4 - Due vendette

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4 - Due vendette
4 - Due vendette
Ad ogni passo, gli stivali dalla punta metallica risuonavano sordi
sull’acciottolato, o traevano sciaguattii dalle frequenti pozzanghere.
Era ancora notte fonda, in giro non c’era nessuno, ed Egon procedeva
prudentemente al centro della via, stando attento a non mettere inavvertitamente un piede sopra alle onnipresenti deiezioni delle bestie da soma.
Con il suo passato da atleta, un’eventuale aggressione non lo spaventava
minimamente, ma era sempre meglio essere prudenti e tenere bene
d’occhio ogni vicolo.
La sua casa sorgeva in un quartiere decente, sul fianco della collina e
all’ombra della fortezza del Khan. Si trattava di un piccolo edificio a due
piani, ornato di torrette e dotato di un giardino roccioso sul davanti, fatto
costruire da un notabile ambizioso grazie a certi fondi sottratti alla pubblica amministrazione. Quando quest’ultima si accorse della faccenda, il
notabile venne arrestato e squartato sulla pubblica piazza, la sua famiglia
ridotta in schiavitù e la sua casa posta in vendita. Egon era riuscito ad aggiudicarsela senza difficoltà, e proprio qui aveva accolto la donna che sarebbe diventata la sua concubina.
Nell’avvicinarsi al cancello, una spiacevole sensazione di ansia iniziò a
farsi strada dentro di lui. Era abituato a reprimere le proprie emozioni,
come imponeva l’etichetta, ma con Dharma questo condizionamento veniva meno molto spesso. Gli sembrava di notare una quantità di particolari fuori posto. C’erano numerose impronte sul terreno davanti al suo cancello, e segni di qualcosa che fosse stato trascinato, ma era impossibile
comprendere se verso fuori o verso dentro. Il cancello era socchiuso, e
questo non succedeva mai: Dharma era scrupolosa, in questo, e chiudeva
sempre personalmente il pesante cancello fasciato di ferro, al tramonto.
Con il cuore in gola, Egon spinse il pesante battente, che cigolò con
un suono spettrale nel silenzio della notte. Dentro, sembrava tutto tranquillo, ma alcune rocce e piante del giardino roccioso erano spostate e
cadute. Tra le spine di un alto cactus, era rimasto impigliato un frammento di tessuto scuro, una stoffa pesante che somigliava molto alla lana di
cui erano intessute le uniformi ed i mantelli della guardia cittadina. Di sicuro, in quella casa non esistevano indumenti di quel tipo.
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Nel silenzio, i battiti del suo cuore sembravano cannonate. Sganciò
nel fodero la corta spada che si era abituato a portare da quando aveva
lasciato la squadra, preparandosi al peggio. In casa, tutte le luci erano
spente, ma non era inconsueto: Dharma andava a dormire presto, svegliandosi sempre quando lui la raggiungeva, per dargli il suo dolce benvenuto. Corse alla porta, non stupendosi più di tanto di trovare aperta anche quella. I timori si erano ormai trasformati in certezza: Qualcosa di
terribile era successo in quella casa, in sua assenza.
All’interno, venne avvolto da un soffocante odore, un misto di sangue, fumo, e qualcos’altro meno definibile.
Nella consueta nicchia della parete trovò candela e zolfanelli. Quando
la debole luce scacciò le fitte tenebre, la scena che si presentò ai suoi
occhi era terrificante. Nella sua casa, oltre a lui e Dharma, viveva una
famiglia di schiavi formata da una madre che serviva come cuoca e sguattera, il marito che si occupava del giardino e della manutenzione, e la loro figlia preadolescente, cameriera personale di Dharma. Ora, essi si trovavano tutti e tre nell’androne, ma nessuno di loro era più vivo. L‘uomo
era stato crocifisso sulle scale con i pugnali cerimoniali che ornavano una
panoplia sopra il caminetto; sua moglie doveva essere volata giù dal primo piano, perché la balconata era sfondata in un punto e sul pavimento
di pietra c’era una lunga striatura di sangue che terminava nel punto dove
il suo corpo era ammucchiato scompostamente, contro la parete di fronte; della ragazzina, le gambe emergevano dal camino, spalancate e
chiazzate di sangue, mentre il resto del corpo era una massa informe e
carbonizzata, distesa sui ceppi ancora caldi.
«Dharma…» La stanza della concubina era al piano superiore, in fondo
alla balconata dalla quale era precipitata la sua schiava. Egon lasciò cadere la candela e si avventò su per le scale, saltando con un solo balzo il
corpo dello schiavo e proseguendo su, facendo gli scalini a tre per tre.
