambito, il rapporto tra aPL e preeclampsia è uno degli argomenti
più dibattuti. Infatti numerosi studi hanno sottolineato come l’incidenza di
preeclampsia sia particolarmente elevata in pazienti con classica Sindrome
da Antifosfolipidi, primaria o secondaria (25, 28).
D’altra parte, anche nella popolazione ostetrica con preeclampsia è stata
osservata una elevata frequenza di pazienti con anticorpi antifosfolipidi (29,
30)
, anche se non in modo univoco (31).
Peraltro, uno studio recente (32), che esamina 317 pazienti gravide con un
episodio di preeclampsia in una precedente gravidanza e quindi ritenute a
rischio di recidive, concludeva che anticorpi di classe IgG antifosfolipidi
non classici (anti-fosfatidilserina) erano associati con la preeclampsia severa, gli aCL di classe IgG erano associati con lo IUGR, ma entrambi i test
avevano uno scarso valore predittivo per le citate complicazioni.
In apparente contrasto con questo dato, abbiamo recentemente dimostrato
una significativa associazione tra LA e preeclampsia in una casistica di 132
gravidanze seguite prospetticamente in 92 pazienti con lupus eritematoso
sistemico, con un valore predittivo estremamente significativo (RR 9.2) (33).
D’altra parte, anche per quanto riguarda la frequenza dello IUGR o la predittività degli aPL verso questa complicazione si ricavano dalla analisi della
letteratura voci contrastanti. In effetti lo IUGR è riportato con frequenze che
variano dal 30 al 12% in una serie di studi che comunque concordano
almeno su un significativo aumento di prevalenza (27, 34, 35), contrariamente ad
altri che non la confermano affatto (29, 31).
I diversi risultati sulla associazione dei problemi ostetrici agli aPL possono
trovare varie spiegazioni.
Come sopra ricordato, una certa responsabilità nel creare risultati discordanti è probabilmente attribuibile alla non sempre rigorosa classificazione
degli esiti sfavorevoli della gravidanza. Inoltre in questa ottica è necessario
non dimenticare un esame attento delle metodologie applicate dai singoli
studi alla determinazione degli aPL.
In effetti con questo nome si intende una famiglia di anticorpi eterogenei,
identificabili con test diversi e con diversa specificità diagnostica per la
Sindrome; pertanto i risultati ottenuti sulla stessa casistica con test diversi
non sono sempre paragonabili.
Dall’altro è utile ricordare che i 50 anni trascorsi dalla introduzione del LA
non ne hanno appianato completamente i problemi metodologici (36), così
come i 19 anni trascorsi dalla introduzione degli aCL non sono bastati a
completarne il lavoro di standardizzazione (37). Pertanto risultati ottenuti in
Centri diversi non sempre sono completamente sovrapponibili.
Se comunque, come è generalmente accettato, nella APS si registra un
aumento di complicanze ostetriche, la conseguenza logica dovrebbe essere un aumento dei parti pretermine. In effetti nelle casistiche di gravidanze
in pazienti con APS la frequenza del parto pretermine è stata stimata attorno al 30% (28).
38
Fortunatamente però, la prematurità grave (prima della trentesima settimana) è oggi infrequente e comunque i mezzi e la capacità raggiunte nei
reparti di terapia intensiva neonatale trasformano queste nascite pretermine
in esiti globalmente favorevoli nella larga maggioranza dei casi.
Infine non si può trascurare, tra i problemi clinici delle gravidanze in pazienti con APS, la possibilità di un evento tromboembolico.
Va al riguardo sottolineata la potenziale sinergia tra il rischio trombofilico
proprio della gravidanza e/o del puerperio e quello rappresentato dagli
aPL.
La terapia
I primi tentativi terapeutici degli anni ’80 utilizzarono un trattamento steroideo a dosaggio immunosoppressivo associando aspirina a basse dosi
come antiaggregante (38) .
Benché questo trattamento si sia mostrato allora e anche in studi successivi
(39)
certamente efficace nel migliorare la prognosi fetale, uno studio controllato del 1992 (40) ha mostrato come altrettanto efficace fosse l’utilizzo di eparina a dosaggio profilattico (20.000 U), anche in questo caso in associazione a basse dosi di aspirina (81 mg), con il vantaggio non indifferente che il
trattamento con eparina sembra indurre un minor numero di complicanze
ostetriche (parto pretermine, ipertensione, etc.) (40-42) rispetto ai corticosteroidi.
A partire da queste osservazioni il trattamento di pazienti gravide con APS
è stato codificato come associazione di basse dosi di aspirina ed eparina
dapprima non frazionata e poi a basso peso molecolare. In questo atteggiamento, comunque, ci sono ancora dei punti non uniformemente interpretati. Per esempio non è chiaro il timing dell’inserimento dell’eparina soprattutto per le pazienti in cui la sindrome è stata diagnosticata sulla base di
trombosi anamnestiche e che sono quindi in trattamento con anticoagulanti
orali. In effetti il problema si pone in quanto gli anticoagulanti orali sono
teratogeni in un periodo tra la settima e la dodicesima settimana di gestazione e pertanto una conversione ad eparina in periodo preconcezionale
viene considerata da taluni autori più sicura.
D’altra parte, il periodo intercorrente prima del verificarsi del concepimento
non è facilmente valutabile e può prolungarsi nel tempo, pertanto, se è già
stata instaurata terapia eparinica, questo periodo può essere gravato da
effetti collaterali non trascurabili.
Il ruolo preciso della aspirina a basso dosaggio è anche fino ad oggi
discusso. In questo ambito è interessante considerare i risultati di 2 studi
randomizzati relativamente recenti, che includevano solo pazienti poliabortive, escludendo quelle con malattia autoimmune e con precedenti trombosi. I due studi differivano tuttavia dal momento che in uno le pazienti
mostravano la sola positività per aCL (essendo state escluse le donne gravide LA positive)(43) e nell’altro erano in larga maggioranza LA positive (13).
Entrambi questi trials attribuiscono maggiore efficacia al trattamento eparinico associato all’antiaggregante (acido acetilsalicilico a basso dosaggio:
75-100 mg/die), rispetto a quello basato sul solo antiaggregante anche se
in realtà Rai et al. (13) puntualizzano che il vantaggio della associazione con
eparina si esaurisce alla tredicesima settimana di gestazione.
Comunque, nonostante le differenze citate, entrambi questi 2 gruppi di
lavoro dimostrano una percentuale di nati vivi nel braccio della sola aspirina intorno al 40%.
39
Questo dato è in stridente contrasto con il valore di sopravvivenza emerso
da altri studi che riportano in pazienti con APS trattate in gravidanza con la
sola aspirina una percentuale di successi attorno all’80%. Infine un recente
studio controllato dimostrerebbe un effetto della aspirina paragonabile al
placebo (44) in una casistica di poliabortive genericamente positive ai test
per aCL (senza cioè necessariamente includere solo le positività medio-alte,
come suggerito dai criteri classificativi) in cui erano prevalenti gli aborti
embrionici o pre-embrionici.
In effetti, in questa casistica, anche le pazienti in placebo avevano un outcome ostetrico assolutamente favorevole (intorno all’80% di esiti favorevoli).
È utile in questo contesto ricordare che l’uso della aspirina ha un suo razionale riconducibile allo stimolo sulla produzione di IL-3 (45). Infatti quest’ultima
costituisce un fattore di crescita per il trofoblasto e, come tale, contribuisce
al mantenimento di una gravidanza normale (46). I livelli sierici di IL-3 sono
ridotti in donne gravide con APS (47) e, nel modello sperimentale, l’aggiunta
di IL-3 esogena è stata in grado di abrogare completamente le complicanze ostetriche correlate agli aPL (48). In contrasto con questi riscontri in vivo,
stanno alcuni esperimenti in vitro, ove l’IL-3 non sembra in grado di impedire l’effetto degli aPL sul trofoblasto (49).
Un’altra fonte di dibattito è stata a lungo considerata l’impiego delle immunoglobuline umane endovena come trattamento profilattico della perdita
della gravidanza in pazienti con APS. Recentemente, tuttavia, uno studio
controllato condotto su un numero significativo di pazienti ha dimostrato
che il trattamento con immunoglobuline in vena aggiunto al trattamento
classico con eparina aspirina non migliora la prognosi riproduttiva delle
pazienti con APS (50). Questo trattamento quindi sarebbe da riservare a
pazienti in cui la terapia convenzionale sia fallita o a gravidanze che necessitino di un trattamento complementare estemporaneo per superare problemi intercorrenti. In questi casi le immunoglobuline in vena potrebbero essere ragionevolmente impiegate anche senza che ci sia l’evidenza della loro
reale efficacia.
A queste indicazioni di “supporto” si aggiunge anche, ovviamente, quella
della piastrinopenia, complicanza non rara nelle pazienti gravide con APS,
e che trova un trattamento generalmente pronto ed efficace nell’uso delle
immunoglobuline in vena.
Infine, se l’atteggiamento condiviso per la profilassi della gravidanza nelle
pazienti con APS è basato sull’impiego di aspirina a basse dosi associata
ad eparina, conviene non dimenticarne i possibili effetti collaterali.
La concomitanza del trattamento eparinico con l’effetto della gravidanza
stessa può diventare un fattore di rischio non trascurabile per osteoporosi,
soprattutto quando, per una concomitante patologia autoimmune, la
paziente abbia assunto o assuma corticosteroidi.
L’incidenza di osteoporosi associata all’uso di eparina in gravidanza può
assestarsi tra lo 0.2 (eparina a basso peso molecolare) e il 2% (eparina non
frazionata) e per questo motivo è generalmente consigliata un’adeguata
integrazione calcica (51).
Conclusioni
La conoscenza della sindrome e l’applicazione di un trattamento ad personam (evidentemente evolutosi nel corso degli anni in seguito alle informazioni
progressivamente acquisite), ha radicalmente mutato la prognosi ostetrica
delle donne con APS.
E’ comunque opinione condivisa che i risultati in questo ambito non siano
esclusivamente legati ai trattamenti farmacologici applicati.
40
In effetti, senza togliere nulla ai benefici dei trattamenti applicati, è necessario ricordare che in questo particolare settore è determinante una sorveglianza ostetrica attenta che, tramite le nuove metodologie diagnostiche (doppler-flussimetria) finalizzate a valutare il benessere del feto, stabilisca il
momento più favorevole per espletare il parto.
Questa politica aggressiva, unita ai progressi compiuti nel campo della neonatologia che permette buona sopravvivenza con ridotta incidenza di handicap a distanza anche in feti prematuri, è stata determinante nel cambiare
radicalmente la prognosi ostetrica delle pazienti con la sindrome (fig. 1).
INSUCCESSI
91%
SUCCESSI
81%
NV
MEU
MP
AS
AS
MEU
91 gravidanze anamnestiche
NATI VIVI
92 gravidanze dopo la diagnosi
MEU=morti endouterina; AS=aborti spontanei; NV=nati vivi; MP=morti perinatali
Figura 1. Esito della gravidanza in 65 pazienti
(Spedali Civili di Brescia 1983-2002)
Bibliografia
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Corrispondenza:
Dr.ssa Angela Tincani
Servizio di Reumatologia, Allergologia, Immunologia Clinica,
Spedali Civili di Brescia
P.le Spedali Civili, 1 25123 BRESCIA
Tel: 030-3996449; fax: 030-3995085;
e-mail: [email protected]
45
Diagnosi di laboratorio
degli anticorpi antifosfolipidi.
