venti anni dopo, un bilancio negativo

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venti anni dopo, un bilancio negativo
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Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria
Anno CXXI – N. 3-4 / 2012
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■ CRISI DEI PARTITI E LIQUEFAZIONE DELLA SECONDA REPUBBLICA, CRISI ECONOMICA E SOCIALE, RITORNO DEL TERRORISMO
VENTI ANNI DOPO, UN BILANCIO NEGATIVO
Ugo Finetti
L
a “celebrazione” del Ventennale di Mani Pulite è stata molto dimessa: qualche
rimpatriata, più nostalgica e piagnucolosa che non trionfalistica e bellicosa.
“Les heros sont fatigués” - gli eroi sono stanchi - direbbe Anatole France.
Tutto il popolo “manipulitista”, da destra a sinistra, oggi vede suoi esponenti di primo
piano accusati per tangenti. Il Parlamento è schernito per “i costi della politica” ed umiliato
da un governo interamente extraparlamentare.
Non c’è più Craxi, non c’è più Berlusconi, ma da un lato con il governo Monti non c’è
stato “ribaltone” e dall’altro è diffuso un bilancio molto critico sui risultati e gli assetti politico-istituzionali partoriti dalla “Seconda Repubblica”. Nessuno sa con quale sistema, con
quali partiti e con quali candidati premier si voterà nel prossimo anno ed ipotesi di alternativa
globale o unità nazionale convivono nei vertici dei principali partiti.
Soprattutto sono venute meno molte ipotesi dominanti negli anni novanta che avevano seminato molte certezze che si sono però rivelate del tutto superficiali ed illusorie.
Che senso ha, infatti discutere di “Mani Pulite” prescindendo dalla “casa che brucia”? Che
ci sia un nesso tra il modo in cui è stata abbattuta la “Prima Repubblica” e la crisi attuale
della “Seconda” sembra evidente ed è forse su ciò che converrebbe riflettere.
Non molto convincenti sono stati infatti i tentativi di esibizioni muscolari. Ad esempio: si
getta sul tavolo la tabella degli arresti e condanne. Per l’80 – se non 90 – per cento i giudici
hanno dato ragione ai pubblici ministeri. E allora? È la prova che la Procura di Milano è
stata infallibile. Certamente l’argomento è solido, ma è facile rovesciarlo a favore della tesi
opposta. Una simile percentuale dimostra solo – si può obiettare – che Procura e Tribunale
sono stati un’entità unica. Il principale punto di dissidio è appunto l’accusa secondo cui durante Mani Pulite pm, gip, gup, tribunale e corte d’appello si sono mossi in modo “paramilitare” come un uomo solo. L’identificazione tra Procura e Tribunale era tale che all’epoca i
pubblici ministeri erano comunemente chiamati “giudici”.
L’ex coordinatore del ‘pool’ diventato senatore, Gerardo D’Ambrosio, dichiara: “Tangentopoli è esplosa perché avevamo in mano le registrazioni di Mario Chiesa e quindi lui ha capitolato. Senza di quelle non sarebbe cominciato nulla”. E chi le ha mai viste? Non sono
nemmeno menzionate nei verbali di interrogatorio.
Lasciamo allora stare il Palazzo di Giustizia su cui le opinioni – positive e negative – sono
irreversibilmente cristallizzate e riflettiamo invece su ciò che avvenne al di fuori di esso.
Il punto di partenza è stato il prevalere tra la caduta del Muro di Berlino del 1989 ed il
crollo dell’Urss del 1991 di un diffuso e superficiale ottimismo. Si è pensato che il comunismo si fosse autoriformato e che quindi si dischiudeva un’era di riconciliazione sulla base
di un unico modello di economia e di democrazia secondo uno sviluppo unidirezionale ed
omogeneo. Insomma la cosiddetta “fine della storia”. Le scadenze che si avevano di fronte
– privatizzazioni, moneta unica, allargamento dell’Unione europea – si sarebbero meglio affrontate con meno partiti, meno Stato, meno politica. Certamente il potere politico italiano
non era l’interlocutore malleabile per procedere alle privatizzazioni nel modo con cui sono
state fatte successivamente ed aveva come “tallone d’Achille” l’incapacità di autoriformarsi
nel contesto di un finanziamento dei partiti politici che era sempre stato “parassitario” sin
dalla Resistenza. In particolare Milano, capitale del potere economico privato e del socialismo riformista, dopo averne celebrato il matrimonio ne sancì il divorzio.
Man mano all’inizio degli anni novanta è cresciuto un “austriacante” tumulto di “ombrelli
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■ L’ATTENTATO TERRORISTICO ALLA SCUOLA DI BRINDISI
FAR ESPLODERE IL SUD
PER SPACCARE L’ITALIA
L
e analogie della situazione interna col 1993 (vent’anni fa,
nascendo la seconda repubblica sulle ceneri violentate della prima) sono:
- la liquefazione dei partiti politici. Sorti per
essere “bipolari”, i nuovi partiti sono oggi
accatastati, senza governo e senza maggioranza degli elettori. La teoria del carisma ha
lasciato le istituzioni repubblicane in mano
al notabilato e ha allontanato il popolo dalle
istituzioni rappresentative.
- le elezioni contestuali nel 2013 delle Camere e del nuovo Presidente della Repubblica, che oggi è l’unico caposaldo costituzionale che impedisce all’intero sistema di crollare e ripiegarsi su se stesso soffocando chi
è sotto, come un tendone che si afflosci.
Coincidenze politico-simboliche in un critico quadro economico-istituzionale, danno
una lettura politica e non mafiosa della bomba di Brindisi. La criminalità potrebbe essere
stata strumento, ma non è neppure detto che
questo sia avvenuto. La mafia cerca consenso nel territorio. Sono mani segrete che non
lasciano impronte, probabilmente non italia-
ne. Colpire i giovani meridionali è come gettare un fiammifero nella benzina, sulla sponda europea opposta a quella della primavera
araba.
L’attentato di Brindisi lancia segnali politici
e minaccia la prospettiva di un anno di destabilizzazione e di eccitazione della conflittualità sociale (e della repressione), per creare un clima da guerra civile che inghiotta,
paralizzandolo, uno Stato che i terroristi vogliono sia percepito come “esigente” e “infedele”, non capace cioè di difendere la vita
dei suoi cittadini, ma duro per far tornare i
conti “europei” di una crisi che ha radici nella speculazione finanziaria. La conflittualità
sociale e la liquefazione istituzionale, sembra essere la promessa di Brindisi. Una provocazione che colpisce il punto debole, la
gioventù del Sud, perchè esploda un messaggio internazionale di default italiano, politico
e quindi finanziario, che renda sempre più
affannosa e inutile la rincorsa, con l’austerity, ai “mercati”. I poteri forti hanno necessità
di Stati deboli. s
(s.car)
SOMMARIO
GIULIO TREMONTI
pag. 6
FORMICA E TUTINO
pag. 10
La “nuova fabbrica globale”
Un’analisi della proposta Capaldo
Nella Sala Conferenze della Biblioteca storica
di Critica Sociale, dibattito tra Giulio Tremonti e Oscar Giannino dibattono sulla crisi finanziaria e politica europea.
La chiave per comprendere la natura della crisi è nella sostituzione compiuta con la globalizzazione del reddito prodotto dal lavoro con
il reddito prodotto dalla speculazione finanziaria.
Finanziamento ai partiti. Pellegrino Capaldo
ha depositato in Cassazione una legge di iniziativa popolare che prevede siano i cittadini
a decidere quanti soldi dare ai partiti. In cambio di un vantaggio fiscale. Questo però non
deve superare la parte “volontaria” del contributo destinato al proprio partito.
Pubblichiamo come documento il disegno di
legge sui soldi ai partiti presentato nel 1958
da Don Sturzo.
OSCAR GIANNINO
EBERT STITFUNG (SPD)
pag. 8
pag. 27
Perché la crisi è sfuggita di mano
I socialisti e la crisi europea
La situazione precipita quando il duo francotedesco prende il sopravvento sull’Europa e
decide “i Paesi dell’Unione possono fallire”. La
crisi Greca diventa contagiosa.
Pubblichiamo un ampio studio della fondazione socialdemocratica tedesca per l’analisi
della crisi economica e le proposte per superarla.
CRITICAsociale ■ 3
3-4 / 2012
Segue da pagina 1
di seta” di manzoniana memoria. “Grisaglie e
doppiopetti al banco dei referendum” titolava
Repubblica per raccontare la raccolta di firme
per il referendum Segni presso il Palazzo dell’Assolombarda. Era il 10 novembre 1991. Nelle settimane precedenti, il 2 ottobre, l’anatema
più solenne era stato pronunciato a nove colonne sul Corriere della Sera dall’Arcivescovo
Carlo Maria Martini che denunciava “affarismo
corruzione e tangenti” e paragonava Milano alla
biblica Ninive. E il 15 novembre Achille Occhetto veniva a Milano per rompere l’alleanza
tra socialisti e comunisti nata nel 1975. Le gabbie erano quindi già aperte e il fuoco
già acceso quando in Procura si aprì il fascicolo. A guidare la piazza, come “truppe di terra”, furono comunisti, missini e leghisti.
La criminalizzazione fu generalizzata e la
condanna immediata. Quel che a distanza impressiona non è tanto l’attacco indiscriminato
ai leader politici, ma l’aggressione che ha visto
come vittime chi non era sfiorato da alcun sospetto giudiziario. Vi è stata soprattutto a Milano e in Lombardia l’aggressione indiscriminata – quasi razzista – verso comunità non solo socialiste oggetto di scherno e discriminazione nei luoghi di lavoro, di studio, di vita sociale. Persone di assoluta probità, mai lontanamente oggetto di alcun risvolto giudiziario,
furono costrette a cambiare residenza o a perdere il lavoro. Ragazzini improvvisamente
emarginati e insultati e cerimonie religiose, come i funerali, oltraggiate.
In quella stagione molte cosiddette autorità
morali milanesi hanno perso l’“innocenza”
rendendosi parte attiva di un clima di persecuzione verso persone oneste, più deboli e disarmate e coltivando l’odio come categoria salvifica e purificatrice. Fu il trionfo della “questione morale” inventata da Enrico Berlinguer
“seduto” sui fondi neri illegalmente raccolti
dall’“amministrazione straordinaria” del Pci.
Mani Pulite ne seguì le orme.
Impressiona oggi la riflessione che svolse
nel maggio 1994 il comunista Carlo Galluzzi
(come responsabile esteri del Pci nel 1968 fu
colui che nel vertice del Partito maggiormente
si espose nella polemica con il Pcus dopo l’invasione della Cecoslovacchia e fu dirigente
nazionale e parlamentare italiano ed europeo
del Pci dal 1963 al 1989). Nel suo libro Il Paese dei Gattopardi stabilisce una inquietante
analogia: da un lato osserva che l’intervista
“moralizzatrice” di Berlinguer del 1981 “sembra la copia di una requisitoria del pubblico
ministero Antonio Di Pietro” e dall’altro rileva
come “Berlinguer facesse proprie le analisi dei
terroristi”. Il riferimento ai testi brigatisti è
certamente esagerato, ma è indubbio un cocktail di “sessantottismo” e di “giustizialismo”.
Nel segno della “questione morale” e poi di
Mani Pulite i comunisti passavano nel campo
degli “ombrelli di seta” e da allora è maturato
a Milano e poi in Italia un bipolarismo anomalo: pezzi significativi e rilevanti di destra nella
sinistra e di sinistra nella destra. Dalla Milano
di Mani pulite è nata una dialettica abortiva che
vede protagonisti, secondo un comune passato
di dominazione “spagnola”, una destra “bonapartista” ed una sinistra “austriacante”.
Oggi ci troviamo così nel quadro di una crisi
internazionale ad essere però gli unici a vedere
il Parlamento farsi guidare da un governo extraparlamentare. Il cosiddetto “deficit di democrazia” è conseguenza di una scelta non solo giudiziaria, ma culturale – della principale
intellettualità – e popolare, di aver costruito
l’avvenire accettando come base passata, come uniche tradizioni “pulite” dell’Italia repubblicana, quelle comunista e neofascista. Su questa base si è edificato su sabbie mobili
– e cioè avendo come categorie centrali l’odio
ed il falso – un bipolarismo che ha visto i leader
di entrambi i campi continuare a cambiare regole elettorali e nome di partito, ma sempre ostaggi
delle componenti estremiste che hanno come
“nuovista” Altare della Patria Mani Pulite.
I MAGISTRATI
“I
l giudice per privare un uomo innocente di
tutti i suoi diritti civili e condannarlo ai lavori
forzati, ha bisogno di una cosa sola: di tempo”:
così Anton Cechov nella Russia del 1892. Il
“volto demoniaco” del potere giudiziario nel
sistema totalitario ha un suo orrore specifico,
ma non circoscrivibile alle dittature. E’ però
da chiedersi come una mentalità reazionaria o comunque arbitraria e repressiva - sia potuta
entrare in modo organico nella cultura di un
movimento di sinistra, di emancipazione delle
classi subalterne, come quello comunista ed in
particolare come abbia potuto radicarsi e svilupparsi persino nel comunismo all’opposizione in un paese democratico.
Il punto di partenza è che la via comunista
al totalitarismo si basa sulla tesi che la libertà
è un bene che può essere sospeso, messo tra
parentesi e sacrificato. Prevale su di essa il primato della giustizia sociale. E’ così che nasce
la teoria della “dittatura del proletariato”. E’
nel quadro di questa cultura che quindi innalza
il Partito come motore della Storia e del Progresso e sacrifica la persona umana che il comunismo si trasforma in una “macchina da
guerra” che vive in una continua caccia al nemico, al sabotatore, al soggetto inutile e dannoso per la collettività. Il magistrato-inquisitore diventa (e si sente) protagonista della cultura comunista che criminalizza l’avversario e
disprezza la libertà.
Certamente l’uso politico della magistratura
da parte comunista in un quadro di regime democratico occidentale si pone in modo radicalmente diverso da quel che è avvenuto nei
regimi di dittatura comunista.
Ma le premesse culturali risalgono a questa
considerazione della libertà come bene sacrificabile in nome della conquista di sempre
maggior potere in un paese capitalista.
Di ciò è concreta espressione la “scelta di
vita” che compie ogni comunista nel momento
in cui iscrivendosi accetta di sacrificare la propria libertà personale mettendosi a disposizione di un potere superiore insindacabile e che
ha sempre ragione – il vertice del Partito – impegnandosi a subire il regime del “centralismo
democratico”, prefigurazione della “dittatura
del proletariato” nella società socialista.
La diversità dell’uso politico della magistratura da parte comunista in un paese democratico rispetto a quello in cui i comunisti sono al
governo è che in Italia il movimento nasce “dal
basso” e come “contropotere”. Come si coniu-
■ DOPO IL VOTO DEL 6 E 7 MAGGIO
IL FRULLATO DEI PARTITI
NEL 2013 PARLAMENTO SENZA MAGGIORANZA?
L’
Rino Formica
alternativa di società divise nel ‘900 la destra e la sinistra europea. Il punto
di equilibrio fu il compromesso socialdemocratico. La destra era dedita alla
accumulazione tra diseguali, la sinistra si impegnava sulla distribuzione per
correggere le diseguaglianze. Tutto ciò avveniva nell’ambito dello Stato nazionale.
Destra e sinistra convergevano nel reperire i margini di riformismo insufficienti in due
modi: trasferendo parte del peso o alle nuove generazioni (debito pubblico) o ai Paesi più deboli (prezzi delle materie prime, manovre monetarie).
Oggi, i due schieramenti che per comodità di espressione continuiamo a chiamare destra
e sinistra, si devono misurare sul terreno di una alternativa di equità e non su visioni diverse
di società per definire il peso del sacrificio nazionale nel quadro di un equilibrio globale.
Non tutti i sistemi politici nazionali sono omogenei.
Anzi i sistemi politici, che dopo la seconda guerra mondiale hanno esaltato la loro specificità o la loro diversità, sono i più penalizzati, mentre i sistemi politici più simili fronteggiano
meglio le difficoltà per uscire dalla crisi sovranazionale.
Le elezioni di domenica ci hanno offerto tre test. Germania e Francia hanno sistemi politici
fondati su concezioni e regole dell’alternativa di società ed hanno resistito bene: la Francia
trova una guida socialista, la Germania conferma a denti stretti una guida conservatrice.
La Grecia, paese diverso nell’affrontare il tema dell’alternativa di società, si è incagliata
nella crisi globale a seguito dell’uso smodato delle astuzie levantine. Il voto della Grecia si è
frantumato e segnala più disastri: inconsistenza dei grandi partiti-guida e nascita di partiti reazionari ed anti-sistema.
L’Italia nel ‘900 ha coltivato l’illusione delle diversità, ed ha piegato l’alternativa di società
alla logica della organicità della società (compromesso storico). Quella diversità ( soluzione
unitaria del conflitto) è stata applicata all’attuale fase della crisi globale con la soluzione del
governo dei tecnici (il governo diverso di Berlinguer).
Oggi l’Italia è più vicina alla soluzione politica greca (frantumazione del sistema politico)
che a quella tedesca o francese (passaggio dall’alternativa di società all’alternativa delle soluzioni della crisi sovranazionale).
In Italia il deficit di alternativa ha travolto i partiti di governo della I° Repubblica ed ora
travolgerà la cosiddetta II° Repubblica dopo l’illusoria soluzione tecnico-burocratico-consociativo.
Il voto amministrativo ci dice che la somma dei voti di ABC è inferiore al 50% del paese
reale. La prospettiva politica greca è vicina. Non saranno le tecnicalità elettorali a salvare il
PDL imploso, il PD in declino, il 3° polo evaporato.
Presto si capirà quanto devastante sia stato l’errore di non aver consultato il popolo durante
la grande crisi di sistema esplosa tra l’estate e l’autunno del 2011. s
ga in questo caso l’aspetto reazionario della repressione illiberale con l’essere di sinistra e
all’opposizione? Facendo leva su un elemento,
appunto “demoniaco”, sempre incombente nella figura del magistrato. Leggiamo ancora la
letteratura russa all’epoca degli zar. Il giudice
“di sinistra”, contro i potenti è ben descritto da
Tolstoj nel 1845: “Come giudice istruttore,
Ivan Il’ic sentiva che tutti, ma proprio tutti,
senza eccezione, i più superbi, gli altezzosi, tutti erano in mano sua, e che gli bastava scrivere
un paio di paroline ben note su un foglio di carta intestata per vedersi recapitare questa gente
superba e altezzosa, in qualità di accusato o di
testimone, costretta a starsene in piedi davanti
a lui a rispondere alle sue domande, se non gli
saltava in testa di metterla al fresco”.
In concreto l’uso comunista della magistratura è ben ritratto in testi come la relazione tenuta da Luciano Violante il 17 ottobre 1983 alla II Commissione del Comitato Centrale del
Pci, quella appunto dedicata all’attività giudiziaria, presieduta all’epoca da Pietro Ingrao.
Ad essa partecipava un certo Caselli ringraziato da Ingrao tra “i 27 compagni intervenuti”.
Siamo sull’onda delle indagini contro il terrorismo che volgono al termine, quando Enrico
Berlinguer ritiene che si possa ora passare dall’attacco giudiziario sulla propria sinistra ai
terroristi a quello sulla propria destra contro i
partiti avversari: dalla “fermezza” alla “questione morale” promettendo ai magistrati gratificazione sociale e impunità.
“Per la prima volta – afferma Violante riferendosi all’impegno militante sviluppatosi negli anni precedenti – i magistrati sono entrati
con i poliziotti sui luoghi di lavoro, in fabbrica, a discutere del terrorismo, delle libertà minacciate, delle riforme istituzionali e politiche
per le quali era necessario battersi. Lo Stato –
proseguiva Violante – mostra, forse per la prima volta, una faccia diversa da quella che purtroppo la classe operaia nella sua storia era
abituata a vedere”. E quindi il leader della politica giudiziaria comunista può concludere:
“Sulla base di queste esperienze è maturata
una concezione nuova del proprio ruolo, sono
emersi coraggi individuali e collettivi, capacità
professionali di altissimo livello, si sono manifestate grandi lealtà costituzionali”.
Questa “faccia diversa dello Stato”, questa
emersione di “coraggi individuali e collettivi”,
questa apologia dell’ingresso dei “magistrati
con i poliziotti” a parlare di riforme istituzionali e politiche sui luoghi di lavoro celebra una
“presa del potere” particolarmente illuminante
su questioni essenziali.
La prima breccia si apre nel momento in cui
– in nome dell’emergenza –si introduce nell’azione giudiziaria la categoria di “lotta”.
“Lotta” significa che la magistratura viene militarizzata e che come corpo paramilitare deve
muoversi in modo solidale. Quelli che sono
considerati controlli e verifiche saltano. Come
ebbe a sbottare un magistrato di fronte a contestazioni “garantiste”: “Quando lo Stato prende impegni, bisogna mantenerli”. E cioè? Se
un alto ufficiale dei carabinieri ha trattato con
un pentito, poi – logicamente – pm, giudice
istruttore, tribunale e corte d’appello devono
“timbrare”, ratificare, come un uomo solo
quanto pattuito. Lo spiraglio totalitario in una
democrazia occidentale è rappresentato dall’instaurazione a livello giudiziario di un sistema di “catena di montaggio”. E’ in questo clima che il Pci come protagonista del “partito
della fermezza” è cresciuto nella magistratura
promettendo alla categoria una visibilità sociale – gratificazione e assenza di controlli in un quadro illiberale. Anche nel contrastare
il “terrorismo rosso”, il Pci è riuscito a conseguire il suo principale obiettivo,
Il successo dell’azione comunista nella ma-
4 ■ CRITICAsociale
gistratura italiana è stato infatti coronato dall’essere riuscito nel corso degli ultimi decenni
della “guerra fredda” a spostare l’attenzione
delle indagini giudiziarie tutte sul “fronte occidentale”. La “guerra fredda” in Italia dal
punto di vista degli atti giudiziari vede l’inesistenza di pericoli sul “fronte orientale”. La
storia della “guerra fredda” in Italia secondo
la letteratura giudiziaria (confortata dai principali storici, umoristi, romanzieri e cineasti)
è diventata una storia di attacchi al nostro paese tutti provenienti dagli americani e dai filoamericani con il Pci che sembra l’unico partito
che abbia difeso la democrazia occidentale.
L’Unione Sovietica e i paesi dell’est non sembrano aver in alcun modo partecipato alla
“guerra fredda” in Italia sia dal punto di vista
dei manuali di storia sia dal punto di vista della
rilevanza penale: nessuna spia, nessun attentato, nessuna illegalità. L’Urss e i suoi “satelliti” per storici, scrittori, grandi giornali e magistrati risultano essere per l’Italia entità pacifiche e pacifiste. “Nulla di nuovo sul fronte
orientale”: la mafia è conseguenza dello sbarco americano, il terrorismo dell’adesione alla
Nato, la corruzione dell’estromissione del Pci
dal governo.
E’ così che si determina lo scenario del crollo della Prima Repubblica dove sullo sfondo
della “Fine della Storia” che assicura un mondo spoliticizzato, la “guerra fredda” in Italia si
conclude con la messa sotto accusa del “campo occidentale” e la messa sull’altare del comunismo come “altro” sia dai partiti italiani
sia dai partiti comunisti dell’Est.
Il crollo del comunismo nel mondo determinerà quindi l’esplodere anche del Pci in diverse
direzioni: dai neocomunisti ai neo liberali e socialisti riformisti. Nella magistratura il postcomunismo si traduce nel prevalere della vena
reazionaria della ideologia comunista sotto forma di giustizialismo. E’ così che i magistrati
marxisti in Italia sono mandati in soffitta, ma
per ridiscenderne con la maschera polverosa e
rattoppata dell’ex Partito d’Azione. E’ un azionismo giustizialista che in nome della “società
civile” delegittima la costruzione democratica
dal dopoguerra in poi come “tradimento” della
Resistenza e della Costituzione. In un’Italia in
cui la maggior parte dell’elettorato - orfano del
pentapartito criminalizzato e sciolto - confluisce
nel centro-destra, l’azionismo giustizialista reagisce inventando un’entità autoreferenziale capace di mettere sotto accusa le maggioranze
parlamentari: inventa il “Partito della Costituzione” che impallina “il principio maggioritario”. Il “Partito della Costituzione” in nome della difesa della Costituzione predica la sospensione delle garanzie costituzionali e disegna una
costellazione di “contropoteri” – novelle “casematte” di gramsciana memoria - che ridimensioni i risultati elettorali dato che quando il popolo non vota a sinistra significa che è manipolato e pericoloso ed è necessario un intervento
di surroga attraverso, appunto, la magistratura.
Leggiamo uno dei più rappresentativi esponenti di questo neoazionismo giustizialista, l’ex
presidente della Corte costituzionale Gustavo
Zagrebelsky. Se chi ha vinto le elezioni non è
espressione del “partito della Costituzione”, occorre svolgere – egli scrive - una “funzione anti
maggioritaria”. La giustizia costituzionale, secondo il giudice di sinistra, “protegge la Repubblica” e quindi “limita la democrazia”(sic) in
quanto se gli italiani hanno votato in modo sbagliato, il magistrato, a partire dalla Corte Costituzionale, “limita, per così dire, la quantità della
democrazia per preservarne la qualità”.
Questa ultima forma di “Partito della Costituzione” si delinea come quel “ritorno a Rousseau” da cui Luigi Einaudi in una sua “predica
inutile” metteva in guardia e cioè il prevalere
demagogico e antidemocratico dell’idea se-
3-4 / 2012
condo cui “l’uomo è veramente libero solo se
si sottomette a quella volontà generale che egli
non ha voluto, ma ha semplicemente riconosciuto perché illuminato da coloro che sanno”.
L’azione giudiziaria è quindi usata come
fonte di legittimazione alternativa rispetto a
quella che viene direttamente dal popolo. Questo azionismo giustizialista - di “quelli che
sanno” - è alla base di un clima di contrapposizione e di divisione che non solo non ha pari
in altro paese occidentale, ma che l’Italia non
aveva mai conosciuto in forme così acute e devastanti nemmeno durante la “guerra fredda”.
I COMUNISTI
“Ci sono allusioni a compagni che passerebbero per ladri consentendo così ad altri di passare per puri. La verità è che, nell’insieme, si
è consentito al partito di vivere!”. Dove siamo? Perché si alza la voce sui soldi al partito?
Non è una riunione ristretta in casa socialista
o democristiana ‘al tempo del Caf’. Siamo nella sala della Direzione del Pci del 3 giugno
1974 (v. Archivio Fondazione Istituto Gramsci, APC 077, 750/776). Chi secondo “Mani
Pulite” è stato il “dominus” del sistema delle
tangenti in Italia, Bettino Craxi, non era ancora
“nato” (era all’epoca in minoranza nel Psi) ed
il vertice del Partito che, sempre secondo “Mani Pulite”, è stato estraneo alle tangenti in realtà, sin da vent’anni prima del 1992, era già
parte integrante di quel sistema con il 67, 7 per
cento delle entrate derivanti dalla cosiddetta
“amministrazione straordinaria”: “Molte entrate straordinarie – si legge nei verbali - derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare
certe cose. In questi passaggi qualcuno rimane
con le mani sporche” (v. discussione sul bilancio 1972 in APC 041, 1° trimestre-1° volume).
Quando anni dopo una delle più austere figure
del comunismo italiano venne a mancare aveva
in casa, in un cassetto, duecento milioni di lire
in contanti. La provenienza venne attribuita ai
diritti d’autore versatigli da una casa editrice.
Né va dimenticato che quando l’inviato di
Enrico Berlinguer comunicò al presidente del
Partito, Luigi Longo, che la segreteria del Pci
aveva deciso di fare a meno dei soldi del Pcus,
l’anziano leader commentò con due sole parole: “Fate bene”. Non aveva dubbi sulle fonti
alternative da cui il Pci poteva trarre alimento
in territorio italiano.
A Mosca Boris Ponomariov , che si occupava
del fondo di “solidarietà internazionale” del
Pcus, nell’apprendere che il Pci rinunciava ai finanziamenti sovietici si mise a ridere e accompagnando alla porta l’emissario di Berlinguer
aggiunse che sapeva bene che i comunisti italiani “potevano sentirsi tranquilli” grazie alla “quota proveniente dal contratto sul gas naturale”.
A sua volta l’ex segretario del Pci, Alessandro Natta, di fronte agli arresti di “Mani pulite” esclamava: “Hanno permesso che persone
integerrime finissero in prigione. Li hanno accusati di cose che se erano state commesse non
era comunque certo per colpa loro. Anche io
ho dato, nel tempo degli ordini. Forse, tra
quella gente finita in prigione, potrebbe anche
esserci qualcuno che avrebbe potuto prendere
ordini da me”.