La candela, cadendo ancora accesa, aveva appiccato con straordinaria facilità il fuoco al pavimento ligneo. L’odore indefinibile percepito da
Egon al suo ingresso era emanato da una mistura di pece raffinata e resina liquida, che qualcuno aveva sparso sul pavimento: una sostanza estremamente infiammabile. Bastò una scintilla perché le fiamme prendessero
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a scoppiettare e avvolgersi attorno alle scale, ai pochi mobili, alle travi
delle pareti, ma Egon non si accorse di nulla.
La porta della stanza di Dharma era aperta. La luce della luna attraverso la finestra illuminatala scena: il letto disfatto, la camicia da notte
strappata sul pavimento, e nessuna traccia della donna. «Rapita… l’hanno
rapita!» ringhiò lui guardandosi in giro per trovare qualche segno, qualche
traccia che potesse aiutarlo nella ricerca dei colpevoli. Lo trovò quasi subito: proprio al centro del letto, piantato nel materasso con un lungo spillone da capelli, un pezzo di pergamena diceva semplicemente: “Dopo la
campana, ricorda”.
Per lunghi secondi il cuore di Egon si fermò, incapace di credere che
ciò che leggeva avesse il significato che pareva avere, poi riprese a battere più forte di prima. Il sangue pulsò furibondo nelle vene, inondando Egon di un calore, di una furia che non aveva mai provato, nemmeno sul
campo, nello stadio, davanti ai suoi tifosi. Un gemito di dolore si mutò in
ruggito: «Elanna! Pagherai questo con la morte, lo giuro! Mi hai umiliato
per l’ultima volta, questa notte sarà la tua ultima!»
Incurante delle fiamme che già avvolgevano quasi tutto il piano terreno, Egon si recò nella sua camera, dove aprì un armadio chiuso da parecchi anni. All’interno, la corazza che indossava nei giochi, scintillante
di acciaio e cuoio smaltati di viola e nero. Si spogliò dei suoi abiti e poi,
con calma, come ancora si trovasse negli spogliatoi dello stadio, indossò
la sua uniforme. Per prima la conchiglia, di pelle di naggaronte rivestita
di seta all’interno, costruita su misura, poi i pantaloni e la camicia, la fascia ventrale, gli spallacci d’acciaio ornati di punte aguzze e ancora affilati sui bordi, le cubitiere e gli schinieri in ferro nero ornati con il simbolo
del corvo, gli alti stivali di lucido cuoio nero, le protezioni per i gomiti e
le ginocchia, i guanti e infine l’elmetto. Tutto calzava ancora a pennello,
come l’ultimo giorno che l’aveva riposta in quello stesso armadio. Certe
cose non cambiano mai.
Improvvisamente, si sentì invadere da quella stessa sensazione che lo
prendeva prima di scendere nell’arena: io sono il migliore, si disse, e
chiunque si metta contro di me dovrà morire.
Quella notte, il sangue sarebbe scorso copioso. Avrebbe ucciso Elanna, l’avrebbe guardata morire lentamente, come meritava. Se Dharma
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era ancora viva, l’avrebbe salvata e sarebbero scappati insieme. Se era
morta, sarebbe sceso sul terreno dello stadio e si sarebbe tagliato la gola,
proprio là dove mille volte aveva trionfato nel passato.
Proprio in quel momento, suonò la campana della mezzanotte.
Al piano terreno, ormai era l’inferno. Le fiamme alimentate dal composto infiammabile stavano divorando il pavimento, la scala, la mobilia, i
corpi degli sventurati schiavi, tutto. Egon uscì sulla balaustra camminando
lentamente, come un vero guerriero dell’arena nell’attesa del combattimento. Improvvisamente, scattò in avanti, spiccò un balzo al di là della
balaustra e cadde al piano inferiore eseguendo un perfetto salto mortale,
nonostante indossasse un peso pari alla metà del proprio nel metallo delle
corazze. Corse fuori, attraversando incurante le fiamme, uscì nella notte
nella strada deserta, con i tacchetti degli stivali che mordevano il terreno
della strada, ritmicamente, come il ticchettio dell’orologio della vita e
della morte.
Elanna abitava in un grande palazzo, proprio di fronte allo stadio. Aveva al suo servizio più di trenta schiavi, e anche un corpo di guardie personali la cui esperienza faceva invidia alla Guardia del Khan. Egon si fermò per qualche minuto ad una certa distanza dal palazzo, controllando il
respiro, il battito cardiaco e le emozioni. Non voleva dare ad Elanna la
soddisfazione di mostrarsi ferito, e soprattutto non voleva che le sue vere
intenzioni trasparissero dalla sua furia. Sapeva che Elanna, cieca
com’era, aveva la capacità di leggere fin nel profondo della sua anima, e
in quel luogo lei non doveva trovarci altro che ghiaccio.