46
1. Anticoagulante tipo lupus:
diagnosi di laboratorio
Armando Tripodi
Centro Emofilia e Trombosi Angelo Bianchi Bonomi,
Dipartimento di Medicina Interna,
Università e IRCCS Ospedale Maggiore, Milano.
Introduzione
Considerata l’impossibilità di identificare con un singolo test le diverse
classi di anticoagulante tipo lupus (LA), il Comitato Scientifico e di
Standardizzazione (SSC) della Società Internazionale per l’Emostasi e
Trombosi (ISTH), ha disegnato una strategia diagnostica basata su tre criteri (1). Il primo prevede che uno (o più) dei test dipendenti dai fosfolipidi
sia prolungato oltre i limiti della norma (test di screening).
Bisogna poi dimostrare che il prolungamento sia effettivamente dovuto alla
presenza di un anticoagulante circolante e non ad una carenza di uno (o
più) dei fattori della coagulazione (test della miscela per il secondo criterio).
Per soddisfare il terzo criterio bisogna provare che l’anticoagulante sia
diretto contro i fosfolipidi, o complessi proteine-fosfolipidi e non contro i singoli fattori della coagulazione (test di conferma).
47
Test di screening
In teoria, qualsiasi test dipendente dai fosfolipidi, che esplori globalmente,
o in parte, la cascata coagulatoria potrebbe essere idoneo a svelare la presenza del LA. In pratica, il test più usato per ragioni storiche e di praticità
è il tempo di tromboplastina parziale attivato (APTT). Tuttavia, nonostante la
sua popolarità, l’APTT non è in generale idoneo allo screening dei pazienti
con sospetto di LA, a causa della scarsa sensibilità, che dipende essenzialmente dal tipo e concentrazione dei fosfolipidi (2). Test più sensibili sono
il tempo di coagulazione al caolino (KCT) (3) e il test al veleno di Vipera
Russell diluito (dRVVT) (4). Il primo è un test globale della coagulazione,
che ha dimostrato una elevata sensibilità, dovuta probabilmente al fatto
che nella sua formulazione i fosfolipidi sono (quasi) assenti, rendendo la
presenza del LA molto più evidente anche quando esso è presente a
basso titolo. Gli svantaggi del KCT sono la necessità di eseguirlo con
tecnica manuale, i tempi di coagulazione piuttosto lunghi e la variabilità
dei risultati, che impongono una rigida standardizzazione ed una accurata definizione del range di normalità.
Il dRVVT è anch’esso un test globale dipendente dai fosfolipidi, che esplora
la porzione di cascata coagulatoria a valle del fattore X attivato. La sua
semplicità di esecuzione,anche con strumenti automatici e la sua buona
sensibilità, ne hanno favorito la rapida diffusione in tutti i laboratori. Anche il
tempo di protrombina (PT), se eseguito con tromboplastina opportunamente diluita, si può considerare per la diagnostica del LA (5). Come per l’APTT
anche per il PT i risultati dipendono in larga misura dalla tromboplastina
adoperata. Risultati soddisfacenti sono stati segnalati con l’uso di tromboplastine ricombinanti (6).
Test della miscela
Si esegue con uno qualunque dei test di screening precedentemente
esaminati e consiste nella ripetizione del test su una miscela plasma
paziente/plasma normale. La persistenza del prolungamento del tempo di
coagulazione eseguito sulla miscela (mancata correzione), suggerisce la
presenza di un anticoagulante circolante.
Il test della miscela deve essere molto ben standardizzato ed i risultati
devovo essere interpretati secondo criteri ben precisi. Di solito il test sulla
miscela, in parti uguali (plasma paziente/plasma normale), è eseguito senza
incubazione. Titoli di anticorpo molto bassi potrebbero richiedere miscele
più ricche in plasma paziente ed alcuni anticorpi tempo-dipendenti potrebbero richiedere una incubazione a 37°C. Non esistono criteri ben definiti
per giudicare in maniera univoca se la miscela “corregge”.
Un criterio semplice potrebbe essere quello di giudicare “corrette” quelle
miscele i cui tempi di coagulazione rientrino nei limiti della norma stabiliti
per quel test, in quel laboratorio.
Test di conferma
Sono basati sull’incremento, o la diminuzione della concentrazione dei
fosfolipidi, o sull’uso di fosfolipidi a conformazione particolare. Il tempo di
coagulazione di un test dipendente dai fosfolipidi, prolungato per la presenza del LA, si accorcia sensibilmente fino a correggere quasi completamente il difetto, se ripetuto aumentando la concentrazione dei fosfolipidi.
Alternativamante, il test si prolungherà se viene diminuita la concentrazione
dei fosfolipidi. Esistono numerosi test di conferma, almeno tanti quanti sono
i test di screening, ed esistono diverse fonti possibili di fosfolipidi.
48
Fra i test di conferma piu’ usati ricordiamo l’APTT con aggiunta di lisato piastrinico quale fonte di fosfolipidi (5). Esso è di semplice esecuzione, più
complessa è però la preparazione delle piastrine lisate, ottenute per
lavaggio e ripetuti congelamenti/scongelamenti di un plasma ricco in piastrine. I risultati dipendono dalla preparazione della piastrine e vi possono
essere notevoli differenze fra una preparazione e la successiva. Il test di
conferma può anche essere eseguito con il dRVVT con aggiunta di fosfolipidi concentrati.
Esistono dei kit commerciali che consentono di eseguire in maniera integrata l’iter diagnostico di screening e conferma, avendo tutto il materiale
necessario già pronto. L’uso di silice micronizzata in combinazione con
fosfolipidi a bassa concentrazione può essere un buon sostituto del KCT
nella procedura di screening (7). La ripetizione del test con fosfolipidi a più
alta concentrazione consente di disporre di un test di conferma facilmente
automatizzabile e di semplice esecuzione (8). La Textarina, veleno di rettile
capace di attivare la protrombina in presenza di fattore V e fosfolipidi può
essere usata per disegnare un test di screening per il LA. La ripetizione
della procedura con Ecarina, altro veleno di rettile, che attiva la protrombina senza fattore V e fosfolipidi, consente di disporre di un test di conferma
basato sul rapporto Textarina/Ecarina (9). Infine, fra le procedure di conferma
bisogna ricordare l’APTT eseguito mediante fosfolipidi a conformazione
esagonale (10) per il quale esiste anche un kit commerciale. La conformazione esagonale renderebbe i fosfolipidi più disponibili a legare il LA che verrebbe, pertanto, riconosciuto con una maggiore specificità. Tutte queste
procedure, non hanno tuttavia risolto definitivamente il problema della specificità. False positività in plasmi con inibitori diretti contro il fattore V o VIII,
o in presenza di eparina, si possono occasionalmente riscontrare anche
con l’uso di questi test. La storia clinica del paziente, che dovrà sempre
di necessità accompagnare la provetta in laboratorio, aiuterà a risolvere
eventuali dubbi.
L’influenza della fase preanalitica e la sua standardizzazione
Se è vero che nessuno dei test di screening e di conferma può in assoluto
garantire il successo nella diagnosi di laboratorio per il LA, è però altrettanto
vero che qualunque dei test sopra menzionati ha buone probabilità di successo se eseguito su un plasma raccolto tenendo presente alcune precauzioni.
Contaminazione da eparina. Un test prolungato, il cui plasma è stato raccolto
al di fuori della responsabilità diretta del Centro che esegue le indagini di
laboratorio, dovrebbe essere considerato con sospetto e prima di intraprendere lunghe e costose procedure analitiche (test di miscela, test di conferma), è
opportuno eseguire almeno un tempo di trombina per escludere la presenza
di eparina.
Residuo piastrinico. Poiché il LA è diretto contro i fosfolipidi (o complessi proteine-fosfolipidi), la presenza nel plasma di piastrine residue può, mascherando quegli anticorpi a basso titolo, ridurre la capacità diagnostica dei test di
screening (11) e di conferma (12). L’effetto può essere marcato soprattutto nei
campioni di plasma che saranno conservati congelati prima della esecuzione
dei test. Il congelamento e lo scongelamento facilitano la frammentazione piastrinica, con esposizione dei fosfolipidi di membrana. La doppia centrifugazione è in genere sufficiente a rimuovere la maggior parte delle piastrine. La filtrazione del plasma attraverso filtri di adatta porosità (0.22 µm), assicura l’eliminazione di tutte le piastrine. Quando possibile, è consigliabile di eseguire i test
su plasma fresco.
49
Plasma normale. Particolare cura deve essere posta nella scelta del plasma
normale da usare per il test della miscela. Esso deve avere un contenuto normale per tutti i fattori della coagulazione e non deve contenere piastrine residue, o loro frammenti . Non tutti i plasmi liofilizzati commerciali soddisfano
questi requisiti. Un pool di plasmi normali preparato in casa, filtrato, congelato rapidamente e conservato a -70° C può essere una alternativa efficace e
a basso costo.
Diagnosi di laboratorio nei pazienti anticoagulati
Un problema di rilevanza pratica è costituito dai pazienti il cui plasma giunge
all’osservazione del laboratorio quando essi sono già stati trattati con eparina
(trattamento dell’evento acuto), o con anticoagulanti orali (prevenzione secondaria del tromboembolismo). In tali condizioni il tempo di coagulazione di tutti
i test dipendenti dai fosfolipidi è più o meno prolungato, rendendo di fatto
problematica l’interpretazione dei risultati dei test di miscela e di conferma.
Sebbene la diagnosi di laboratorio possa essere più comodamente effettuata
alla fine delle terapia, vi possono essere delle ragioni per richiedere una indagine di laboratorio anche in corso di terapia. Gli approcci che si possono
seguire saranno diversi a seconda che la terapia sia eparinica, o anticoagulante orale.
Terapia eparinica. Quello che si può fare è tentare di neutralizzare l’eparina
mediante aggiunta di sostanze anti-epariniche, quali il polibrene o l’eparinasi.
Scegliendo con cura le proporzioni plasma/inibitore, mediante esperimenti
eseguiti con i propri metodi e reagenti, è possibile identificare le condizioni
ottimali per neutralizzare l’eparina senza alterare i risultati del test.
E’ però richiesta una notevole perizia nel maneggiare questi reagenti, soprattutto il polibrene. Una alternativa apparentemente più praticabile è la neutralizzazione dell’eparina mediante una resina (Ecteola), che mescolata al plasma, dopo incubazione è capace di adsorbire quantitativamente l’eparina,
lasciando il plasma supernatante apparentemente inalterato. Per informazioni
più dettagliate sull’uso dell’Ecteola si può consultare la letteratura (13).
Anticoagulanti orali. Nel caso che il paziente sia anticoagulato con dicumarolici, il problema può essere affrontato in due modi. Il primo è l’esecuzione dei
test previa miscela del plasma paziente con una aliquota equivalente di plasma normale. Il plasma normale dovrebbe correggere interamente il difetto
indotto dai dicumarolici e, pertanto, sulla miscela si può successivamente
eseguire la comune diagnostica per il LA.
Un’alternativa valida è quella di eseguire direttamente un test di conferma a
due diverse concentrazioni di fosfolipidi, senza correggere preventivamente il
difetto coagulatorio indotto dai dicumarolici. Anche se i tempi di coagulazione
di base sono prolungati, l’entità della correzione dopo aggiunta di fosfolipidi
concentrati consente di effettuare la diagnosi con modeste interferenze.