Vedere il Pci al di fuori del sistema delle tangenti della Prima Repubblica è una tesi ampiamente smentita dalla documentazione storica a
cominciare dagli stessi archivi degli organismi
e dei dirigenti del Pci. Ma sarebbe anche sbagliato non vederne la specificità e soprattutto banalizzare questo fatto in termini scandalistici.
Il punto di partenza è una valutazione complessiva delle “vite parallele” – evitando lo
stereotipo unilaterale di un ossessivo “duello
a sinistra” – del Psi e del Pci, di Craxi e Berlinguer. La sinistra italiana è diventata una sinistra di governo credibile in campo nazionale
ed internazionale grazie a Craxi e a Berlinguer.
E in questo l’uno ha avuto bisogno dell’altro.
E’ con Craxi e Berlinguer che Psi e Pci sono
diventati interlocutori affidabili e soggetti politici credibili in un’economia di mercato e
nella comunità occidentale.
Per raggiungere tale risultato è stata per entrambi decisiva l’arma della autonomia finanziaria, un’autonomia finanziaria che ha consentito ai socialisti con Craxi di non essere subalterni alla Dc ed ai comunisti con Berlinguer
di non essere subalterni al Pcus. Ed entrambi
lo hanno fatto nell’unica direzione all’epoca
possibile.
Si tratta di un tema che anche a livello di
storici è stato troppo spesso trattato come letteratura poliziesca o di genere pornografico.
Ne è un esempio lo storico Guido Crainz a cui
pur si deve la prima indicazione di verbali della Direzione del Pci in cui si parla esplicitamente di tangenti. Ma anche questo autorevole
storico di sinistra rimane a livello “pornografico” e quindi di fronte a ciò che considera una
“oscenità” distorce la verità, utilizza cioè alcune citazioni omettendo i fatti più rilevanti,
al fine di sostenere la tesi di una “criminalizzazione” della cosiddetta “destra” comunista
“salvando” invece Berlinguer: “Segnali espliciti di pericolo – scrive commentando un intervento milanese - vengono dalle aree in cui
il partito risulterà poi coinvolto dalle indagini
di Mani Pulite”.
Ma dal complesso della documentazione
presso la Fondazione dell’Istituto Gramsci
emerge esattamente l’opposto. Per prima cosa
colpisce il fatto che (v. APC 041 pag. 419) proprio Enrico Berlinguer, armeggia per non essere presente quando si discute il bilancio del
partito imponendo l’inversione dei punti all’ordine del giorno e rinviando così l’argomento ad una seduta che si svolge la mattina dopo
non alle Botteghe Oscure (dove egli rimane),
ma presso il gruppo parlamentare con una generale diserzione (solo 22 presenti rispetto ai
32 iniziali). La “destra” non è sotto accusa,
ma, al contrario, all’attacco con Giorgio
Amendola che interviene per primo sottolineando la non veridicità del bilancio ed il peso
sproporzionato delle “entrate straordinarie”.
Dai verbali vediamo emergere soprattutto come fenomeno “malsano” il fatto che tutta la
stampa filocomunista (dal quotidiano siciliano
“Le Ore” al settimanale “Vie Nuove”) è sostenuta con “entrate straordinarie” non dichiarate
nel bilancio (un miliardo solo per “Paese Sera”) e che quando, dopo la legge del ’74, si dovranno mettere fuori bilancio le “entrate straordinarie” le regioni con “problemi” – preciserà Cossutta – sono l’Emilia e la Toscana.
Ma se si esce dalla lettura poliziesco-pornografica vediamo come i dibattiti della Direzione del Pci sui soldi e le entrate “malsane” disegnano qualcosa di ben più serio, da seguire
e ricostruire in modo attento e rispettoso: la
storia della progressiva emancipazione del Pci
dai finanziamenti sovietici. Un itinerario che
coincide con la stessa ascesa di Berlinguer al
vertice del Partito sin da quando all’indomani
dell’aver espresso nell’agosto 1968 “riprovazione” per l’invasione della Cecoslovacchia il
Pci subisce una pesante ritorsione sovietica sul
piano finanziario. Lo stesso Longo è quindi
costretto ad inviare in ottobre Armando Cossutta, che si occupa dell’amministrazione del
Pci, a ricucire il rapporto con i cassieri del
Pcus incontrando Suslov e Ponomariov.
Ma proprio l’umiliazione della rappresaglia
finanziaria spinge Longo e Berlinguer a cercare progressivamente fonti alternative: non
per una rottura radicale con i sovietici, ma per
avere autonomia e autorevolezza in seno alla
stessa comunità comunista.
Dopo l’approvazione nel 1974 della legge
sul finanziamento pubblico Berlinguer riunisce quindi la Direzione del Partito insieme ai
segretari regionali per concertare come far
uscire dai bilanci del partito, a livello nazionale e locale, la voce “entrate straordinarie”
(APC 077, IV vol., III trimestre 1974).
L’”amministrazione straordinaria” del Pci
continua però illegalmente coinvolgendo Berlinguer in prima persona. La rendicontazione
dei “fondi neri” veniva fatta da chi li gestiva a
quattr’occhi con Berlinguer e riassunta in un
foglietto che poi il leader del Pci immediatamente stracciava. Nel corso degli anni in cui
il Pci è nella maggioranza che sostiene i governi Andreotti la “riserva” illegale di Berlinguer raddoppia passando dai 4 miliardi del
1975 ai 7 miliardi e 912 milioni di lire alla fine
dell’esercizio 1978 per poi raggiungere gli 8
miliardi e mezzo nel 1979.
Nel valutare il ricorso a tangenti e comunque
a finanziamenti illegali da parte comunista bisogna quindi aver presente due dati storici: la
ricerca di maggiore autonomia dal Pcus ed il regime interno del “centralismo democratico” che
ha comunque contenuto maggiormente, rispetto
a Psi e Dc travagliati da correnti e preferenze, i
casi di arricchimento e corruzione personale.
Quando esplode lo scandalo di Parma che nel
’75 coinvolge direttamente il Pci, Berlinguer si
difende appunto sostenendo questa tesi: “Occorre ammettere – afferma nella riunione convocata d’urgenza della segreteria nazionale che ci distinguiamo dagli altri partiti non perché
non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili,
ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto”.
Riconosciuto che il “centralismo democratico” è stato un ammortizzatore, va anche rilevato però come esso sia andato negli anni
smorzandosi: al momento dell’esplodere di
“Mani Pulite” a filosofeggiare di “amministrazione straordinaria” nella dirigenza comunista
si contavano almeno tre “correnti di pensiero”.
Va poi tenuto presente che persone integerrime a occuparsi di “amministrazione straordinaria” vi erano anche nella Dc e nel Psi – da
Severino Citarristi a Sergio Moroni – così come, d’altra parte, anche nel Pci non mancavano casi di approfittamento personale. Il “boss”
della stampa comunista, ad esempio, in seno
alla stessa segreteria del Partito era considerato “un faccendiere intrigante”, “un po’ imbroglione e soprattutto arruffone”. Ma, nonostante
ciò, fu inamovibile.
Il finanziamento illecito ai partiti fino al
1992 - a vicenda giudiziaria ormai conclusa e
lontana - dovrebbe quindi essere affrontato in
modo non concitato, con semplificazioni strumentali e manipolando la verità, ma attraverso
una più obiettiva disamina.
Conosciamo tutto circa l’avvicendamento
delle responsabilità in materia in seno al Psi e
alla Dc, ma per il Pci siamo ancora fermi al
1979 e si è addossata al “tesoriere” di turno
quella che è invece sempre stata la responsabilità di una figura di primo piano nel vertice del
Partito. Sappiamo infatti che in seno alla segreteria del Pci la “sovrintendenza” dell’amministrazione fu inizialmente di Pietro Secchia dal
dopoguerra fino al 1954, poi di Luigi Longo fino al 1966, quindi di Armando Cossutta fino al
1975 quando lo sostituì Gianni Cervetti. In questi ultimi anni sia Armando Cossutta sia Gianni
Cervetti con esemplare onestà hanno dato importanti contributi di verità. Purtroppo nessuno
dei dirigenti del Pci-Pds-Ds ha avuto finora il
coraggio di dire chi di loro si sia occupato dei
soldi del Pci tra il 1979 ed il 1991. s
Ugo Finetti
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6 ■ CRITICAsociale
3-4 / 2012
■ NELLA SALA CONFERENZE DELLA BIBLIOTECA STORICA DI CRITICA SOCIALE, DIBATTITO SULL’EUROPA TRA GIULIO TREMONTI E OSCAR GIANNINO
LA “NUOVA FABBRICA GLOBALE” HA SOSTITUTO
REDDITO DA LAVORO CON DEBITI FINANZIARI
I
Giulio Tremonti
o ho pensato di dividere il mio
intervento in due parti, nella prima vorrei parlare del libro e nella
seconda vorrei parlare di altro.
Il libro non contiene la parola Italia ma è un
espediente letterario che col passare del tempo
cede. In fondo ho scritto il libro nel dicembre
dell’anno scorso, allora l’epicentro era sulla
Grecia, ex post mi sembra di avere utilizzato
l’espediente delle lettere persiane per cui i parla della Persia per non parlare della Francia.
Il libro. Il libro è stato detto e ringrazio per
le presentazioni non è una tantum, è l’ultimo
di una serie di libri che vanno indietro. Se devo dire il primo quello a cui sono più legato è
del principio degli anni ’90 ed è intitolato “Nazioni senza ricchezza e ricchezza senza Nazioni”. Mi pare di capire che la realtà presente
non sia molto diversa da quella prefigurata e
traguardata allora. Poi il fantasma della povertà quando si pensava che la globalizzazione
fosse solo positiva e non anche negativa e poi
gli altri libri.
Questo è un libro che tenta di mettere insieme materiali diversi: materiali economici, giuridici, tecnici, politici, materiali di vita vissuta
nella logica di scrivere una rappresentazione
generale di quello che è successo negli ultimi
cinque anni, gli anni della crisi, dal 2007-2008
a oggi. Il libro per quanto mi risulta è ancora
in questi termini abbastanza unico. Esistono biblioteche specifiche sui rischi, sul suprime, su
alcuni aspetti della crisi, ma non mi risulta che
ci sia una rappresentazione complessiva della
crisi, può essere che questa del libro sia sbagliata ma alla cifra dello scenario complessivo.
Perché credo che sia importante lo scenario
complessivo? Perché non si capisce quello che
succede in Italia o in Europa se non si capisce
quello che è successo e succede nel resto del
mondo. C’è un meccanismo che procede dal
generale al particolare: è sbagliato pensare che
sia il particolare che spiega il generale. Puoi
fare delle polemiche, puoi fare degli interventi
dialettici più o meno efficaci ma se non capisci
il generale non capisci il passaggio verso il
particolare, se non capisci il globale l’Europa
non capisce l’Italia.
Naturalmente le chiavi di interpretazione
possono essere diverse, non è che questa mia
in assoluto per definizione è quella giusta ma
credo che il metodo sia quello giusto.
Sono stati i venti anni che hanno cambiato
la struttura e la velocità del mondo. Credo che
mai nella storia nota dell’umanità un cambiamento così intenso è avvenuto in un tempo così breve ed è una rivoluzione nel senso della
rotazione dei paradigmi che si muove sui tre
motori che sono stati citati.
Una nuova geografia. Caduto il Muro di
Berlino nel novembre a Marrakesh in Marocco
viene definito un nuovo ordine mondiale, una
nuova geografia piana mercantile. Tanto il
vecchio mondo era diviso in base a categorie
politiche, così il nuovo mondo sarà unificato
da un unico codice di commercio e di scambio
libero e globale. Diciamo che la scoperta di
questa visione e la definizione di questa visione è il Wto Trade che è un grande Trattato politico non solo commerciale e non solo mercantile che porta all’apertura della globalizzazione. Il Wto Trade del 1995 l’Asia entra nella
globalizzazione la crisi inizia nel 2007 e oggi.
Diciamo il primo grande fatto, la scoperta
geografica dell’Asia. La scoperta geografica
in America ha prodotto effetti rivoluzionari ma
la cascata dei fenomeni è lunga due secoli; la
scoperta economica dell’Asia, la rotazione
dell’asse dall’Atlantico al Pacifico ha impiegato pochi anni e sono anni che hanno cambiato la struttura e la vita di tutti noi.
Quella è stata una grande scelta politica. Io
credo che la scelta di forzare i tempi della globalizzazione sia stata una scelta forzata, hanno
preso la storia e l’hanno fatta esplodere ma
quella fu una grande scelta politica ispirata da
criteri di evangelizzazione del mondo e in base
ai criteri del mercato, ma anche una scelta fortemente dominata da interessi e da specifiche
convenienze multinazionali. Quella fu l’ultima
delle grandi scelte politiche poi la politica è
scomparsa, ha aperto il vaso di Pandora ne sono uscite forze che hanno dominato in progressione la politica.
La seconda meccanica, il secondo motore è
la nuova tecnologia. La rete è la patria della
nuova ricchezza. Capitalismo deriva da caput,
caput è capo di bestiame e sulle vecchie monete l’effige del caput è la misura della ricchezza che è fisica. Per secoli la ricchezza è
stata rappresentata da quanto acciaio avevi,
quanto carbone avevi, quanto petrolio avevi e
quanto di cose fisiche avevi. La rivoluzione sta
nel fatto che coi computer sulla rete in un nuovo mondo globale tu la ricchezza non la fai circolare. Non la crei e la fai circolare, la crei e
si avvera la profezia dell’uomo creatore.
C’è un grande banchiere americano che da-
■ L’ AVANTI! E LA CRITICA NELLA NUOVA SEDE
A
MILANO
AL TEATRO DEL BORGO IN BRERA
BIBLIOTECA, ARCHIVI, CONFERENZE, GALLERIE
N
Pastone
ella nuova sede della Biblioteca Storica di Critica Sociale e dell’Avanti!, nel
“Teatro del Borgo in Brera” a Milano, Giulio Tremonti ed Oscar Giannino
hanno dibattuto su “L’Europa nella crisi economica - Riforme o declino” in
occasione della presentazione del libro “Uscita di Sicurezza”.
La manifestazione, promossa in collaborazione con il Centro Studi Grande Milano, è
stata introdotta da Ugo Finetti, direttore della Critica e da Daniela Mainini, presidente del
Centro Studi. Fitta la presenza di operatori delle imprese e delle professioni, del mondo dell’economia e del lavoro. Presenti, tra gli altri, i sindaci socialisti di Milano, Carlo Tognoli,
Paolo Pillitteri, Piero Borghini e il direttore del Nuovo Avanti! Rino Formica.
“Grazie a Giulio Tremonti, che ha accolto l’invito di Critica Sociale a partecipare a un
evento importante, soprattutto nell’ambito dei 120 anni della testata socialista”. ha esordito
Ugo Finetti, che ha proseguito con un’analisi dell’attuale situazione italiana ed europea. “In
tempi di governo tecnico, viviamo una surreale auto-sospensione del Parlamento, dove i partiti
pensano soltanto a una ricostruzione di vecchie coalizioni senza fare autocritica su ciò che
non ha funzionato; da una parte, il prevalere di una lettura classista dei problemi della società
italiana e, dall’altra, un agitare fantomatico del cosiddetto spirito del ’94. “
Davanti alla paralisi delle politica, la lettura della crisi economica proposta da Tremonti
in Uscita di sicurezza declina il difficile momento italiano in un contesto internazionale instabile, dove le inefficienze degli Stati si intrecciano con il profondo declino dell’Unione Europea.
“Questa Europa senza radici e senza identità sembra scordarsi da dove viene e rischia
pertanto di non sapere dove andare, ammoniscono le pagine di Tremonti, che richiamano opportunamente la stagione di Jacques Delors alla Commissione Europea e il suo programma
di crescita, sviluppo e competitività. Una strada ora smarrita, che rende quanto mai necessario
non solo rifare l’Italia – dal titolo di un celebre intervento di Filippo Turati nell’ottantesimo
anno della scomparsa – ma rifare l’Unione Europea nel suo complesso. Nel libro, le proposte
non mancano, a cominciare dalla revisione dei Trattati”.
Per Daniela Mainini è ora “interessante ripercorrere le tappe del pensiero di Tremonti attraverso le sue precedenti pubblicazioni. Ne Il fantasma della povertà (1995) si osservava con
preoccupazione come l’Europa (che viveva all’epoca un periodo di relativa prosperità) esportasse ricchezza e importasse povertà, suggerendo i rischi intrinseci del processo di globalizzazione in corso. Ne La paura e la speranza (2008), davanti all’aumento della disoccupazione,
alla svalutazione dei salari e all’inizio della crisi finanziaria globale, si auspicava che l’economia venisse ricondotta sui binari della morale e dei principi. Ora - sostiene Daniela Mainini in Uscita di sicurezza, a fronte della speculazione che ha cancellato il ruolo della politica sovradimensionando il ruolo della finanza, Tremonti spiega come la conseguenza di venticinque
anni di delocalizzazione sia stata la perdita di competitività in Europa. Come riacquistarla?
Con le riforme, quelle che la politica non ha completato lasciando campo libero, come in Italia,
al governo dei tecnici. Il fallimento delle politica in Italia come in Europa è dovuto a un deficit
di liberalismo a destra e di riformismo a sinistra”. Soprattutto di quel riformismo che Benedetto
Croce – ha concluso - definiva la versione liberale del socialismo”. s
vanti al congresso ha detto senza saperlo: “Noi
facciamo il lavoro di Dio”. Esattamente. Con
magie alchemiche impressionanti la ricchezza
si è liberata dagli antichi vincoli territoriali, fisici, reali, ed è diventata dieci-dodici volte la
ricchezza del mondo e questo modifica radicalmente i rapporti. Credo che sia questa capacità di creare ricchezza quella che ha portato
alla posizione di dominio della repubblica
transazionale del denaro e poi una nuova ideologia.
Tutto questo non poteva avvenire se non ci
fosse stata una ideologia basata sul mercato, il
mercatismo che ha definito i criteri di comportamento, i rapporti di forza, il mondo di pensare standardizzato su un pensiero unico che
ancora domina o cerca di dominare.
Ci dicono: “Dobbiamo avere la fiducia dei
mercati”. Uno normale direbbe ma è giusto
che noi diamo fiducia ai mercati? Non è che il
motore di inferenza dovrebbe essere anche
all’incontrario?
Questa rivoluzione mossa dai tre motori non
ha avuto effetti limitati al dominio economico
ma estesi al dominio sociale e al dominio giuridico, si è perso il criterio del diritto come regolatore reale e infine a quello politico.
Sono stati abrogati due pilastri letterali ideologici civili su cui si è basato il mondo come
l’abbiamo visto costruito finora: la ricchezza
delle Nazioni di Smith e il capitale di Marx.
La ricchezza delle nazioni, la ricchezza ma anche le Nazioni. Adesso vediamo che la ricchezza nella forma finanziaria si pone sopra le
Nazioni, soverchia le Nazioni e i popoli, sviluppa la sua meccanica di potere fino a divorare se stessa se non la fermiamo.
Cosa c’è dietro questo processo? Non sta nel
libro, è una riflessione che faccio con voi ora
per la prima volta. Questa follia della ricchezza che domina tutto deriva dal fatto che si è
immaginato di poter creare una fabbrica sostitutiva dopo la globalizzazione. E’ anche molto
semplice: se la produzione va in Asia tu dovresti avere una sostituzione dei redditi o una
riduzione dei redditi, e siccome la riduzione
dei redditi non era poi così gradevole si è inventata la sostituzione dei redditi con la finanza, e questo è tipico nella meccanica dei sappy
americani. Sappy vuol dire che tu non sei alto
biondo con gli occhi azzurri, sei uno che lavora tre-quattro mesi, sei protestato ti chiama la
banca e ti da lo stesso un finanziamento. Su
quella casa ti richiamano e ti dicono “ho una
buona notizia, la sua casa è salita di valore e
quindi le diamo un ulteriore mutuo su quel
delta di valore” e lei ci può comprare la scuola
per i bambini, le vacanze, il Suv eccetera. C’è
stata in questa meccanica la sostituzione del
reddito da manifattura con il reddito da finanza; diversamente le cose sarebbero state diverse, sono andate diverse quando poi tutto è crollato.
Poi è stato abrogato il capitale di Marx.
Questione di grande interesse, io venerdì sono
a Chatamaus (?) per un seminario sul futuro
del capitalismo e il fatto che ci si ponga una
questione di questo tipo è curiosa; alcuni andranno per visitare la tomba di Marx come
pellegrini altri andranno lì per assicurarsi che
sia ancora sotto e non sia risorto. In ogni caso
il fatto che è venuta meno la pressione delle
ideologie di masse ha consentito la formazione
di un’altra ideologia. Ha consentito la sostitu-
CRITICAsociale ■ 7
3-4 / 2012
zione delle vecchie ideologie sociali, dialettiche, di rapporto, di tutela, di equilibrio tra il
lavoro e il capitale che era il mestiere fatto dalle grandi socialdemocrazie ma non c’è più stato bisogno perché il comunismo non faceva
più paura essendosi addirittura i comunisti
convertiti come i più fedeli e feticisti custodi
dell’ideologia mercatista. E’ cambiata la struttura della ricchezza ed è cambiata la dialettica
tra i poteri. Quello che era un potere che faceva paura avevi o sentivi il bisogno morale sociale e anche politico di andare incontro alle
masse non c’era più bisogno perché tutto andava per conto suo.
Io credo che ci sia un solo libro che sostituisce per ora in attesa di altro i due grandi vecchi
libri: la Caritas in Veritate. Credo che nell’Enciclica Caritas ci sia una rappresentazione non
solo di fede ma anche di costruzione politica
di enorme interesse, ed è uno dei libri che ci
porteranno verso il futuro.
La politica che ha fatto la globalizzazione
non evitabile ma in tempi tragicamente concentrati… ma poi era difficile pensare che tutto
andasse bene e che tutto fosse positivo e progressivo: l’acqua sale e si alzano tutte le barche, non è esattamente così. Da noi in Europa
nel vecchio mondo occidentale il processo non
è stato e non è tutto solo positivo, pensare che
un cambiamento della struttura del mondo potesse avvenire in questi termini senza trauma e
senza squilibri era pensare l’impossibile e infatti è venuta la crisi e ci siamo dentro.
Mi è stato detto sul libro un rilievo critico
che a volte sento (poco per la verità) e soprattutto in contesti polemici e politici: se tu hai
visto tutte quelle robe lì perché non hai cambiato? La domanda la dovrebbero girare al
Presidente Obama perché esattamente i fenomeni si sono presentati per tutti i governi e magari non esattamente qualcuno aveva più potere degli altri. Io mi sono limitato a rappresentare in tutti i documenti politici tutte le posizioni che mi sembravano corrette dal mio
punto di vista e dal punto di vista del governo
italiano. Se vedete gli allegati al libro sono
esattamente quello che poi è nel libro.
Pensare che al G20 uno riesce a convincere
gli altri 19 o in Europa uno riesce a convincere
gli altri 26 è….. Ma quello che è al di là delle
polemiche che considero normali, il fatto vero
che è cambiata la struttura e la velocità del
mondo e allora prima devi capire cosa è successo poi devi cominciare a cambiare ma non
sarà mai l’opera di uno se non ciascuno deve
cominciare a capire come si è rappresentato e
cambiato il mondo.
In questa logica del capire e tentare di cambiare vorrei parlare dell’altro e cioè della seconda parte dell’intervento che vorrei fare anche in nome dello spiritus loci che ci circonda.
Io credo che ci siano due modi per interpretare
la storia: un modo istantaneo e un modo storico. Il modo istantaneo è che la storia ricomincia sempre da ogni circostanza ogni giorno. La
storia è un punto di partenza. C’è un altro modo che è più organico e più storico, esiste la
partenza ma il punto storico in cui sei è un
punto di arrivo ed è arrivo delle tradizioni, arrivo delle culture e arrivo delle esperienze che
sono fatte dietro di te nel corso dei decenni.
Credo che proprio l’intensità del cambiamento… c’è una frase molto bella che dice:
“Quando il passato non illumina più il futuro
lo spirito cammina nel buio” per evitare tutto
questo devi guardare anche quello del passato
che è ancora utilizzabile.
Un’altra cosa che si dice: “Gli alberi non
crescono dai rami, gli alberi crescono sempre
dalle radici”.
Nel tentativo di rispondere un po’ anche
obliquamente a Oscar provo a dirvi come vedo
la realtà che abbiamo davanti in questo mo-
mento e non solo in Italia, credo sia utile questa analisi e questo esercizio perché la politica
deve basarsi anche su criteri e ideali di principio. Uno può dire che la crisi ha accentuato i
caratteri negativi e le distorsioni personali della politica, può dire che è umano e a volte ti
sembra troppo umano. Forse è sempre stato
così ma c’erano anche i grandi ideali e i principi. Io credo che non ci sia futuro per la democrazia senza politica e non c’è futuro per la
politica nella democrazia se non si cerca tutti
insieme di ricostruire un patrimonio di ideali
e di principi. Naturalmente è una grande dialettica che io cerco di rappresentare stressandola tra due polarità opposte. Mancheranno
molti pezzi, alcuni sono discutibili altri appunto aggiungibili, ma credo che la grande questione in questo momento sia la questione della democrazia. Io non credo che la democrazia
si riduca nel mercato e invece c’è ed è crescente la forza di un blocco di interessi, di pensiero, di forza che si unisce nella identità del mercato. Io credo che il mercato sia una cosa necessaria ma non è tutto.
Per questa sorta di blocco culturale e ideologico che prende anche forza nei Paesi che
hanno un grande debito pubblico – diceva Nitti: “Duro è dipendere dall’oro alieno” – tuttavia questo blocco che vuole determinare la no-
dal cuore e dalla mente delle persone che ci
circondano. Secondo questo schema di pensiero la tecnocrazia viene prima della democrazia
e io invece credo che comunque la democrazia
viene prima della tecnocrazia. Questo è uno
schema per cui di fatto alla fine in un nuovo
assolutismo, il mercato è il padrone dello Stato
e non credo che noi tutti siamo ansiosi di avere
nuovi padroni rispetto a quelli che abbiamo
avuto nei secoli passati.
Per questo blocco, Egel: “Il popolo è quella
parte della Nazione che non sa quello che vuole” invece credo che ci sia nel popolo un sapere collettivo che non può essere ignorato,
puoi tentare di guidarlo su alcuni tracciati ma
non puoi sostituirlo. Non credo che Egel, ammesso che qualcuno abbia letto Egel non di
voi ma di quell’altro mondo, sappia che cos’è
quello che vuole il popolo.
Il popolo per quel blocco è un legno storto
che deve essere raddrizzato con tecniche ortopediche. Io so quello che è giusto e voglio che
tu adatti le tue forme di vita al paradigma che
io avendolo acquisito dall’alto considero quello adatto e quindi il popolo deve essere corretto, curato, raddrizzato dalle sue deviazioni.
Per essere chiari io non mi sento né arci-italiano né anti-italiano ma io voglio bene al mio
Paese e non credo che queste forme di terapia
stra vita, ci rappresenta il mercato come lo stato dionisiaco dell’umanità. Io non credo che il
mercato sia il fine ma solo il mezzo su cui dobbiamo organizzare la nostra vita.
Secondo punto. Questo blocco che si sta
presentando in tutta Europa (nel più c’è anche
il meno naturalmente) c’è una identità tra un
liberalismo economico e un apriorismo assoluto per cui la realtà deve conformarsi al paradigma astratto. Non può la realtà essere diversa da quello stampo e da quello schema, invece io credo che sia giusto pensare che non tutto
è materia e che non tutto è merce, che ci sono
pezzi della realtà che non coincidono con le
merci del mercato. Per questo blocco sopra
tutto c’è la tecnica. Io credo che oltre alla tecnica c’è anche l’etica politica, quello che si
presenta è un meccanismo che è dall’alto verso il basso, è un meccanismo rigido estremamente verticale essendo a priori.
Io non credo che la politica possa essere fatta solo in questo modo. La politica come la conosciamo è stata federale, comunitaria, cooperativa, sociale, flessibile e non solo rigida e
verticale dall’alto, come è coerente con lo
schema del pensiero unico pensato come l’unica forma del pensiero politico possibile, invece io credo che la politica sia anche fatta dai
casi della vita, dalle persone, dalle circostanze,
dogmatica siano quelle adatte a un Paese che
ha millenni di storia.
Per questo tipo di blocco il voto è un rischio
e la formula ideale per la soluzione politica del
problema è sciogliere il popolo ed eleggerne
un altro. Io credo che invece la politica, la democrazia, l’etica, non siano altro se non la vecchia formula del governo del popolo da parte
del popolo e a favore del popolo.
La democrazia non è una variabile che dipende dall’economia e invece per come ci rappresentano, la democrazia è una variabile che
dipende dall’economia. Se i meccanismi dell’economia sono diversi la democrazia deve
entrare in una specie di stato di eccezione, ed
è impressionante sullo stato di eccezione
quanto ha scritto – impressionante il rapporto
che c’è tra Turati e Giolitti ma nelle memorie
di Giolitti nell’ultimo volume c’è scritto il ritorno al governo dopo la grande guerra: “Dopo
anni di stato d’eccezione il Parlamento non
esiste più e anzi inizia una parabola di degenerazione”. Scritto da un parlamentarista come
Giolitti.