Era il momento. Si avvicinò, salì i pochi gradini, bussò.
Si aprì uno sportello, dal quale emerse una faccia inespressiva, che lo
guardò, poi il battente si aprì, lasciando uscire un leggero odore di fumo
e una ventata di aria più calda: Elanna teneva sempre tutti i caminetti
accesi, come unica fonte di luce nella notte, e questo nei mesi estivi rendeva invivibili quelle stanze, dal caldo opprimente che vi regnava. Questo
consentiva però alla vecchia strega di limitare al minimo l’abbigliamento,
così come piaceva a lei. Era una donna vecchia e ormai brutta, rovinata
dal tempo e dall’uso della magia nei modi più disparati e spesso distrutti-
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vi, per gli altri come per sé, ma era in grado di esercitare un potere seduttivo straordinario: se solo lei lo desiderava, nessuno era in grado di resistere al suo richiamo. Lo stesso Egon aveva sperimentato su di sé il potere della Strega, e la sua resistenza era stata sempre sconfitta. Nemmeno la ripugnanza che quel corpo suscitava era in grado di vincere il desiderio indotto dal potere magico, e qualsiasi uomo era un potenziale
schiavo delle sue voglie. La Strega era anche violentemente perversa, e
molto spesso i suoi giochi erotici si concludevano con una morte orribile
per almeno uno dei partecipanti.
Quella sera, Egon sapeva che le cose sarebbero andate diversamente.
Il suo cuore era ora un pezzo di ghiaccio, duro come il diamante. Niente e
nessuno sarebbe riuscito a imporre su di lui la sua volontà un’altra volta,
tantomeno quella lurida Strega pazza.
Varcò la soglia e disse «Vai ad informare la tua magistra che il suo ospite è arrivato.» Mentre lo schiavo correva come un dannato su per le
scale, senza però produrre il minimo rumore, pena la morte, Egon lo seguì
con lenti, misurati passi.
C’erano due guardie, in piedi accanto alla porta, ma non cercarono di
fermarlo. Non era la prima volta che Egon frequentava quella casa, ed essi lo conoscevano bene. Il loro tempo sarebbe venuto in seguito.
L’alloggio di Elanna era al primo piano, in punta ad un immenso scalone di marmo scarlatto. La balaustra era ornata da orribili statue di mostri e animali mitologici, che guardavano chi passava con orbite vuote ma
con la spiacevole impressione di una vitalità nascosta. Egon varcò
un’immensa porta a doppio battente, in nero legno di koa, scolpita con
scene erotiche, e entrò nel sancta sanctorum della Strega. Da
un’anticamera entrò in un salone illuminato da candele e tappezzato di
specchi, poi in un’altra stanza semivuota, e infine nel salotto di Elanna.
La donna lo attendeva qui, distesa su di un divano. Piluccava acini d’uva
da un gigantesco grappolo poggiato su un tavolino accanto a lei, assieme
a molta altra frutta, bottiglie e boccette piene di liquidi variamente colorati e piatti colmi di cibo, indossando una lunga tunica nera, di seta plissettata, chiusa sotto il seno da un cordone di raso rosso.
Accanto a lei, sul pavimento, distese una accanto all’altra, due giovani elfe vestite di veli leggerissimi parevano dormire profondamente.
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Quando lo vide entrare, Elanna si alzò con movimenti languidi e gli
andò incontro. La sua piccola pantera, ora libera del guinzaglio, venne a
strofinarsi contro le sue ginocchia, facendo rumorosamente le fusa, e lei
la grattò brevemente dietro le orecchie, quasi senza doversi chinare.
«Benvenuto, Eggs. Sei arrivato presto.»
«Non potevo attendere, Elanna. Lo sai,» rispose lui con voce inespressiva.
«Oh, Eggs, come sei caro.» Elanna accarezzò la guancia dell’uomo,
parzialmente coperta dall’elmetto. «Ma perché non ti accomodi? C’è caldo, qui, starai sudando…» fece per slacciare uno dei molti fermagli della
corazza, ma l’uomo la fermò.
«Non ora, Elanna. Ci sarà tempo per questo.»
Lei annuì, e si allontanò da lui ancheggiando. La stoffa a pieghe si
drappeggiava sui suoi fianchi scarni come un sudario su di un cadavere.