Recentemente, abbiamo avuto modo di validare questa strategia. Plasmi da
pazienti in terapia anticoagulante e positivi per LA, raccolti in diversi centri italiani, sono stati sottoposti alla diagnostica centralizzata presso il nostro laboratorio mediante due procedure di conferma basati sull’SCT (7) ed il dRVVT a
due diverse concentrazioni di fosfolipidi, senza aggiunta di plasma normale.
I risultati sono stati paragonati con quelli ottenuti con l’APTT con fosfolipidi esagonali e aggiunta di plasma normale (Staclot LA, Stago, Asnieres,
Francia), da noi considerato come standard d’oro, proprio per la presenza del plasma normale. La sensibilità e specificità dell’SCT e dRVVT, da
noi disegnati, rispetto allo Staclot LA è risultata molto vicina, o superiore
al 90% (14). L’SCT e il dRVVT hanno rispetto allo Staclot LA il vantaggio
di un costo nettamente inferiore e la possibilità di essere eseguibili con
qualsiasi tipo di coagulometro.
50
Una alternativa ulteriore nella diagnostica del LA nei pazienti anticoagulati
potrebbe essere costituita dal test ecarina/textarina (9), ma la sua validità
resta ancora da dimostrare.
Considerazioni conclusive
Nessuna strategia diagnostica per quanto elaborata assicura il successo
nella totalità dei casi. Un solo test potrebbe non essere adeguato in tutti i
casi. D’altro canto, molti test renderebbero difficile l’interpretazione e non
giustificherebbero i costi. La responsabilità della scelta della strategia diagnostica più adeguata spetta al laboratorio, noi possiamo suggerire le
seguenti regole.
1. Selezione accurata dei pazienti, riservando l’indagine di laboratorio
ai casi con pregressa storia. Questo si realizza curando i rapporti fra
laboratorio e medici prescrittori dei test, specialmente gli specialisti
d’organo (ematologi, angiologi, ginecologi, immunologi clinici, internisti,
ecc.), che sono fra i maggiori fruitori della diagnostica per il LA.
2. Esecuzione del prelievo sotto la diretta responsabilità del laboratorio,
o concordandone le modalità.
3. Preparazione del plasma secondo le indicazioni di cui sopra, specialmente se esso sarà congelato per indagini future.
4. Esecuzione di almeno due test di screening scelti fra KCT (o test equivalente) e dRVVT. L’APTT, a meno di certezze sulla sua sensibilità,
dovrebbe essere eseguito insieme, non in alternativa ai primi due.
5. Esclusione che il test di screening sia prolungato per la presenza di
eparina.
6. Esecuzione del test della miscela, ponendo cura nella scelta del plasma
normale e nei criteri di interpretazione.
7. Esecuzione del test di conferma. E’ buona norma che questo sia scelto
sulla base del test di screening.
8. Per una corretta interpretazione dei risultati dei test della miscela e di
conferma, è opportuno acquisire esperienza mediante prove simulate
con plasmi test sicuramente negativi e positivi per LA, o altri inibitori
confondenti (es. inibitori contro il fattore VIII).
9. Misura del titolo degli anticorpi in fase solida (anticardiolipina). La misura
degli anticorpi in fase solida non è da considerarsi alternativa, ma complementare alla ricerca del LA. La positività per LA e anticardiolipina
non è necessariamente coesistente in tutti i pazienti.
10.In caso di positività, è necessario riconfermare la diagnosi a distanza
di 3-4 mesi, soprattutto là dove essa è stata riscontrata occasionalmente
(screening pre-chirurgico). Uno dei criteri diagnostici per la sindrome da
anticorpi antifosfolipidi è la persistenza degli anticorpi. Talvolta gli anticorpi antifosfolipidi insorgono in seguito a infezioni virali o batteriche, o in
seguito all’assunzione di farmaci e non hanno di solito rilevanza clinica.
Un caso esemplare di anticorpi transitori senza storia clinica di trombosi
è costituito dai pazienti in età pediatrica, che vengono trovati positivi al
LA in occasione dello screening pre-chirurgico che precede la tonsillectomia. Gli anticorpi spariscono invariabilmente dopo la rimozione
della causa.
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52
14. Tripodi A, Chantarangkul V, Clerici M, Mannucci PM. Laboratory
diagnosis of lupus anticoagulants for patients on oral anticoagulant
treatment. Performance of dilute Russell viper venom test and silica clotting
time in comparison to Staclot-LA®. Submitted
Corrispondenza:
A. Tripodi
Via Pace, 9 - 20122 Milano
Tel.: 02 55035437 - FAX: 02 5516093
e-mail: [email protected]
53
2. Anticorpi anticardiolipina:
diagnosi di laboratorio
Angela Tincani*, Massimo Cinquini*, Michela Spunghi*, Flavio Allegri*,
Genesio Balestrieri*, Pierluigi Meroni°
* Reumatologia, Allergologia e Immunologia Clinica, Spedali Civili di Brescia
° Allergologia e Immunologia Clinica, Istituto Auxologico Milano
Introduzione
Gli anticorpi anticardiolipina (aCL) costituiscono uno dei due criteri laboratoristici per la diagnosi di Sindrome da Antifosfolipidi (APS) (1), che è caratterizzata, come è noto, dall’associazione di trombosi artero-venose, patologia gravidica e anticorpi anti fosfolipidi (aPL) (2,3).
La frequenza della APS, sia primaria che secondaria ad altre malattie
autoimmuni sistemiche, giustifica ampiamente la diffusione dei test per la
ricerca di aPL (4).
54
Le indicazioni cliniche del test per aCL
Dal momento che gli anticorpi anticardiolipina configurano un criterio classificativo per la Sindrome da Antifosfolipidi, devono essere ricercati in tutti
i pazienti con sintomi suggestivi per questa patologia.
Per la identificazione di questi sintomi ci si deve rifare ad analisi epidemiologiche sufficientemente ampie da far emergere le caratteristiche cliniche
significativamente associate alla presenza di aPL, sia in pazienti con malattia autoimmune sistemica che in soggetti senza altra patologia (4, 5).
E’ interessante notare come l’analisi di due coorti, diverse per criteri di
inclusione e pubblicate a 9 anni di distanza, evidenzi una sostanziale concordanza nelle manifestazioni cliniche correlate agli aPL, sia pure con una
incidenza specifica diversa (Tabella 1).
Alla luce di quanto detto, le indicazioni cliniche alla ricerca di aCL sono
quindi sintetizzabili nelle condizioni sottoelencate:
• in caso di presenza di uno o più dei sintomi elencati in tabella 1, per
cui è stata dimostrata una associazione significativa con gli aPL, in
particolare in tutti i soggetti con evento trombotico non riconducibile
a causa nota e nelle donne con abortività idiopatica;
• in tutti i pazienti con lupus eritematoso sistemico, nel contesto del quale,
tra l’altro, la presenza di aPL costituisce un criterio classificativo (6);
• in donne con malattie autoimmuni sistemiche che programmino una
gravidanza o prima di una terapia con estroprogestinici, considerato
che, da un lato, la presenza di aPL dovrebbe condizionare una particolare
politica nella gestione della gravidanza e, dall’altro, che il potenziale
rischio tromboembolico di un trattamento estroprogestinico andrebbe a
sommarsi a quello della presenza di anticorpi antifosfolipidi (7, 8);
• in soggetti con malattia autoimmune che presentino familiarità per fatti
tromboembolici (9).
manifestazioni cliniche associate
agli aPL in 667 pazienti con LES (5)
perdite fetali ricorrenti
17%
trombosi venose
76%
trombosi arteriose
3%
ulcere arti inferiori
livaedo reticularis
3%
30%
anemia emolitica
piastrinopenia
ipertensione polmonare
mielite traversa
9%
20%
2%
1%
Tabella 1.
frequenza delle manifestazioni
cliniche alla diagnosi (4)
perdite fetali
trombosi venosa profonda
trombosi venosa superficiale
embolia polmonare
ictus
attacchi ischemici transitori
infarto miocardico
epilessia
amaurosi fugace
ulcere cutanee
livaedo reticularis
lesioni pseudovasculitiche
gangrena digitale
anemia emolitica
piastrinopenia
8.3%
31.7%
9.1%
9%
13.1%
7%
3.4%
2.8%
2.8%
3.9%
20.4%
2.6%
1.9%
6.6%
21.9%
55
Anti cardiolipina: perché nel 2002?
Il test degli anticorpi anti cardiolipina è a tutt’oggi probabilmente il mezzo
più usato per la diagnosi di Sindrome da Antifosfolipidi. Le ragioni della sua
fortuna risiedono in motivazioni sia storiche che concettuali.
In effetti, il ruolo della falsa positività della reazione di Wassermann (che utilizza la cardiolipina come substrato) in pazienti con malattie autoimmuni
sistemiche in stadio clinico o preclinico (10) talvolta associata al LAC (11) è
noto dagli anni ’50. E, d’altra parte, il fenomeno del LAC è stato definito
come un allungamento dei tempi di coagulazione fosfolipide dipendente,
dovuto ad anticorpi diretti contro fosfolipidi a carica negativa, quale appunto la cardiolipina (così chiamata perchè originariamente estratta dal muscolo cardiaco bovino) (12, 13). Su queste basi nel 1983 fu concepito un nuovo
test in fase solida, dapprima radioimmunologico (14), poi immunoenzimatico
(15)
per la rilevazione degli aCL. La applicazione dell’ELISA aCL su vaste
casistiche, consentì di definire la APS così come la conosciamo oggi (2),
dimostrando, nei fatti, la validità di questo test.
Nel 1990 venne fornita la dimostrazione (16-18), che anticorpi così detti “anticardiolipina”, erano in realtà in larga maggioranza diretti contro un cofattore plasmatico che lega la CL e i fosfolipidi a carica elettrica negativa: la ß2-glicoproteina 1 (ß2GP1). Si può pertanto paradossalmente affermare che il test
degli anticorpi anticardiolipina risulta essere basato su un equivoco. Questa
scoperta consentì di interpretare quello che era già risultato chiaro dal primo
workshop collaborativo per la standardizzazione della metodica e cioè che il
test risultava più stabile ed efficiente se veniva aggiunto ai tamponi di reazione siero bovino, che in effetti, a posteriori, risultò essere fonte di ß2GP1 (19).
La qualità più interessante del test aCL ELISA classico è quella di essere in
grado di rilevare, almeno in via teorica, diverse popolazioni anticorpali che
potrebbero tutte essere comprese nella così detta famiglia degli “anti fosfolipidi” (figura 1).
principalmente
in malattie autoimmuni
aCL ELISA CLASSICO
anti ß2GP1
principalmente
in malattie infettive
Cardiolipina (CL)
ß2 Glicoproteina 1 bovina (ß2GP1)
ß2GP1 Umana
veri aCL che reagiscono
con il fosfolipide
Figura 1. Il test aCL ELISA classico può rilevare anticorpi diretti verso la
cardiolipina, verso la ß2GP1 e verso il complesso CL-ß2GP1. Il test ELISA
anti-ß2GP1 umana rileva esclusivamente anticorpi anti-ß2GP1; gli anticorpi aCL evidenziati con questa metodica sono definiti aCL-ß2GP1 dipendenti, principalmente presenti nelle malattie autoimmuni sistemiche.
Gli aCL rilevabili con un test ELISA in assenza di ß2GP1 rilevano anticorpi
principalmente presenti nelle malattie infettive.