Io non credo che lo stato di eccezione che
diventa più Stato che eccezione perché diventa
la regola sia la formula giusta per investire sul
futuro di un Paese come il nostro. Per essere
chiari io non credo al governo dei migliori per
innata modestia ma soprattutto perché io non
conosco meglio che non sia il popolo e non
credo che il massimo della popolarità sia a prescindere dal popolo. E’ anche facile in certe
fasi avere una grande popolarità proprio perché prescinde dal popolo, ma alla lunga credo
che la popolarità di un governo possa basarsi
solo sull’opinione del popolo.
Poi tante altre cose. La ideologia del mercato ti porta a pensare che la cosa fondamentale
è l’avere. Qualcuno potrebbe dire che è importante l’avere ma è importante anche l’essere
con tutto quello che deriva in termini di etica
di passione e di morale. Io non credo che la felicità stia nella concorrenza, nella spinta vertiginosa nella competitività verso la concorrenza, è una cosa che puoi considerare importante ma credo che sia più importante non lasciare indietro nessuno. Poi tante altre cose
che ci portano alla grande questione politica,
forse questo è un punto di risposta a Oscar.
E’ stato detto che il modello sociale europeo
è morto molto autorevolmente e molto bancariamente è stato detto. Non so se è morto so
chi è l’assassino e non credo che per il nostro
presente e il nostro futuro la formula della
morte dello stato sociale sia quella valida. Devi tenere conto dei fattori che ne hanno ridotto
la forza forse anche a un certo punto l’illusione
finanziaria, il vecchio continente ha finito la
sua rendita coloniale che è durata molto più
delle colonie, io sono tanto vecchio da ricordare il vecchio G7 e tanto giovane d’aver visto
il G20, la rotazione è stata molto importante,
la configurazione del mondo ancora fino a pochi anni fa era verticale, noi piazzavamo i nostri titoli, i nostri prodotti quando volevamo e
ai prezzi che volevamo. I rapporti di forza sono radicalmente cambiati e dobbiamo tenere
conto di questo, non possiamo andare avanti a
produrre più deficit che prodotto interno lordo
ma non possiamo rinunciare al modello sociale fondamentale dello stato sociale.
Se c’è una formula alternativa molto più
umana ed efficace al mercato tout court è
l’economia sociale di mercato che dice: il mercato fino a dove è possibile e la comunità dove
è necessaria. Tutto insieme nell’insieme.
Io credo che una fase storica si sia aperta.
La crisi ha aperto degli scenari di enorme complessità ed è anche drammatica. Non è finita è
stato detto da Oscar e condivido. Non è che
applicare il decreto Sindona su più vasta scala… Dice le aste di liquidità. Beh sai se trovi
uno che ti dà i soldi gratis quella non è un’asta
ma è liquidità e basta e se te li dà senza condizioni… Mi hanno detto anche tu l’hai fatto. I
vecchi bond omonimi erano all’8% avevano il
vincolo d’impiego nelle piccole e medie imprese e c’era il divieto di bonus.
Non credo che la crisi sia finita e credo che
l’enorme quantità di liquidità produca effetti distorsivi e non risolutivi. Oggi si legge sui giornali: è stata fatta perché la situazione era cupa.
Appunto. Allora la domanda è dove e come e
perché era cupa? Agisci su una situazione cupa
immettendo liquidità cioè immettendo droga o
cercando di cambiare alla radice le cause?
Io davvero credo che si debba evitare di
confondere la malattia con la cura e i becchini
o gli untori con i dottori e si debba ragionare
sulle cause e non sugli effetti e poi si arriva e
si prepara la prossima e ancora più grave crisi.
Proprio per questo perché c’è la crisi perché
continua perché le formule e la soluzione l’aggravano e non la risolvono credo che sia fondamentale un ragionamento della politica sulla
politica e in questi termini soprattutto sui principi e sui valori.
Alla ricerca di una formula di chiusura Shakespeare in Giulio Cesare dice: “Il vostro destino non cercatelo sulle stelle ma cercatelo
dentro di voi”. s
8 ■ CRITICAsociale
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■ LA CRISI SFUGGE DI MANO NEL MOMENTO IN CUI IL DUO FRANCO- TEDESCO PRENDE IL SOPRAVVENTO SULL’EUROPA
SPECULAZIONE È ANDATA A NOZZE DA QUANDO
“I PAESI DELLA UE POSSONO FALLIRE”
R
Oscar Giannino
ingrazio tutti coloro che mi
hanno chiesto di intervenire e
sono grato del fatto che a Milano esista un luogo di confronto come il Teatro del Borgo; non tanto un pezzo di storia, ma
un vero e proprio foro di critica intellettuale di
ciò che avviene nei nostri tempi. Entrando in
questo luogo, ho la stessa sensazione che mi
coglie tutte le volte che leggo sul Foglio le lettere di contributi di Rino Formica: mi ricorda
di quando ero ragazzino e stavo nell’anticamera del Consiglio dei Ministri del governo Spadolini e magari qualche volta sentivo Rino, allora ministro, che animatamente interveniva.
Tenete conto che quando mi sono cimentato
a livello universitario in Scienza delle Finanze
(la mia prima laurea è stata in Giurisprudenza), a darmi gli schiaffi in faccia durante le lezioni di ripetizione (dicendomi “sei un caprone, meglio che ti dai ad attività del tutto diverse da quelle professionali”) era Bruno Visentini. Quindi, vive in me, è presente il riconoscimento e la gratitudine per chi sa usare la
testa e continua a usarla nei confronti di
un’Italia che è cambiata. Sì, è cambiata, però
ha bisogno di gente che usi la testa. Questo è
il motivo per il quale devo essere grato sempre a Giulio Tremonti, che negli anni ha avuto
la benevolenza di tenere sempre aperto un filo
di confronto diretto intellettuale. La mia è
sempre stata stima assoluta per quello che ha
fatto, perché credo che tenere le redini dei
suoi compagni di governo che volevano una
spesa in proporzioni molto maggiori di quella
che abbiamo visto sia stato un compito difficilissimo.
Inizio sottolineando ciò che mi fa piacere
non sia stato colto dai media di questo libro, e
che invece temevo si fosse pronti a utilizzare.
Mi riferisco ad alcune espressioni che, se indicate come pilastro di questo lavoro, rischierebbero di sviarlo, di sviare il lettore che non
conosce l’evoluzione e il pensiero di Giulio
Tremonti, che non conosce da cosa nasca questo libro.
Per esempio, non ci sono stati media che
hanno tentato di ridurre questo libro a una specie di attacco alla finanza e alle banche in
quanto tali. Vi sono espressioni in questo libro
che testualmente lo lasciano presagire, ma
vanno contestualizzate. Mi ha fatto piacere che
questo libro non sia stato utilizzato per ridurlo
a uno slogan mistificante.
Alcuni attendevano che il lavoro di Tremonti proponesse una specie di cronaca ex post di
divisioni interne al governo in carica fino all’autunno scorso. Del governo Berlusconi,
Tremonti non fa cenno, correttamente, perché
il suo libro discetta del problema della curva
storica in cui stiamo. La curva storica comincia nel 2007, la prima parte di una crisi che è
quella di insostenibilità di un modello di intermediazione finanziaria. Un modello che ha
creato per venti anni prodotti e servizi finanziari finalizzati ad annullare il rischio dell’imprenditore e il rischio dell’emittente coperto
solo dal rischio del raggio intermedio. I primi
anni della crisi riguardano l’eccesso dei consumi privati, finanziati dal debito del mondo
anglosassone. Poi c’è una seconda parte della
crisi, che riguarda gli eccessi di consumo pubblico finanziati dal debito ma, in larga misura,
con le stesse tecniche. Non egualmente spregiudicate a dire la verità, perché le emissioni
sovrane non possono permettersi neanche lontanamente articolazioni di disinvoltura come
quelle dei prodotti di debito privato; però sono
due facce della stessa medaglia.
Ciò di cui mi dolgo è che tanti miei colleghi,
molto più autorevoli di me e che scrivono su
testate impegnatissime che lasciano un segno
e diventano i battisteri dei governi, non abbiano capito che nel libro vi è una ricostruzione
cronologica dei summit europei di questi anni
che dà due chiavi di lettura inedite. Il fatto che
le dia chi a quei vertici ci andava rappresenta
un grande spunto di riflessione.
Il primo spunto di riflessione si riferisce al
passaggio di un euro-vertice che avviene nel
maggio 2010 rispetto a quello del novembre
di quell’anno. Nel maggio del 2010 scopriamo
la crisi dell’eccesso del debito pubblico europeo col caso greco e vi è una risposta comune
europea, che Giulio Tremonti indica come un
abbozzo di buona risposta, perché vi è l’impegno al rigore, alla solidarietà politica e un segno d’inizio di riforma costituzionale. A novembre le carte cambiano, a novembre i franco-tedeschi decidono che i paesi euro-membri
possono fallire. Di lì inizia la storia che per il
momento è arrivata a una prima parziale conclusione poche settimane fa con il default pilotato della Grecia, con un abbattimento del
valore nominale del totale del suo debito pubblico già emesso del 70%. Tuttavia, il concetto
che accelera la crisi della divergenza politica
in Europa è il riconoscimento che gli Stati
membri dell’Europa possono fallire.
Dietro quella svolta c’è stata una consapevolezza diffusa delle classi dirigenti politiche
europee? Dal libro sembra di no, io credo che
si possa dire di no. Di sicuro, nel nostro Paese
tutto questo non è stato affrontato, dibattuto e
compreso per quello che significava davvero.
Di lì balza la divergenza degli spread.
Secondo spunto su cui mi aspettavo invece
qualche riflessione, ma evidentemente è materia troppo incandescente rispetto alla cronaca
politica e all’indirizzo che ha preso l’Europa
in questi mesi: la lettera apostolica, come viene definita nel libro. La lettera apostolica è
quella che la BCE indirizza all’Italia il 5 di
agosto dell’anno scorso e da cui derivano delle
conseguenze decisive: dopo la manovra precedente del governo Berlusconi, la manovra
successiva e il cambio di esecutivo in Italia.
La lettera apostolica è significativa per chiunque abbia a cuore l’equilibrio che ci deve essere tra politica, governi, sovranità nazionale,
delega di sovranità all’Europa e l’architettura
europea che abbiamo costruito, che è un’architettura senza banca centrale. Quella lettera è il
crinale della politica che viviamo oggi: quello
che conta di più, purtroppo e per fortuna, è la
curva di crescita europea non quella italiana.
Noi invece viviamo tempi in cui siamo convinti che, dopo il fallimento pilotato greco e
dopo la discesa di 250 punti degli spread, il
peggio sia alle spalle.
Io condivido l’idea del mio carissimo amico, molto più bravo e intelligente di me, che si
chiama Willem Buiter, Chief Economist di Citygroup. Willem non è un banchiere, ma è figlio di un ex ministro socialista olandese, un
grande economista del lavoro socialdemocratico che ha fatto le riforme nell’Olanda del primo dopoguerra. Willem invece è diventato un
economista liberale, ha servito per anni il comitato di politica monetaria di Bank of England, poi se n’è uscito, e, non troppo d’accor-
do sulla disinvoltura delle leve finanziarie delle banche anglosassoni, ha iniziato a criticarle
duramente. Pensate che nel 2009 scriveva che
Citygroup era il più grande conglomerato finanziario, capace di violare tutte le norme di
prudenza finanziaria, qualunque fosse lo spettro dei suoi prodotti; eppure sei mesi dopo lo
hanno implorato di diventare il loro Chief
Economist. Recentemente, Willem Buiter ha
detto, riferendosi alla situazione europea, che,
dopo il fallimento pilotato greco e dopo la discesa degli spread, “il peggio deve ancora avvenire”.
Perché il peggio deve ancora avvenire? Perché non siamo intervenuti sul meccanismo e
lo abbiamo raffreddato con le aste straordinarie di liquidità della BCE a gennaio-febbraio.
Noi teniamo in piedi il paradosso, figlio del citato euro-vertice di novembre 2010, per cui c’è
un limite strettissimo e non bisogna dare una
mano agli Stati. Tuttavia, il limite è stato aggirato dopo due anni di quasi crack e ci si è inventati un meccanismo per cui la Banca Centrale Europea inonda di liquidità tutte le banche europee in cambio di garanzie che non
hanno prezzo. Tramite questo meccanismo si
aggira il succitato veto, solo formale, perché
le banche hanno i soldi. A quel punto, per ricapitalizzarsi loro, le banche hanno i soldi per
ripresentarsi all’asset del debito pubblico, gli
spread si abbassano, le banche hanno le risorse
per coprire la propria necessità obbligazionaria
perché l’interbancario non è ripartito. Tuttavia,
non è che le banche abbiano ora i soldi per
sovvenzionare le imprese e le famiglie, e quindi è chiaro che il meccanismo che ci si è inventati rappresenta un’illusione. Così riflettendo, credo di essere in linea col pensiero di Tremonti.
Detto tutto questo, abbiamo di fronte a noi
mesi e anni in cui o si re-interviene sul compromesso politico europeo, o si unificano i
mercati e si adotta un diverso Statuto della
BCE, oppure questo problema resta aperto di
fronte a noi.
Il libro di Tremonti propone alla fine quattro
possibilità di sviluppo dell’attuale fase di stallo. Di queste quattro una per il momento non
si è verificata e speriamo che non si verifichi:
è il break-up, l’uscita dall’euro. La seconda è
quella di assistere passivamente al fatto che gli
avvenimenti ci prendano la mano (ed è stata
quella predominante fino a un certo punto);
poi c’è la terza, e cioè un compromesso costituzionale nuovo, che deve essere necessariamente unita, a mio avviso, alla quarta possibilità di sviluppo, ossia una grande alleanza politica con i popoli, che si rifaccia alla lezione
di Franklin Delano Roosevelt.
Questa è la conclusione del libro.
La prima osservazione che propongo è intesa a imboccare la strada di una riforma e di
un’Europa federale capace di solidarietà politica e di cambiare anche lo Statuto della BCE.
C’è chi, come Giuliano Ferrara, vuole una
BCE come la FED, cioè un’istituzione che dia
copertura illimitata al debito pubblico federale. Personalmente, sostengo che, se vogliamo
una BCE come la FED, bisogna che gli stessi
politici che imboccano questo modello siano
disposti all’unione dei mercati dei beni e dei
servizi europei. Perche? Perché se diamo la
possibilità a un unico tasso di interesse di esercitare, attraverso il principio dei vasi comuni-
CRITICAsociale ■ 9
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canti, l’equilibrio di curve e di costi di inflazione e di produttività diverse – la produttività
è andata a divergere negli otto primi anni
dell’Europa, non a convergere – il tasso di interesse unico non regge: questo è ciò che ci insegnano centinaia di esempi di unione monetaria nella storia. Allora, bisogna che quei politici che imboccano la terza strada proposta
da Tremonti aprano al principio dei vasi comunicanti europei nel settore delle professioni
(avvocati, ingegneri, ecc.) e di quelle attività
economiche che sono regolamentate attualmente a livello nazionale.
E’ disponibile la politica a farlo? Significa
per la politica fare un grande passo indietro,
significa smontare tutte le autorità nazionali
delle telecomunicazioni, dell’energia ecc., e a
riconoscere che il vero ambito è quello europeo. Il che non significa non preservare le proprie piattaforme di interesse nazionale, ma riconoscere la necessità di unire i mercati.
Ricordo il dibattito sulla Direttiva Bolkestein sull’unificazione dei servizi. L’idraulico
polacco sembrava dovesse entrare nelle case
di tutti a stuprare mogli e fidanzate, ma dietro
c’era un’altra logica, che privilegiava i mercati
nazionali. Se vogliamo i mercati nazionali,
una moneta comune e una banca centrale diversa non le avremo mai.
Come la pensa Tremonti?
La seconda osservazione ha a che vedere
con il quarto punto di Tremonti: la grande alleanza tra politica, Stati, popoli perché non
possiamo fare dei popoli, e di chi è a più basso
reddito in particolare, le vittime sacrificali di
questa situazione. Sono loro le vittime sacrificali? Sì, certo che lo sono, lo sono in Europa,
in Grecia come in Spagna, in Portogallo come
in Olanda e continueranno a esserlo. L’Olanda
ha scoperto che deve correggere quest’anno di
1.8 punti percentuali il suo deficit e, per arrivare a fare il 4.5 nel 2013 (peggio di noi l’anno
scorso), dovrà tagliare di un altro punto e mezzo l’anno prossimo. Rajoy, appena vinte le elezioni, ha scoperto di aver ereditato un deficit
da Zapatero dell’ 8.5% (non di 6) e dovrà arrivare al 4.4. Gli spagnoli faranno la quinta manovra in un anno e mezzo, hanno la disoccupazione al 23%. Loro sono le vittime, quelli a
basso reddito e a bassa qualifica di capitale
umano, quelli che non possono scappare dagli
effetti delle strette recessive.
Per evitare questo, dobbiamo fare una riflessione su come è cambiato lo Stato e com’è il
suo debito di paese in paese. Lo Stato, tuttavia,
sta cambiando. Non intermedia più il 30% del
reddito nazionale, ne intermedia più del 50, il
52%. La pressione fiscale è salita a livelli record ed è a livelli record sull’Italia legale rispetto a quella grigia e a quella nera.
Mi capita spesso di dover spiegare agli studenti che cosa sia il debito pubblico – mi dispiace dirlo ma arrivano a laurearsi in Economia e Giurisprudenza col 3+2 avendo studiato
niente rispetto alle passate generazioni. Ciò
premesso, quando devo ricordare agli universitari che cosa sia il debito pubblico, propongo
sempre la medesima sintesi. Ci sono quattro
scuole, due keynesiane e altre due dove mi riconosco io. Quali sono le due scuole keynesiane? Una quella di Abba Lerner – uno che
dagli anni ’30 fino a che è vissuto alla fine degli anni ’80 anticipava Keynes più che seguirlo. Un grandissimo. Io ho avuto la fortuna di
conoscerlo quando ero giovanissimo – Abba
Lerner diceva: “Il debito pubblico è il debito
di tutti con tutti nella comunità nazionale”. Se
uno la pensa così anche con debiti pubblici del
120% del PIL, è ovvio che la risposta per sanare un eccesso di debito diventa la patrimoniale: chi ha di più dà di più, perché il debito
è di tutti con tutti.
Seconda versione keynesiana è quella di
Paul Samuelson. Egli afferma che il debito è
asintoticamente sempre sostenibile anche se è
al 120%, anche se è al 220%, del PIL. E’ sufficiente che il regolatore, d’accordo con la politica – ecco che tipo di banca centrale avere –
tenga i tassi di interesse nominali più bassi della crescita del PIL. In tal modo, il debito sarà
sempre sostenibile. Noi però abbiamo un altro
modello. Abbiamo celebrato il divorzio della
Banca d’Italia dal Tesoro per consentire di alzare i tassi, perché la politica non le dava retta:
è lo stesso modello della BCE.
Poi ci sono due risposte diverse, quelle offertiste. C’è n’è una che deriva dalla tradizione
austriaca che afferma: no, il debito pubblico è
semplicemente un debito acceso dai politici di
oggi e da tanti concittadini di questi politici di
oggi che se ne avvalgono e incamerano un bel
vantaggio e va sulle generazioni future. E’ irresponsabile e va contenuto.
bito pubblico, lo Stato per abbatterlo cede roba
sua. E se credete alla quarta – io credo ancora
più alla quarta che alla terza – non solo bisogna abbattere le quote del debito pubblico con
quote di patrimonio dello Stato, ma bisogna
anche aggirare il conto economico; cioè bisogna tagliare parecchia spesa corrente per aprire
immediatamente spazio al fatto che la gente
creda che per anni potrà riprendere a investire
e a consumare invece che a pagare imposte,
tasse e contributi che salgono.
Noi, da venti anni, dai tempi delle manovre
di Giuliano Amato, o per entrare nell’euro
quando siamo diventati sospetti col centrosinistra, con Visco, con Padoa Schioppa fino al
governo Monti, abbiamo sempre seguito la
strada di un debito crescente rispetto al quale
bisognava fare avanzi primari del 5-6%, fatti
al 70-80% solo da più tasse. Dove vogliamo
arrivare lungo questa strada? Lo Stato dovrà
Quarta definizione sempre offertista, quella
di Ken Arrow che insieme a Franco Modigliani afferma: no, oltre che essere un debito sulle
future generazioni, è un debito che già attualmente i contribuenti scontano perché, siccome
hanno capito che (anche se i politici dicono di
no) quel debito si risolverà sempre con tasse
aggiuntive, iniziano a risparmiare invece che
investire e a consumare.
Se si crede al primo approccio keynesiano,
la risposta a debiti così elevati è la patrimoniale; se si crede alla seconda corrente keynesiana, bisogna fare nuove emissioni di debito
pubblico bypassando gli investitori esteri e
chiedere agli italiani di sottoscrivere quantomeno titoli pubblici; se si crede alle altre due
– io credo alle altre due – si ritiene che un eccesso di stock si risolva con lo stock e non con
il conto economico. Quando hai il 120% di de-
attingere ancora dalle tasche della gente? Vorrei evitarlo, sennò si aggiungono alle vittime
della cattiva Europa le vittime delle strette recessive dei Paesi più indebitati a bassa crescita, come appunto l’Italia.
Terza osservazione. Se andiamo a vedere i
problemi dell’Italia, scopriamo che sono antecedenti all’euro e alla globalizzazione: cresciamo poco da quindici anni, non dai dieci dell’euro, per tante ragioni. Evidentemente, per
concludere quell’alleanza prefigurata da Tremonti, c’è bisogno di uno Stato capace di farsi
lo screening e di fare tutto quello che non ha
fatto in questi venti anni per diventare più
snello ed efficiente e dare alla gente la voglia
di scommettere sull’Italia, come nel secondo
dopoguerra. Oltre a questo, vi sono i problemi
che riguardano la produttività dei mercati domestici. C’è chi lavora al riparo di prezzi e ta-
riffe, di finte gare organizzate dalla pubblica
amministrazione; sono centinaia e centinaia di
imprese, sono milioni di lavoratori che in realtà in questi anni si sono assolutamente autoorganizzati a lavorare con uno Stato inefficiente. Da ciò deriva la bassa produttività italiana.
Chi esporta nel manifatturiero è tornato ai livelli pre-crisi, anche se i volumi sono di 22
punti di produzione industriale inferiori. Ciò
vuol dire che c’è un’Italia capace di fare più
valore aggiunto e ce n’è una che si è acconciata per via dell’intermediazione pubblica a bassa produttività.
Tutte le volte che si prova in Italia a dire
queste cose la reazione che viene dal corpo di
una società che sta male è la seguente: dato
che il reddito disponibile è sceso e scenderà
ulteriormente viste le pretese dello Stato in
questi tre anni per il Fiscal Compact, la gente
non vuole rinunciare ulteriormente a quel poco
che ha. E’ un punto aperto perché se si mira a
un’alleanza con la parte degli italiani presa
nella morsa nel reddito disponibile e che si
sforza di pagare le tasse e i contributi, e se vogliamo fare le riforme, le liberalizzazioni non
bastano, soprattutto alla luce delle continue
battute d’arresto sulla riforma del mercato del
lavoro.
Quarta osservazione. Poiché stiamo parlando dell’Europa da costruire e delle sue conseguenze sull’Italia, chiedo a Tremonti: Dobbiamo sperare che questi problemi vengano
sollevati alle prossime elezioni continentali, a
cominciare dalle presidenziali in Francia il 22
aprile e il 6 maggio? (Elezioni vinte poi dal socialista Francois Hollande). A sollevare le questioni sono più i candidati socialisti dei conservatori, perché l’Europa disegnata dai vertici
degli ultimi mesi è un’Europa a prevalenza
moderata e conservatrice. Dobbiamo sperare
che vinca Hollande in Francia? Non lo so. Io
francamente ho qualche remora, perché temo
che, nel breve, uno spread di nuovo impazzito
dia ancora più forza ai sostenitori del Fiscal
Compact.
Nel 2013 si rischia di ripiombare nella stessa situazione del 2011, con un nuovo innalzamento degli spread. A PIL contratti, gli italiani,
che hanno preso l’impegno di azzerare il deficit al 2013, non riusciranno a realizzare le entrate fiscali con un PIL da -2% quest’anno e 2 l’anno prossimo. Questa è purtroppo una
curva che non si può escludere. Fine delle mie
osservazioni.
Il problema non è di alternativa politica, ma
di misurarsi su ciò che Giulio Tremonti testimonia in questo libro, parlando di come è
cambiata di fatto, nel 2010, la non risposta europea al problema di una intermediazione finanziaria alla quale non si sono date regole
nuove. Non le abbiamo date in Europa e, a mio
giudizio, anche la nuova legge bancaria americana è la classica dimostrazione del regolato
che si compra il regolatore. Un comportamento simile a quello che ha alimentato la crisi per
decenni.
Sono molto curioso di registrare la posizione di Tremonti, ma prima voglio concludere
con una nota a un tempo ottimistica sull’Italia
e pessimistica sull’Europa. Guardando la
stampa europea in questi anni, mi sono reso
conto che i mali sono molto più condivisi di
quanto si creda. Non pensiamo che il dibattito
in Germania sia elevatissimo e siano i saggi a
dominarlo! Se voi leggete il Bild tutti i giorni
(dieci milioni di lettori), avrete un’idea molto
diversa di come i tedeschi pensano a noi e ad
altri Paesi europei. Francamente vi passano
idee a volte molto più rozze delle peggiori rozzezze a cui pure la politica italiana ci ha abituato in questi anni. Anche da questo punto di
vista, è necessario un cambio di passo che sia
davvero europeo. s
10 ■ CRITICAsociale
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■ POSITIVA LA PROPOSTA DEL PROFESSOR PELLEGRINO CAPALDO. MA IL CONTRIBUTO VOLONTARIO DEVE SUPERARE IL VANTAGGIO FISCALE
UNA RIFORMA DEL FINANZIAMENTO AI PARTITI
Abrogazione del rimborso diretto ai partiti
da parte dello Stato e introduzione di un credito d’ imposta del 95 per cento sui contributi
che i cittadini decidono di versare alla politica, fino ad un tetto massimo di 2.000 euro. E’
il meccanismo elaborato nel seno della Fondazione Don Sturzo dall’ economista Pellegrino Capaldo e formulato in una proposta di
legge di iniziativa popolare che e’ stata depositata alla Cassazione per avviare la raccolta delle firme che in pochi giorni sono registra già’ migliaia di adesioni.
L’ idea di fondo e’ quella di non negare il
costo pubblico della politica, ma di rovesciarne l’ attuale logica, togliendo allo Stato ( e ai
partiti) la scelta sui finanziamenti per restituire dando ai cittadini - con la possibilità’ di
decidere quali partiti sostenere - l’ occasione
e lo strumento per tornare a coinvolgerli nella
vita dei partiti. Una rivoluzione copernicana
che lascia allo Stato l’ onere del peso economico, mentre ai cittadini la libertà di scegliere.
Un piano che prevede, in ogni caso, un forte
risparmio per le casse dello Stato, poiché e’
improbabile che il versamento “ pubblico” deciso dagli elettori possa raggiungere le cifre
astronomiche degli attuali rimborsi elettorali.
Fin qui una sommaria illustrazione della
proposta che ha il grande merito di rimettere
al centro della vita politica l elettore. Il secondo grande merito, la vera innovazione della
proposta, va tuttavia al di la’ del campo delimitato del finanziamento ai partiti. Infatti introduce un concetto nuovo, quello di “elettorecontribuente”, l idea cioè che si amministrano
anche a distanza i soldi dati allo Stato, in
questo caso per finanziare i costi dell’ associazionismo democratico: ma e’ un criterio che
se esteso ad altre sfere della vita pubblica - innanzitutto i servizi alla persona, la scuola, la
sanità’, investimenti pubblici per le infrastrutture utili a sostenere l offerta di lavoro sul
mercato - rivoluziona (molto più in profondità’
di quanto promesso dal federalismo fiscale
leghista) la natura della rappresentanza politica, che si fa più diretta nel suo esercizio, con
una catena di comando più breve dalla contribuzione alla spesa. E che rivoluziona la
stessa struttura del bilancio dello Stato, come
chiedono i sindaci in occasione dell’ IMU: i
soldi relativi alle spese locali restano sul posto
e lo Stato, per pari importo e capitolo, non ha
più necessita’ di iscrivere alcuna somma nei
trasferimenti ai comuni.
Che questa “rivoluzione copernicana” della rappresentanza politica e del suo contenuto
di autogoverno parta dalla riforma del finanziamento ai partiti e’ significativo.