Egon provò ribrezzo, e questo era confortante, perché significava che la
donna non lo stava tenendo sotto il suo potere. «Vieni, Eggs, assaggia
quest’uva. Viene dalle mie vigne, è ottima. Darà un vino inebriante…»
Egon fece qualche passo avanti, e posò gli occhi sui due corpi distesi a
terra. La postura delle gambe e delle braccia era innaturale, e le loro
carnagioni avevano un colorito violaceo. «Anche loro hanno mangiato la
tua uva?» domandò freddamente.
Elanna si voltò di scatto, sorpresa. «Come mi conosci bene, Eggs. Ma
ti garantisco di no. Piuttosto, ti consiglio di star lontano dal miele…
Egon si avvicinò ancora, e staccò qualche acino dal grosso grappolo. Li
tenne nella mano tesa, come per mostrarli alla Strega, poi chiuse il pugno
e li stritolò. Succo appiccicoso filtrò tra le sue dita e colò a terra.
Elanna scattò verso di lui, lo afferrò per un polso e tentò di leccare la
sua mano, sospirando, ma lui la sottrasse improvvisamente, pulendosi poi,
con un fazzoletto prelevato dalla stessa tavola.
Lei rimase interdetta un attimo, poi rise, con la sua risata inquietante. «Non vuoi giocare, Eggs?»
Egon si avventò su di lei, sringendola per le spalle. «Il tempo dei giochi è finito, donna. Dov’è Dharma?»
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Lei alzò gli occhi ciechi su di lui, poi con uno scatto dotato di forza
straordinaria si liberò della sua stretta. «Oh, Eggs, ma tu non hai più bisogno di lei, Hai me, ora.»
«Ho letto il biglietto, Elanna. Perché?»
«Te l’ho detto. Non hai più bisogno di lei, ora. Hai lo stadio, ed hai
me. Dimenticala.»
«Voglio vederla.»
«Non te lo consiglio, Eggs. Veramente.» La voce di Elanna era ora
morbida e dolce, come l’uva che continuava a mangiare.
Egon dovette esercitare tutto il suo controllo per non esplodere. «Non
mi importa nulla di lei, Elanna,» mentì. «Voglio solo sapere che cosa ne
hai fatto.»
Lei gli si strofinò contro, come prima aveva fatto con lei la pantera.
«E se te la faccio vedere,» mormorò mellifluamente, «mi prometti di dimenticarla e di volere solo me?»
Lui, senza fiato per la forza con cui controllava i propri battiti cardiaci e le proprie emozioni, riuscì solo ad annuire, ma fu sufficiente. Elanna
battè le mani un paio di volte, ed una porta sul lato opposto della stanza
si aprì. Ne vennero fuori due uomini con l’uniforme delle guardie personali della Strega, che trainavano qualcosa. L’oggetto che emerse dalla stanza attigua strappò ad Egon un gemito: al centro di un grande cerchio di
ferro, legato mani e piedi, il corpo di Dharma pendeva inanimato; non un
solo centimetro della sua pelle era ancora attaccato ai muscoli. Egon
guardò impietrito quello spettacolo orrendo, digrignando i denti e gemendo piano, nello sforzo di mantenere il controllo.
Le guardie se ne andarono rapidamente.
La strega gli si avvicinò, dondolando i fianchi. La seta del vestito produceva un fruscio secco. «Eccola, la tua dolce Dharma, l’unica ragione
della tua vita in questi ultimi anni, ora per te non diversa da un fiocco di
neve, che scompare appena lo tocchi. E vuoi sapere la cosa più divertente?» La strega premette contro il suo petto i magri seni, carezzandogli
una guancia. Era più bassa di lui, ma non di molto, e aveva l’abitudine di
camminare sulla punta dei piedi, per dare sensualità al suo movimento. I
suoi occhi erano ora quasi alla stessa altezza di quelli di Egon, vuoti abissi
di biancore latteo, privi di iride, eppure così vivi, così percettivi.
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Egon si sforzava di non fissarli, sapendo che in questo modo si sarebbe
perduto, sarebbe tornato preda del potere della strega, avrebbe dimenticato Dharma e la breve, felice parentesi di vita con lei, sarebbe tornato
ad essere quella spietata macchina per uccidere che era nell’arena. Avrebbe ucciso, quella sera, senza alcun dubbio, ma sarebbe stata forse
l’ultima volta.
«La cosa divertente, Eggs,» proseguì Elanna con un tono sempre più
ammaliante, «è che la bambina portava nel grembo il frutto del vostro
amore. La tua Dharma, mio povero, caro Eggs, era incinta!» La strega esplose in una risata stridula, diabolica, mentre Egon si divincolava dal suo
abbraccio.