56
1. Innanzitutto, data l’alta affinità della ß2GP1 per i fosfolipidi a carica
negativa, quali appunto la CL, la ß2GP1 si legherà al fosfolipide copulato
alla micropiastra. In questo modo il sistema è in grado di concentrare
la ß2GP1 sulla superficie delle micropiastre, ottenendo un effetto simile
a quello della plastica attivata o “high antigen binding”. Un sistema di
questo genere diventa adatto alla rilevazione di anticorpi anti ß2GP1,
che oggi sembrano rappresentare la maggior parte degli anticorpi
antifosfolipidi dei pazienti con la sindrome (20).
2. Anche nell’ipotesi, sostenuta da taluni autori (21), che il target dell’anticorpo sia non tanto la ß2GP1 di per sé, ma piuttosto il complesso
ß2GP1-CL, è facilmente comprensibile che il test aCL ELISA classico
che include sulla micropiastra sia la CL che la ß2GP1 viene ad essere
il mezzo più adeguato di osservazione.
3. Infine, almeno teoricamente, il test aCL ELISA è in grado di legare gli
anti CL “veri”, cioè realmente diretti verso la molecola fosfolipidica.
Il significato di questi anticorpi è ancora discusso. In effetti è comunemente accettato che questi anticorpi siano caratteristici nel corso di
malattie infettive, anche se recentemente è stato ipotizzato un loro possibile ruolo quali fattori indipendenti di rischio per fatti tromboembolici (21, 22).
Una parte rilevante delle interpretazioni sopra riportate, si basa sul fatto che
la ß2GP1 ha una struttura altamente conservata nelle diverse specie, cosicché fra molecola umana e bovina esiste una omologia superiore al 90% (23).
In questo modo gli anticorpi rilevabili in un sistema in cui è presente ß2GP1
bovina sono in gran parte sovrapponibili agli anticorpi rilevabili utilizzando
ß2GP1 umana. Esistono comunque talune eccezioni.
In effetti, la scoperta del cofattore ha condotto alla creazione di un test
ELISA per anti ß2GP1 umana (24), ed alla conseguente dimostrazione che
la popolazione anticorpale così rilevabile mostrava una associazione più
significativa con le manifestazioni cliniche della APS (25). Inoltre è stata dimostrata l’esistenza di anti ß2GP1 in assenza di aCL-ß2GP1 dipendenti e\o di
LAC (26). I motivi per cui i due tipi di test ELISA (aCL classico e anti-ß2GP1)
rilevano popolazioni anticorpali solo parzialmente sovrapponibili sono da
imputarsi al fatto che taluni anticorpi presenti in pazienti con sindrome sembrano riconoscere solo la ß2GP1 umana e pertanto reagiscono solo con il
test degli anti ß2GP1, mentre altri sembrano diretti verso la CL di per sè
o verso un complesso CL-ß2GP1 e pertanto vengono rilevati solo dal test
classico della cardiolipina. E’ comunque utile sottolineare che entrambi
questi casi rappresentano eccezioni.
Certamente, l’analisi della letteratura indica nel LAC il maggiore fattore di
rischio conosciuto per la patologia trombotica in corso di patologia autoimmune sistemica e il maggior fattore di rischio per recidiva trombotica in caso
di sindrome primaria (9, 27). Tuttavia i vantaggi offerti dai test ELISA, quali la
valutazione semi-quantitativa e la identificazione dell’isotipo dell’anticorpo,
non sono trascurabili. Un innegabile vantaggio è inoltre quello di poter effettuare la ricerca di anticorpi anti fosfolipidi in pazienti già in trattamento anticoagulante. L’impiego contemporaneo del LAC e del test ELISA aCL consente d’altra parte di accrescere la sensibilità diagnostica per la APS.
Esiste infatti una quota non trascurabile, sebbene variabile nelle diverse casistiche (28), di pazienti con APS rilevabili solo grazie alla positività per aCL.
La motivazione è da ricercare nel fatto che i test ELISA consentono di rilevare anche concentrazioni anticorpali basse, non sufficienti a determinare una
modifica dei processi coagulativi in un test funzionale come il LAC, ma in
grado di identificare pazienti con un rischio trombotico, che possono sperimentare eventi clinicamente significativi, soprattutto in caso di variazione del
titolo e/o di sovrapposizione di altri fattori di rischio trombotico.
57
Infine, dal punto di vista speculativo, la conoscenza del sistema antigeneanticorpo, consente di accrescere le conoscenze dei meccanismi patogenetici alla base delle manifestazioni cliniche e, auspicabilmente consentirà
di mettere a fuoco approcci terapeutici più mirati. In questa ottica si sviluppano “nuovi” test ELISA mirati a rilevare popolazioni anticorpali con significato patogenetico, che consentano di accrescere la sensibilità diagnostica
della APS.
Rivisitazione del test ELISA classico per la ricerca di aCL ß2GP1 dipendenti
Dalla fine degli anni’80 il test ELISA per aCL ha conosciuto una ampia diffusione, grazie anche alla disponibilità di kit commerciali. Tuttavia già a pochi
anni di distanza dalla descrizione originale del test, risultò chiara la necessità
di una standardizzazione del metodo (29). Nonostante i numerosi sforzi compiuti in questa direzione (30, 31), a tutt’oggi il grado di ripetibilità del test ELISA
classico per aCL è assai basso. In questo ambito hanno operato e operano
diversi gruppi collaborativi a livello nazionale ed internazionale. Negli ultimi 5
anni, per esempio, il Forum Europeo sugli Antifosfolipidi, un gruppo di lavoro
interdisciplinare che si è spontaneamente aggregato nel 1997, ha “fotografato” lo stato dell’arte riguardo il test ELISA per aCL, spingendosi anche a proporre alcune possibili soluzioni a talune problematiche (32).
Una prima parte del lavoro ha consentito di appurare le discordanze metodologiche esitenti fra un campione di 30 Centri Europei (procedure, reagenti, modalità esecutive, calcolo dei risultati), che si riflettevano nello scarso livello di concordanza ottenibile testando nei diversi centri uno stesso
set di sieri ad attività nota (figura 2).
IgG aCL
IgM aCL
100%
100%
80%
80%
60%
60%
40%
40%
20%
20%
0%
0%
neg
basso
% negativo
medio
alto
% pos basso
neg
basso
% pos medio
medio
alto
% pos alto
Figura 2. Livello di concordanza ottenuto testando in 30 diversi Centri
Europei uno stesso set di sieri ad attività nota.
In una seconda fase, sulla base dell’analisi delle metodiche che avevano fornito le migliori performance (in termini di concordanza con la media dei risultati ottenuti), è stato proposto un “protocollo di consenso”, che ha consentito
di ottenere risultati mediamente migliori rispetto alle metodiche originali.
Infine è stato proposto l’utilizzo di anticorpi monoclonali come standard
riproducibili e costanti nel tempo. Per le IgG è stato scelto un monoclonale
chimerico (HCAL) costituito da una regione costante γ umana ed una regione variabile derivante da un monoclonale murino aCL (33). Per le IgM è stato
utilizzato un monoclonale anti-ß2GP1 umano ottenuto da un paziente con
APS (EY2C9) (34). Questi standard monoclonali hanno consentito un ulteriore
guadagno in termini di concordanza dei risultati fra i vari centri coinvolti nel
progetto di standardizzazione (figura 3).
58
140
21.4
120
11 9.9
100
7.4
GPL
17.8
80
9.3
1
60
2
3
5.3
40
5.9
5.9
4.1 2.6
3.1
20
3.1 4.1 2.6
0
0
1/50
1/100
1/200
1/400
1/800
1) aCL eseguito con metodica e standard "in house"
2) aCL eseguito con metodica "in house" e standard monoclonali
3) aCL eseguito con metodica "consenso" e standard monoclonali
Figura 3. Diminuzione della variabilità fra test ELISA aCL effettuati con
metodica consenso e standard monoclonali rispetto a test “in house” con
standard di laboratorio. Diluizioni di sieri positivi ad alto titolo per aCL IgG.
I dati prodotti dal Gruppo Europeo per la standardizzazione degli aPL
sono stati recentemente riconosciuti dal Comitato Internazionale per la
Standardizzazione degli autoanticorpi nelle malattie reumatiche (IUIS\WHO
\AF\CDC), che intende considerare i 2 monoclonali per accertare la loro
idoneità a funzionare come validati campioni di riferimento per i test ELISA
aCL e anti-ß2GP1.
A livello nazionale, opera dal 1998 il gruppo FIRMA (Forum Interdisciplinare
per la Ricerca nelle Malattie Autoimmune), che ha come obiettivo lo studio
delle problematiche legate alla determinazione degli autoanticorpi. In questi anni, nell’ambito di un progetto che prevedeva la stesura di linee guida
per l’esecuzione e l’utilizzo dei test per gli autoanticorpi non organo specifici, sono state prese in esame anche le metodiche per gli anticorpi antifosfolipidi. In particolare riportiamo le raccomandazioni o le linee guida FIRMA
alle quali i laboratori che testano routinariamente gli aCL dovrebbero attenersi:
• i campioni debbono essere testati in duplicato;
• il test aCL ELISA deve rilevare anticorpi ß2GP1 dipendenti di classe IgG
o IgM. I tamponi utilizzati nella metodica devono contenere il 10% di
siero bovino (fetale o adulto) per garantire la quantità idonea di ß2GP1
nel sistema.
• Il cut-off deve essere determinato in ogni laboratorio testando un campione di almeno 100 sieri da soggetti normali distribuiti per età e sesso.
E’ necessario utilizzare il sistema dei percentili per il calcolo del cut-off,
in quanto la distribuzione dei valori risulta non parametrica.
Considerato che il test ELISA è molto sensibile, è consigliabile utilizzare
almeno il 99° percentile;
59
• I risultati devono essere espressi in unità GPL o MPL (mg/ml di anticorpo),
introducendo in ogni test una curva di calibrazione di almeno 5 punti,
creata con gli standard di Harris o con standard secondari calibrati su
questi. Sono attualmente in corso di valutazione anticorpi monoclonali
umani o umanizzati.
• E’ consigliabile una valutazione semiquantitativa dei risultati:
negativo, se sotto il cut-off;
positivo basso, se >del cut-off e < 30 GPL/MPL;
positivo medio, se >30 e <80 GPL/MPL;
positivo alto, se > 80GPL/MPL;
• Utile uno scambio periodico interlaboratori di sieri, per valutare la
riproducibilità della metodica.
60
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dr.ssa Angela Tincani
Reumatologia Allergologia e Immunologia Clinica
P.le Spedali Civili 1, 25123 Brescia
Tel: 030 3996449 - 030 3995448
Fax: 030 382796 - 030 3995085
e-mail: [email protected]
63
3. Anticorpi anti-ß2glicoproteina 1:
diagnosi di laboratorio
A. Biasiolo, V. Pengo
Servizio Prevenzione e Terapia Trombosi
Dipartimento medicina Clinica e Sperimentale
Ospedale “ex Busonera” Padova
Introduzione
Gli anticorpi antifosfolipidi (aPL) associati a manifestazioni cliniche particolari come trombosi venose ed arteriose o aborti ricorrenti, caratterizzano la
cosiddetta Sindrome da Anticorpi antifosfolipidi (APS). Il ruolo fisiopatologico di questi anticorpi nel provocare le trombosi non è attualmente noto
nonostante le numerose ipotesi proposte.
Nell’ultimo decennio il significato degli aPL è stato completamente rivoluzionato dall’osservazione che tali anticorpi non sono diretti contro i fosfolipidi
anionici, bensì riconoscono particolari proteine plasmatiche legate ad altre
superfici anioniche (es. fosfolipidi).
E’ stato abbondantemente dimostrato inoltre, che la maggior parte degli
anticorpi presenti nel siero di pazienti affetti da APS sono diretti principalmente contro due proteine leganti i fosfolipidi: la ß2 glicoproteina 1 (ß2GP1)
e la protrombina.