La riqualificazione della partecipazione alla vita politica dei cittadini nei partiti politici
e’ il primo passo per riqualificare dal degrado
dell’ ultimo ventennio di seconda repubblica,
la partecipazione piu’ ampia alla vita politica
repubblicana, in modo più’ coinvolgente e diretto, amministrando in collaborazione con lo
Stato, le private risorse che ciascuno mette a
disposizione delle istituzioni pubbliche, non
perché’ “ imposte”, ma da “contribuente” (
cioè’ come “contributo” e quindi cogestito)
alla vita pubblica.
Qui il nesso tra bene comune ed interesse
privato, tra associazione e libertà.
In queste pagine pubblichiamo uno studio
condotto sulla proposta di Pellegrino Capaldo
da Rino Formica e Salvatore Tutino. Si rileva
una necessaria correzione, dall’analisi che
emerge.
Rino Formica
Salvatore Tutino
LA REGOLAMENTAZIONE
AMMINISTRATIVO-CONTABILE
È previsto che i soggetti beneficiari si iscriIL MECCANISMO
La proposta di legge, nell’abolire il rimborso
per le spese elettorali introdotto dalla L.
157/1999, prevede che ai cittadini italiani che
erogano contributi volontari in denaro in favore di movimenti e partiti politici sia riconosciuto un credito di imposta pari al 95 per cento dell’ammontare del contributo stesso, fino
ad un importo massimo di 2.000 euro.
Ne consegue che, a fronte del contributo
massimo annualmente agevolabile, l’onere effettivo che resterà a carico del cittadino sarà
pari a 100 euro.
I “restanti” 1.900 euro daranno invece luogo
alla maturazione di un credito, immediatamente “spendibile” per saldare un qualunque debito con il fisco, configurandosi come una
“spesa fiscale” che andrà ad impattare negativamente sul livello del gettito Irpef.
vano in un elenco tenuto presso il Ministero
dell’Interno e che i contributi vengano versati
su conti correnti e postali specificamente e
preventivamente indicati all’Agenzia delle Entrate dai singoli organismi che intendano essere destinatari dei contributi agevolati.
E’ altresì previsto che:
– la banca, a fronte del versamento del contributo, rilascia al soggetto erogante una dichiarazione attestante l’avvenuto versamento,
con indicazione della persona fisica che lo ha
eseguito, dell’importo e della data del versamento medesimo, senza necessità di indicare
il partito o movimento politico beneficiario del
contributo medesimo. Tale dichiarazione, denominata “buono d’imposta”, costituisce titolo
idoneo per fruire del credito d’imposta;
– il movimento o partito politico beneficiario
del contributo è tenuto a dare evidenza in apposito rendiconto annuale, ai sensi dell’articolo
8 della legge 2 gennaio 1997, n. 2, delle somme
ricevute mediante i versamenti certificati.
DAL VECCHIO E NUOVO SISTEMA
DI FINANZIAMENTO
Il passaggio dal vecchio al nuovo sistema e’
previsto con una gradualità che si estende per
cinque anni, sia per mettere a punto il meccanismo alla luce delle adesioni, sia perché – a
detta dei proponenti - ‘’i partiti per recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini hanno
bisogno di tempo’’.
Peraltro, “la proposta è stata formulata nel
presupposto di una sostanziale neutralità per
il bilancio dello stato nel senso che l’entità dei
crediti di imposta derivanti dall’applicazione
del nuovo sistema non dovrebbe essere superiore agli importi erogati a partiti e movimenti
politici con il sistema attualmente in vigore”.
I SOGGETTI INTERESSATI
DAL NUOVO SISTEMA
DI FINANZIAMENTO
Teoricamente, tutti i contribuenti-persone fisiche possono effettuare erogazioni, e senza
alcun limite d’importo, ai sensi della normativa proposta. Si tratterebbe, dunque, dei circa
42 milioni di soggetti Irpef.
In realtà, si può ipotizzare che i versamenti
riguarderanno soprattutto quei contribuenti che
trovano immediata “capienza” per utilizzare –
in abbattimento dell’Irpef dovuta - il credito
d’imposta riconosciuto dallo Stato; e che, d’altra parte, i versamenti individuali tenderanno a
concentrarsi in prossimità della somma massimamente agevolabile (i ricordati 2000 euro).
Ne discende che, dei 42 milioni di contribuenti Irpef, i potenzialmente interessati dal
nuovo sistema di finanziamento della politica
sarebbero quelli che evidenziano un’imposta
di almeno 2,34 migliaia di euro: ossia i 21 milioni che si collocano oltre i 15 mila euro di
reddito dichiarato e sui quali si concentra quasi
tutto l’onere Irpef1 (Tavola 1).
Se tutti questi contribuenti utilizzassero appieno (fino al tetto dei 2000 euro) l’opportunità offerta dalla nuova normativa (Tavola 2,
ipotesi A), l’importo del finanziamento ai partiti raggiungerebbe un livello stratosferico: 42
miliardi, in parte sostenuto dai medesimi contribuenti (2,1 miliardi), ma per la maggior parte (39,9 miliardi) gravante sull’Erario, che vedrà ridotto di un pari importo il gettito Irpef.
Risultati irrealistici; anche alla luce del processo di razionalizzazione in corso sul versante delle agevolazioni fiscali (tax expenditures).
Si possono, allora, considerare altre due ipotesi. L’ipotesi B, sempre sintetizzata nella tavola 2, prevede che solo 1 contribuente su 20
(il 5%) sia attratto dal nuovo finanziamento
“volontario”. Poco più di un milione di soggetti, dunque, che riverserebbero sui partiti oltre 2 miliardi di euro annui, sostenendo un
onere effettivo di “appena” 100 milioni. Dietro
di essi il finanziamento resterebbe invece sostanzialmente pubblico: il credito d’imposta
che lo Stato dovrà onorare ammonta infatti a
2 miliardi annui.“
C’è infine un’ipotesi C, in cui si assume
che l’adesione alla nuova normativa coinvolga
solo (e tutti) i contribuenti con un reddito medio-alto (da 50 mila euro in su). Si tratta di 1,9
milioni di soggetti che farebbero confluire nelle casse dei partiti 3,8 miliardi annui. Ma anche qui, l’onere effettivo sostenuto dai cittadini (0,2 miliardi) sarebbe pari solo a un diciannovesimo di quello che ricadrebbe sull’Erario.
L’AGEVOLAZIONE “POLITICA”
NEL SISTEMA DELLE
AGEVOLAZIONI IRPEF
Ma come si colloca l’agevolazione fiscale
accordata a chi finanzia i partiti nel contesto
di un sistema Irpef che riconosce variamente
il merito e la portata di talune spese sostenute
dai contribuenti ?
Nella Tavola 3 è richiamata una parte (quella più significativa ai nostri fini) dell’ampia
casistica prevista dalle norme vigenti
Si ricavano le seguenti indicazioni:
a) il meccanismo del credito d’imposta previsto dalla proposta in esame sarebbe del tutto
innovativo nel sistema Irpef, che è basato sul riconoscimento di deduzioni d’imposta (che vanno ad abbattere l’imponibile) e di detrazioni
d’imposta (che riducono direttamente l’imposta
lorda). La differenza non è da poco. Il “credito
d’imposta” rappresenta una sorta di assegno
conseguibile e spendibile (magari per pagare
un’altra imposta, ad esempio l’IMU) anche dai
contribuenti che non devono alcunchè di Irpef.
Deduzioni e detrazioni, invece, accordano un
vantaggio che si concretizza solo in abbattimento dell’Irpef dovuta, verificandosi diversamente
il fenomeno della c.d. incapienza;
b) un recupero di spesa di dimensioni così
rilevanti come quella accordata al finanziamento dei partiti (95%) non ha pari nel regime
Irpef. La quota di detrazione più alta è quella
CRITICAsociale ■ 11
3-4 / 2012
PUNTI DI FORZA E PUNTI DI
DEBOLEZZA DELLA PROPOSTA
Tavola 1 – Soggetti Irpef persone fisiche: anno d’imposta 2010
(dichiarazioni 2011)
Il principale punto di forza della proposta è
Platea complessiva
- contribuenti (milioni) ................................................................................................. 41,5
- imposta netta totale (miliardi €) .............................................................................. 149,4
- imposta netta media (migliaia €) .............................................................................. 4,84
rappresentato dal trattamento fiscale agevolato
che, come si è chiarito, lascia sostanzialmente
indenne il finanziatore, finendo per scaricare
sull’Erario la quasi totalità dei costi del finanziamento. “In fondo – come sottolineano i
proponenti - versare un contributo di 2.000
euro «costa» effettivamente al cittadino solo
100 euro, perché gli altri 1.900 euro gli saranno rimborsati dallo Stato con procedure agili
e in tempo pressoché reale. E 100 euro costituiscono una cifra più o meno alla portata di
tutti.
Ma tale caratteristica – che auspica la massimizzazione dell’adesione – presenta il rischio di costi tendenzialmente incontrollabili
per l’Erario. L’ipotesi di “neutralità di bilancio” assunta nella Relazione all’articolato della proposta appare, infatti, incontrollabile, soprattutto se destinata a confrontarsi con accese
e competitive campagne a sostegno della sottoscrizione.
Da ciò anche il rischio di un secondo inquinamento (in aggiunta a quello prodotto dalla
sostanziale traslazione in capo all’Erario dell’onere dei versamenti individuali) alla “volontarietà” che dovrebbe contrassegnare il
nuovo sistema di finanziamento della politica.
Contribuenti con imposta media > 2,34 €
- contribuenti (milioni) ................................................................................................. 21,0
- imposta netta totale (miliardi €) .............................................................................. 141,0
- imposta netta media (migliaia €) ................................................................................ 6,7
Contribuenti con reddito > 50 mila €
- contribuenti (milioni) ................................................................................................. 1,91
- imposta netta totale (miliardi €) ................................................................................ 56,3
- imposta netta media (migliaia €) .............................................................................. 29,4
Fonte: elaborazioni su dati Dipartimento Finanze (MEF)
Tavola 2 – Adesioni, finanziamento e costo per l’Erario
Ipotesi A: adesione platea potenziale (soggetti con imposta > 2,34 €)
- numero soggetti (milioni) ......................................................................................... 21,0
- versamento individuale annuo (€) ........................................................................... 2.000
- finanziamento totale (miliardi €) ................................................................................. 42
- credito imposta 95%, onere Erario (miliardi €) ........................................................ 39,9
- onere complessivo a carico contribuenti (miliardi €) ................................................. 2,1
Ipotesi B: adesione 5% soggetti platea potenziale
- numero soggetti (milioni) .......................................................................................... 1,05
- versamento individuale annuo (€) ........................................................................... 2.000
- finanziamento totale (miliardi €) ................................................................................ 2,1
- credito imposta 95%, onere Erario (miliardi €) .......................................................... 2,0
- onere complessivo a carico contribuenti (miliardi €) ................................................. 0,1
LE CONDIZIONI PER
UN FINANZIAMENTO
VOLONTARIO DELLA POLITICA
b) Ma se non può essere vietata, la “spinta”
a sottoscrivere deve almeno essere contenuta,
vietando la possibilità di destinare risorse provenienti dal finanziamento per coprire spese
destinate ad incentivare il finanziamento medesimo;
c) Qualunque forma di finanziamento pubblico alla politica richiede una puntuale copertura della relativa spesa. Un’esigenza, questa,
tanto più necessaria quanto più l’entità del finanziamento è lasciata alle decisioni (e al calcolo costi-benefici) dei cittadini;
d) Il controllo del finanziamento deve muoversi, di pari passo, su due fronti: rigida tracciabilità dei versamenti effettuati dai sottoscrittori e puntuale rendicontazione degli stessi
da parte delle forze politiche, in un sistema di
contabilità soggetto a controllo di autorità terze. Il tutto onde evitare che – soprattutto in
presenza di un beneficio fiscale elevato – possano determinarsi rischi di collusione basate
sulla certificazione di versamenti d’importo
superiore a quello effettivo. s
Coltivare la soluzione di un finanziamento
Ipotesi C: adesione soggetti con reddito > 50 mila €
- numero soggetti (milioni) .......................................................................................... 1,91
- versamento individuale annuo (€) ........................................................................... 2.000
- finanziamento totale (miliardi €) ................................................................................ 3,8
- credito imposta 95%, onere Erario (miliardi €) .......................................................... 3,6
- onere complessivo a carico contribuenti (miliardi €) ................................................. 0,2
riguardante le spese finalizzate al risparmio
energetico (55%) e alla conservazione del patrimonio edilizio (oggi al 36%). Per il resto, la
percentuale di detrazione è fissata al 19%, anche per tipologie di spese simili, sia pure su
importi più elevati (erogazioni a movimenti e
partiti politici, fino a 103.291 euro di spesa);
c) il vigente meccanismo delle deduzioni
consente talora di vedersi fiscalmente riconosciute spese di ammontare molto elevato (erogazioni alle Onlus, alle ONG, alla ricerca) ma
il concorso dell’Erario non supera mai il 45%
(43% dell’ aliquota massima Irpef + addizionali regionale e comunale), incentivando e
“premiando” soprattutto i redditi alti;
d) il credito d’imposta per il finanziamento
della politica combina il vantaggio elevato
proprio delle deduzioni (misurato dall’aliquota
marginale di ciascun contribuente) con una
diffusione teoricamente generalizzata propria
delle detrazioni. Sotto tale profilo è suscettibile di assicurare un’adesione tendenzialmente
ampia e capillare.
Peraltro, questo nuovo sistema di finanziamento della politica si differenzierebbe nettamente dalle soluzioni tecniche adottate per:
– il finanziamento delle confessioni religiose, il cui ammontare complessivo è predeterminato (8 per mille del gettito Irpef), rilevando
le indicazioni espresse dai cittadini solo ai fini
della sua distribuzione fra le diverse confessioni;
– il finanziamento delle attività socialmente
rilevanti (non profit, ricerca scientifica e sanitaria, …), in cui l’opzione dei contribuenti determina sia l’entità del contributo (5 per mille
dell’Irpef da ciascuno dovuta) sia la sua destinazione.
nirebbe per confermare surrettiziamente il finanziamento pubblico della politica, che uscirebbe dalla porta per rientrare dalla finestra. E
allora il finanziamento complessivo devoluto
ai partiti e la sua distribuzione dipenderebbe
unicamente dalla capacità delle diverse forze
politiche di “spingere” verso la sottoscrizione,
magari facendo leva su una capillare distribuzione della propria rappresentanza;
NOTE
della politica su basi volontarie presuppone
che vi sia chiarezza su almeno tre aspetti:
1
a) Volontarietà non può fare rima con gratuità. Se l’iniziativa dei singoli è a costo (praticamente) uguale a zero, il nuovo sistema fi-
Questi dati riflettono la platea e la distribuzione dei soggetti Irpef che emergono dalle
dichiarazioni dei redditi presentate nel 2011 (e
relative all’anno d’imposta 2010).
Tavola 3 – Forme di agevolazioni fiscali vigenti
Agevolazione
Tipologia
n. beneficiari
(milioni)
spesa fiscale
(miliardi)
detrazione 36/41%
5,3
2,2
Risparmio energetico (max da 54.545 a 181.818)
detrazione 55%
1,1
1,3
Spese sanitarie
detrazione 19%
15
13,6
Interessi mutui 1ª casa (max 4000 €)
detrazione 19%
3,8
6,3
Assicurazioni vita/infortuni (max 1291 )
detrazione 19%
6,5
4
Erogazioni liberali Onlus (max 2066 €)
detrazione 19%
0,9
0,2
Erogaz. Lib.a soc./assoc. sportive dilettanti (max 1500 €)
detrazione 19%
(b)
Erogaz. liberali a assoc. promozione sociale (max 2066 €)
detrazione 19%
(b)
Erogaz. liberali a fondazioni settore musicale (max 2% reddito)
detrazione 19%
Erogaz. liberali a movimenti e partiti politici (max 103.291 €)
detrazione 19%
Recupero patrimonio edilizio (max 48000€)
Erogazi. liberali in denaro a attività culturali ed artistiche
detrazione 19%
Erogaz.liberali a enti dello spettacolo (max 2% reddito)
detrazione 19%
Erogaz. liberali a istituti scolastici senza scopo di lucro
detrazione 19%
Erogaz. Lib. a soc. Biennale Venezia (max 30% reddito)
detrazione 19%
Erogazioni alle ONG (max 2% reddito)
(a)
(b)
deduzione
(b)
Erogaz. liberali a enti universitari e di ricerca pubblica
deduzione
Erogazioni a istituzioni religiose (fino a max 1033 €)
deduzione
0,1
0,3
(b)
Previdenza complementare (max 5165 €)
deduzione
0,8
1,9
Erogaz. liber.a ONLUS. (max 10% reddito o 70 mila €)
deduzione
(b)
(b)
(a) Le erogazioni, da effettuare con versamento postale o bancario, possono essere raccolti dai partiti sia in un unico conto corrente nazionale che in più conti correnti diversi. Le erogazioni possono essere detratte se i loro beneficiari hanno avuto almeno un parlamentare eletto
alla Camera o al Senato
(b) Le erogazioni devono essere effettuate con versamento postale o bancario, o con carte di debito, carte di credito, carte prepagate,
assegni bancari e circolari. Per le erogazioni liberali effettuate tramite carta di credito è sufficiente la tenuta e l’esibizione, in caso di eventuale
richiesta dell’amministrazione finanziaria, dell’estratto conto della società che gestisce la carta.
12 ■ CRITICAsociale
3-4 / 2012
■ SOLDI AI PARTITI, LA PROPOSTA DEL LEADER POPOLARE DEL 1958 CONTIENE MOLTE IDEE PER L’ATTUALITÀ
QUANDO STURZO (PRIMA DI CRAXI)
DENUNCIAVA I FINANZIAMENTI ILLECITI
Senato della Repubblica
III Legislatura
Disegno di Legge d’iniziativa del senatore
Sturzo
Comunicato alla presidenza il 16 settembre 1958
Disposizioni riguardanti i partiti politici
e i candidati alle elezioni politiche e amministrative
O
nel sottoporre gli associati non ai singoli ma
come corpo morale a determinati obblighi, la
personalità giuridica e i diritti che derivano
vengono acquisiti con l’unico atto volontario
quello di darsi uno statuto e di depositarlo in
forma autentica alla cancelleria del tribunale
competente. L’atto di volontà collettiva reso
pubblico, senza interventi di autorità politica
o amministrativa e di formalità nelle quali
partecipi un qualsiasi funzionario pubblico
(notaio o giudice di tribunale) attua e completa il diritto alla personalità politica del partito. Mi è sembrata questa la soluzione più aderente allo spirito della legge, soluzione che nel
codice vigente non potrebbe trovare elementi
concreti, mentre la soluzione adottata è da
escludere che sia in contrasto con principi ritenuti fondamentali.
Luigi Sturzo
norevoli Senatori. – Il disegno
di legge che ho l’onore di presentare è in rapporto al mio discorso fatto al Senato nel luglio scorso, con il
quale, accennando all’esagerato impiego di
denaro sia dei partiti che di buona parte dei
candidati, si è avuta l’impressione nel Paese di
una specie di fiera aperta per ottenere la rappresentanza parlamentare.
Se si parla di moralizzare la vita pubblica, e
il Governo ne ha preso l’impegno nel suo programma e nelle dichiarazioni fatte in Parlamento dal Presidente del Consiglio, il primo e
il più importante provvedimento deve essere
quello di togliere la grave accusa diretta ai partiti e ai candidati dell’uso indebito del denaro
per la propaganda elettorale.
Il problema è più largo di quel che non sia
la spesa elettorale; noi abbiamo oramai una
struttura partitica le cui spese aumentano di
anno in anno in maniera tale da superare ogni
immaginazione. Tali somme possono venire
da fonti impure; non sono mai libere e spontanee offerte di soci e di simpatizzanti. Non sarò
io a dire le vie segrete per il finanziamento ai
partiti perché la mia esperienza personale del
1919-1924 non ha nulla di simile con l’esperienza del 1945-1958.
Che i finanziamenti siano dati da stranieri,
da industriali italiani, ovvero, ancora peggio,
da enti pubblici, senza iscrizione specifica nei
registri di entrata e uscita, o derivino da percentuali in affari ben combinati (e non sempre
puliti), è il segreto che ne rende sospetta la
fonte, anche se non siano state violate le leggi
morali e neppure quelle che regolano l’amministrazione pubblica. Il dubbio sui finanziamenti dei partiti si riverbera su quelli dei candidati; e con molta maggiore evidenza se si
tratta di persone notoriamente di modesta fortuna, professionisti di provincia, giovani che
ancora debbono trovare una sistemazione familiare conveniente, impiegati a meno di centomila lire mensili, e così di seguito.
Alla fine delle elezioni abbiamo sentito notizie sbalorditive, che fanno variare da dieci a
duecento milioni le spese di campagna di singoli candidati. Naturalmente, la fantasia popolare e la maldicenza dei compagni di lista per
le elezioni della Camera non hanno per confini
che il risentimento di aver perduto la battaglia
o quello personale di essere stato scavalcato
nell’ordine delle referenze da concorrenti fino
a ieri creduti cavalli bolsi. E pur facendo a tali
sentimenti e risentimenti post-elettorali le falcidie che meritano, resta quel margine insopprimibile di verità che, allo stato delle cose, è
sufficiente indizio dell’entità di entrate e di
spese sproporzionate alle possibilità normali
dei candidati stessi. C’è chi accusa l’apparato
dei partiti, il quale, discriminando i candidati
N
della stessa lista, ne determina l’accaparramento di voti a favore degli uni con danno degli altri. Non mancano indizi circa il patrocinio
politico che enti statali e privati si assicurano
in Parlamento favorendo l’elezione di chi possa sostenere e difendere i propri interessi, impegnando a tale scopo somme non lievi nella
battaglia delle preferenze. Quando entrate e
spese sono circondate dal segreto della loro
provenienza e della loro destinazione, la corruzione diviene impunita; manca la sanzione
morale della pubblica opinione; manca quella
legale del magistrato; si diffonde nel Paese il
senso di sfiducia nel sistema parlamentare.
Ecco i motivi fondamentali che rendono urgenti i provvedimenti da me proposti circa i finanziamenti e le spese dei partiti nel loro funzionamento normale; dei partiti e dei candidati
nelle elezioni politiche e amministrative.
Per ottenere questi scopi di pubblica moralizzazione, occorre anzitutto affrontare il problema giuridico della figura e dell’attività dei
partiti. La Costituzione contiene in proposito
due disposizioni fondamentali. All’articolo 29
sta scritto: «Tutti i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale». All’articolo 67 si legge
«Ogni membro del Parlamento rappresenta la
Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
Il partito, pertanto, ha per fine di concorrere
a determinare la politica nazionale, tale concorso è attuato con metodo democratico; mentre i membri del Parlamento, pur eletti con
l’organizzazione e l’ausilio dei patiti, rappresentano come tali non il partito ma la Nazione
ed esercitano il proprio ufficio senza vincolo
di mandato. Né l’elettorato che li sceglie, né
il partito che aiuta la scelta può vincolare gli
eletti a deputati e senatori ad una predeterminata linea di condotta, perché in tale caso essi
rappresenterebbero una frazione della propria
circoscrizione elettorale ovvero un partito cioè
una sezione di cittadini (spesso assai esigua)
al quale han data la propria adesione.
La Costituzione implicitamente contiene tutto quel che si può esplicitare in leggi per mantenere puro, alto e indipendente l’ufficio di
rappresentante della Nazione, in modo da non
essere mai accusato di aver contratto legami
per finanziamenti di dubbia origine o peggio
essere portavoce di gruppi particolari contro
gl’interessi generali.
Per precisare la responsabilità occorre anzitutto che il partito, pur conservando la libertà che deve avere il cittadino nella propria attività politica, sia legalmente riconoscibile ad
essere posto in grado di assumere anche di
fronte alla legge le proprie responsabilità. A
questo scopo con il disegno di legge, che ho
l’onore di presentare, viene fatto obbligo ai
rappresentanti dei partiti di depositare nella
cancelleria del tribunale competente lo statuto
e le successive variazioni, firmato dal presidente e dal segretario generale. Questo atto
basa per potere attribuire al partito la personalità giuridica e in tale veste potere anche
possedere beni stabili e mobili senza alcuna
autorizzazione preventiva.
La figura che verrebbe assegnata al partito
non trova completi riferimenti nelle disposizioni codificate; invero, il partito non può ritenersi, qual’è al presente, una semplice società di fatto senza personalità giuridica, perché mancherebbe di responsabilità; né può essere equiparato ad una associazione o fondazione privata da essere riconosciuta agli effetti
legali con decreto del Presidente della Repubblica e quindi ricadente sotto la vigilanza ministeriale, la qual cosa lederebbe l’indipendenza del cittadino nel campo della politica;
neppure potrebbe avere la figura di società
con fine economico, patrimoniale o di qualsiasi interesse materiale da tutelare. Pertanto,
on ho previsto il caso che lo statuto contenga disposizioni non consoni al metodo democratico prescritto dalla Costituzione, perché
manca fin oggi una definizione che possa giuridicamente fare stato per ciò che precisa il
metodo democratico e quali possano essere gli
effetti legali di una violazione od omissione.
Ciò nonostante, una volta stabilito l’obbligo
del deposito dello statuto con l’effetto dell’acquisto della personalità giuridica, la discussione sul metodo democratico dei partiti prenderà
aspetto concreto in base ad una elaborazione
teorica e pratica che non mancherà da parte di
giuristi e di interessati. Nella fase attuale è meglio mettere il problema da parte e lasciare che
gli studi in merito diano sufficienti indicazioni
per un susseguente atto legislativo.
Conseguente al primo articolo è il secondo
che prescrive il deposito alla cancelleria del
tribunale dei rendiconti annuali. Questa disposizione è completa da quella contenuta all’articolo terzo, con il quale sono vietati i finanziamenti che, per la loro origine e per il loro
carattere particolare, attenuerebbero la libertà
politica dei partiti, ovvero li renderebbero consociati a determinate finalità o renderebbero i
partiti conniventi in atti illeciti o discutibili per
gli enti finanziatori e per gli interessi particolari che da tali enti si intendono assicurare.
L’elenco dei finanziamenti vietati è di per sé
evidente e posso dispensarmi dal darne nella
relazione una particolare dimostrazione, pur
riservandomi di rispondere in Commissione o
in Aula a tutte le richieste in merito; qui mi limito a chiarire il motivo per avere incluso
nell’elenco ogni società o singolo contribuente
che viene tassato in base a bilancio, perché il
bilancio che deve essere presentato dovrebbe
indicare come spesa il contributo ad un partito,
non potendo questo essere incluso nella somma che si mette a disposizione del consiglio di
amministrazione o dell’unico gestore per beneficienza o per spese nell’interesse dell’azienda. È chiaro che in questo caso il segreto che si vuole sopprimere nei rapporti fra partiti e finanziatori resterebbe ancora possibile.
L’articolo 4 riguarda i finanziamenti e le spese elettorali dei partiti; per questi si mantiene
l’obbligo del deposito dei rendiconti nella cancelleria del tribunale competente. È opportuno
che si tengano distinte entrate e uscite normali
per il funzionamento dei partiti da quelle straordinarie per le elezioni, anche perché a queste
sono state assegnate opportune limitazioni fra
CRITICAsociale ■ 13
3-4 / 2012
le quali importantissimo il divieto di dare concorsi ai candidati per spese personali.
Con l’articolo 5 si fa obbligo ai partiti che
ogni bene mobiliare o immobiliare venga nominalmente intestato al partito stesso, vietando
qualsiasi acquisto di titoli al portatore, anche
titoli di Stato e la intestazione di comodo a terze persone o a società fittizie.
All’articolo 6 è fatto obbligo ai candidati di
depositare alla cancelleria del tribunale i rendiconti delle entrate ottenute e delle spese personali sopportate per la campagna elettorale, in
base a un limite prestabilito da non potersi superare senza incorrere nelle penalità previste.
Il limite delle spese elettorali di ogni singolo
candidato è necessario per evitare che coloro
che sono ben forniti di reddito proprio e di amicizie di persone denarose possano largamente
usare il denaro per attirare ammirazione, simpatie e voti a danno di coloro che non si trovano nelle stesse condizioni di agiatezza o di ricchezza, a parte coloro che sanno procurarsi larghi concorsi con favori non sempre limpidi e
confessabili. Il sistema democratico obbliga a
trovare un limite basso per le poche spese indispensabili a mantenere opportuni contatti col
corpo elettorale. È questo il motivo dei limiti
di spese personali fissate all’articolo 6.
L’articolo 7 attribuisce al cittadino la facoltà
di prendere visione degli atti depositati in cancelleria e di fare denunzia al magistrato delle
presunte violazioni di legge. Tali violazioni sono punite con una serie di multe tenute sulla
linea di equità e di rigore insieme.