Muovendosi con la velocità di un cane infernale, afferrò un coltello
dal tavolo e si gettò sulla strega.
La pantera balzò su di lui, ma con un movimento fulmineo lui le tagliò
la gola prima ancora che l’animale arrivasse a colpirlo con i suoi artigli.
La pantera cadde morta, in un mucchietto scomposto e grondante sangue,
tra i due.
Elanna non rideva più, ma il suo volto rimaneva atteggiato a quello
che doveva essere un accattivante sorriso, Per Egon non era che un ghigno demoniaco. La strega stava usando tutto il suo potere, ma il cuore di
Egon Bloodthorne era un unico blocco di granito, inattaccabile da ogni
parte. Dharma era morta, e con lei sarebbero morti tutti gli occupanti di
quella casa maledetta, tutti coloro che avevano servito la Strega, obbedendo ad ogni suo comando e fornendole una vita piena di mostruose piacevolezze. Ma la prima a dover morire era proprio Elanna deRoane. Finalmente, Egon avrebbe avuto la prova che il cuore della donna era rivestito di scaglie cornee, come la pelle di un naggaronte, così come si diceva.
Con il coltello stretto in pugno, Egon si avvicinò alla Strega, badando
di non incrociare il suo sguardo, e cercando di non guardare il mostruoso
spettacolo del corpo scorticato della sua donna appeso davanti a lui.
«Avanti, Eggs, che vuoi fare?» Le parole erano seducenti, ma il tono
cominciava ad incrinarsi nella paura. Elanna si stava accorgendo che il suo
potere non stava facendo effetto. «Non vorrai farmi del male? L’hai detto
anche tu, ormai Dharma non è più nulla, per te. Ci sono solo io, ora.»
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Prese ad armeggiare con i lacci dell’abito, e li sciolse con un lento gesto.
Chiunque si fosse trovato in quella stanza, in quel momento avrebbe visto
un rapido lampo di luce, e poi il vestito, cadendo, avrebbe rivelato un
corpo giovane, pieno e voluttuoso, dalla pelle liscia e splendente di oli
profumati, mentre il viso scavato ed i capelli secchi sarebbero stati sostituiti da un meraviglioso volto dalle labbra piene e dagli occhi scintillanti,
incorniciato da una cascata di morbidi capelli lunghi fino alle ginocchia,
di un nero dai riflessi ipnotici.
Egon Bloodthorne non vide nulla di tutto ciò. Davanti ai suoi occhi rimase il corpo secco e ossuto, la pelle grigiastra, secca e scagliosa, i fianchi magri ed i seni vuoti e penduli della vecchia Strega. Con la sinistra le
afferrò la lunga ciocca di capelli violacei dietro il collo, tirandole la testa
verso il basso, mentre l’altra mano scattava verso l’alto. Il coltello si infisse profondamente proprio sotto lo sterno, fino al manico. Non successe
niente.
Elanna rise nuovamente, liberandosi con un calcio del vestito avvolto
attorno alle sue caviglie. Nonostante fosse ancora nella stretta di Egon,
non pareva in difficoltà. «Eggs, credi davvero che ci sia qualcosa, in questa casa, in grado di farmi del male? Guarda bene quel coltello.»
Egon allontanò la mano destra, e vide che la lama del coltello, nel
punto in cui toccava la pelle di Elanna, pareva dissolversi in una piccola
nube di fumo denso. Lo buttò via. Quel coltello avrebbe ucciso chiunque,
ma non Elanna. «Stai sbagliando, sai.» Uno scatto del polso, uno stridore
metallico, ancora un affondo del braccio destro verso il costato della
donna. Questa volta, un fiotto caldo si riversò sulla mano di Egon, sgorgando da una profonda ferita, proprio al centro del petto. La lama a scatto presente all’interno della cubitiera destra, lunga più di una spanna,
aveva sfondato lo sterno e tagliato in due il cuore.
La strega emetteva rauchi gorgoglii, scuotendosi in modo scomposto
mentre la pluricentenaria vita abbandonava il suo corpo, gocciolando lungo l’avambraccio di Egon. L’elfo sollevò in alto il pugno, e con esso il corpo nudo e immobile della Strega. «Eri un cadavere già da viva, Elanna.
Farò in modo che tu non torni mai più a tormentarmi.» Il corpo non pesava quasi nulla. Lo scagliò in basso, con forza disumana, e il cranio si fracassò come un’anguria, schizzando materia cerebrale tutto intorno.