Gli anticorpi anti-ß2 glicoproteina 1 (anti-ß2GP1) sono responsabili della
reattività anticardiolipina presente nel siero dei pazienti con APS, mentre
l’attività Lupus Anticoagulant (LA) spesso co-presente è attribuibile sia ad
anti-ß2GP1 che ad anticorpi anti-protrombina.
La diagnosi di laboratorio degli anti-ß2GP1 si basa su un test ELISA che utilizza come antigene la ß2GP1 umana purificata.
Tuttavia la mancanza di standardizzazione di questo metodo e quindi i differenti risultati ottenuti su pazienti aventi uguali patologie, rende per alcuni
dubbia l’utilità clinica della determinazione degli anti-ß2GP1.
64
Anticorpi anti-ß2glicoproteina 1: antigene
La ß2GP1 è una glicoproteina conosciuta da molto tempo: è stata isolata
da Schultze e collaboratori più di 40 anni fa (1). Ha un peso molecolare di
50 KDa ed è presente nel plasma alla concentrazione di 0,2 mg/ml. E’ una
singola catena polipeptidica costituita da 326 amminoacidi (in prevalenza
prolina, cisteina e triptofano) e da 5 oligosaccaridi contenenti glicosammina
(2)
. Mediante tecniche di clonaggio e sequenziamento del c-DNA (3,4) è stata
stabilita la completa e corretta sequenza amminoacidica della proteina la
quale risulta altamente conservata per più dell’ 80% fra le diverse specie
animali (umana, bovina, murina). La molecola della ß2GPI è organizzata
in 5 unità omologhe ripetute di circa 60 residui amminoacidici dette”sushi
domains”(5) ciascuna con due ponti disolfuro, a parte il V° dominio che ne
possiede tre. Numerosi studi, identificando il V° dominio della ß2GP1 come
importante nel legame della proteina ai fosfolipidi (6-9) suggerivano che il
sito di legame fosse localizzato fra gli aminoacidi Cys 281-288 (10).
Recentemente, interessanti studi cristallografici, facendo luce sulla struttura
tridimensionale della proteina, hanno fornito utili informazioni circa il funzionamento di questa molecola. La ß2GP1 appare come una struttura lunga
130 e larga 80 Åmstrong (Fig.1) simile ad una J allungata, organizzata in
5 domini (11,12). Il ripiegamento spaziale del V° dominio devia fortemente da
quello standard osservato negli altri 4 domini.
Figura 1. Struttura tridimensionale della ß2GP1 umana (Bouma B. et al.,
EMBO J 1999; 18:5166-5177).
65
La sequenza carica positivamente CKNKEKKC presente nel V° dominio
e il vicino uncino idrofobico (Ser 311-Lys 317) sembrano essere coinvolti
rispettivamente nel legame della proteina ai fosfolipidi anionici e al suo
ancoraggio sulle membrane cellulari (Fig.2). Per quanto riguarda gli altri
domini sembra che il III° ed il IV°, fortemente glicosilati, siano protetti dalle
interazioni proteina–proteina, mentre i domini I° e II° rappresentino i siti di
legame riconoscuti dagli anti-ß2GP1 (13).
Figura 2.
Schema rappresentativo
dell’interazione fra
ß2GP1 umana e membrana fosfolipidica
(Bouma B. et al.,
EMBO J 1999;
18:5166-5177).
Il gene che codifica per la ß2GP1 umana è localizzato sul cromosoma
17 (q23-qter) (14) e a tutt’oggi sono stati identificati ben 4 polimorfismi, dovuti
a mutazioni puntiformi, responsabili di precise sostituzioni amminoacidiche:
Ser/Asn 88, Leu/Val 247, Cys/Gly 306, Trp/Ser 316. La differenza anche di
un solo amminoacido, può portare ad anomale modificazioni conformazionali della proteina, in seguito ad alterate interazioni con i fosfolipidi di membrana. Polimorfismi sul sito di legame per i fosfolipidi, oppure sul sito antigenico della ß2GP1 potrebbero influenzare la produzione di anticorpi antiß2GP1 e lo sviluppo della APS. Atsumi e collaboratori hanno osservato che
la mutazione in posizione 247, cioè quella localizzata fra i siti di legame ai
fosfolipidi nel dominio V° e il potenziale epitopo per gli anticorpi anti-ß2GP1,
è più frequente in soggetti bianchi affetti da APS con gli anti-ß2GP1, rispetto ai pazienti con APS, ma senza tali anticorpi (15). Hirose e colleghi, considerando la stessa mutazione fra diversi gruppi razziali con APS, ha osservato l’elevata frequenza dell’allele valina in tutti i gruppi considerati (asiatici,
bianchi, neri) e una netta predominanza nei soggetti sani bianchi (16).
Questi dati potrebbero spiegare l’alta prevalenza della APS nella popolazione dei bianchi. La ß2GP1 mutata in posizione 316, è invece incapace di
riconoscere i fosfolipidi anionici. Ciò ha fatto pensare che la presenza di
66
questa mutazione potesse proteggere in qualche modo i soggetti dalla produzione di anticorpi anti-ß2GP1. Horbach e collaboratori hanno dimostrato
che il difetto in forma eterozigote non è protettivo nei pazienti con LES e
APS considerati e che forse potrebbe esserlo in forma omozigote (17).
L’osservazione della frequenza della mutazione Trp/Ser 316 nella popolazione ha portato a risultati discordanti, Gushinken ha osservato che la serina in questa posizione è associata a trombosi in un piccolo gruppo di
pazienti con LES (18), mentre Kamboh, nello stesso anno, ha dimostrato che
questa mutazione è meno comune nei pazienti con aPL rispetto ai controlli (19).
Con i dati attualmente in nostro possesso è difficile stabilire i fattori di
rischio genetico correlati alla comparsa di anticorpi antifosfolipidi e alle
manifestazioni cliniche della APS. Possiamo dedurre che la maggior parte
dei pazienti con APS o con solo gli aPL positivi, hanno la forma più comune
di ß2GP1.
La ß2GP1 è sintetizzata principalmente dagli epatociti (3), ma anche da altri
tipi cellulari come cellule endoteliali, neuroni e linfociti (20).
Tra le principali proprietà della ß2GP1 ricordiamo la sua capacità di legarsi
ai fosfolipidi anionici (21), alle piastrine (22), all’eparina (23), al DNA (24) ed ai mitocondri (25). “In vitro” possiede attività anticoagulante infatti è capace di inibire la fase di contatto della coagulazione (26), l’attività protrombinasica delle
piastrine normali ed attivate (27) e l’aggregazione indotta da ADP (28).
La ß2GP1 ha anche attività procoagulante, infatti inibisce l’attività anticoagulante del più importante inibitore della coagulazione: la proteina C attivata (29,30). Tuttavia l’importanza fisiologica della ß2GP1 nella coagulazione
rimane in discussione, infatti persone carenti di questa proteina non hanno
né segni di sanguinamento né di trombosi (31,32).
In passato è stato proposto il suo coinvolgimento nel metabolismo lipidico,
come cofattore della lipoproteina lipasi (33). E’ stata definita apolipoproteina
H perché presente nei chilomicroni, VLDL, HDL, e soprattutto nella frazione
lipoproteica pesante (d>1.23 g/ml) (34), oggi sembra che solo piccole quantità di proteina siano legate alle lipoproteine (35). La ß2GP1 sembra anche
coinvolta nella rimozione di particelle “non-self” e nel processo dell’apoptosi (36,37). Recentemente è stata dimostrata la suscettibilità della ß2GP1 al trattamento con plasmina ed altre proteasi. Nel 1999 Horbach ha dimostrato
“in vivo” il clivaggio proteolitico della proteina durante la fibrinolisi e
l’aumento della concentrazione plasmatica di una forma di ß2GP1 clivata
che possiede minore affinità per i fosfolipidi anionici (38). L’anno successivo
Matsuura ha dimostrato che il trattamento con plasmina induce una modificazione conformazionale del V° dominio, che sembra riflettersi in un’ alterata esposizione degli epitopi criptici presenti sul IV° dominio responsabili del
legame fra ß2GP1 ed anticorpi specifici. Tutto ciò si traduce in una minore
antigenicità della proteina clivata (39).
Poiché nel plasma di pazienti con CID (38) e APS (40) si sono dimostrate elevate concentrazioni di ß2GP1 clivata si ritiene questo processo, importante
nella down-regulation dei fenomeni atero-trombotici autoimmuni nella APS.
Interazioni antigene-anticorpo
La ß2GP1 è il principale “cofattore” degli anticorpi antifosfolipidi di tipo
autoimmune. Per molti anni questi anticorpi ed in particolare gli anticorpi
aCL sono stati ritenuti diretti contro i fosfolipidi anionici. E’ ormai ampiamente dimostrato che gli aCL, nel test ELISA utilizzato per individuarli, riconoscono la ß2GP1 umana presente nel campione in esame o la ß2GP1 bovina
presente nei tamponi di lavaggio e bloccaggio. E’ l’interazione fra la superficie fosfolipidica con le sue cariche negative (nel caso specifico rappresentata dalla cardiolipina) e la ß2GP1 a favorire il legame con gli anticorpi (41-43).
67
Esistono comunque anticorpi aCL di tipo infettivo che riconoscono direttamente la cardiolipina.
Gli anticorpi anti-ß2GP1 invece riconoscono la ß2GP1 in assenza di fosfolipidi anionici. Una superficie di plastica particolarmente idrofilica come il
polivinilcloruro o il polistirene irradiato con raggi γ è sufficiente per rendere
antigenica la molecola.
La necessità di una superficie idrofilica adatta, per indurre l’antigenicità
della proteina è stata spiegata in due diversi modi. Secondo alcuni, l’interazione tra la ß2GP1 e la superficie carica negativamente indurrebbe una
modificazione conformazionale nella proteina tale da esporre alcuni epitopi
criptici sulla molecola, accessibili agli anticorpi anti-ß2GP1 (44,45).
Altri invece ritengono che solo un’elevata densità di superficie della ß2GP1
(come si verifica su una piastra ELISA oppure su una superficie fosfolipidica) possa stabilizzare il legame con l’anticorpo, che ha una bassa affinità (46).
Sembra che gli anticorpi anti-ß2GP1 monoclonali riconoscano bene epitopi localizzati sul IV° dominio (47), mentre pare che gli anticorpi policlonali preferiscano epitopi localizzati sul I° dominio (13).
Anticorpi anti-ß2GP1: patogenesi
Il coinvolgimento degli anticorpi anti-ß2GP1 nella patogenesi delle manifestazioni cliniche che caratterizzano la APS è più recente e pertanto meno
documentato se paragonato con i dati a disposizione in letteratura circa
l’associazione fra aPL in generale e APS (48,49).
I meccanismi fisiopatologici attraverso i quali gli anticorpi anti-ß2GP1 indurrebbero le trombosi (venose e/o arteriose) e gli aborti ripetuti non sono
ancora conosciuti.
La purificazione per affinità di questi anticorpi, cioè mediante una matrice
solida inerte a cui viene legata stabilmente la ß2GP1 umana, è sicuramente
l’approccio migliore per studiarne il comportamento “in vitro”(50). Tuttavia in
letteratura non sono molti i lavori basati su questa logica, spesso gli studi
vengono condotti su plasma di pazienti positivi per gli anticorpi anti-ß2GP1,
oppure su IgG totali o IgG isolate mediante liposomi di cardiolipina, quindi
con sistemi non completamente puri.