Una disposizione importante è stata messa
all’articolo 8 che i rendiconti presentati siano
equiparati ad atti pubblici e l’occultamento
delle verità per omissione o per variazione di
cifre è reputato agli effetti penali come falso
in atto pubblico.
Occorre ridare fiducia al Paese che la legge
dovrà essere osservata e che la moralizzazione
della vita pubblica non ammette condiscendenze riguardo la formazione del principale e
fondamentale organo statale, il Parlamento, sul
quale poggia tutta la struttura politico-giuridica della Repubblica italiana.
Ad illustrare la necessità del provvedimento
legislativo da me proposto, aggiungo brevi accenni sulla vigente legislazione estera. Da
tempo esistono nei paesi democratici norme
riguardanti le spese elettorali, anzitutto per
evitare che i candidati forniti di mezzi e disposti a spenderli, potessero prevalere su coloro
che non ne dispongono o che reputano sconveniente usarne. A parte le finalità storiche e
pratiche delle singole leggi, tutte tendono a
normalizzare la lotta elettorale e a regolare
l’intervento dello Stato per determinati servizi
utili allo scopo.
La Gran Bretagna, che in materia di sistema
parlamentare fa testo e per il rispetto di tradizioni ultrasecolari e per lo spirito di adattamento ai tempi on le minori scosse possibili, anche
in questa materia può darci utili indicazioni.
Ogni candidato è obbligato a versare un deposito di centocinquanta lire sterline, che si restituisce se il candidato supera la percentuale
dell’ottavo dei voti validi di tutto il collegio,
mentre nel caso contrario viene incamerato dall’erario. Ciò serve ad evitare le candidature senza sufficiente base elettorale che rendono meno
chiara la designazione popolare e non conferiscono alla formazione di una clear majority.
Per lo stesso motivo sono esclusi dal cartello
radiofonico e televisivo di propaganda elettorale i partiti che presentano meno di cinquanta
candidature in tutto i territorio del Regno Unito.
Il criterio di formare una maggioranza efficiente prevale su quello della rappresentanza delle
minoranze. Da noi avviene il contrario per la
immaturità della nostra esperienza democratica. Inoltre è proibito l’uso di radiostazioni si-
tuate al di là dei confini del Regno a scopo elettorale, e la violazione del disposto è penalmente
perseguibile. La propaganda elettorale è controllata dallo Stato, sia per il numero dei manifesti, delle stampe permesse e delle spese autorizzate. Le somme che ciascun candidato potrà
spendere per la campagna elettorale sono fissate con rapporto all’ampiezza del collegio e al
numero degli elettori.
In Francia la terza e la quarta Repubblica
hanno avuto leggi limitative per la propaganda
elettorale a mezzo delle fornitura statale della
carta a ciascun candidato e con altre limitazioni di legge. Il candidato doveva inoltre versare
una cauzione di 20 mila franchi, da essere rimborsata se il candidato otteneva non meno del
5 per cento dei voti validi della circoscrizione
altrimenti andava perduta; inoltre se il candidato non superava il 2,50 per cento doveva
rimborsare allo Stato le spese fatte per tale
candidatura. Anche l’uso della radio e della televisione è stato fin oggi limitato a quei partiti
che presentavano candidati in non meno di
trenta dipartimenti. Le penalità per i trasgressori sono state multe e detenzione carceraria,
secondo i casi.
Nella Costituzione tedesca vi è il disposto
analogo a quello italiano; l’articolo 21 suona
così: «I partiti politici partecipano alla formazione della volontà politica del popolo. La fondazione di un partito è libera. Il loro ordine interno deve rispondere ai principi democratici.
Devono rendere conto al popolo dell’origine
dei loro mezzi». Nello stesso articolo è stabilito che una legge federale preciserà le norme
riguardanti le entrate e le spese dei partiti. Tali
norme sono in corso di elaborazione.
Dove esiste una legislazione precisa e completa è negli Stati Uniti d’America, sia per il
finanziamento dei partiti sia per le spese elettorali. Tanto i candidati che i direttivi dei partiti debbono in tempo dichiarare per iscritto le
spese che a tale scopo intendono sopportare. I
candidati fanno le dichiarazioni alla segreteria
del Senato e i partiti alla segreteria della Camera dei rappresentanti (deputati). La cifra
massima per ciascun candidato non può superare i 10 mila dollari; in casi eccezionali di collegi estesi e con elettori numerosi vi può essere
un supplemento che non potrà superare complessivamente i 25 mila dollari. Se la spesa
sembra eccessiva, bisogna pensare quali siano
i costi della vita americana e quale altezza abbiano raggiunto gli stipendi professionali e i
salari di lavoro. La penalità per i trasgressori,
multe fino a 10 mila dollari e detenzioni carcerarie fino a due anni, o l’uno e l’altro insieme, sono applicate secondo la gravità del reato. La stessa pena è comminata al candidato
che promette un posto privato o pubblico in
compenso dell’appoggio elettorale. Se si domanda un contributo ad impiegati federali, la
multa è portata a 15 mila dollari e la detenzione a tre anni. Sono proibite le contribuzioni
delle banche, delle corporazioni (società di affari e imprese), dei sindacati operai (unions)
con quasi le stesse penalità. La lista continua
anche per reati fuori dal periodo elettorale e
per attività politiche in contrasto alle leggi di
sana amministrazione riferentisi a persone singole e associate o a organizzazioni di partiti.
Allo scopo di provare che il mio disegno di
legge non è nuovo e trova consensi negli stati
democratici più qualificati, basta quanto è stato già scritto; e ogni altra indicazione sarebbe
superflua. Spero che la presente iniziativa trovi il Senato disposto ad un approfondito esame, in modo da potere dare al Paese una legge
che riporti la posizione di partiti alla lettera e
allo spirito della Costituzione e nel binario di
sana democrazia, nella quale il Parlamento
tenga il suo prestigio intatto e la sua funzione
con piena ed efficiente responsabilità.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1
È fatto obbligo ai cittadini che si associano
in partito per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, di depositare il proprio statuto e le successive variazioni con le firme autenticate del presidente
e del segretario generale, alla cancelleria del
tribunale civile del luogo dove è fissata la sede
centrale. I trasferimenti saranno notificati anche alla cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione si trova la nuova sede.
Dalla data del deposito dello statuto il partito acquista personalità giuridica.
Art. 2
L’amministrazione del partito dovrà presentare alla cancelleria del tribunale dentro ogni
mese di marzo il rendiconto delle entrate e delle uscite dell’anno precedente compresevi, in
riassunto per provincia, le entrate e le uscite
delle sezioni locali, distinguendo per queste
ultime i finanziamenti concessi dall’amministrazione centrale del partito da quelli ottenuti
localmente.
Il rendiconto annuale sarà controfirmato dal
presidente e dal segretario generale o da cloro
che ne fanno le veci.
Art. 3
Nel rendiconto saranno tenuti distinti i contributi ordinari dai contributi straordinari dovuti dagli associati; nonché i cespiti di beni
mobili e immobili appartenenti al partito o a
società ed enti dei quali il partito abbia partecipazione.
Ogni altra entrata deve essere indicata con
il nome e l’indirizzo di chi versa e per conto
di chi versa e del motivo del versamento.
È vietato ai partiti accettare contributi di ministeri, enti e gestioni statali; di enti locali territoriali, enti o banche di diritto pubblico o di
interesse nazionale; di cooperative, federazioni
di cooperative, consorzi, enti consortili e relative federazioni, e di ogni altra gestione autonoma statale e non statale, che per legge è sottoposta alla vigilanza e al controllo ministeriale. È vietato, inoltre accettare offerte e finanziamenti da confederazioni di lavoratori e di
datori di lavoro e da qualsiasi impresa o società
che, come tale, è tassata in base al bilancio.
Il divieto previsto nei due comma precedenti
si applica anche ai contributi, sussidi, finanziamenti di qualsiasi ente, organizzazione e
impresta stranieri.
Art. 4
L’amministrazione del partito deve tenere
speciale contabilità delle spese elettorali politiche e amministrative dal giorno dell’apertura
del periodo elettorale fino a un mese dopo la
proclamazione degli eletti. Il rendiconto delle
entrate e delle spese a scopo elettorale, con
l’indicazione dei residui attivi e passivi da regolare, sarà presentato non oltre tre mesi dopo
la proclamazione degli eletti. È fatto divieto ai
partiti di assegnare, sui fondi propri, concorsi
personali alle spese che ciascun candidato intende fare a proprio vantaggio.
Art. 5
Le azioni appartenenti al partito debbono essere sempre nominative, siano anche titoli di
Stato o titoli emessi all’estero ovvero nelle regioni a statuto speciale dove è consentito per
legge il titolo azionario al portatore.
Anche i beni immobili appartenenti al partito debbono essere ad esso intestati.
Art. 6
È fatto obbligo ai candidati elettorali, siano
o no eletti a posti di pubblica rappresentanza,
di presentare alla cancelleria del tribunale
competente un elenco delle offerte ricevute e
delle spese sopportate per la propria candidatura. Tali entrate e spese non possono superare
lire 200.000 per le elezioni comunali; lire
300.000 per le provinciali; lire 400.000 per le
regionali; lire 500.000 per le senatoriali; lire
600.000 per elezioni a deputato.
Nel decreto di convocazione dei comizi elettorali è precisata, dentro i limiti indicati nel
precedente comma, la spesa consentita ai candidati con riferimento all’ampiezza della circoscrizione e al numero degli elettori. Il disposto degli ultimi tre commi dello articolo 3 della
presente legge è esteso ai finanziamenti, contributi e offerte per i singoli candidati.
Art. 7
Ogni cittadino può prendere visione degli
statuti e dei rendiconti annuali ed elettorali dei
partiti e dei singoli candidati. Può anche denunziare alla magistratura eventuali violazioni
di legge.
In caso di accertata violazione delle disposizioni degli articoli precedenti si precederà
anche d’ufficio ai sensi di legge.
La omissione del deposito negli atti può essere punita con la multa da 500 mila lire fino
a due milioni. In caso di recidiva, la multa è
raddoppiata.
La violazione delle disposizioni riguardanti
i finanziamenti e le spese è punita con la multa
fissa di lire 500.000 oltre l’aggiunta da tre a
dieci volte la somma riscossa o pagata illecitamente.
In tutti i casi previsti sono responsabili della
violazione di legge tanto chi versa quanto chi
riceve.
Art. 8
Se gli atti depositati nella cancelleria del tribunale dai partiti e dai singoli candidati contengono tali omissioni e inesattezze da potersi
dedurre essere stata occultata o alterata la verità, i responsabili sono puniti a norma dell’articolo 483 del Codice penale, per falsità commessa dal privato in atto pubblico. s
14 ■ CRITICAsociale
3-4 / 2012
■ NOTE E APPUNTI SUL CICLO CHE DA AGOSTO AD OGGI HA PORTATO L’ITALIA SULL’ORLO DEL BARATRO
IL GRANDE SLAM
SE ESPLODE IL SUD
SI SPACCA L’ITALIA
L’attentato alla scuola Morvillo di Brindisi
ha due contesti coincidenti: la ricorrenza dell’assassinio di Falcone (celebrato dalla programmata Cavorana della legalità che appare
più che altro offrire un pretesto agli attentatori
per depistare) e, più seria ma poco rilevata, la
apertura del G8 negli Usa in cui si preannuncia
uno spostamento di baricentro italiano - in un
quadro di indebolimento della Merkel - sull’
asse USA-Francia-Gran Bretagna (la quale, ricordiamo, non firmò l’accordo del fiscal compact del duo Merkozy e mentre venne data per
“isolata” dalla stampa italiana con miopia interessata o conformista, in realtà rompendo la
notte del fiscal compact ruppe l’europa a guida
Merkozy, scavando la fossa al presidente francese, schiacciandolo sulla Germania - e già
con moglie italiana).
Le concomitanze coincidenti
1. L’Italia ora sembra “scelga di scegliere”
dopo la prolungata incertezza di fronte al bivio
tra la Germania che guarda ad est e gli Usa
(perchè questa è la reale posizione di equilibrio geopolitico dell’Italia dopo il Muro, accentuata (e causa) dalla fine della Prima repubblica e succesivamente dall’ 11 settembre:
“Atlantico o Eurasia?”. Un dilemma - trasversale agli schieramenti - che ha segnato gli anni
del bipolarismo), uno spostamento d’asse verso la rinnovata triplice della “libertà del mare”
(gli “alleati” della seconda guerra mondiale)
in alternativa al polo centrale della “continuità
nella terraferma”. E alla vigilia, Monti si presenta al vertice con il telefono che scotta e il
suo Paese insanguinato da un attentato terroristico. “Terroristico”, una valutazione più ampia di “mafioso”.
L’Italia non ha un suo specifico ruolo di
anello o di mediazione tra Francia e Germania,
come la stampa italiana genuflessa e provinciale le attribuisce. Nè di ago della bilancia in
Europa, frutto di titoli seduttori della stampa
anglosassone.
2. Anche l’attentato al giudice Falcone fu
qualcosa di più ampio di un attentato “mafioso”, fu un attentato terroristico, condotto come
una operzione di guerra, che determinò il crollo nervoso del Parlamento e dei Partiti alla prese con una irrisolvibile elezione del Capo dello
Stato, che il giorno dopo venne scelto in quanto presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, seconda carica dello Stato, al momento
l’unica carica istituzionale disponibile per dare
il segno di fronteggiare l’emergenza al Paese
e tentare di chiudere la partita politica. Una
partita non qualsiasi, ma decisiva, di fase, seconda per importanza strategica solo al centro-sinistra del 62 voluto da Kennedy quattro
mesi prima del suo assassinio.
Una partita politica che rifletteva sia la nuova situazione europea senza l’URSS, ma - internamente - già interferita dai primi lampi di
mani pulite. Era una corsa contro il tempo con
una inchiesta che si preannunciava destabilizzante (da pochi però così percepita) ed un
cambio di passo (la riconferma di Craxi a Palazzo Chigi col Pci che in attesa di cambiare
nome si autodefiniva una “Cosa”, incerto sulla
sua nuova identità) per creare le basi di un
quadro politico nuovo, ma stabile, uno sbocco
alla fine della centralità democristiana (riven-
dicata da De Mita), dopo il ciclo della guida
socialista e laica degli anni 80. Ciclo inedito
persino col centro sinistra degli anni 60 e che
sembrava potesse aprire prospettive nuove di
alternativa politica mai conosciute durante la
guerra fredda.
L’attentato a Falcone taglia la strada a tutto
questo e costringe i partiti e lo Stato sulla difensiva. Ma soprattutto il mazzo cambia di
mano: d’ora in poi la partita la giocano la procura di Milano, col nuovo Presidente (il “deputato di Novara” del dossier sul tavolo di
Borrelli) e l’ex Pci (al momento salvaguardato
dalle inchieste giudiziarie, presente l’inviato
speciale Usa a Roma, l’ambasciatore dei momenti di crisi, Reginald Bartholomew).
Gli attentati successivi del ‘93 di Roma, Firenze e Milano, in realtà “stabilizzano” questa
nuova situazione di sospensione della democrazia rapresentativa in attesa di un “nuovo regime” (la seconda repubblica) ed esattamente
come accadde dopo Falcone, essi intimidiscono il “Parlamento degli inquisiti” che abbandona ogni residua resistenza, vota il suo suicidio con la nuova legge elettorale maggioritaria, e “pistola alla testa” si autoscioglie immediatamente dopo.
Il contesto interno, dal punto di vista politico, è simile al 1993, forse peggiore, perchè
l’Italia è stata lasciata allo sbaraglio di fronte
alla speculazione finanziaria, fino a ridurne la
forza economica e, soprattutto, politica in modo assai più profondo della speculazione sulla
lira del ’92. La crisi stavolta morde la carne
della società stessa su cui si esplode anche la
bomba contro la gioventù di Brindisi. L’attentao vuole mettere in una luce di fragilità l’Italia di fronte ai “grandi” tra cui siede al G8 statunitense, il primo ministro italiano. Una fragilità tutta politica, di cui la supplenza stessa
durante la crisi di un governo divenuto “tecnico” per assenteismo dei partiti, ne è l’apice.
Le analogie
Le analogie della situazione interna col
1993 (vent’anni fa, nascendo la seconda repubblica sulle ceneri violentate della prima)
sono:
- la liquefazione dei partiti politici. Sorti per
essere “bipolari”, i nuovi partiti sono oggi accatastati, senza governo e senza maggioranza
degli elettori. La teoria del carisma ha lasciato
le istituzioni repubblicane in mano al notabilato e ha allontanato il popolo dalle istituzioni
rappresentative.
- le elezioni contestuali nel 2013 delle Camere e del nuovo Presidente della Republica,
che oggi è l’unico caposaldo costituzionale
che impedice all’intero sistema di crollare e ripiegarsi su se stesso soffocando chi è sotto, come un tendone che si afflosci.
Coincidenze politico-simboliche in un critico quadro economico-istituzionale, danno una
lettura politica e non mafiosa della bomba di
Brindisi. La criminalità potrebbe essere stata
strumento, ma non è neppiure detto che questo
sia avvenuto. La nafia cerca consenso nel territorio. Sono mani segrete che non lasciano
impronte, probabilmente non italiane. Arabe?
Colpire i giovani meridionali è come gettare
un fiammifero nella benzina sulla sponda opposta della “primavera araba”.
Ma poichè il riferimento è a Falcone, sembra essere anche un avvertimento a quanto po-
trebbe accadere al sistema politico, poichè la
morte del giudice fu il punto di non ritorno
della prima repubblica. L’attentato avviene dopo le elezioni test del 6 maggio che registrano
la crisi di credibilità dei partiti a livelli ormai
ingestibili.
Intrecciando queste osservazioni tra loro, in
sostanza, l’anno che ci separa dalle elezioni
politiche sarà un anno di destabilizzazione che
mira alla conflittualità sociale e alla repressione, a un clima da guerra civile che inghiotta,
paralizzandolo, uno Stato che si vuole sia percepito come “esigente” e “infedele”, non capace cioè di difendere la vita dei suoi cittadini,
ma duro per far tornare conti i “europei”. La
conflittualità sociale e la liquefazione istituzionale, sembra essere la profezia di Bridisi.
Provocazione all’ interno, ma soprattutto messaggio internazionale.
I poteri forti hanno necessità di Stati deboli.
Lo Stato è forte solo quando ha con sè una nazione convinta che la Repubblica - che lo Stato
governa e amministra - sia come cosa propria.
E questa percezione più che la crisi economico-finanziaria, l’ha fatta perdere la classe politica della seconda repubblica, il suo farsi notabilato imbelle.
Anche stavolta è una corsa il tempo. s
4.207.056.910 EURO
QUESTA L’EVASIONE SUI CONDONI
“L’
evasore-condonato è vivo e lotta e vota
assieme a noi” è il grido dei grandi partiti, pilastri del malato bipolarismo italiano. Il condono tombale 2003-2004 è stato oggetto di una
attenta analisi della Corte dei Conti (relazione
4 novembre 2008 del magistrato istruttore dott.
Luigi Manzillo), e di u successivo controllo
della stessa Corte sui risultati ottenuti dall’amministrazione finanziaria per il recupero delle
rate del condono non riscosse (magistrati relatori dott. Stefano Siragusa e dott. Mauro Oliviero). A seguito di queste indagini la sezione
centrale di controllo della Corte dei Conti il 31
maggio 2011 adottava una deliberazione
(n°6/2011/G) con la quale si ordinava all’amministrazione finanziaria di comunicare entro
6 mesi alla stessa Corte i provvedimenti adottati per il recupero delle rate non riscosse del
condono 2003-2004 (dati definitici al
31.12.2010) pari ad euro 4.207.056.910 (4 miliardi e duecento-rotti milioni di euro).Questo
non solo fu il condono più vasto e più a buon
mercato di tutta la storia dei condoni, ma fu anche il condono che godette di estensioni e riaperture di termini mai avvenute in passato. Per
carità repubblicana non voglio parlare delle inqualificabili norme che introducevano il condono per le somme non versate dai contribuenti per obblighi fiscali già dichiarati, e di quelle
che prevedevano la possibilità di poter acquisire lo scudo della riservatezza (fu così aperta
la strada allo Scudo per i capitali esportati all’estero).La gestione di questi condoni è stata
esercitata da governi di centrodestra e di centrosinistra con la stessa tolleranza. Vengono così alla luce tre questioni:
1. Le difficoltà strutturali della Pubblica amministrazione che non è in condizione di controllare il comportamento dei condonati dopo
la sanatoria;
2. La complicità oggettiva dei parlamentari nel
favorire i condonati con rateizzazioni senza alcuna garanzia;
3. L’inerzia dell’Amministrazione nel rilevare,
entro l‘area dei soggetti condonati, la platea di
coloro che avevano beneficiato degli effetti
della redistribuzione dei redditi “indotti” dal
passaggio dalla Lira all’Euro. La vasta documentazione prodotta dalla Corte dei Conti fu
inviata all’Amministrazione finanziaria, ai
Presidenti di Camera e Senato, ai Presidenti
delle Commissioni Bilancio dei due rami del
Parlamento.Vorrà il Senato - che sta esaminando il decreto - anticipare il governo che ha
tempo sino al 30 novembre 2011 di rispondere
alla Corte dei Conti, e prendere l’iniziativa di
inserire nella manovra un “contributo di solidarietà” almeno per le società di capitale condonate e per i grandi evasori condonati?Dubito
che ciò possa avvenire perchè gli evasori sono
tanti e potenti e votano.Per chi ha il sostituto
d’imposta e non ha nulla da condonare non gli
resta che scioperare per protestare. Ma a che
serve? Compagna Camusso, sino a quando i
Sindacati potranno tollerare il prelievo alla
fonte per il lavoro dipendente e la dichiarazione volontaria e opinabile per gli altri contrinìbuenti? Quando verrà il giorno che i Sindacati
chiederanno contratti al netto d’imposta? Come i calciatori? Quel giorno anche Marchionne, Montezemolo e Mercegaglia dovranno rifare i loro conti per calcolare se è conveniente
o meno entrare in politica. E sarà un bel problema. Come è diventato per l’ineffabile Berlusconi. s
AI COMUNI I SOLDI
DELL’EVASIONE
L’ex ministro delle Finanze, Rino Formica
ha affidato alla Critica sociale e al Riformista
di Emanuele Macaluso, una sua bozza di proposta per correggere la manovra con il recupero di soldi dall’evasione, proposta illustrata
in una lettera al segretario del Partito Democratico, Bersani. D’accordo con l’ex ministro
socialista, la dedichiamo a tutti i Sindaci dei
Comuni italiani, in particolare ai sindaci dei
comuni minori, la fascia della politica più nobile, disinteressata e soprattutto eletta dalle comunità, affinché siano informati sulle alternative concrete rispetto ai “tagli ai comuni” che
per la specificità dela società nazionale diventano tagli alle radici della convivenza quotidiana di comunità spesso antiche e alle prime
realtà storiche di democrazia sociale. Al Segretario del PD Caro compagno Bersani, uso
la parola compagno perchè penso che tu, con
la proposta di tassare con il 20 per cento gli
utilizzatori dello “scudo fiscale” sia stato mosso dall’antico impulso dei vecchi militanti della sinistra storica impegnati per un secolo a
chiedere giustizia ed eguaglianza. Se la tua
proposta non è propaganda, ma è - come io
credo- uno spostamento a sinistra della linea
tuo tuo partito, puoi andare molto oltre se ti
metti a scavare tra gli emersi dei vari condoni
varati dai governi di centrodestra e di centro
sinistra negli ultimi venti anni.L agenzia delle
entrate e tutte le esattorie possiedono gli elenchi di tutti i condonati: basterebbe prendere
quelli di fascia medio alta (società e persone
fisiche) ed imporre un “contributo di solidarietà” del 5-10 per cento sull’ultima dichiarazione dei redditi, con l’esclusione di bottegai,
artigiani e piccole imprese.I condoni in Italia
non sono popolari perchè la metà dei contribuenti è “incisa” direttamente alla fonte e vede
male l’altra metà che paga poco e poi viene
condonata.
CRITICAsociale ■ 15
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Ma vi è poi anche il caso vasto degli ipocriti
evasori che si coprono con prediche moralistiche: nel 1982 il grande “condono tombale” fu
un atto legislativo del Governo Spadolini (ministro del Tesoro Andreatta, delle Finanze,
Formica, del Bilancio, La Malfa). Anche in
quella occasione vi fu un coro di indignati. Ma
quando nel 1989 tornai al ministero delle Finanze mi procurai l’elenco dei condonati e
senza sorpresa lessi i nomi di tutta l’Italia che
conta.Vi era la Banca d’Italia, tutte le banche
italiane, tutte le imprese pubbliche dell’IRI,
l’Eni, l’ Efim, tutte le grandi aziende private.
Tra queste, in particolare, trovai anche la richiesta della Olivetti con la firma del suo Presidente, prof. Visentini, della Fiat con la firma
del dott. Romiti e persino della Juventus con
un’aurea sigla di un Agnelli.Dimenticavo che
sempre il condono nell’82 fu richiesto anche
dalla Guardia di Finanza per i suoi spacci all’interno delle caserme.Aveva ragione il dott.
Cuccia che non si fidava dei bilanci delle società perchè, diceva, “erano tutti falsi”.L’area
dei condoni è vasta e sarebbe totale se non vi
fosse il prelievo alla fonte.Caro Compagno
Bersani,se vuoi punire gli evasori, gli elenchi
sono tutti disponibili. Basta chiederli. Mentre
per gli elenchi dei beneficiari dello “scudo fiscale” vi è qualche complicazione perchè lo
Stato ha garantito l’anonimato che non è assicurato ai condonati. Il “contributo di solidarietà” da applicare ai condonati può avere durata
triennale e può essere rigirato ai Comuni in attesa della riforma fiscale e dell’attuazione del
federalismo fiscale. Fraterni saluti, Rino Formica s
I DISPACCI E LA COSTITUZIONE
I
l decreto di Ferragosto è la trascrizione sotto
dettatura dell’editto “Draghi - Trichet”. Draghi
non è nuovo a queste performances che superano i limiti del suggerimento tecnico ed investono con forza il campo trincerato dell’assetto
ideologico della Carta Costituzionale e della
forma di Stato democratico-parlamentare, che
i Costituenti scelsero per l’Italia repubblicana.
Draghi ebbe parte non secondaria nel ‘92‘93 nel dare il via alla demolizione della democrazia politica ed economica organizzata. I
Costituenti assegnarono ai partiti politici il
ruolo di corpo intermedio tra Sato e cittadino,
e di parte dello Stato democratico, perché doppio era l’ esercizio della sovranità del popolo:
nei partiti per rinnovare lo Stato (art.49) e nello Stato per costruire una società tesa alla realizzazione del’eguaglianza reale (art.3). I Costituenti furono espliciti nell’indicare una
scelta in contrasto con la tradizione liberale in
cui il legame individuo-Stato era immediato
ed estrinseco.
Altrettanto espliciti furono i Costituenti nel
tenere aperta la prospettiva sociale a soluzioni
di dirigismo pubblico e al riconoscimento degli interessi privati, indirizzati e coordinati
(art. 41). Questavolta l’editto Draghi non si è
limitato come nel ‘92-‘93 allo smantellamento
dell’impresa pubblica, ma ha chiesto che un
decreto di assestamento di bilancio fosse anche un manifesto di mutamento costituzionale
e di retorica liberista.
Ed è così che l’allegra brigata dei costituzionalisti, templari dell’Ordine “La Costituzione non si tocca”, non hanno alzato un dito
verso chi aggirando le norme di garanzia per
il cambiamento costituzionale previste dall’art
138, ha trasfuso nel decreto di Ferragosto per
quattro volte(art.1,art.3,art.13,art.15) un indirizzo di mutamento costituzionale con anticipo
di disposizioni tese a rendere operativo il radicale di cambiamento della Costituzione. Con
un decreto si recita per quattro volte “in attesa
della revisione costituzionale” su quattro punti
nodali della carta: art. 81 (sovranità parlamentare sul bilancio) art. 41 (democrazia economica) e gli articoli relativi alla composizione
della Camere e della composizione del governo delle autonomie locali territoriali.
Bisogna tornare al colonialismo per trovare
dei mutamenti costituzionali per intervento
esterno.
Nella prima repubblica Guido Carli auspicava il vincolo esterno per correggere i difetti
della politica italiana.
Oggi Draghi utilizza il vincolo esterno per
cambiare senza assemblea costituente la Carta
Costituzionale.
Se in Parlamento non ci sono forze sufficienti per cancellare in via preliminare le quattro premesse di mutamento costituzionale,
vuol dire che le Camere si sono auto-sciolte.
In tal caso bisogna approvare la manovra sui
saldi di bilancio e fare ricorso al voto popolare,
perché il popolo possa pronunciarsi sui limiti
del vincolo esterno del nostro assetto costituzionale e sulla nuova forma di stato repubblicano. s
SOVRANITÀ PIGNORATA
“We have a fiscal compact where the European governments are starting to release national sovereignty for the common intent of
being together. The banking system seems less
fragile than it was a year ago. Some bond markets have reopened”.