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Elanna deRoane era morta. Dharma Lichantis era morta. I suoi schiavi
erano morti.
Presto anche tutti gli altri sarebbero morti.
E per ultimo, sarebbe morto lui, trascinando all’inferno tutti quanti.
Le guardie non avevano sentito nulla, o forse avevano preferito non
sentire nulla. La vita con Elanna deRoane non era facile, e forse la sua
morte poteva significare un male minore.
Egon slegò il corpo di Dharma dall’orrendo strumento di tortura che lo
ospitava, e lo depose sul divano, rabbrividendo al contatto del tessuto
muscolare esposto. Pronunciò qualche parola di commiato, poi coprì il
corpo con una tenda strappata da una delle alte finestre. Quella casa sarebbe stata anche la sua tomba.
Poi si dedicò agli altri abitanti, la cui unica colpa era quella di non
aver ucciso la Strega prima, con le loro mani, consentendole invece una
vita agiata ed acconsentendo a tutti i suoi capricci.
Dapprima, osservò da vicino i corpi delle due ragazze che erano già
morte prima del suo arrivo. Erano distesi uno sopra l’altro, le labbra a
contatto in un bacio perverso. Quando riversò sulla schiena quella che
stava sopra, vide che le labbra di entrambe le ragazze erano sporche di
una materia appiccicosa, bluastre e coperte di vesciche. Elanna aveva dato loro da mangiare del miele avvelenato, poi le aveva costrette a baciarsi ed era rimasta a guardare mentre morivano, abbracciate una all’altra.
Quelle poverette non sembravano nemmeno delle schiave, non avendo
nessuna ferita sul corpo. Forse si trattava di giovani nobili in visita, oppure di creature acquistate appositamente per questo turpe scopo. Nulla sarebbe sopravvissuto, di tutto ciò.
Era notte tarda, ma la casa di Elanna non era mai ferma. Molti dicevano che la donna non avesse bisogno di dormire, e che i servitori dovessero essere sempre a disposizione di ogni suo capriccio. Meglio così, non
avrebbe fatto troppa fatica a trovarli.
Egon attraversò una sala da pranzo ed un salone da ballo sfarzosi, poi
imboccò un corridoio e sbucò in cucina. C’erano tre donne, vestite come
delle sguattere con semplici stracci legati attorno al corpo. Tutte mostravano numerose cicatrici e segni di bruciature sulla pelle visibile. Non si
voltarono a guardarlo entrare. Colpì la prima, china su di uno spazzolone,
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alla base del collo, facendola stramazzare al suolo. Le altre due alzarono
gli occhi, ma la paura di una punizione fece loro distogliere lo sguardo
immediatamente. La seconda ebbe il ventre squarciato dalla lama affilatissima della cubitiera, mentre la terza soffocò con la faccia premuta in
un braciere di carboni ardenti. Un cameriere in livrea che entrò in quel
momento ricevette un pugno in pieno volto, che fratturò l’arcata nasale e
conficcò una scheggia di osso direttamente nel cervello. Due sguattere
vennero appese per il palato ai ganci da macellaio nella dispensa. Altri
schiavi morirono nei loro letti, rapidamente, altri nei corridoi. Le guardie
intervennero presto, più per difendere se stessi che la casa, ma tutti, in
un modo o nell’altro, rimasero a terra in una pozza di sangue.
Scese in cantina, dove sapeva trovarsi una specie di prigione annessa
ad una sala da torture dotata di ogni attrezzatura adatta a provocare dolore. Magari c’era qualche prigioniero cui alleviare le sofferenze.
Si liberò rapidamente del guardiano, un vecchio storpio con un uncino
al posto della mano destra, poi esaminò le celle. Erano tutte vuote, tranne una, occupata da una donna, distesa nuda sulla nuda terra. Egon entrò, gettandosi su di lei con il pugno destro pronto a colpire.
Lei, spaventata dallo schianto della porta, alzò gli occhi e gridò forte.
Lui le afferrò il volto con la sinistra guantata e ormai lorda del sangue
di almeno trenta persone, levò in alto la destra stillante, fece per colpire.
«Egon…»
Fu come se una nebbia scarlatta si alzasse dagli occhi dell’Elfo, consentendogli di vedere nuovamente la realtà. Non era un miraggio, né
un’allucinazione. Davanti a lui, viva, illesa, c’era la sua Dharma, la sua
unica ragione di vita, il suo amore. Incredulo, la fissò a lungo prima di
rendersi conto che lei era realmente lì, e non si trattava di un incantesimo di Elanna. Infine, si liberò dell’elmo e dei guanti insanguinati e
l’abbracciò forte, baciandole, il volto, gli occhi, i capelli, cercando di non
ferirla con le punte e le lame che costellavano la sua armatura.