E’ ormai accettato che gli anticorpi anti-ß2GP1 possiedono un’attività anticoagulante nei comuni test fosfolipide-dipendenti (es. dRVVT).
Nel 1999 il nostro gruppo ha dimostrato che sei preparazioni di anticorpi
anti-ß2GP1, isolate per affinità mostravano un’attività procoagulante “in
vitro” tale da accorciare consistentemente il Tempo di Protrombina (PT).
Tale accorciamento dipendeva dalla concentrazione di anticorpo nel sistema e dalla presenza o meno di ß2GP1, mentre non era influenzato dal tipo
di tromboplastina utilizzata. L’accorciamento del PT si potrebbe spiegare
con la maggior o più rapida produzione di trombina in relazione ad una
maggiore produzione di fattore X attivato (Xa).
Salemink e collaboratori infatti hanno dimostrato che gli anticorpi antiß2GP1 presenti nel plasma di pazienti con APS, inducono un aumento di
fattore Xa, dipendente dalla presenza di ß2GP1 e TFPI. Secondo gli autori i
complessi anticorpo anti-ß2GP1 - ß2GP1 formati in presenza di PL, potrebbero inibire il TFPI impedendo la formazione del complesso quaternario
TFPI/FXa/FVIIa/TF con conseguente maggior produzione di fattore Xa (51).
Nel tentativo di spiegare il ruolo degli anti-ß2GP1 nella APS, altri autori
hanno dimostrato che il plasma di pazienti con aPL, così come le IgG totali
e le IgG purificate con liposomi di CL impediscono l’inattivazione del fattore
Va, suggerendo come spiegazione alla patogenesi degli eventi tromboembolici l’ipotesi che gli anti-ß2GP1 possano indurre una acquisita resistenza
alla proteina C attivata (52).
68
L’ipotesi invece proposta da Rand e Wu (53) circa lo spiazzamento dell’annexina V (proteina con attività anticoagulante) dalle cellule endoteliali e dai
trofoblasti placentari indotta da anticorpi è stata recentemente smentita da
Willems e Bevers. Gli esperimenti di Willems e colleghi, su modelli di membrana, hanno dimostrato che gli anticorpi aCL/ anti-ß2GP1 in presenza di
ß2GP1, non sono in grado di alterare lo scudo formato dall’annexina V sulle
membrane di queste cellule (54).
Bevers e collaboratori, peraltro, non riscontrano alcun ostacolo da parte
degli anticorpi anti-ß2GP1 sull’inibizione della produzione di trombina indotta dall’annexina V (55).
Fino ad oggi l’attenzione dei ricercatori è stata rivolta principalmente alla
capacità della ß2GP1 di stimolare i linfociti B nella produzione di autoanticorpi, tralasciando o considerando marginale l’importanza che questo antigene potrebbe avere nell’immunità di tipo cellulare. Già nel 1994 Kornberg
aveva riportato che gli aPL erano capaci di stimolare i monociti a produrre
un’attività procoagulante (PCA) simile al fattore tissutale (TF) (56). Più recentemente Visvanathan e McNeil riportano che nel 44% dei pazienti con APS
esistono dei linfociti T CD4+ ß2GP1 specifici che proliferano e secernono
interferone se stimolati con ß2GP1(57). Gli stessi ricercatori dimostrano con
un successivo lavoro che se si stimolano i monociti di pazienti affetti da
APS con ß2GP1 in presenza di linfociti T CD4+ e molecole di classe II
(MHC) si assiste ad un esposizione di TF sulla superficie cellulare (58).
Poiché questo comportamento è esclusivo dei monociti di pazienti con APS
e non riguarda i monociti di pazienti con aPL, ma senza la sindrome, gli
autori suggeriscono che la diatesi procoagulante nella APS potrebbe essere dovuta ad una up-regulation dell’espressione del TF sui monociti indotta
dalla continua stimolazione dei linfociti T-ß2GP1 specifici ad opera della
ß2GP1. Anche altri ricercatori (Hattori e coll.) hanno identificato cellule
T-ß2GP1 specifiche. Al contrario del precedente gruppo, Hattori dimostra
tuttavia la presenza di queste cellule sia nelle APS che nel gruppo di controllo e osserva la capacità di proliferare in risposta alla stimolazione con
ß2GP1 ridotta e non nella forma nativa (59).
Attualmente le ipotesi proposte sono parimenti accettabili pur non essendo
prive di elementi opinabili. Riteniamo molto probabile che gli anticorpi aß2GP1 possano essere coinvolti in più di un meccanismo fisiologico nel
provocare lo stato di ipercoagulabilità tipico della APS.
Diagnosi di laboratorio
Gli anticorpi anti-ß2GP1 sono identificabili mediante test ELISA nei quali
la ß2GP1 umana viene adsorbita sulla plastica di piastre da microtitolazione
in assenza di fosfolipidi. Il test, proposto per la prima volta nel 1991 dalla
Dott.ssa Arvieux, è un test ELISA di tipo indiretto (60). Gli anticorpi anti-ß2GP1
presenti nel campione da analizzare reagiscono con lo specifico antigene
(ß2GP1) fissato alla plastica. Per impedire i legami aspecifici al sistema,
solitamente si impiega una soluzione al 10% di siero fetale bovino in tampone fosfato. Dopo ripetuti lavaggi per allontanare i materiali non legati specificamente all’antigene, l’isotipo (IgG, IgM o IgA) del complesso antigeneanticorpo viene rivelato, come nell’ELISA aCL, mediante un antisiero antiimmunoglobuline umane marcato con un’enzima (fosfatasi alcalina o perossidasi). L’aggiunta del substrato specifico (p-nitrofelilfosfato o perossido di
idrogeno) innesca una reazione cromogenica, misura dell’attività enzimatica e proporzionale alla quantità di anticorpo specifico presente nel campione originale.
La determinazione degli anticorpi anti-ß2GP1 in questo test è fortemente
correlata al tipo di piastra utilizzata. Superfici molto idrofiliche, come le pia-
69
stre di polivinilcloruro (45) o di polistirene ossidate dal trattamento con raggi γ (44)
rendono antigenica la ß2GP1 favorendo il legame dell’anticorpo specifico.
Il plasma dei pazienti affetti da APS, così come gli anti-ß2GP1 purificati per
affinità da questi soggetti, non sono in grado di riconoscere la ß2GP1 né
immobilizzata su piastre in polistirene normale, né in fase fluida.
Il comportamento eterogeneo degli anti-ß2GP1 nel riconoscere l’antigene
impiegando supporti solidi di diversa composizione è stato dimostrato
recentemente da Tsutsumi e colleghi. Il siero di 10 pazienti con APS e 3
anticorpi monoclonali anti-ß2GP1 diretti contro epitopi localizzati su domini
diversi, sono stati testati utilizzando ben 20 differenti tipi di piastre ELISA.
Nonostante la maggior parte delle piastre fosse in grado di misurare gli
anti-ß2GP1, significative differenze si verificavano utilizzando gli anticorpi
monoclonali (61).
E’ auspicabile che i risultati di questo lavoro, unitamente all’esito del progetto europeo di standardizzazione condotto da Arvieux e Reber, portino
all’identificazione di un gold-standard per l’ELISA anti-ß2GP1.
Infatti nella determinazione degli anti-ß2GP1 la maggior parte dei laboratori
utilizza kit del commercio rapidi e di facile esecuzione, pur essendo altresì
numerosi i gruppi che impiegano invece metodi “fatti in casa”. L’enorme
variabilità interlaboratorio dei risultati ha spinto i ricercatori alla realizzazione
del progetto multicentrico di standardizzazione i cui risultati preliminari sono
stati presentati all’ 8° Simposio Internazionale degli aPL (Sapporo 1998).
Dallo studio è emerso che le differenze nei risultati sono dovute principalmente ai diversi valori di cut-off calcolati nei laboratori partecipanti e che
l’uso di uno standard di riferimento unico permetterebbe di migliorare la
standardizzazione del test (62). Il processo di standardizzazione non è sicuramente un compito facile, infatti il test ELISA è caratterizzato da tanti
passaggi ed è particolarmente ricco di variabili. Nel tentativo di una sua
Figura 3. SDS-PAGE di due preparazioni di ß2-GP1 umana.
In entrambe le preparazioni sono
evidenti solo le bande a 50kDa
relative alla proteina in esame.
70
standardizzazione pertanto sarà necessario valutare per ogni sua singola
fase tutte le diverse possibilità. Alcuni punti sono già stati individuati come
particolarmente delicati: la qualità della preparazione della ß2GP1 ne fa
sicuramente parte. Come antigene, nel test, si dovranno utilizzare esclusivamente preparazioni di ß2GP1 umana estratte con metodiche tali da evitare parziali proteolisi della proteina, responsabili dell’alterazione degli epitopi
riconosciuti dagli anti-ß2GP1. Anche il grado di purezza dell’antigene è un
punto cruciale. Solo l’utilizzo di preparazioni di ß2GP1 pure (Fig. 3) permetteranno di ridurre i risultati falsamente positivi del test, dovuti al riconoscimento da parte dei campioni, dei contaminanti presenti nella preparazione,
anziché della ß2GP1. Non sono quindi da trascurare gli effetti che lotti diversi di ß2GP1 possono avere sui risultati del test ELISA (Fig.4).
100
Unità arbitrarie (differenza)
50
0
-50
-100
0
50
100
150
200
Unità arbitrarie (media)
Figura 4. Grafico relativo alla concordanza fra i risultati dell’ELISA
anti-ß2GP1 utilizzando diversi lotti di ß2GP1 umana.
Anche la quantità di ß2GP1 da adsorbire sulla piastra rappresenta un elemento molto importante (63). La concentrazione di 10 µg/ml di ß2GP1 nel
pozzetto della piastra sembra discriminare, meglio di altre, i campioni patologici da quelli normali (Fig. 5). Tale quantità è pertanto considerata la concentrazione ottimale ed è utilizzata nella quasi totalità dei tests ELISA.
Sicuramente si dovranno utilizzare piastre molto idrofiliche come quelle in
PVC o in PST γ irradiate per la migliore espressione antigenica della proteina. La maggior parte dei test per anti-ß2GP1 è condotta su piastre di PST
trattate, tuttavia, come rappresentato in Fig. 6, i risultati ottenuti usando queste piastre correlano strettamente con quelli ottenuti se si utilizzano piastre
di PVC, che rispetto alle prime hanno anche il vantaggio di un minor costo.
Un altro punto critico è rappresentato dall’individuazione di uno standard
di riferimento unico, con cui costruire una curva di diluizione a cui riferire
i campioni da testare. La maggior parte dei kit o dei metodi “home made”
prevede l’utilizzo di anticorpi policlonali anti-ß2GP1 a diverso grado di positività e disponibili in ridotta quantità. Forse l’uso di anticorpi monoclonali (64)
o di anticorpi chimerici (65) potrebbe essere preso in considerazione per
risolvere queste problematiche.
71
1.00
0.75
OD 405 nm
Paziente
0.50
0.25
Controllo
0.00
0
1.25
2.5
5.0
10.0
20.0
40.0
80.0
160.0
Concentrazione di antigene ug/ml
Figura 5. Effetto su un plasma patologico ed uno normale delle diverse
concentrazioni di antigene nel test ELISA anti-ß2GP1.
3.0
r= 0.82
OD 405 nm (PST trattate)
2.5
p< 0.0001
2.0
1.5
1.0
0.5
0.0
0.0
0.5
1.0
1.5
2.0
OD 405 nm (PVC)
Figura 6. Correlazione dei risultati ottenuti utilizzando due tipi di piastre.