L’inglese lo sanno tutti (si dice) ma la frase
del Governatore della BCE, Mario Draghi,
contenuta nell’intervista al WSJ di ieri, merita
in questo caso di essere non solo tradotta ma
compresa nel suo possibile significato recondito.
Dice il Governatore: “Noi abbiamo un consolidamento fiscale dove i governi europei
hanno iniziato a cedere sovranità per il comune intento di stare assieme”. Questo auspicato
intento - e la sottostante cessione di sovranità
- permettono il fiscal compact, che a sua volta
fa sì che “il sistema bancario sembra meno fragile di un anno fa” e si riattiva in “alcuni mercati di bond obbligazionari” che “si riaprano”.
È un progetto politico che sorge dalla finanza.
- Il debito europeo non è unificato. Il rapporto debito-credito tra gli Stati è maggiore di
quanto lo sarebbe se compensato reciprocamente.
- In questo quadro di conflittualità tra Stati
debitori-creditori, la BCE non può finanziare
direttamente gli Stati (la Germania non vuole)
e finanzia le banche, ovvero pensa ai requisiti
patrimoniali indipendentemente da come esse
si comportano.
- Le banche, con la nuova liquidità, impiegano produttivamente i finanziamenti disponibili? No: “Il sistema bancario meno fragile
di un anno fa” compra titoli di Stato e i “mercati delle obbligazioni si riaprono”. Ovvero i
debitori si indebitano di più.
- Le banche guadagnano due volte: sui rendimenti relativamente agli spread (l’Italia è il
Paese ideale per la speculazione internazionale
perchè ha risparmio proprio, più della Francia), e con gli alti tassi per il credito interno.
- Chi vigila e regolamenta in questa fase di
grave patologia di sistema? Nessuno: c’è il fiscal compact e l’austerity per racimolare il patrimonio per far fronte agli impegni.
- La divaricazione tra creditori e debitori si
accentua.
- La cessione di sovranità attraverso il fiscal
compact diventa un cappio al collo per non far
saltare in aria l’euro, ma la sovranità ceduta
non diventa partecipata.
- Nelle crisi tra creditori e debitori non c’è
la “cessione”. C’è il “pignoramento”. s
AUTONOMIE A RISCHIO
UNA LETTERA AI SINDACI
Sono solo quattro articoli, ma la Repubblica
italiana, come disegnata dalla Costituzione
non sarà più la stessa, con le sue peculiarità
aveva dato origine ad una Forma di Stato, definita in dottrina come Stato delle Autonomie,
che aveva avuto il suo coronamento con le
modifiche costituzionali della Parte Seconda
Titolo V del 2001. Il dibattito è stato polarizzato soltanto sull’art. 81 Cost., come si trattasse di definire in Costituzione politiche e teorie
economiche, che è comunque un errore, a prescindere dalle proprie preferenze. Lo Stato
perseguirà il pareggio, ma a spese di Regioni,
Province e soprattutto dei Comuni.
Dimenticatevi i concetti di autonomia come
enunciati dall’art. 5 della Costituzione, che apparentemente non viene toccato, ma svuotato
di significato. Siamo chiari un intervento per
ridurre i deficit delle pubbliche amministrazioni era necessario: la nostra preoccupazione è
che nessuna delle cause strutturali è rimossa,
in primo luogo l’evasione fiscale e previdenziale, i costi della corruzione e del clientelismo
e del parassitismo della criminalità organizzata. Inoltre la discrasia tra le competenze e funzioni trasferite, dallo Stato alle Regioni e da
queste o direttamente ai Comuni, e i mezzi finanziari per farvi fronte ha pesato sulla finanza
locale. Il numero dei Comuni potrebbe essere
ridotto, ma non in modo autoritario e senza tener conto che in caso di aggregazione, con
l’attuale sistema elettorale maggioritario e con
riduzione del numero dei consiglieri, le Comunità preesistenti sarebbero tagliate fuori da
ogni rappresentanza. Le disposizioni di principio restano formalmente in vigore.
L’art. 119 Cost. recita ancora “I Comuni, le
Province, le Città Metropolitane e le Regioni
hanno autonomia di entrata e di spesa”, ma si
aggiungerà “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea”.
I comuni virtuosi non saranno premiati perché la loro capacità di “ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento” con la riforma del sesto comma dell’articolo 119 Cost non solo lo potranno fare, giustamente, “con la contestuale definizione di piani
di ammortamento”, ma anche “a condizione
che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio”.
La nostra Costituzione, fosse stato rispettato
l’ultimo comma dell’art. 81 nel testo vigente (
“Ogni altra legge che importi nuove o maggiori
spese deve indicare i mezzi per farvi
fronte”)avrebbe dovuto impedire la formazione
dell’ingente debito pubblico, che ora si vuol ridurre non con virtuose pratiche di finanza pubblica e politica economica ed industriale, ma
con l’accetta di parametri stabiliti in sede europea in vertici di capi di Stato o governo senza
dover rispondere né ai propri Parlamenti, né al
Parlamento Europeo: vi è quindi anche un problema di democrazia e di sovranità nazionale,
altrettanto importante dell’affidabilità per i
mercati finanziari, se non di più per chi pone
al centro la persona con i suoi diritti umani, civici e politici, conquista della nostra civiltà. Per
di più le ricette europee non stanno funzionando, in Grecia, Portogallo e Spagna il rapporto
deficit/PIL continua a crescere. In uno Stato ordinato ed efficiente questi vincoli all’autonomia degli enti locali, cellula base della partecipazione cittadina all’amministrazione pubblica
e agli affari della propria Comunità, si pongono
con legge ordinaria ed infatti sono già previsti
i bilanci obbligatoriamente in pareggio e i limiti di spesa con il famigerato patto di stabilità,
nonché la responsabilità erariale personale degli amministratori per i debiti fuori bilancio o
le spese irragionevoli o illegittime. Bisognava
piuttosto organizzare controlli d’efficienza e
d’efficacia della spesa, da accompagnare a
quelli di legalità, piuttosto che abolire ogni
controllo tempestivo degli organi regionali di
controllo, già previsti dall’art. 130 Cost. e abrogati con la legge costituzionale n. 3/2001. Una
malintesa autonomia sta provocando ora la sua
totale abrogazione.
Non è possibile arrestare la macchina, la
modifica costituzionale è già stata licenziata
due volte dalla Camera dei Deputati e una volta dal Senato della Repubblica, le formazioni
che appoggiano il Governo l’hanno approvata
e anche gruppi parlamentari in dissenso, ma
per rispetto del popolo sovrano e come anticipazione delle numerose proposte di modifica
dell’art. 138 Cost., che prevedono il referendum confermativo obbligatorio per ogni modifica costituzionale, chiedete con forza, che
l’approvazione non avvenga con la maggioranza qualificata dei due terzi (2/3) dei componenti della Camere: per lasciare spazio a
un’eventuale richiesta di referendum, da parte
di 126 Deputati, 64 Senatori, 500.000 elettori
o cinque Consigli Regionali.
L’interesse della Nazione prescritto dall’art.
67 Cost. è un dovere anche per parlamentari
nominati grazie alle liste boccate e non eletti
e una conferma popolare della modifica costituzionale da loro adottata è un modo per legittimarsi restituendo l’ultima parola ai cittadini
e alle cittadine, gli stessi che hanno eletto i loro Sindaci e che eleggeranno il nuovo Parlamento. Si spera che le prossime elezioni politiche si facciano con una legge conforme a Costituzione, se la Corte d’Appello di Milano, il
prossimo 22 marzo la rinviasse alla Corte Costituzionale come richiesto da 27 cittadini elettori, ai quali ho l’onore di appartenere. Il giorno 22 marzo rischia di essere una data triplicemente fatidica: è la data finale delle 5 Giornate di Milano, dell’invio alla Corte Costituzionale della legge elettorale e dell’approvazione definitiva di una riforma costituzionale,
che modifica senza un largo dibattito nella società la forma di Stato delle Autonomie disegnato dai nostri Costituenti nel 1948 e rafforzato coni il consenso del Popolo nel 2001.
In coscienza fossi ancora in Senato non voterei questa riforma, perché sono stato Sindaco
di un piccolo paese di 1200 abitanti e mi identifico in gran parte con la tradizione municipale del socialismo riformista milanese. Scrivete ai parlamentari delle vostre circoscrizione
provinciali, ma soprattutto ai Senatori della
vostra Regione, usate tutti gli strumenti di comunicazione, cui avete acceso per chiedere
nell’interesse dei vostri concittadini e delle vostre concittadine: cari Senatori non approvate
le modifiche alla Costituzione con la maggioranza dei 2/3, lasciate l’ultima parola a chi sta
pagando e pagherà il costo del risanamento. s
Con forte solidarietà per la Vostra causa”
Felice C. Besostri
Senatore della Repubblica, Commissione
Affari Costituzionali XIII legislatura
Sindaco di Borgo San Giovanni (1983-1988)
16 ■ CRITICAsociale
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■ ALCUNI RECENTI INTERVENTI DEI LEADER HELMUT SCHMIDT, FRANCOIS HOLLANDE, FELIPE GONZALEZ, ANDREA NAHLES
I SOCIALISTI E LA CRISI DELL’EUROPA
Pubblichiamo di seguito alcuni stralci del
programma economico del neo presidente
socialista francese Francois Holland
FRANCOIS HOLLAND
“Voglio rilanciare la produzione, l’occupazione e crescita.
Creerò una banca pubblica di investimenti.
Attraverso i suoi fondi regionali, promuoverò
lo sviluppo delle PMI, il sostegno ai percorsi
futuri e la conversione ecologica ed energetica
dell’industria. Consentirò alle regioni fulcro
dell’economia nazionale di acquisire partecipazioni in società strategiche per lo sviluppo
locale e la competitività della Francia. Parte
dei fondi saranno indirizzati verso l’economia
sociale e la solidarietà.
Promuoverò la produzione e l’occupazione
in Francia, dirigendo i finanziamenti, gli aiuti
pubblici e gli sgravi fiscali alle aziende che investono nel nostro territorio, che vi localizzano le loro attività e che si rivolgono all’esportazione. A tal fine, modulerò la tassazione delle imprese locali sulla base degli investimenti
realizzati. In parallelo, mi impegnerò con le
imprese francesi di grandi dimensioni nell’opera di rilocalizzazione delle loro fabbriche
nell’ambito di un contratto specifico. Instaurerò, per le aziende che delocalizzano, il rimborso degli aiuti pubblici ricevuti. Verrà fatta
una distinzione tra gli utili reinvestiti e quelli
distribuiti agli azionisti. Metterò tre diverse
aliquote fiscali sulle società: 35% per le grandi, 30% per le piccole e medie imprese, 15%
per le molto piccole.
Voglio mettere le banche al servizio dell’economia.
Separerò le attività delle banche che sono
utili per gli investimenti e l’occupazione, dalla
loro azione speculativa. Proibirò alle banche
francesi di agire nei paradisi fiscali. Ciò metterà fine ai prodotti finanziari tossici che arricchiscono gli speculatori e minacciano l’economia. Eliminerò le stock options, ad eccezione
che per le start-up, e inquadrerò i bonus. Tasserò i profitti delle banche, aumentando l’imposizione del 15%. Proporrò l’istituzione di
una tassa su tutte le transazioni finanziarie,
nonché una agenzia pubblica europea di rating. Garantirò i risparmi della gente mediante
remunerazioni che tengano conto dell’inflazione e dell’evoluzione della crescita. Per abbassare le spese bancarie, una legge bloccherà
i costi di servizio applicati dalle banche. Per
combattere l’eccessivo indebitamento, il credito al consumo verrà inquadrato.
Voglio riequilibrare le finanze pubbliche.
Il deficit sarà ridotto al 3% del PIL nel 2013.
Ripristinerò l’equilibrio di bilancio alla fine
del mio mandato. Per raggiungere questo
obiettivo, ritornerò sulle agevolazioni fiscali e
le tante “scappatoie fiscali” accordate da dieci
anni alle famiglie più ricche e al grande business. Questa riforma di giustizia aggiungerà
29 miliardi di euro di entrate supplementari.
Una battuta d’arresto sarà portata al procedimento di revisione generale delle politiche
pubbliche e all’applicazione meccanica di non
sostituzione di un funzionario su due. A partire
dal 2012, aprirò un ciclo di consultazioni con
le organizzazioni sindacali della funzione pub-
blica su una serie di questioni: le prospettive
salariali; la lotta contro la insicurezza; le modalità di nomina delle posizioni apicali del servizio civile; lo sviluppo della carriera.
Voglio reindirizzare la costruzione Europea.
Proporrò ai nostri partner un patto di responsabilità, di governance e di crescita e per superare la spirale di austerità che aggrava la crisi. Rinegozierò il trattato europeo derivante
dall’accordo del 9 dicembre 2011, privilegiando la crescita e l’occupazione, e riorientando
il ruolo della Banca centrale europea in questa
direzione. Propongo di creare gli Eurobond.
Difenderò un’adesione piena dei parlamenti
nazionali a queste decisioni europee. Cinquanta anni dopo il trattato dell’Eliseo, proporrò al
nostro partner lo sviluppo di un nuovo trattato
franco-tedesco. Difenderò un bilancio UE
(2014-2020) al servizio dei grandi piani per il
futuro. Sosterrò la creazione di nuovi strumenti finanziari per lanciare innovativi programmi
industriali, in particolare nei settori della tecnologia verde e del trasporto merci su rotaia.
E collaborerò con i nostri partner per un’Europa dell’energia.
Vorrei anche proporre una nuova politica
commerciale per ostacolare qualsiasi forma di
concorrenza sleale e per impostare rigide regole di reciprocità in materia sociale e ambientale. Una contribuzione clima-énergia ai confini economici dell’Europa sarà complemento
di questa strategia. Agirò, nel quadro del G20,
per una parità più equilibrata dell’euro vis-àvis al dollaro e allo yuan cinese, proponendo
un nuovo ordine monetario internazionale.
Voglio impegnarmi in una grande riforma fiscale.
La contribuzione di tutti sarà resa più equa,
consentendo una grande riforma che permetterà la fusione dell’imposta sul reddito e della
CSG (tassa per l’assistenza pubblica che colpisce le rendite da patrimonio) nel quadro di
una procedura sui redditi. Una parte di questa
tassa sarà assegnata alle agenzie di sicurezza
sociale. I redditi da capitale saranno tassati come quelli da lavoro. Farò sì che il più ricco
contribuisca allo sforzo nazionale francese,
con la creazione di una tranche fiscale ulteriore del 45% per i redditi più elevati di 150.000
euro per azione. Inoltre, nessuno dovrà essere
in grado di usufruire di “scappatoie fiscali” al
di là di una somma di 10.000 euro di sgravio
per anno fiscale.
Manterrò tutte le risorse assegnate alla politica familiare. Aumenterò del 25% gli stanziamenti per il rientro scolare nel prossimo anno scolastico. Renderò il quoziente familiare
più equo, abbassando il massimale per le famiglie più agiate. Ritornerò sugli sgravi fiscali
istituiti dalla destra nel 201, ri-aumentando le
aliquote fiscali delle maggiori aziende. La riduzione sull’imposta di successione sarà portata a 100 000 euro per bambino e l’esenzione
per il coniuge superstite sarà mantenuta. Rafforzerò i mezzi per combattere l’evasione fiscale.
Voglio negoziare una nuova riforma delle
pensioni.
Farò in modo che tutti coloro che hanno 60
anni e che hanno pagato i loro contributi abbiano il pieno diritto di andare in pensione a
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tariffa intera per quella età: questo principio
sarà attuato immediatamente. Una trattativa
globale partirà nell’estate del 2012 con le parti
sociali per definire, in una maniera sostenibile
e finanziariamente equilibrata, l’età legale di
pensione, tenendo conto delle difficoltà, dell’importo delle pensioni e dell’evoluzione delle entrate necessarie per la sopravvivenza del
nostro sistema pensionistico e di solidarietà
sociale. Avvierò anche una riforma per accompagnare meglio la perdita di autonomia personale.
Voglio combattere la disoccupazione, che
colpisce soprattutto i giovani e gli anziani.
Proporrò un contratto generazionale per
consentire l’assunzione da parte delle imprese,
con contratto a tempo indeterminato, di giovani, accompagnati da un dipendente più esperto, che a sua volta potrà rimanere al lavoro fino al raggiungimento della sua età pensionabile. Questo “tutorato” manterrà il know-how
e integrerà, in maniera sostenibile, i giovani
nella vita professionale. Creerò 150.000 posti
di lavoro per facilitare l’integrazione dei giovani nel mondo del lavoro e per sostenere
l’opera delle associazioni, soprattutto nei quartieri. Ritornerò sulle defiscalizzazione e sulle
esenzioni fiscali sugli straordinari, ad eccezione che per le imprese molto piccole. Stabilirò,
in consultazione con le parti sociali, la formalizzazione dei percorsi di carriera, in modo che
ogni dipendente possa rimanere in azienda, o
avere accesso all’occupazione e alla formazione professionale. Finanziamenti per la formazione saranno concentrati sulle fasce più fragili, i meno istruiti e i disoccupati. Rafforzerò
i mezzi dei centri per l’impiego. Per evitare i
licenziamenti, ne alzeremo il costo per le
aziende che pagano dividendi o riscattano le
proprie azioni, e daremo l’opportunità agli
operai e agli impiegati che ne sono vittima di
rivolgersi a un tribunale nei casi di licenziamento palesemente contrari all’interesse dell’impresa. s
hower, Kennedy, Churchill, Jean Monnet,
Adenauer ,De Gaulle, De Gasperi e Henri Spaak) non hanno agito in base ad un idealismo
europeo, ma sono stati spinti dalla conoscenza
della storia del continente. Hanno agito in una
visione realistica, nella necessità di evitare la
continuazione della lotta tra la periferia e il
centro. Tutto questo è ancora un elemento portante per l’integrazione europea e chi non lo
ha compreso manca di un presupposto essenziale per la soluzione della crisi attuale in Europa.
Quanto più nel corso dagli anni 60 agli ‘80,
l’allora Repubblica Federale aumentava il proprio peso economico e politico, tanto più agli
occhi degli statisti dell’Europa occidentale
l’integrazione europea è apparsa come una polizza assicurativa. La resistenza iniziale di
Margaret Thatcher, Mitterand o Andreotti - era
il 1989/90 – contro l’unificazione tedesca era
chiaramente giustificata dal timore di una forte
Germania, al centro del piccolo continente europeo.
II. L’Unione europea è necessaria
De Gaulle e Pompidou negli anni ‘60 e fino
ai primi anni ‘70 hanno continuato l’integrazione europea, per integrare la Germania – ma
hanno anche voluto incorporare il proprio stato in meglio o in peggio. Dopo di che, la buona
intesa tra me e Giscard d’Estaing ha portato ad
cese, di una potente Germania e - più precisamente- di un Marco super potente.
Da quegli anni l’euro è diventato la seconda
valuta più importante nell’economia mondiale.
Questa moneta europea sia internamente che
nelle relazioni esterne è di gran lunga più stabile rispetto al dollaro americano – ed è stato
più stabile del marco nei suoi ultimi 10 anni.
Tutti parlano e straparlano di una presunta
“crisi dell’euro”, ma è un frivolo chiacchiericcio di giornalisti e politici.
A partire da Maastricht il mondo è cambiato
enormemente. Siamo stati testimoni della liberazione delle nazioni dell’Europa orientale
e l’implosione dell’Unione Sovietica. Stiamo
assistendo lo sviluppo prodigioso della Cina,
India, Brasile e altri “mercati emergenti” che
sono stati precedentemente chiamati “terzo
mondo”. Allo stesso tempo la parte reale delle
maggiori economie della terra, si è ”globalizzata: quasi tutti i paesi del mondo dipendono
l’uno dall’altro. E soprattutto è accaduto che
gli attori sui mercati finanziari globali abbiano
acquisito un potere del tutto incontrollato. Ma
al tempo stesso – e quasi inosservata – la razza
umana si è moltiplicata e ha superato i 7 miliardi di persone. Quando sono nato, ce n’erano appena 2 miliardi. Tutti questi cambiamenti
hanno un impatto enorme sui popoli d’Europa,
sui loro stati e le loro ricchezze.
D’altra parte tutte le nazioni europee stanno
HELMUT SCHMIDT
I. Motivazioni e origini dell’integrazione
europea
Anche se in alcuni dei 40 stati d’Europa, la
coscienza nazionale si è sviluppata tardi – come in Italia, Grecia e Germania – ci sonno
sempre state guerre sanguinose. E qui, nel
cuore del continente, questa tragica storia,
questa infinita serie di scontri fra centro e periferia è sempre stato il campo di battaglia decisivo.
E la memoria va alle due guerre mondiali
del ventesimo Secolo, perché l’occupazione
tedesca gioca ancora un ruolo dominante, anche se latente.
Quasi tutti i vicini della Germania – e anche
quasi tutti gli ebrei di tutto il mondo – ricordano l’Olocausto e le atrocità che sono avvenute durante l’occupazione tedesca nei paesi
periferici. Noi tedeschi non siamo sufficientemente consapevoli del fatto che probabilmente
quasi tutti i nostri vicini hanno ancora sfiducia
nei tedeschi: un fardello storico con il quale
dovranno convivere le nostre generazioni. E
non dimentichiamo che c’era sospetto circa lo
sviluppo futuro della Germania anche quando
nel 1950 ha avuto inizio l’integrazione europea.
Del resto questa si è realizzata in una visione realistica di sviluppo ritenuta possibile e allo stesso tempo per il timore di una futura forza tedesca. Non si trattava dell’idealismo di
Victor Hugo che pensava all’unificazione
dell’Europa nel 1849. Gli statisti poi leader in
Europa e in America (George Marshall, Eisen-
un periodo di cooperazione franco-tedesca e il
proseguimento dell’integrazione europea, un
periodo che è stato continuato con successo
dopo la primavera del 1990 tra Mitterrand e
Kohl. Allo stesso tempo, la Comunità europea
è gradualmente aumentata raggiungendo nel
1991 i 12 stati membri.
Grazie al lavoro di preparazione svolto da
Jacques Delors (allora presidente della Commissione europea), Mitterrand e Kohl a Maastricht hanno dato vita all l’Euro. La preoccupazione di fondo era, di nuovo sul fronte fran-
riducendo i loro cittadini. A metà del 21 ° Secolo sarà probabile che vivano anche 9 miliardi di persone sulla Terra, mentre le nazioni europee insieme costituiranno solo il 7% della
popolazione mondiale. 7% di 9 miliardi . Per
due secoli e fino al 1950, gli europei hanno
rappresentato più del 20% della popolazione
mondiale. Analogamente, l’Europa vedrà
scendere il proprio prodotto globale al 10%
dal 30 che era nel 1950.
Ognuna delle nazioni europee rappresenterà
nel 2050 solo una frazione pari all’1% della
popolazione mondiale. Vale a dire: se vogliamo sperare di avere un ruolo nel mondo, lo
possiamo avere solo congiuntamente. Quindi
gli interessi strategici a lungo termine degli
stati-nazione europei è nella loro fusione. Questo interesse strategico nella costruzione europea assume sempre maggiore importanza. Anche se la maggior parte degli abitanti non ne è
ancora consapevole e i governi non ne parlano.
Quindi se non si farà una vera ‘Unione europea nei prossimi decenni ciò significherebbe
un’auto marginalizzazione dei singoli Stati del
continente e della civiltà europea nel suo complesso. Potrebbe anche accadere. Né si può
escludere che in questa situazione riemerga la
concorrenza e la lotta per il prestigio tra i diversi Paesi . Il vecchio gioco tra centro e periferia potrebbe tornare ad essere una realtà.
Il processo di educazione globale, la diffusione dei diritti individuali e della dignità umana, lo stato di diritto e la costituzione della democratizzazione dell’Europa non potrebbe
avere uno stimolo più efficace. Sotto questi
aspetti, la Comunità europea è una necessità
vitale per gli stati del nostro vecchio continente. Questa esigenza si estende oltre le ragioni
di Churchill e de Gaulle. Si estende ben oltre
le motivazioni di Monnet e Adenauer .
Io aggiungo: certo ma occorre una reale integrazione della Germania. Quindi dobbiamo
chiarirci le idee circa la nostra missione tedesca, il nostro ruolo nel contesto dell’integrazione europea.
III. La Germania ha la continuità e l’affidabilità necessarie
Se alla fine del 2011 si guarda dal di fuori
della Germania attraverso gli occhi dei nostri
vicini diretti e indiretti, emergono notevoli
dubbi e si dissolve l’immagine di una Germania poi dalla Germania dal cammino sicuro:
emergono ombre sulla continuità della politica
tedesca . E la fiducia nella affidabilità della politica del Paese è sempre meno netta.
Qui i dubbi ei timori sono basati sugli errori
della politica estera e dei governi. Essi si basano in parte sulla forza sorprendente del mondo economico della Repubblica federale unita.
La nostra economia è tecnologicamente e socialmente una delle più potenti del mondo. La
nostra forza economica e la nostra pace sociale
relativamente stabile, hanno anche innescato
invidia – soprattutto per il tasso di disoccupazione inferiore e il rapporto tra debito e Pil tra
i migliori.
Tuttavia politici e cittadini non sono sufficientemente consapevoli del fatto che la nostra
economia è altamente integrata sia con il mercato comune europeo e sia con l’economia
globalizzata. Al tempo stesso, però, questo può
portare a un grave squilibrio: il nostro surplus
commerciale è enorme, per anni le eccedenze
hanno costituito circa il 5% del Pil. Sono cifre
simili a quelle della Cina, anche se la cosa non
emerge con chiarezza per via della sostituzione del marco con l’Euro. Ma sembra che i nostri politici non siano a conoscenza di questo
fatto. Le nostre eccedenze sono in realtà i deficit di altri. Le affermazioni che abbiamo sentito sugli altri, sui loro debiti sono fastidiose
violazioni di un ideale equilibrio esterno. Non
solo questa disturba i nostri partner , ma solleva sospetti ed evoca brutti ricordi.
In questa crisi economica nella reazione delle istituzioni dell’Unione europea, la Germania ha avuto ancora una volta in un ruolo centrale. Insieme con il presidente francese, il
Cancelliere ha accettato volentieri questo ruolo. Ma ci sono molte capitali europee in cui sta
crescendo una preoccupazione crescente di
una dominazione tedesca che per ora si esprime nei media. Questa volta non si tratta di potenza militare e politica, ma economica.
18 ■ CRITICAsociale
A questo punto, è necessario un promemoria
per i politici tedeschi, per i media e la nostra
opinione pubblica.
Noi tedeschi di sinistra non dobbiamo farci
prendere da illusioni o arci confondere da cortine fumogene: se la Germania tenterà di essere
il primus inter pares nella politica europea, una
crescente percentuale dei nostri vicini penserà
di doversi difendere efficacemente da questo
tentativo di primato. Tornerebbe la preoccupazione della periferia per un centro troppo forte.
E le probabili conseguenze di un tale sviluppo
sarebbero paralizzanti per l’UE, mentre la Germania cadrebbe nell’isolamento. In fondo abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi.
Quindi nel processo di integrazione europea
bisogna partire dall’articolo 23 della Costituzione che impone di di partecipare allo sviluppo dell’Unione Europea. E nell’articolo 23 ci
si impegna anche al “principio di sussidiarietà”. L’attuale crisi del funzionamento delle istituzioni dell’UE non cambia questi principi.
La nostra posizione geopolitica centrale, in
fondo una sfortuna fino alla metà del 20 ° Secolo, richiede un alto grado di empatia per gli
interessi dei nostri partner europei. E la nostra
volontà di aiuto sarà fondamentale.
Noi tedeschi abbiamo ricostruito la nostra
grande potenza, lo abbiamo fatto, certo da soli,
ma tutto questo non sarebbe stato possibile
senza l’aiuto delle potenze occidentali, senza
la nostra integrazione nella Comunità europea,
senza l’aiuto dei nostri vicini, senza gli sconvolgimenti politici in Europa Centro-Orientale
seguiti alla dissoluzione dell’Urss. Abbiamo
molti motivi di essere grati. E abbiamo il dovere di dimostrarci degni della solidarietà ricevuta.
Al contrario, la ricerca di un esclusivo ruolo
e prestigio nella politica mondiale sarebbe inutile e probabilmente anche dannoso. Sono convinto che è negli interessi strategici a lungo termine della Germania, non isolarsi. Un isolamento all’interno dell’Occidente sarebbe pericoloso. Un isolamento all’interno dell’Unione
europea o della zona euro sarebbe catastrofico.
I politici e i media tedeschi hanno il dovere
e l’obbligo di difendere questo punto di vista
e di sostenerlo presso l’opinione pubblica.