«Come mi hai trovato? Dov’è Elanna? Mi ha rapito, questa sera, credo
volesse uccidermi, per riconquistarti. Ho sentito delle grida…»
«Elanna è morta,» rispose lui. «Siamo liberi.»
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«Gli Dei siano ringraziati! Ho avuto così tanta paura… per me, per te
e…» lo sguardo e le mani di Dharma corsero al proprio ventre, in un gesto
protettivo.
«Allora è vero…» Egon era fuori di sé dalla gioia, per aver ritrovato
Dharma e per aver scoperto che anche la storia del bambino era vera.
«Si. L’ho scoperto stamattina. Avevo tanta paura che Elanna se ne accorgesse, che me lo portasse via…
«Elanna lo sapeva, non chiedermi come, ma ora non ci farà più del
male. Andiamo, dobbiamo lasciare Darkwood, dobbiamo scappare.»
«Scappare? Ma…»
«Ho ucciso Elanna e tutta la sua servitù, ma è possibile che qualcuno
sia scappato, che mi abbiano visto. Io sarò messo a morte e tu… tornerai
ad essere schiava, se non peggio. Vieni via, andiamo.» Si alzò e la prese
per mano. «Cerchiamo qualcosa da metterti addosso. Non puoi andare in
giro in quelle condizioni. In casa fa caldo, ma fuori… questa sera sembrava volesse nevicare.»
Emersero dalle cantine e corsero su al primo piano. Nelle stanze di
Elanna ci sarebbe sicuramente stato qualche vestito adatto, anche se la
Strega era solita indossare indumenti veramente succinti in ogni occasione. Trovarono un abito in seta nera con profondi spacchi laterali e che lasciava la schiena completamente nuda, cui sovrapposero un lungo mantello violetto bordato di pelliccia e scarpini di seta, poi corsero fuori.
La piccola piazza davanti alla residenza di Elanna era occupata da un
nutrito contingente di Guardie del Khan, molte armate di balestre, le altre di lunghe alabarde e spade.
Al loro apparire sulla soglia, tutte le armi si alzarono, pronte a colpire: erano in trappola. Elanna era riuscita a vendicarsi, anche dopo la morte.
Il Capitano, con indosso una scintillante armatura e un alto elmo nero, fece un passo avanti e srotolò una pergamena, dalla quale, come era
d’uso nell’arresto di un colpevole riconosciuto, lesse il capo d’accusa. «Egon Blackthorne di Darkwood, il Tribunale del Khan, di cui questa Guardia
è il braccio armato, ti dichiara in arresto per il massacro della sua intera
servitù di Elanna deRoane, perpetrato questa stessa notte, in questa stessa casa. Non ci sarà dibattimento, per questo, in quanto sei già stato giu-
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dicato colpevole in base a testimonianze oculari. La pena è la morte, e
verrà eseguita in questo stesso luogo, a mezzo di dardi da balestra uncinati. Con te troveranno la morte tutti i tuoi familiari, servitori e schiavi.
Ti consiglio di non opporre resistenza, o la tua fine sarà più dolorosa.»
Dharma alzò gli occhi colmi di terrore su Egon, incontrando i suoi,
freddi e calmi. «Non moriremo, questa sera, Dharma,» disse lui dolcemente, «non preoccuparti.» Poi si rivolse al capitano. «Conosco i miei diritti» esordì con voce squillante. «Sono stato un Guerriero dello Stadio, e
questo mi consente di mutare la sentenza di morte nell’iscrizione volontaria nelle liste dei lottatori.»
Il capitano annuì. Chiunque poteva commutare qualsiasi sentenza nella coscrizione allo Stadio. I lottatori godevano di particolari privilegi, tra
cui l’immunità per i crimini antecedenti.
Egon proseguì. «Questa donna è la mia concubina, ed è una schiava
liberata, quindi ha tutti i diritti di una Cittadina, e non ha nessuna responsabilità nel massacro. La mia servitù è già stata barbaramente uccisa
dalle guardie personali di Elanna deRoane, che hanno rapito questa donna
con l’intenzione di torturarla e ucciderla barbaramente.»