72
Proprietà anticoagulante degli anticorpi anti-ß2GP1
E’ accettato che il Lupus Anticoagulant (LA) rappresenti, tra i test che misurano gli aPL, il più importante fattore di rischio tromboembolico.
Un sottogruppo di anti-ß2GP1 si comporta “in vitro” come un classico LA:
questi anticorpi sono capaci infatti di interferire con i più comuni test coagulativi fosfolipide-dipendenti. E’ probabile che essi, formando dei complessi bivalenti stabili con la ß2GP1 sulla superficie fosfolipidica (66) o potenziando la concentrazione di ß2GP1 sulla superficie stessa (67), impediscano il
legame dei fattori della coagulazione (68). Nel 1997 abbiamo dimostrato che
la concentrazione dei fosfolipidi è cruciale per l’espressione dell’attività LA
di anti-ß2GP1 purificati per affinità nel test dRVVT (69). Tale attività tende a
scomparire in presenza di un eccesso o in caso di completa assenza di
fosfolipidi nel sistema. Pertanto l’esecuzione del dRVVT in queste due condizioni potrebbe a nostro avviso rappresentare un buon test di screening
per individuare gli anti-ß2GP1 con attività LA. Test privi di PL esogeni come
il Tempo di coagulazione al caolino (KCT) o che impiegano reagenti con
bassissime concentrazioni di fosfolipidi come il Tempo di inibizione della
tromboplastina (TTI) sono da considerare invece inadeguati (70).
Galli e colleghi hanno proposto due profili coagulativi diversi per distinguere anticorpi differenti aventi attività LA. I pazienti positivi per LA, che prolungano più il dRVVT rispetto al KCT (profilo dRVVT) hanno un maggior
rischio per le trombosi rispetto a quelli che appartengono all’altro profilo.
Sembra che il profilo dRVVT, associato agli anticorpi ß2GP1 dipendenti sia
più strettamente correlato agli eventi tromboembolici mentre il profilo KCT
sarebbe più indicativo della presenza di anticorpi anti-protrombina (71).
Poter individuare la prevalenza di un tipo di anticorpo rispetto all’altro
mediante un profilo coagulativo sarebbe di enorme importanza dal punto
di vista clinico.
Per misurare l’effetto degli anti-ß2GP1 sull’inibizione della produzione di
trombina Sheng e collaboratori hanno recentemente proposto un metodo
cromogenico più sensibile rispetto ai convenzionali test coagulativi normalmente impiegati nella diagnosi del LA e capace di distinguere gli antiß2GP1 caratteristici delle APS da quelli prodotti da cause diverse (72).
Significato clinico degli anticorpi anti-ß2GP1
Gli anti-ß2GP1 sono più fortemente associati alle manifestazioni cliniche della
APS rispetto agli aCL (73). Numerosi sono ormai gli studi che stabiliscono una
stretta correlazione fra anti-ß2GP1 e trombosi arteriose e venose (45,74-76).
Balestrieri e colleghi hanno trovato anche un’associazione fra questi anticorpi e perdite fetali ricorrenti (63).
La domanda che ci si pone da qualche anno è la seguente: gli anti-ß2GP1
si possono considerare un marker per fare la diagnosi di APS? Allo stato
attuale, disponendo solo di dati relativi a studi retrospettivi, condotti su un
numero esiguo di pazienti e ottenuti impiegando metodi non ben standardizzati, rispondere è difficile.
Tuttavia alcuni ricercatori hanno dimostrato che gli anti-ß2GP1 hanno un
valore predittivo per le trombosi più alto rispetto agli aCL (77,78).
L’importanza di questi anticorpi è stata solo parzialmente riconosciuta a
livello internazionale, tanto che i criteri per fare diagnosi certa di APS sono
stati leggermente rivisti e modificati. Fra i criteri di laboratorio compare la
definizione di positività per IgG e/o IgM a medio-alto titolo persistente, di
anticorpi anticardiolipina-ß2dipendenti. Tale definizione ci sembra tuttavia
confondente, perché non stabilisce con precisione il test da eseguire.
73
Infatti nel test ELISA aCL classico, in cui l’antigene è rappresentato dalla
CL, la ß2GP1 è presente nel siero fetale bovino del tampone bloccante e
di diluizione. Pertanto, con questa tecnica si possono evidenziare tantissimi
anticorpi: quelli che riconoscono la ß2GP1(bovina o umana), quelli diretti contro la CL (da noi definiti aCL autentici) presenti nelle patologie infettive e quelli
diretti contro altre proteine leganti la CL (protrombina, fattore C4, fattore H) (79).
Nel fare la diagnosi di APS l’utilizzo del test ELISA per anti-ß2GP1 (descritto
precedentemente), offre a nostro avviso alcuni vantaggi:
1. permette di quantificare gli anti-ß2GP1 specie-specifici, cioè capaci
di riconoscere la ß2GP1 umana e non quella bovina
2. non rileva gli aCL autentici che non sono associati alle APS ma a
patologie di tipo infettivo.
Nel nostro laboratorio solitamente il plasma positivo in ELISA aCL standard
viene testato anche in ELISA per anti-ß2GP1 umana soprattutto se il campione è risultato LA negativo secondo lo schema riportato nella Fig.7.
Se il dosaggio risulta positivo a medio-alto titolo (>40 unità) anche a
distanza di 6 settimane, facciamo diagnosi di APS.
Nonostante la buona correlazione esistente fra ELISA anti-ß2GP1 ed aCL
spesso troviamo campioni che mostrano dei risultati discordanti.
aCL + (LA -)
ELISA anti-ß2GP1
umana
negativo
ELISA anti-ß2GP1
bovina
positivo
ELISA a CL
modificato
ELISA proteine leganti la CL
(protrombina, Fattore H,
Fattore C4, etc.)
Figura 7. Schema per lo studio degli anticorpi antifosfolipidi in presenza
di aCL positivi e LA negativo.
74
Se il test ELISA anti-ß2GP1 risulta negativo, procediamo dapprima
nell’escludere la presenza di anticorpi aCL di tipo infettivo testando il campione con un’ ELISA aCL modificato (cioè utilizzando tamponi privi di
ß2GP1). Ripetiamo poi l’ELISA a-ß2GPI utilizzando come antigene la
ß2GP1 bovina, poiché sono state dimostrate in letteratura anche positività
specie-specifiche (80). Infine procediamo nella ricerca di anticorpi diretti contro altre proteine leganti i fosfolipidi (Fig. 8). Per fare la diagnosi di APS, la
nostra esperienza ci suggerisce di affiancare il test ELISA anti-ß2GP1 ai test
convenzionali (ELISA aCL, LA) e di testare anche i soggetti che possiedono
le caratteristiche cliniche tipiche della sindrome, ma che risultano negativi
ai test classici. La diagnosi basata solamente sulla positività in ELISA aCL,
in mancanza di anti-ß2GP1 ed LA, potrebbe infatti indurre ad una sovrastima dei pazienti con APS (81).
Sicuramente la realizzazione della standardizzazione del test e di studi prospettici longitudinali aiuterà a chiarire il ruolo di questi anticorpi nella pratica
clinica.
Figura 8. A) SDS-PAGE relativo alle proteine leganti la CL, oltre all’albumina (66kDa), alla ß2-GP1 (50kDa) ed alle IgG (150kDa), sono evidenti 3
bande ad elevato peso molecolare; B) SDS-PAGE delle tre proteine isolate; C) identificazione mediante Western blot del componente C4 del complemento (1) e del Fattore H (2).
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81
4. Anticorpi antiprotrombina:
diagnosi di laboratorio
Monica Galli
U.S. Emostasi e Trombosi, U.O. Ematologia,
Ospedali Riuniti, Bergamo
Introduzione
La prima descrizione degli anticorpi antiprotrombina (aPT) risale al 1959,
quando Loeliger riportò il caso di un paziente il cui anticoagulante tipo
lupus (LAC) era più evidente nella miscela con plasma normale di controllo
che nel plasma del paziente stesso (1). Il livello plasmatico della protrombina
era ridotto. Loeliger dimostrò che la protrombina era necessaria per
l’espressione dell’attività LAC del paziente. Successivamente, fu descritto
un altro caso di LAC associato a severa ipoprotrombinemia e a manifestazioni emorragiche importanti (2). Negli anni successivi furono descritti numerosi casi di LES con manifestazioni emorragiche, associate alla presenza
di LAC e di ipoprotrombinemia.
Tipicamente, si osservava la riduzione sia dell’antigene, sia dell’attività della
protrombina.
Negli anni ‘80 fu dimostrato che l’ipoprotrombinemia dei pazienti con LAC
era causata dalla presenza di anticorpi non neutralizzanti, che legavano la
protrombina senza inibirne la conversione in trombina (3). Fu ipotizzato che
l’ipoprotrombinemia fosse conseguente alla rapida eliminazione dal circolo
dei complessi protrombina-antiprotrombina. Nel 1984 Edson et al. (4) dimostrarono la presenza di anticorpi antiprotrombina (aPT) nel plasma di
pazienti LAC-positivi senza ipoprotrombinemia severa. Fleck et al. (5) studiarono 42 pazienti LAC-positivi, riscontrando la presenza di aPT in 31 di essi
(74%), 15 dei quali presentavano l’allungamento del tempo di protrombina.
Questi ricercatori conclusero, sulla base di esperimenti di assorbimento del
plasma con protrombina insolubile, che questi anticorpi LAC erano polispecifici, poichè reagivano sia con la protrombina, sia con i fosfolipidi a carica
netta negativa.
82
Proprietà immunologiche e siti di riconoscimento antigenico
Gli aPT si legano alla protrombina immobilizzata su piastre di polistirene
gammairradiate (6), oppure di PVC altamente attivate (7, 8), ma non su piastre
di polistirene normale. In queste condizioni, la loro prevalenza è di circa il
50% dei pazienti con anticorpi antifosfolipidi (aPL). Sia la protrombina
umana, sia quella bovina sono abitualmente riconosciute, anche se quella
umana è un antigene migliore (6, 9).
La protrombina è riconosciuta in modo più efficiente quando è legata,
mediante ioni calcio, alla fosfatidilserina immobilizzata sulle piastre ELISA:
la prevalenza degli aPT sale a circa il 90% (7).
Ciò può avere diverse spiegazioni. In primo luogo, il legame alla fosfatidilserina può permettere un orientamento ed una concentrazione migliori,
favorendo, perciò, il legame anticorporale. Inoltre, la fosfatidilserina in fase
solida può legare, mediante gli ioni calcio, i complessi protrombina-aPT
eventualmente circolanti. Infine, non si può escludere che gli aPT interagiscono con neoepitopi che la protrombina espone solo a seguito del legame
con la fosfatidilserina.
Attualmente, non è del tutto chiaro se gli aPT siamo anticorpi a bassa affinità oppure siano diretti contro neo-epitopi della protrombina.
A favore della prima possibilità sta l’osservazione che la protrombina modifica la sua conformazione tridimensionale a seguito del legame calciomediato con superfici contenenti fosfatidilserina.
A favore della seconda vi sono i dati di Field et al. (10), che hanno dimostrato
che il legame delle IgG aPT alla protrombina è divalente, e richiede la presenza di entrambe le porzioni Fab. Esperimenti di cinetica di legame condotti da Willems et al. (11) confermano che IgG aPT (ma non il loro frammento
Fab1) formano complessi divalenti (o multivalenti) con la protrombina su
una membrana contenente fosfatidilserina, aumentando, in tal modo, grandemente l’affinità della protrombina per la superficie fosfolipidica.