Ma se qualcuno ci dice o ci fa capire che il
futuro d’Europa parla tedesco. Se un ministro
degli esteri tedesco ritiene che le apparizioni
in Tv mentre è a Tripoli, al Cairo o a Kabul
siano più importanti dei contatti politici con
Lisbona, Madrid e Varsavia o Praga, con Dublino, L’Aia, Copenaghen ed Helsinki e se un
altro pensa di dover impedire trasferimenti di
un po’ di sovranità all’Unione, beh tutto questo è solo dannoso.
In realtà, la Germania è stata un contributore
netto per molti decenni fin dal tempo di Adenauer . E, naturalmente, Grecia, Portogallo e
Irlanda sono sempre stati beneficiari netti. Lo
abbiamo fatto a lungo e possiamo permettercelo. Il principio si sussidiarietà, anche contrattualmente richiesto da Lisbona prevede che
che l’Unione faccia ciò che uno stato da solo
non può fare.
Konrad Adenauer, a partire dal Piano Schumann, ha tentato di correggere istinti politici
e resistenze perché sapeva che l’interesse strategico a lungo termine era questo, anche nel
quadro della divisione permanente della Germania. E tutti i successori – compreso Brandt,
io stesso, Kohl e Schröder – hanno continuato
la politica di integrazione concepita da Adenauer.
IV. La situazione attuale richiede l’energia dell’UE
Non possiamo in questo momento anticipare un futuro lontano. Correzioni a Maastricht
potrebbero solo in parte eliminare errori ed
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omisioni, così come mi sembrano inutili le
proposte di modificare l’attuale trattato di Lisbona che comunque dovrebbe passare attraverso il vaglio di referendum nazionali. Sono
quindi d’accordo con il Presidente della Repubblica Italiana, Napolitano, quando ha detto
alla fine di ottobre in un discorso straordinario,
che oggi abbiamo bisogno di concentrarsi su
ciò che è necessario fare oggi. E che abbiamo
bisogno di sfruttare le opportunità che l’attuale
trattato UE ci dà – in particolare il rafforzamento delle regole di bilancio e politiche economiche nell’area dell’euro.
Con l’eccezione della Banca centrale europea, le istituzioni – il Parlamento europeo, il
Consiglio europeo, la Commissione di Bruxelles e il Consiglio dei ministri – hanno concluso
loghi socialisti, liberali e verdi, insieme, portiate all’attenzione del pubblico i problemi veri
e drammatici. Mostrare che alcune migliaia di
persone che operano nella finanza negli Stati
Uniti e in Europa, più alcune agenzie di rating
hanno preso in ostaggio i governi d’ Europa.
E ‘improbabile che Barack Obama farà molto.
Lo stesso vale per il governo britannico. I governi del mondo nel 2008/2009, hanno salvato
le banche, ma dal 2010, il branco di finanzieri
ha ripreso a svolgere il vecchio gioco di nuovo
con profitti e bonus. Una scommessa a spese
di tutti i non-giocatori.
Se nessun altro vuole agire, allora l’eurozona devono agire in valuta euro. Questo è il modo di interpretare l’articolo 20 del trattato UE
di Lisbona. Vi è espressamente previsto che
essere in una zona di stabilità. Almeno a medio
termine. Ma se falliamo qui, allora il peso
dell’Europa continuerà a diminuire mentre il
mondo si sta evolvendo verso un duumvirato
tra Washington e Pechino.
Per l’immediato futuro della zona euro continuano ad essere necessari, e certamente tutti
i passi precedentemente annunciati. Questi includono il fondo di salvataggio, i limiti del debito e il loro controllo, una politica economica
e fiscale comune per avere una estensione di
ogni politica fiscale nazionale, la politica della
spesa, politiche sociali e le riforme del mercato del lavoro. Ma un debito comune sarà inevitabile. Noi tedeschi non possiamo rifugiarci
in una posizione nazional egoistica.
Ma non dobbiamo propagare in tutta Europa
una politica di deflazione estrema. Occorre avviare progetti e per finanziare la crescita e il
miglioramento. Senza crescita, senza lavoro,
nessuno Stato può ristrutturare il proprio bilancio. Chi crede che l’Europa possa essere maestra solo nel risparmio, dovrebbe leggere qualcosa sull’impatto fatale della politica deflazionista attuata da Heinrich Brüning nel 1930/32.
Ha innescato una depressione e un livello intollerabile di disoccupazione e pertanto avviato
alla caduta la prima democrazia tedesca.
V. Ai miei amici
Infine, cari amici. La socialdemocrazia tedesca è stata per mezzo secolo internazionalista, abbiamo lottato per mantenere la libertà e
la dignità di ogni essere umano. Abbiamo inoltre creduto nella rappresentanza della democrazia parlamentare. Questi valori ci impegnano oggi per la solidarietà europea.
Certamente l’Europa è formata anche nel
21° Secolo da Stati-nazione, ognuno con una
propria lingua e con la propria storia. Pertanto,
non è certamente facile trasformare l’Europa
in un Unione federale. Ma l’UE non deve degenerare in una semplice confederazione di
stati, deve rimanere una rete che si evolve in
modo dinamico. Noi socialdemocratici dobbiamo contribuire al dispiegamento graduale
di questo progetto.
Più si invecchia, più si pensa a lunghissimo
termine. Anche da vecchio ho ancora stretti fra
le mani i tre valori fondamentali del Programma Godesberg: libertà, giustizia, solidarietà. E
credo che la giustizia richieda oggi pari opportunità le nuove generazioni.
Quando mi trovo a guardare indietro, agli
anni bui dal 1933 al 1945 , i progressi che abbiamo realizzato sembrano quasi incredibili.
Cerchiamo quindi di lavorare e di combattere,
perché l’Unione europea che storicamente è
senza precedenti , esca dalla sua attuale debolezza. Dobbiamo essere chiari e fiduciosi. s
poco nel superare la grave crisi bancaria del
2008 e soprattutto l’attuale a crisi del debito.
Per superare l’attuale crisi di leadership dell’Unione Europea, non esiste una panacea. Si
richiedono diversi passaggi, a volte contemporanei a volte successivi e ciò richiederà
energia e pazienza. E il contributo tedesco non
potrà essere limitato a slogan per il mercato televisivo.
In un punto importante sono d’accordo con
Jurgen Habermas, che ha recentemente affermato che – cito testualmente – “… Abbiamo
fatto l’esperienza per la prima volta nella storia
dell’Unione europea di un degrado della democrazia”. Infatti: non solo il Consiglio europeo,
compreso il suo presidente, proprio come la
Commissione europea, compreso il suo presidente e i vari Consigli dei ministri e tutta la burocrazia di Bruxelles hanno congiuntamente
messo da parte il principio democratico.
Perciò mi appello a Martin Schulz: E ‘ora
che voi e i vostri democristiani, i vostri omo-
uno o più Stati membri dell’Unione europea
“… instaurarino una cooperazione rafforzata
tra di loro.” In ogni caso, i paesi della zona euro devono mettere in atto regolamenti finanziari comuni. Dalla separazione tra normali
banche commerciali e di banche di investimento, al divieto di effettuare vendite allo scoperto di titoli in una data futura, dall’ impedire
il commercio di prodotti derivati, se non sono
approvati ufficialmente dalla Securities and
Exchange Commission –fino a un sistema di
ritenute efficaci su determinate operazioni finanziarie. Non voglio infastidirvi, onorevoli
deputati, con ulteriori dettagli.
Naturalmente, la lobby bancaria globalizzata, si è già messa in moto per ostacolare tutto
questo ed evitare regolamentazioni comuni. I
governi europei sono stati costretti a dover inventare nuovi “paracadute”. E ora di difendersi contro di essa. Quando gli europei avranno
il coraggio di applicare una nuova regolamentazione ai mercati finanziari, allora potremo
Traduzione curata da Paolo Borioni
Traduzione pressoché integrale
FELIPE GONZÁLEZ
Le riforme che la sinistra deve realizzare
Quarto anno di crisi e la prospettiva ci spinge a pensare al famoso decennio perduto
dell’America Latina, negli anni ‘80 del secolo
scorso. A questi livelli, si tende a dimenticare
che l’origine di tutto fu l’implosione di un sistema finanziario sregolato, colmo d’ingegneria finanziaria carica di presunzione, senza alcun rapporto con l’economia produttiva. Tutto
ciò causò una recessione mondiale dell’economia reale, particolarmente grave nei Paesi centrali, epicentro di questo assurdo sistema.
Oggi, si affronta la situazione dell’enorme
debito derivante dalla crisi finanziaria come
un problema di solvibilità, che in realtà non
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esiste, benché la cosa più grave sia la mancanza di liquidità e di crescita economica generatrice di lavoro. Grave errore di strategia, in
particolare nella zona Euro, che può contrarre
drammaticamente l’economia e aggravare la
crisi di debito, oltre a farci dimenticare le cause originarie e quindi, non permettere di agire
su di esse. Questo approccio, sta mettendo in
dubbio la coesione sociale che ha definito
l’epoca della ricostruzione e dello sviluppo
dell’Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.
È tutto un gran paradosso: il trionfante modello del neoconservatorismo sregolatore inizia negli anni ’80 del XX secolo e domina la
scena della globalizzazione fino al botto del
2008. In risposta, la stessa corrente ideologica,
oggi maggioritaria in Europa, si dimentica dell’origine della crisi e concentra la risposta sulle conseguenze della stessa. Le forze rappresentative del centro-sinistra progressista si
sentono abbandonate e sulla difensiva nell’Unione Europea e perseguitate dalle pressioni della destra più estrema negli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, cresce il nazionalismo
antieuropeista, il virus distruttore d’Europa del
XX secolo. Ed ecco di nuovo il paradosso: le
proposte di amministrazione economica europea, imprescindibili affinché funzioni l’Unione Monetaria, fanno accelerare gli impulsi nazionalisti in tutti gli angoli d’Europa. Una miscela esplosiva che comporta maggiore confusione nel dibattito d’idee, rendendo inermi i
governi di fronte all’egemonia dei ‘mercati’.
In tali circostanze, abbiamo bisogno, come
non mai, di una risposta social-democratica ed
europeista, che arrivi da un pensiero rinnovato,
in grado di comprendere le implicazioni del
cambiamento civilizzatore che viviamo a livello globale. Risposte che non si pongano
semplicemente in difesa di ciò che si è ottenuto finora in quel modello che Lula ha definito
“patrimonio democratico dell’umanità”, per
non rischiare di cadere nella denuncia senza
alternativa del pensiero neoconservatore che
ci condusse alla crisi.
L’Europa non possiede un altro cammino
verso la globalizzazione che non sia “più Europa”, e in particolare più sovranità condivisa
per poter avanzare nell’amministrazione economica dell’Unione e nella sua importante
proiezione verso l’esterno. Questo impulso dovrebbe escludere dalla nostra agenda le tentazioni nazionaliste e protezioniste, che ricercano reddito politico a breve termine.
Ma questa proposta di “più Europa” non
può e non deve essere originata da una strategia sbagliata come quella che domina la realtà
attuale, che provoca sconforto di fronte alla
contrazione dell’economia, all’aumento della
disoccupazione, alla liquidazione delle reti di
coesione e solidarietà. Si richiedono sacrifici
reali e si offrono speranze incerte. È l’occasione per una possibilità rinnovata social-democratica ed europeista.
Abbiamo bisogno di riordinare i conti pubblici, di controllare gli esorbitanti deficit e
l’aumento del debito. Ma non necessitiamo di
una terapia brutale che dimentichi l’esigenza
di crescita e di generazione del lavoro. Abbiamo un problema di debito, ma non di solvibilità. Servono liquidità affinché il credito arrivi
all’economia produttiva e generi crescita e lavoro. Possiamo e dobbiamo attivare la Banca
e il Fondo Europeo d’Investimento, invitando
coloro che vogliono parteciparvi con i loro risparmi in eccesso - come nel caso della Cina
e di altri Paesi emergenti – in un grande fondo
che serva ad investire in infrastrutture energetiche, di rete, in autostrade del mare..., che diano impulso alla modernizzazione e alla crescita, generando lavoro in Europa.
Ma non dobbiamo dimenticare l’origine della crisi. L’abilità neo-conservatrice, quella de-
gli attori finanziari, delle agenzie di rating,
consiste nel farci dimenticare le correzioni di
base che necessita il modello di economia finanziaria senza regolazioni e piena di presunzione che ci ha condotti alla castrofe. I governi
sono condizionati in maniera ossessiva dai
“premi di rischio”, dalle valutazioni – senza
alcuna legittimità, né di origine né di esercizio-, schiacciati giorno dopo giorno da una
sorta di lotta per la sopravvivenza, che non
permette loro di affrontare le cause di fondo
della situazione attuale.
Non si raggiunge nemmeno il consenso minimo per imporre una tassa sulle transazioni
finanziarie. La resistenza non è dovuta agli effetti di riscossione di tale tassa, ma piuttosto
agli effetti regolatori che permetterebbero di
gioritaria di sinistra, che includa il centro dello
spettro sociale e politico, tutti, i giovani e gli
adulti, dobbiamo utilizzare i nostri valori per
applicarli alla nuova realtà. Noi socialisti spagnoli, lo facemmo negli anni ’80, prima che
altri parlassero della “terza via” della socialdemocrazia. La società ci capì e ci appoggiò.
Ancora una volta devo ricordare che la sinistra non può commettere l’errore di confondere gli strumenti con i fini, né l’ideologia con
la veste delle idee inconsistenti che usiamo per
difenderci. E, in ogni epoca storica, bisogna
saper rinnovare le idee e gli strumenti per essere fedeli ai valori che ci motivano: la solidarietà e la libertà. s
Felipe Gonzàlez
Primo ministro spagnolo dall’82 al ’96
importante attualmente é l’Europa, la stabilità
dei mercati finanziari in Europa, i posti di lavoro in tutti i paesi dell’Europa,le opportunità
per i giovani in Europa, ed è corretto affermare
che noi saremmo disposti a impegnarci per un
anno per una soluzione buona e professionale/competente nel Bundestag e che l’SPD non
si tirerebbe indietro per trovare una soluzione
per l’Europa; questa è la nostra linea principale. Non significa però che siamo soddisfatti
della gestione della crisi della Sig.ra Merkel,
che agisce solo in vista delle due settimane a
venire e poi non si sa come si andrá avanti. Al
momento accade che le persone si sentono
sempre piú insicure ogni volta che viene annunciato un nuovo vertice; la situazione è
molto preoccupante, ma noi siamo disposti a
tendere la mano dove è necessario per raggiungere una maggiore stabilità in Europa”.
All’inzio l’opinione tra economisti conservatori e liberali era quella di respingere fortemente l’idea degli Eurobond, ora peró si fa
avanti un esperto dopo l’altro che si dichiara
a favore, dicendo che potrebbe essere una o
addirittura l’unica soluzione. Forse tu ci potresti spiegare quale sia il vantaggio e lo scopo degli Eurobonds?
controllare i movimenti speculativi di breve e
brevissimo termine, che colpiscono in modo
drammatico il valore delle imprese e sconvolgono il funzionamento normale dell’economia
reale.
E la sinistra deve proporre, senza timore, le
riforme strutturali necessarie per avanzare verso un’economia altamente competitiva, che
premi la produttività oraria del lavoro, l’eccellenza del prodotto finale, l’innovazione e lo
spirito imprenditoriale. Un modello sostenibile
dal punto di vista economico e medioambientale, per competere in un’economia globalizzata che ci sta emarginando.
Solo così potremo raggiungere il valore sufficiente per difendere, sull’offensiva, la coesione sociale che ci identifica, migliorando il
sistema sanitario pubblico, l’educazione e la
formazione professionale di qualità, arrivando
a tutti, uniformando le opportunità e competendo in maniera vantaggiosa.
Se vogliamo che ci sia un’alternativa mag-
ANDREA NAHLES
Andrea Nahles è esponente dal 1988 del
Partito Socialdemocratico Tedesco, leader dal
1995 al 1999 del suo movimento giovanile
(Jusos), ne ricopre dal 13 novembre 2009 la
carica diSegretario Generale. L’Intervista ad
Andrea Nahles ripresa dal blog della SPD.
La discussione sulla crisi finanziaria è al
momento sulla bocca di tutti e sembra quasi
che la Merkel adotti gli argomenti e le idee politiche dell’ SPD. Perché il partito SPD sta costantemente fornendo degli argomenti che salvano il “di dietro” di Angela Merkel, per usare un linguaggio informale?
“La questione al momento non riguarda né
la Merkel né i vantaggi strategici che potremmo trarre per le prossime elezioni politiche,
che peraltro sono ancora lontane. La cosa più
“La situazione attuale è che i paesi che hanno già difficoltà stanno pagando interessi sempre più alti per i crediti che contraggono dai
mercati finanziarie questo genera nuovi problemi. Finché esisteranno molteplici/diversi
prestiti statali, ci sará sempre speculazione e
alla fine la crisi continuerá solo ad aggravarsi.
Abbiamo visto un vertice d’emergenza dopo
l’altro senza che ne sia uscita una soluzione
valida; questo sta sgretolando la fiducia dei
cittadini, sopratutto in Germania. Per questo
motivo sarebbe importante ora che si agisse
uniti, che ci fosse un’azione congiunta. “Eurobond” significa semplicemente che tutti i
paesi pagano gli stessi tassi di interesse. E questo è il vero grande vantaggio: si mette fine alle speculazioni, si crea maggiore sicurezza per
la pianificazione dei paesi che si trovano in
difficoltà, ma anche per quelli che sono attualmente ancora forti, ma che potrebbero ancora
essere trascinati nella spirale, come ad esempio Francia e Germania.
Significa cioè portare più sicurezza nella
pianificazione e maggiore stabilitá per tutti,
tassi di interessi più bassi per i paesi piú deboli
senza, a mio parere, aumentare i tassi per i cittadini tedeschi. Alla fine sarebbe una soluzione buona e sicura.
Il problema che viene avvertito da alcuni è
che i paesi a cui vengono imposti tassi inferiori
attraverso gli Eurobond potrebbero fraintendere la situazione come carta bianca per fare
nuovi debiti. Io credo che sia possibile prevenire questo comportamento; l’SPD propone
che vengano emanate direttive volte ad impedire un tale comportamento.
Sono inoltre convinta che si siano resi conto
in Italia, in Spagna e ovunque che sia necessario agire in modo responsabile, perchè noi
tutti ci troveremmo nei pasticci se non lavorassimo insieme. Gli Eurobond ci porteranno
il progresso necessario. Il ministro delle finanze Rösler si rifiuta con tutta la forza, l’intero
FDP si rifiuta, ci sono delle liti nel Bundestag,
ma adesso è davvero arrivato il momento in
cui la Cancelliera si mostri determinata e prenda le sue decisioni con saggezza, per il nostro
futuro. Gli Eurobond verranno introdotti,la
questione di quando accadrá in Europa dipende dalla Merkel, e io posso solo consigliare
che ciò accada il più presto possibile perchè
altrimenti vedremo un inasprimento della crisi
invece di un sollievo”.
20 ■ CRITICAsociale
Ma anche in casa CDU si alzano voci critiche.
Mentre la giovane segretaria generale della
SPD trova controproducente per la stessa Germania la politica da borgomastro della Merkel,
a poche ore dall’incontro parigino con Sarkozy, anche in casa CDU si alzano voci critiche.
Johann Wadephul, parlamentare dei Cristiano
democratici (Cdu), aveva affermato di nonconsiderare gli eurobond “opera del diavolo”.
A sua volta, Armin Laschet, membro del board
esecutivo del partito della Merkel, aveva chiesto un dibattito aperto sulla questione. Infine,
l’europarlamentare conservatore, Burkhard
Balz, aveva definito ingiustificabile il categorico rifiuto opposto agli eurbond da molti suoi
colleghi di partito e di coalizione.
I critici della Merkel insistono perché si impegni con maggiore energia per ricostruire la
fiducia dei mercati nell’euro e placare i venti
di crisi che scuotono il Vecchio Continente. Le
rimproverano insomma una mancanza di leadership. “La Merkel prima tasta gli umori
dell’opinione pubblica, poi agisce”, nota Irwin
Collier, professore di Economia all’Università
Libera di Berlino. “Come la gran parte dei leader europei, la Cancelliera sta seguendo le impressioni e le paure della pubblica opinione
nazionale e dei suoi colleghi in parlamento e
nell’esecutivo. Dovrebbe invece dirigerli.
Consideriamo per un attimo il peso della Germania e la sua enorme influenza nella Ue; è
chiaro che se Berlino (come sembra in queste
settimane) decide di allontanarsi dal progetto
europeo, le fondamenta stesse dell’Unione rischiano il tracollo”, aggiunge Charles A. Kupchan, professore di Relazioni Internazionali alla Georgetown University. “La Merkel deve
bilanciare le responsabilità tedesche verso il
resto d’Europa con le esigenze domestiche, e
lo deve fare con grande attenzione”, avverte
Jan Techau, direttore di Carnegie Europe,
think tank con sede a Bruxelles. Impressioni
raccolte da Judy Dempsey e Nicholas Kulish,
che per l’International Herald Tribune (Iht)
indagano le dinamiche interne di un Paese, la
Germania, chiamato nei mesi a venire a dare
un contributo fondamentale per la salvaguar-
3-4 / 2012
dia dell’eurozona. Ne avrà la volontà?
Per certo, nell’estate tedesca non si vivono
le tensioni registrate altrove e questo spiega,
in parte, la cautela che la Merkel mostra a
fronte del senso di urgenza avvertito da molti
in Europa. La Germania è l’unica nazione europea in grado di “coprire” il debito dei suoi
pericolanti vicini, ma i suoi cittadini sono riluttanti a pagare per il salvataggio delle economie di altri Stati. Mentre le piazze greche,
spagnole e persino britanniche sono in subbuglio e in gran parte del Continente (Italia in testa) si propongono dure misure di austerità, a
Berlino si discute di tagli fiscali.
Contraddizioni e incongruenze che fanno sì
che la Merkel si trovi tra due fuochi. Da un lato,
le sollecitazioni esterne di coloro che, in Europa
e nel mondo, la accusano di bloccare incisive
misure anti-crisi (come gli eurobond) e di mettere così a rischio la stabilità finanziaria internazionale e la stessa sopravvivenza dell’eurozona; dall’altro, le pressioni interne di buona
parte delle forze politiche e sociali tedesche, che
non vogliono pagare un prezzo eccessivo per il
salvataggio dei vicini in difficoltà.
Evidentemente, le pressioni contrastanti a
cui è sottoposta devono avere indotto la Cancelliera all’attendismo, notano i commentatori
del Iht, ma è altrettanto evidente che, proseguono, più la Merkel tarderà a prendere una
decisione netta sulla questione e più la sua leadership verrà fiaccata, sia dagli sbandamenti
della sua coalizione di governo che dagli scricchiolii di un’Europa sempre più fragile.
Berlino negli ultimi tempi ha rimarcato la
sua posizione di contrarietà agli eurobond. Sia
la Merkel che il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble lo hanno ripetuto ufficialmente. Inoltre, i liberali, partner di coalizione dei
cristiano democratici, non perdono occasione
per minacciare la loro uscita dal governo nel
caso in cui la Cancelliera desse il suo assenso
all’emissione degli eurobond. A poco erano sinora servite le prese di posizione di diverse autorevoli personalità europee,convinte dell’efficacia degli eurobond come strumento di difesa dagli attacchi speculativi diretti contro i
paesi a elevato debito. Oltre a Giuliano Amato
e a Giulio Tremonti, si sono infatti espressi in
tal senso il presidente dell’Eurogruppo, JeanClaude Juncker e il commissario Ue per gli
Affari Economici e Monetari, Olli Rehn.
E’ lecito attendersi un segnale della disponibilità tedesca ad assumersi le proprie responsabilità davanti alla crisi che investe l’Europa?
Presto per dirlo. Tuttavia, i sorprendenti dati
Eurostat sulla stagnazione dell’economia tedesca nell’ultimo trimestre e i crescenti dissensi interni sulla linea dat enere rispetto agli
eurobond dovrebbero far riflettere la coalizione giallo-nera che regge il Paese. La Germania
ha tutto l’interesse, quantomeno nel lungo periodo, a impedire che l’architettura finanziaria
europea crolli. Le ripercussioni economiche e
politiche per l’Occidente tutto sarebbero devastanti. I socialdemocratici tedeschi ne hanno
preso atto e la stessa convinzione va diffondendosi nella Cdu. Aldilà della resistenza
ideologica del junior partner liberale, gli umori
della coalizione che regge il governo della
Merkel stanno lentamente cambiando in senso
favorevole agli eurobond. La Cancelliera dovrà tenerne conto. L’Europa attende. s
(A cura di Fabio Lucchini)
■ I CONTI CONTRADDICONO LE DICHIARAZIONI PUBBLICHE
EURO, PREAVVISO DI SFRATTO?
Marco Della Luna
I
l FMI ha ultimamente pubblicato
numeri che danno la certezza matematica che l’Italia non può essere risanata e portata nei parametri dell’Eurosistema: è vero che dal 2008 al 2017 sarà leader
nell’avanzo primario, ma questo conta ben poco rispetto al fatto che il suo pil, in quel periodo, calerà dell’1,7%, mentre quello USA aumenterà del 20,3, quello francese del 10, quello
tedesco dell’8,8, quello cinese del 116. Il rapporto debito/pil italiano peggiora del 13,2%.
Ciò basta a porre l’Italia fuori del circolo dei
paesi del Primo Mondo (già nella precedente
fase di crescita era rimasta indietro di molti
punti dall’Eurozona e dall’America) e ad
escludere che possa rispettare il Fiscal Compact (riduzione del 20% all’anno della quota
di debito pubblico eccedente il 60% del pil).
Quindi, a breve termine, l’Italia sarà o fuori
dall’Euro, oppure governata direttamente dai
finanzieri del Meccanismo Europeo di Stabilità, cioè di Berlino, con costi, reazioni sociali,
controreazioni repressive, potenzialmente
estremi. Anche in Spagna e Grecia le ricette
“europee” (cioè quelle dettate dalla Germania
a tutela del suo c.d. “modello economico renano”), stanno portando l’economia al disastro. E continuano a venire imposte.
Le richieste di tasse e sacrifici da parte di un
governo sono legittime se il governo dimostra
che sono necessarie e idonee a un programma
realistico e utile al paese. Quelle del governo
Monti non sono necessarie, perché il governo
dovrebbe prima tagliare spese pubbliche parassitarie e gonfiate, e non lo fa; non sono idonee, perché, conti alla mano, non risolvono la
crisi ma paiono aggravarla con l’avvitamento
fiscale; inoltre non rientrano in un programma
di interesse nazionale, anzi non si capisce
nemmeno che fine stia perseguendo il governo, date le grandezze sopra riportate.
I tagli previsti alla spesa pubblica indebita per
beni e servizi sono di 4,2 miliardi su un totale
di 147, quindi è chiaro che non si liberano risorse per investimenti produttivi né per alleggerimenti fiscali, ma rimane intatto il sistema
di produzione di consenso e profitto partitico e
mafioso mediante scialo e appalti gonfiati. Item
per le opere pubbliche, sistematicamente gonfiate. E per la spesa per un personale elefantiaco
e poco efficiente. Tagliare la spesa pubblica parassitaria significherebbe peraltro eliminare
quel sistema e i suoi titolari, e ciò è impossibile
per un governo che dipenda dai partiti.
Dato quanto sopra, ciò a cui sta lavorando il
governo e chi lo appoggia, con tanti tagli e tan-
te tasse, non è, non può essere, un piano di risanamento e rilancio del paese, che essi sanno
benissimo essere irrealizzabile; dunque è un
piano con un fine diverso.
Probabilmente è un piano di liquidazione
del paese (ossia di raccolta e distribuzione tra
potentati esterni ed esterni dei valori in esso
presenti: risparmio, proprietà private e pubbliche) e al contempo di sua collocazione, in posizione subalterna, entro una nuova architettura “europea” di poteri reali e formali, con un
ampio haircut dei diritti e delle garanzie civili,
politici, fiscali, sindacali; e con forte compressione fiscale e bancaria delle piccole imprese
italiana, onde far posto nel mercato italiano ad
imprese straniere.
Remunerando l’appoggio parlamentare dei
partiti politici con la conservazione dei loro
privilegi e feudi, si tiene insieme il paese per
il tempo necessario a liquidare i suoi assets e
a completare il lavoro di ingegneria sociale.
Poi, quando il paese salta, lo si fa cadere in una
gabbia appositamente predisposta. Questo mi
pare lo scenario più verosimile, anche se spero
di sbagliarmi.