Il capitano delle guardie, meditò sulla situazione. Egon, grazie alla
fama acquisita come lottatore, disponeva di un credito sufficiente per garantire l’approvazione delle sue tesi, almeno in mancanza di un contraddittorio. «Questa Guarnigione approva. La condanna di morte viene mutata nella coscrizione volontaria, perenne e definitiva nelle file dei lottatori
dello stadio. La donna qui presente non verrà giustiziata, ma secondo la
legge, la sua prole seguirà la via della prigionia con il padre. Alla nascita,
il bambino verrà sottratto alla madre e iscritto nelle file dei lottatori, in
coscrizione perenne, e così sarà per tutta la discendenza successiva. Questa donna non dovrà avere alcun altro contatto con quest’uomo, e le sarà
per sempre proibito avvicinarlo o anche solo vederlo. Questo implica
l’obbligo per questa donna di mantenersi alla distanza di almeno un miglio da questo e da qualsiasi altro stadio di qualsiasi altra città del mondo. Il suo volto verrà diffuso ed affisso in ogni stadio, e le guardie di ciascuno stadio avranno potere di vita o di morte su di lei, nel caso in cui
venga trovata all’interno del perimetro. Questo è quanto. Guardie, disarmatelo e portatelo via.»
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Egon, con un gesto imperioso, chiese alle guardie di attendere. Molti
di loro erano stati suoi tifosi, e a molti dispiaceva che, dopo una carriera
luminosa, il famoso Egon Bloodthorne ritornasse sul campo per trovarvi
facilmente una fine prematura, così obbedirono, concedendogli un ultimo
istante con la sua donna.
Dharma aveva gli occhi gonfi di lacrime, ma sapeva che quel verdetto
era quanto di meglio si potesse aspettare, e la prospettiva di non vedere
più il suo uomo e suo figlio sapendoli vivi era meno dolorosa della certezza della morte per entrambi. Diede un ultimo, lungo bacio ad Egon, cercando di conservare nella memoria ogni istante di quel momento così doloroso, ogni sfumatura del sapore delle sue labbra, della forza del suo abbraccio. Quando si separarono, Egon slacciò la cubitiera destra e, con uno
scatto, ne liberò la lama a molla, poi la porse a Dharma. «Taglia le mie
guance,» le disse, «cosicché il porti per sempre sul volto le lacrime che
questa separazione mi costa.»
Senza trattenere le proprie lacrime, Dharma affondò l’affilatissima
lama negli zigomi dell’amato, prima il sinistro e poi il destro, tracciando
due profondi solchi verticali, poi baciò quelle ferite che sanguinavano copiosamente e lasciò che le guardie lo conducessero via. L’unica cosa che
le rimase fu quel guscio di ferro finemente cesellato, celante all’interno
un sofisticato meccanismo per l’estrazione e la reintroduzione rapida della lama, e il sapore del sangue sulle labbra. Le sue lacrime scioglievano le
chiazze di sangue che andavano disseccandosi sulla lama.
Quando Egon si allontanò, due uomini la afferrarono per le braccia,
tenendola ferma. Uno dei due le strappò di mano la cubitiera, gettandola
a terra.
«Donna,» intervene il Capitano, «ora il frutto del tuo corpo è proprietà del Khan e dello Stadio. Verrai marchiata, in modo che chiunque ti veda sappia della tua condanna. Con questo marchio, non potrai lasciare la
città fino al compimento della gravidanza. Il marchio dovrà essere sempre
esposto, e se verrai trovata con il marchio coperto sarai uccisa sul posto.»
Un soldato della guardia si avvicinò con un marchio rovente a forma di fenice dalle ali spiegate. Mentre gli altri due la tenevano immobile, lui affondò il marchio nella pelle scoperta del petto, tra i seni. La carne sfrigolò e fumò, ma Dharma trattenne il grido di dolore che le squassò l’anima.
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«Ti ricordo,» proseguì il capitano, «che la sentenza ha effetto immediato, e che questo luogo si trova entro il perimetro. Tra dieci minuti dovrai essere al di fuori del perimetro, o ti farò inseguire ed uccidere, come
la legge prevede.»
Dharma, riscuotendosi dalla sua disperazione, corse via nella notte
gelida, con un dolore lancinante al petto ed uno ancora peggiore nel profondo dell’anima, mentre intorno a lei cominciavano a cadere i primi
fiocchi della prima neve d’inverno.
Per Egon il tragitto fu breve. Le Guardie del Khan lo condussero attraverso la piazza, poi una di loro bussò al familiare Cancello degli Atleti,
il portone dal quale i lottatori facevano ingresso allo stadio quando tornavano dalle loro trasferte. La piccola porta di accesso pedonale si spalancò
su di un’oscurità impenetrabile, accogliendo il ritorno di Egon Bloodthorne, detto Corvo di Ferro, con un gelido silenzio.
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