Rauch et al. (12) hanno dimostrato che gli aPT riconoscono anche la protrombina legata alla fosfatidiletanolamina in fase esagonale, e che questo complesso neutralizza l’attività LAC. Nel nostro laboratorio abbiamo dimostrato
che l’interazione della protrombina con la prevalenza di anticorpi IgG e IgM
diretti contro il complesso calcio-mediato protrombina-fosfatidiletanolamina
in fase esagonale è di circa il 70% (13). Il legame era strettamente dipendente dalla presenza del calcio.
L’epitopo riconosciuto dagli aPT non è ancora stato chiaramente definito.
In due casi LAC-positivi con severa ipoprotrombinemia, Bajaj et al. (14) hanno
dimostrato che il plasma reagiva non solo con la protrombina, ma anche
con la pretrombina I (ovvero, il segmento carbossi-terminale della protrombina) e con la DIP-alfa-trombina (ovvero, il segmento carbossi-terminale
della pretrombina 1). Al contrario, non venne rilevata reattività con il segmento amino-terminale della protrombina, nè della pretrombina 1, nè con l
a trombina. Malia et al. (15) hanno confermato che gli aPT reagiscono con la
protrombina ed il suo frammento 1-2, ma non con la trombina.
È probabile che la maggioranza degli aPT sia di natura poli-od oligo-clonale.
Puurunen et al. (16) hanno dimostrato che gli aPT cross-reagiscono con il
plasminogeno in un gruppo di pazienti con infarto miocardico. Studi di inibizione hanno dimostrato che il legame anticorporale alla protrombina poteva
essere impedito dalla protrombina, dal plasminogeno e da peptidi sintetici
di entrambe le proteine in fase fluida.
Questi ricercatori hanno ipotizzato che gli aPT, cross-reagendo con il plasminogeno, possono interferire con la via fibrinolitica.
83
Dosaggio aPT
Inizialmente, vennero usate metodiche di doppia immunodiffusione o di
cross-immunoelettroforesi, che hanno il vantaggio di identificare i complessi protrombina/aPT. Questi tests, tuttavia, non danno nessuna stima quantitativa degli aPT. Inoltre, in alcuni casi il titolo o l’affinità anticorpale sono
troppo bassi per dare linee di precipitazione chiare.
I test ELISA sono attualmente i più usati per l’identificazione degli aPT (6-8).
Di seguito viene indicata la metodica di impiego comune nel nostro laboratorio per il dosaggio degli aPT di isotipo G e M. Si sottolinea che si tratta di
una metodica “in-house”.
Materiali:
• piastre ELISA Titertek in PVC altamente attivato (ICN-Flow);
• protrombina umana (Stago);
• anticorpi di coniglio coniugati con perossidasi anti-IgG ed anti-IgM
umane (DAKO);
• tampone carbonato, pH 9.6;
• tampone di lavaggio (Tris 50 mM, NaCl 120 mM, pH 7.4,
contenente 0.05% Tween 20);
• tampone di diluizione dei campioni e degli anticorpi coniugati
(Tris 50 mM, NaCl 120 mM, pH 7.4, contenente 0.05% Tween 20 e
BSA 1%);
• soluzione cromogenica: preparare una soluzione di substrato cromogenico
TMB (Sigma) 6 mg/ml in DMSO, diluirne 418 µl in 25 ml di tampone acetato,
a cui si aggiungono 10 µl di acqua ossigenata 10 vol;
• acido solforico 4N;
• lettore di piastre ELISA.
Metodo:
• seminare in ogni pozzetto di una piastra ELISA 50 µl di soluzione di
protrombina 10 µl/ml in tampone carbonato ed incubare per tutta la notte
a + 4 C°. I successivi passaggi sono eseguiti tutti a temperatura ambiente;
• lavare la piastra 1 volta con tampone di lavaggio (100 µl/pozzetto);
• incubare la piastra per 1 ora con tampone di diluizione (150 µl/pozzetto)
per il blocco del legame aspecifico;
• lavare la piastra 2 volte con tampone di lavaggio (100 µl/pozzetto);
• incubare per 1 ora i campioni (50 µl/pozzetto, in doppio) diluiti 1:100
in tampone di diluizione;
• lavare la piastra 4 volte con tampone di lavaggio (100 µl/pozzetto);
• incubare per 1 ora gli anticorpi coniugati diluiti in tampone di diluizione
(50 µl/pozzetto) (per la diluizione degli anticorpi coniugati debbono essere
seguite le indicazioni della ditta produttrice);
• lavare la piastra 4 volte con tampone di lavaggio (100 µl/pozzetto);
• seminare il substrato cromogenico (100 µl/pozzetto) ed incubare finchè
un controllo positivo abbia raggiunto una OD di circa 1;
• bloccare la conversione del substrato cromogenico con acido solforico
(50 µl/pozzetto);
• leggere a 450 nm di lunghezza d’onda.
Poichè non esistono standard di riferimento, si consiglia di seminare in ogni
piastra almeno 8 controlli normali ed almeno 3 controlli patologici.
I campioni vengono considerati positivi quando la loro OD supera di almeno 2 deviazioni standard la media degli 8 controlli negativi inseriti in ogni
piastra.
Attualmente, non sono ancora a disposizione kits commerciali per l’identificazione di questi anticorpi.
84
Attività anticoagulante
L’attività LAC nel plasma è, in genere, causata dall’effetto combinato degli
aPT e di un altro tipo di anticorpo antifosfolipide (aPL), gli anticorpi antiß2glicoproteina 1 (17). Tuttavia, in una minoranza di pazienti, essa è prodotta
esclusivamente dalla presenza degli aPT. L’attività LAC degli aPT si esercita nel plasma umano, ma non in quello animale (18). L’origine di questa specie-specificità non è chiara.
Studi condotti in sistemi purificati della coagulazione hanno dimostrato che
gli aPT interferiscono con l’attivazione della protrombina da parte del complesso del fattore Xa e Va attivato su una superficie fosfolipidica anionica
artificiale (18) o piastrinica (19) in presenza di ioni calcio. L’attività anticoagulante si esercitava sulla protrombina di origine umana ma non di quella
bovina, ed era indipendente dalla fonte umana o bovina dei fattori Xa e Va.
In presenza di fosfolipidi, calcio e protrombina gli aPT interferiscono anche
con l’attivazione del fattore X da parte del complesso dei fattori IX e VIIIa (20).
Alcuni aPT non hanno attività anticoagulante e, quindi, possono essere evidenziati solo mediante tests immunoenzimatici. Fino ad ora, non è ancora
stata data spiegazione all’esistenza di aPT che differiscono per le loro proprietà anticoagulanti.
Rilevanza clinica
Per rispondere alla domanda se la misurazione degli aPT debba essere
inserita nello screening dei pazienti con sindrome da anticorpi antifosfolipidi, abbiamo eseguito una ricerca della letteratura pubblicata in inglese dal
1992 al 2001 (21). Abbiamo trovato 17 studi che fornivano o permettevano di
calcolare l’Odds Ratio con il 95% intervallo di confidenza degli aPT per le
trombosi venose ed arteriose in 2352 casi e 611 controlli.
Nonostante il grande numero di pazienti e di associazioni con le trombosi,
il disegno retrospettivo della maggior parte degli studi disponibili non ci ha
permesso di giungere ad una chiara conclusione rispetto alla rilevanza clinica degli aPT. La mancanza di una documentazione oggettiva della trombosi, della sequenza temporale tra la misurazione degli anticorpi e il verificarsi dell’evento, e di un gruppo di controllo riducono grandemente il livello
di evidenza degli studi retrospettivi. Inoltre, gli studi erano troppo eterogenei per permettere una meta-analisi.
Con queste limitazioni, la nostra rivisione sistematica ha dimostrato che 18
associazioni con le trombosi su 43 (42%) erano significative. In particolare,
lo erano 3 di 12 associazioni con le trombosi arteriose, 7 di 16 con le trombosi venose ed 8 di 15 con qualunque tipo di trombosi. L’insieme di questi
dati non sembra sostenere l’utilità di misurare gli aPT nei pazienti aPL-positivi a particolare rischio trombotico.
Fisiopatologia della trombosi
Gli aPT aumentano la generazione di trombina sulle cellule endoteliali (22)
così come in un sistema dinamico (23). Ciò è probabilmente causato
dall’effetto stabilizzante il legame della protrombina alle superfici procoagulanti e può suggerire la possibilità che gli aPT con attività anticoagulante
abbiano un significato protrombotico. Tuttavia, in un altro sistema purificato
gli aPT non si sono dimostrati capaci di aumentare la generazione di trombina in presenza di monociti e piastrine(24).
Apparentemente, gli aPT non interferiscono con due reazioni coagulative
fosfolipide-dipendenti che regolano la cascata coagulativa: l’inibizione da
parte del TFPI (tissue factor pathway inhibitor) della generazione del fattore
85
Xa indotta dal complesso fattore VIIa/fattore tissutale (25); 2. l’inattivazione
del fattore Va da parte del sistema della proteina C/proteina S (26). Tuttavia,
questi esperimenti sono stati condotti in sistemi plasmatici ed i loro risultati
non sono stati confermati in sistemi purificati della coagulazione.
In conclusione, non è ancora chiaro se gli aPT siano rilevanti rispetto
all’eziopatogenesi delle trombosi.
Trattamento
In generale, gli aPT non richiedono trattamento, tranne che nei casi di manifestazioni emorragiche severe. Le condizioni che possono richiedere terapia sono gli interventi chirurgici, ed il sanguinamento muco-cutaneo o genito-urinario. La terapia di scelta sono gli steroidi (27, 28). Sono stati usati con
successo il metilprednisolone, 30 mg/kg/die per 3 giorni di seguito da prednisone, 2 mg/kg/die per 14 giorni (28); la ciclofosfamide, 1 gr al giorno uno
in combinazione con il prednisone, 1 mg/kg/die per un mese (27). In caso di
insuccesso, il danazolo (29), le gammaglobuline ad alte dosi (30), e la ciclofosfamide (29) sono state riportate avere un variabile grado di efficacia.
Il trattamento delle trombosi solleva due tipi di problemi nei pazienti con
aPT. L’eparina, gli anticoagulanti orali, gli antiaggreganti piastrinici possono
aumentare il rischio emorragico causato dall’ipoprotrombinemia. Perciò, è
necessario essere cauti nel somministrare questi trattamenti.
Sono in via di completameno diversi studi clinici multicentrici randomizzati,
che stabiliranno la durata e l’intensità ottimali della terapia antitrombotica
nei pazienti con PL (esempio, studio WAPS, ref. 31).
L’altro aspetto è legato al controllo della terapia anticoagulante orale.
La presenza degli aPT, associata ad un grado variabile di ipoprotrombinemia, potrebbe influenzare il risultato del tempo di protrombina calcolato
mediante l’INR (International Normalized Ratio). In effetti, è stata riportata
una variabile risposta delle tromboplastine del commercio alla presenza
degli anticorpi antifosfolipidi, ed alcune di esse, in particolare quelle ricombinanti, sono risultate molto sensibili al LAC (32-34). Uno studio multicentrico
ha, però, dimostrato che la presenza di questi anticorpi non interferisce in
modo significativo con il tempo di protrombina misurato con le tromboplastine comunemente usate in Italia nei pazienti LAC-positivi in terapia anticoagulante orale (35).
86
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