In tale scenario, è ovvio che i cittadini ritengano che le tasse siano non solo eccessive, ma
anche contrarie agli interessi della nazione,
perché esse vanno a sostenere un’operazione
di quel tipo. Se uscire dall’Eurosistema è inevitabile, tanto vale uscire al più presto, prima
che il processo di demolizione dell’economia
nazionale produca ulteriori danni, e con ancora
qualche soldo in tasca. Se ci lasciamo portar
via le ultime risorse, dopo saremo in balia del
capitale dominante sostanzialmente tedesco,
mentre anticipando i tempi potremmo ripartire
i danni con i paesi amici. Il popolo e le imprese hanno quindi interesse ad attivarsi per sventare il disegno di liquidazione del paese, rovesciando il tavolo. E a ricordare alla Germania
che il Nazismo e la II GM sono conseguenza
dell’austerità imposta ad essa stessa per il pagamento dei suoi debiti.
In ogni caso, conviene prepararsi a un cambiamento valutario, quindi alla probabilità che
i depositi bancari e gli altri crediti denominati
in Euro siano convertiti in Lire o altra valuta,
con una forte svalutazione rispetto all’Euro e
con una perdita di potere d’acquisto. Contromisure preventive, oltre all’emigrazione, sono
a)spostare i depositi in un idoneo paese estero
(Svizzera, per esempio); b)convertire i depositi da Euro a valute forti, con scarso debito
pubblico; c)investire in valori sganciati dalla
valuta italiana. s
CRITICAsociale ■ 21
3-4 / 2012
■ CERIMONIA AL MONUMENTALE CON UNA CORONA DI GAROFANI DELLA CRITICA SOCIALE
TURATI RICORDATO A MILANO NELL’80° DELLA MORTE
U
n folto gruppo di socialisti,
ha reso omaggio a Filippo
Turati nell’80° anniversario
della morte. Hanno preso la parola Carlo Tognoli a nome della Critica Sociale e Franco
D’Alfonso in rappresentanza del Comune di
Milano.
Erano presenti Ugo Finetti, Giovanni Manzi, Paolo Pillitteri, Stefano Pareti (già sindaco
di Piacenza) Giorgio Milani (Piacenza) Lanati
(Piacenza) Felice Besostri, Sergio Tremolada,
Dario Alamanno, Riccardo Negro per il gruppo di Volpedo, Enzo Collio, Stefano Pillitteri,
Nando Vertemati, Stefano Carluccio, Tonino
Biondino, Pietro Conti per la fondazione ‘Saragat’, Roberto Caputo consigliere provinciale
e molti altri compagni.
Franco D’Alfonso, assessore al Commercio, Turismo, Attività produttive e
Marketing territoriale del Comune di Milano, ha detto:
“E’ una grande emozione essere qui oggi a
rendere omaggio a Filippo Turati, in occasione
del 74° anniversario della scomparsa di questo
padre nobile della sinistra socialista italiana.
Oggi siamo qui per ricordare la figura e il pensiero di un grande socialista riformista le cui
idee rivelano, a quasi un secolo di distanza,
una profonda lungimiranza e una puntale attualità che si ritrovano come allora nella lunga
tradizione di sindaci e amministratori che nel
tempo hanno guidato e guidano lo sviluppo di
Milano, tutti figli del grande riformismo socialista ispirato da Turati.
Parlo per la prima volta come oratore
uf0iciale ed è un onore farlo in occasione del
ricordo di colui che fu il vero fondatore del riformismo italiano.
In un’epoca in cui non mancano i riformisti
senza aggettivi e senza contenuti è bene tornare alle autentiche radici culturali e credo di poter affermare senza alcun dubbio che la cultura
politica turatiana è sempre stata aperta ai principi del relativismo culturale, del rispetto degli
avversari, del pluralismo politico, dell’elogio
del dissenso, della difesa del diritto all’errore
e dell’amore dell’eresia.
Principi questi ai quali Turati è sempre stato
fedele e, per questo motivo, riconoscibile
‘campione’ di democrazia e di riformismo.
E’ importante in occasione di questa celebrazione, riportare l’attenzione sull’opera del
‘leader’ socialista per la costruzione del socialismo riformista italiano, dalla quale emerge
la grandezza del capo politico, dell’uomo di
pensiero, del lottatore contrario all’uso della
violenza, ma sempre pronto a battersi per il riscatto del mondo del lavoro e per la conquista
degli spazi di libertà e di democrazia che sono
i nutrimenti indispensabili per la crescita del
movimento socialista.
E’ doppiamente emozionante per me essere
qui oggi a portare i saluti del sindaco Pisapia,
che fin dalla campagna elettorale dello scorso
anno, ha avuto l’intuizione che si dovesse andare oltre, superando il contrasto tra le due
‘anime’ della sinistra, una contrapposizione
che era ormai caduta nella farsa, per dar vita a
un rinnovato riformismo, finalmente inclusivo
di tutte le espressioni in cui si declina la nuova
sinistra milanese. Pur non provenendo direttamente dalla tradizione socialista, Giuliano ha
capito infatti che la rifondazione della sinistra
milanese doveva far tesoro dell’esperienza
del‘socialismo municipale’, embrione della
società socialista, con l’utilizzo dei servizi
pubblici, di una politica fiscale progressiva,
che si declinava nella calmierazione dei prezzi
dei generi di consumo e nella difesa dei diritti
dei lavoratori e dei cittadini. Possiamo quindi
affermare con orgoglio che questi primi 10
mesi di governo della città rinverdiscono e
vanno nel solco della tradizione dei sindaci riformisti milanesi”.
Carlo Tognoli dopo avere ricordato che Turati morì in casa di Bruno Buozzi, a Parigi, in
Boulevard d’Ornano, dove aveva trascorso gli
ultimi anni dell’esilio – ha letto un breve messaggio di Rino Formica:
“Ho un debito con le ceneri di Turati. Nel
maggio del 1947 si tenne a Parigi
(Monterouche) il congresso della Federazione Giovanile Socialista di Francia che deliberò
la Costituzione dell’Internazionale Giovanile
Socialista di ispirazione trotskista. La delegazione italiana era composta da Solari, Mura,
Ruffolo, Maitan, Formica. A conclusione del
Congresso un corteo di giovani socialisti si recò al Cimitero di Pere Lachaise per deporre i
fiori ai caduti della Comune di Parigi. Noi giovani socialisti italiani non rendemmo omaggio
a Turati e Treves che riposavano nello stesso
cimitero, ma deponemmo fiori su la tomba di
Largo Caballero, il capo socialista della rivoluzione spagnola. Quella scelta indica il clima
antiriformista che avvolgeva le nuove generazioni socialiste.
Presto alcuni di noi ebbero modo di vergo-
gnarsi di quel gesto di ostilità a Turati e Treves. Fraternamente, Rino”
Tognoli ha sottolineato l’importanza della
figura di Turati nella storia del socialismo italiano e per la crescita della democrazia nel nostro Paese allora molto arretrato. Fermo assertore del socialismo riformista e gradualista, fu
contrario all’uso della violenza come mezzo
di lotta politica.
Dimenticato a lungo anche nell’ambito della
sinistra (eccezion fatta per Giuseppe Saragat
che a lui si ispirò e per Bettino Craxi che negli
anni ‘80 lo riconobbe come fondatore e protagonista del socialismo riformista) è stato considerato ingiustamente un perdente.
Gli veniva addebitata la responsabilità di
non avere dato vita a un governo democratico
per sbarrare il passo a Mussolini. Ma Turati
era favorevole a una soluzione di quel tipo.
Contraria era la maggioranza dei socialisti, dei
liberali e dei cattolici, che avrebbe dovuto essere la base di una maggioranza antifascista.
La sua sconfitta non era diversa da quella di
tutti gli altri democratici non fascisti. Le sue
idee sono ancora valide e preziose quanto meno sul piano del metodo e nella difesa della democrazia.
Fu il principale ‘costruttore’ del partito socialista cui diede una funzione politica di azione per le riforme sociali e per le libertà e non
solo di lotta.
Ebbe grandi intuizioni, quasi profetiche, ri-
22 ■ CRITICAsociale
3-4 / 2012
■ “L’ESERCIZIO E LE RIFORME”
spetto all’evoluzione delle situazioni storiche
e politiche.
IL “TURATI” DI MAURIZIO PUNZO
“…Né si creda che davvero possa esistere
una dittatura di classe. Non esiste una dittatura di classe; la maggioranza non ne ha bisogno; la minoranza non via ha diritto. Esistono dittature di uomini e quindi sopra e contro tutte le classi…”
Carlo Tognoli
N
Massimalisti e comunisti ne ostacolarono la
positiva azione in nome del velleitarismo rivoluzionario.
Togliatti lo insultò dopo la morte: “…la sua
vita può ben essere presa come un simbolo e
come un simbolo la sua Aine. La insegna sotto
cui questa vita e questa Aine possono essere
poste è la insegna del tradimento e del fallimento…Nella teoria Turati fu uno zero…un
oratore sentimentale, tinto di scetticismo…spirito conservatore…organicamente un contro
rivoluzionario…e bisogna sfatare un’altra
leggenda, quella di Turati onesto, diritto, sincero e così via…fu uno tra i più disonesti fra i
capi riformisti perché fu tra i più corrotti dal
parlamentarismo e dall’opportunismo…”
In realtà Filippo Turati aveva già visto con
lucidità che cosa era il comunismo al potere,
come denunciò nel suo discorso al congresso
PSI di Bologna del 1919: “… la miseria, il terrore, la mancanza di ogni libero consenso (basti dire che in Russia non esiste libertà di
stampa, il diritto di riunione è conculcato, il
lavoro è militarizzato e i più presi di mira dalla persecuzione governativa sono i socialisti
di tutte le scuole) e inAine la pretesa di forzare
l’evoluzione economica – tutto ciò ha portato
e porterà ineluttabilmente lo scoraggiamento
di qualsiasi attività produttiva e così, paradossalmente, un Paese così vasto e ricco di risorse… anziché diventare antesignano di una
nuova civiltà, dovrà soffrire decenni di patimenti e di povertà…mentre Ain d’ora è costretto a creare una immensa macchina militaristica che è un pericolo permanente…”.
‘L’odio per i riformisti è il pilastro della pedagogia dell’intolleranza’, scrive il prof. Orsini nel saggio ‘Gramsci e Turati, le due sinistre’
nel quale si mette in luce l’intolleranza gramsciana e la tolleranza turatiana. Saviano, che
ha recensito il libro, fa notare quanto più positiva sia la linea laica e democratica di Turati
contraria al metodo della violenza politica e
della demonizzazione degli avversari.
Nell’esilio francese contribuì all’unificazione dei due partiti socialisti formatisi nel 1922:
il PSI di Nenni e il Partito socialista unitario
di Matteotti, Turati e Treves.
Nenni aveva evitato che il PSI ammainasse la
bandiera, nel ’22, per la decisione di Serrati di
aderire al Partito comunista d’Italia. Il PSU riformista era ancora il più forte elettoralmente.
Nel 1930 Turati e Nenni riuscirono a dar vita ad un partito unico. In una lettera a Nenni
del 24 marzo 1930, Turati scriveva:
“Mio caro Nenni, non fui mai il feticista di
una qualsiasi unità: La parola è troppo ambigua ed elastica. Seduce i semplici cui fu detto
che l’unione fa la forza e i contabili fanatici
del tesseramento. Ma se è fra contrari ed incompatibili, crea la babele del pensiero, la paralisi dell’azione. Ogni tattica può avere del
buono purché tenga una linea. Fare del proletariato un solo cervello ed un solo cuore è
la meta ideale, non può essere il punto di partenza ed esige che l’unione sia appunto nei
cervelli e nei cuori.
Quali dissensi ci tennero così a lungo divisi?
- Il dissenso sulla partecipazione o l’appog-
gio a governi demoocratici su eventuali alleanze elettorali;
- la valutazione delle riforme, della conquista da farne anche prima del miracolo rivoluzionario, la penetrazione graduale, ma assidua, in tutti gli istituti borghesi;
- l’apprezzamento del fenomeno bolscevico
e delle dittature fasciste.
Tre fatti dominano oggi la storia: il ricordo
della guerra, la quale può riprodursi più terribile – la tragedia del fascismo, vero brigantaggio di classe – il fenomeno oscuro del bolscevismo.
Con questo animo, con questi voti, auspico
di gran cuore l’unità socialista”.
I due tronconi del socialismo si rimettevano
insieme per imboccare una via che purtroppo,
dopo la seconda guerra mondiale, sarà tormentata da nuove divisioni e scissioni.
Nenni solo dopo il 1956 riprenderà la strada
del riformismo a lungo contrastata dal massimalismo inconcludente.
Eppure basta rileggere il cosiddetto ‘programma minimo’ (elaborato nel 1895, dopo la
ricostituzione del PSI dopo lo scioglimento
determinato dalle leggi
‘crispine’) per rendersi conto come i fautori
del ‘programma massimo’ (la rivoluzione, preceduta dal ‘tanto peggio, tanto meglio) fossero
fuori dalla realtà. Tra i punti del programma
minimo si leggono: - suffragio universale –
abolizione restrizioni della libertà di stampa,
di riunione di associazione – eguaglianza giuridica tra i due sessi – nazionalizzazione di ferrovie, miniere, linee di navigazione – espropriazione terre incolte – riforma tributaria con
tassa unica progressiva – riduzione degli interessi del debito pubblico –giornata lavorativa
di otto ore – cassa pensione per i vecchi, invalidi, inabili al lavoro – limitazione del lavoro
delle donne e dei fanciulli – igiene nelle fabbriche – scuola obbligatoria – servizi pubblici
ai comuni – abolizione dei dazi sui consumi
trasformazione delle pubblica beneficenza in
assistenza sociale ed economica – aiuti agli
studenti poveri ecc.
Turati era questo: la conquista, giorno dopo
giorno, da parte dei lavoratori guidati dal Partito socialista dei diritti economici e sociali con
le battaglie democratiche, l’elevazione civile e
culturale dei proletari, il rispetto per le altre
culture politiche nella certezza che solo nella
democrazia si salvano i risultati ottenuti. s
el 1918, subito dopo la fine
della ‘grande guerra’ Filippo
Turati, neutralista convinto,
ma non anti-italiano, prosegue nella sua azione
politica e ideale, il lavoro di una vita, per tentare di portare il socialismo italiano fuori dalle
‘secche’ del massimalismo inconcludente che
ne avrebbero determinato la sconfitta.
Il proletariato avrebbe dovuto “…respingere
tutte le proposte di giochi d’azzardo sedicenti
rivoluzionari…per la riconquista delle libertà
elementari…il rispetto «postbellico» per l’autodecisione dei popoli…e per tutte le rivendicazioni politiche, economiche, sindacali e culturali, inscritte da gran tempo nei programmi
socialisti…”. «La scelta è» “…fra pace democratica sincera e definitiva, e rivoluzione universale. Il dilemma, anche pei vincitori, si riassume nell’alternativa di due nomi simbolici:
Wilson o Lenin.”
Maurizio Punzo - in questo saggio storico
nel quale si riporta l’attenzione sull’opera del
‘leader’ socialista per la costruzione del socialismo riformista italiano – fa parlare Turati.
Emerge la grandezza del capo politico,
dell’uomo di pensiero, del lottatore contrario
all’uso della violenza, ma sempre pronto a battersi per il riscatto del mondo del lavoro e per
la conquista degli spazi di libertà e di democrazia che sono i nutrimenti indispensabili per
la crescita del movimento socialista.
Viene seguita, passo dopo passo, l’evoluzione politica e ideale che porta Turati alla fondazione del Partito socialista nella netta separazione dall’anarchismo - che mette in rilievo
la sua posizione ‘intransigente’ nei primi anni
di vita del partito rispetto alle possibili alleanze con i partiti democratici considerati deboli
e ambigui di fronte alle leggi repressive di
Francesco Crispi e del marchese Di Rudinì –
che lo vede rinchiuso nel carcere di Pallanza
dopo i fatti del 1898 – che lo trova di nuovo
nel 1899 alla direzione della ‘Critica Sociale’
dopo la forzata assenza.
Con la crisi di fine secolo, com’è noto, si
apre un periodo favorevole per il riformismo
socialista e per la stessa democrazia italiana.
Turati, affiancato da Anna Kuliscioff, Claudio Treves e Leonida Bissolati (direttore
dell’Avanti!) comincia a tessere il filo delle riforme stabilendo un dialogo, spesso conflittuale, con la parte più aperta dello schieramento liberale, Zanardelli e Giolitti, ottenendo risultati importanti sul piano della legislazione
sociale e delle libertà. Il Partito socialista diventa un interlocutore per conquistare vantaggi concreti per il proletariato, per rendere più
democratica la politica italiana, in vista, tra
l’altro, del suffragio universale che potrebbe
dare più peso al socialismo italiano.
L’autore ripercorre questa strada ‘turatiana’,
che si sviluppa raccogliendo vittorie e sconfitte, anche attraverso compromessi positivi, a
vantaggio dei lavoratori e senza mai rinunciare
all’obbiettivo della costruzione della società
socialista, da raggiungersi con il metodo democratico.
Questa linea viene contrastata dai ‘rivoluzionari’ che progressivamente conquistano la
maggioranza del partito e negano la validità
del gradualismo
Turati difende la sua azione: “…E non tutte
le riforme sono d’una stessa famiglia. Ve n’ha
che devono essere sudata conquista dei lavoratori…con la loro vigilanza, ma ve n’ha anche – poniamo le pensioni di vecchiaia, le assicurazioni contro gli infortuni ecc. – che, comunque ottenute, sono benefizi sicuri…”.
Arriva a compimento anche il suffragio universale, malgrado i riformisti siano ormai in minoranza nel partito, ma arriva anche la guerra.
Il neutralismo socialista è interpretato dai
‘rivoluzionari’ o ‘massimalisti’ (come ormai si
chiamano in ossequio al programma ‘massimo’ contrapposto al programma ‘minimo’ delle riforme) in forma aggressiva e talora antinazionale anche durante la disfatta di Caporetto. Invece i riformisti, senza diventare interventisti, si schierano con la maggioranza degli
italiani nel momento in cui è necessaria l’unità
del Paese.
L’autore dedica diverse pagine a Milano su
questo periodo, mettendo in rilievo le posizioni del sindaco Emilio Caldara del tutto corrispondenti a quelle di Turati per la difesa dei
confini italiani.
Nel testo sono molti i riferimenti al capoluogo lombardo, nella cui rappresentanza comunale era presente il leader socialista prima con la
minoranza consigliare e poi con la maggioranza
che nel 1914 portò Caldara sindaco. E vengono
messi in evidenza i contrasti con i ‘rivoluzionari’ che controllavano il partito e la giunta che
proprio durante la guerra, senza rinunciare al
proprio programma socialista, aveva saputo attirare il consenso dei milanesi con una ampia
azione di assistenza verso la popolazione, i profughi e i militari di stanza in città.
Naturalmente nel libro altre pagine sono dedicate al ‘socialismo municipale’, embrione
della società socialista - con l’utilizzo dei servizi pubblici, di una politica fiscale progressiva, la calmierazione dei prezzi dei generi di
consumo, la difesa dei diritti dei lavoratori come strumenti di modificazione del potere a
vantaggio del proletariato.
Punzo conclude con un commento al discorso di Turati, ‘Rifare l’Italia’, del 1920, ritenuto
comunemente uno dei più avanzati programmi
per il rinnovamento in chiave socialista e democratica del nostro Paese. Anzi alcuni hanno
visto in quella impostazione, sia pure tenendo
conto della differenza epocale, la politica del
centro sinistra PSI, DC, PSDI, PRI dei primi
anni ’60, con la nazionalizzazione dell’energia
elettrica, la scuola media unica, la riforma delle pensioni, la grande redistribuzione dei redditi verso le classi lavoratrici.
Perché Turati è stato in parte dimenticato?
Perché ha perso contro il fascismo? Non era il
solo e si era battuto con lucidità auspicando
una grande coalizione antifascista.
Forse si deve a una parte rilevante della sinistra italiana (eccezion fatta per Giuseppe Saragat) se fino a Bettino Craxi nessuno aveva
riconosciuto al fondatore del PSI l’importanza
che aveva avuto nella storia del socialismo e
nella maturazione della democrazia italiana.
Una sinistra a lungo dominata dal massimalismo e dal comunismo che, quando ha cominciato, per necesità, a imboccare la strada del
gradualismo e delle riforme, non ha voluto
ammettere i propri errori e ha ignorato i protagonisti del riformismo. s
(‘L’esercizio e le riforme’, Maurizio Punzo,
l’Ornitorinco edizioni, Milano 2011)
CRITICAsociale ■ 23
3-4 / 2012
■ UN SAGGIO DALLA RIVISTA WEB “STORIA IN RETE”
SOCIALISMO E GUERRA DI LIBIA
LA CRISI MORTALE DEL RIFORMISMO IN ITALIA
F
Aldo Giovanni Ricci
in dalla sua nascita il socialismo
ha avuto due anime: quella oggettivistica ed evoluzionista e
quella messianica e interventista, entrambe
conviventi, sia pure in modo diverso e con frequenti contaminazioni reciproche, sotto l’ala
rassicurante dell’idea di progresso.
Tutto si trova già nel pensiero e nelle opere
del padre-padrone del socialismo, Karl Marx,
che ha convissuto con geniale consapevolezza
con questa evidente contraddizione, coltivandola per tutta la vita nella convinzione che fosse essa stessa componente essenziale delle sue
analisi e del suo programma rivoluzionario e
che la bacchetta magica della dialettica potesse
far coesistere queste due istanze inconciliabilmente contraddittorie.
In questo dualismo è racchiuso un secolo e
mezzo di storia del movimento operaio, compreso ovviamente quello italiano, tra la metà
dell’800 e la fine del 900, un movimento che
ha rappresentato, in questo stesso arco di tempo, una delle componenti più importanti della
dinamica storica complessiva, anche se oggi
ha lasciato il posto ad altre dinamiche legate
al venir meno delle tradizionali contrapposizioni di classe e all’insorgere di contrasti politici ed economici nuovi, tipici del mondo
globalizzato.
In Italia il Partito Socialista, nato nel 1892
come Partito dei lavoratori (il nome PSI è del
1895), si forma e si sviluppa all’insegna del riformismo, anche se ha fin dall’inizio al suo interno una forte corrente massimalista, coltivato anche attraverso il rapporto preferenziale
con il movimento sindacale. I leader principali
del riformismo erano Filippo Turati, Claudio
Treves e Leonida Bissolati, uniti sostanzialmente dal metodo del gradualismo riformatore
al’interno del quadro parlamentare del sistema
liberale, ma destinati a dividersi negli anni
successivi di fronte ad avvenimenti traumatici,
tra i quali spicca in particolare la guerra di Libia del 1911.
Questa tendenza si concretizzò in particolare a partire dal 1901, quando i socialisti decisero l’appoggio esterno al governo Zanardelli-Giolitti e venne teorizzata dallo stesso Turati
in un articolo apparso sulla “Critica sociale “
nello stesso anno, dove si legge: “ la trasformazione sociale non può farsi né per decreti
dall’alto, né per impeti subitanei dal basso, ma
presuppone tutta una lenta e graduale trasformazione, anzitutto dell’ossatura industriale…
poi coerentemente una trasformazione ed un
elevamento del pensiero, delle abitudini, delle
capacità stesse delle masse proletarie. Questo
elevamento non avviene per una rivelazione
mistica o per trasfusione precettuale: bensì
coll’esercizio che crea le forze e colle riforme,
che rendono l’esercizio possibile o ne fissano
i risultati in istituti legali”. E’ la quintessenza
del riformismo, così come lo aveva definito
anni prima il ‘padre’ di tutti i riformisti, il tedesco Eduard Bernstein.
Con alti e bassi questa è la rotta del socialismo italiano nel primo decennio del secolo,
negli anni d’oro del giolittismo, contrassegnati
da una collaborazione di fatto, più o meno dichiarata nei proclami ufficiali.
La situazione comincia a modificarsi a partire dal 1910, e in particolare dal Congresso di
Milano dell’ottobre, quando Bissolati, certamente la ‘punta di diamante’ del riformismo
socialista, comincia a manifestare la sua insofferenza nei confronti dei ripetuti compromessi
ai quali la direzione del partito è costretta nei
confronti della sua ala sinistra. Proprio in occasione del congresso il leader della ‘destra’
rivendica l’autonomia dei deputati socialisti rispetto alla direzione del partito (autonomia che
avrebbe consentito ovviamente una maggiore
facilità di collaborazione in parlamento con il
governo giolittiano) e si dimette, anche per
questo da direttore dell’“Avanti!”.
“Io non credo, afferma Bissolati davanti ai
delegati, che il partito socialista abbia finito la
sua funzione ; credo che debba trasformarsi: la
sua composizione va mutata. Ma oggi, superata
la fase della lotta per la libertà, il partito è un
ramo secco, un organismo vecchio, che deve
lasciare il posto ai germogli della vita proletaria
autentica…Deve venire il momento che la
classe lavoratrice deve essa stessa formulare i
suoi bisogni e tracciare la via del suo destino”.
Le contraddizioni nel partito esplodono all’inizio del 1911 con la caduta del governo
guidato da Luigi Luzzatti e l’incarico affidato
nuovamente il 20 marzo a Giolitti, il cui programma prevedeva una riforma elettorale nel
senso del suffragio universale maschile, una
riforma dell’istruzione elementare e il monopolio dello Stato nel settore delle assicurazioni
sulla vita, ma soprattutto richiedeva la presenza dei socialisti al governo.
Tre giorni dopo, il 23 Bissolati si recava al
Quirinale per riferire al re la posizione dei socialisti in merito alla partecipazione al nuovo
esecutivo. L’incontro, che non è esagerato definire storico, perché vedeva per la prima volta
un socialista a colloquio con il sovrano in un
incontro ufficiale, era stato preceduto da un
confronto serrato tra i leader riformisti. In particolare, Bissolati aveva parlato con i suoi diretti sostenitori, Bonomi e Cabrini, che lo avevano incoraggiato, ma soprattutto con Treves,
che si era dichiarato possibilista, e con Turati,
che aveva respinto l’offerta di Giolitti, vedendo in essa un machiavellismo dello statista di
Dronero per rendere inoffensivo il movimento
operaio italiano. Svaniva così la possibilità di
un governo con la presenza dei socialisti e Bissolati, durante il colloquio, fu costretto a declinare l’invito.
Questi contrasti si riflettono nei diversi toni
degli interventi alla Camera prima del voto finale. Bissolati si dichiarò soddisfatto delle
proposte del capo del governo. “L’on. Giolitti,
afferma, ci propone col suffragio universale
l’unico vero mezzo con cui si possa infrangere
l’arma della violenza. Sette o otto milioni di
elettori impediranno che i corruttori, i violenti,
i mazzieri si facciano valere contro la libera
volontà popolare”. Al contrario, Treves, che
pure aveva sempre considerato la riforma elettorale quale obbiettivo primario, si dichiarava,
anche a nome di Turati, insoddisfatto, reclamando, con una riserva evidentemente pretestuosa, l’estensione del voto anche alle donne.
Per Treves, con l’esclusione dell’elettorato
femminile, Giolitti si era dimostrato “il vero
progressista borghese che sa fare coincidere le
riforme necessarie col minore danno delle
classi dominanti e col minimo vantaggio delle
classi proletarie”. In ogni caso il programma
avrebbe poi ottenuto, con due sole defezioni,
il voto favorevole dei deputati socialisti.
Nella sua replica finale, Giolitti aveva buon
gioco a dichiarare comunque che in base alle
nuove posizioni del Partito socialista, “Carlo
Marx era stato mandato in soffitta”: un’affermazione destinata a diventare celebre e a favorire la nascita di un nuovo periodico della
sinistra socialista (“La Soffitta” ). In particolare Benito Mussolini, allora esponente dell’ala più estremista, attaccò il capo del governo in base alla classica logica del ‘tanto peggio
tanto meglio’, vale a dire perché il suffragio
universale avrebbe favorito l’evoluzione democratica del Paese, allontanando così le lotte
più radicali.
Ma in quei mesi stavano maturando novità
sul piano della politica estera destinate a svolgere un ruolo decisivo sugli equilibri all’interno del Partito socialista. Infatti il 28 luglio il
ministro degli esteri di San Giuliano presentava un promemoria in base al quale, vista l’evoluzione del quadro geopolitico del Mediterraneo, si sarebbe reso necessario un intervento
italiano per occupare la Libia e quindi un conflitto con la Turchia. La situazione sarebbe poi
precipitata nelle settimane successive, portando il 26 settembre a un ultimatum dell’Italia
all’Impero ottomano e quindi al conflitto.
Il giorno successivo veniva proclamato uno
sciopero generale destinato a rivelarsi un clamoroso insuccesso, tranne nella zona di Forlì,
dove la sinistra era maggioritaria e le violente
manifestazioni videro alla testa dei dimostranti
una coppia inedita formata dal socialista Mussolini (che avrebbe poi definito i riformisti
“ascari di Giolitti”) e dal repubblicano Nenni,
che proprio per questo sarebbero poi stati arrestati il 14 ottobre.
Né Giolitti né i riformisti potevano essere
definiti dei guerrafondai, ma entrambi avevano chiaramente percezione delle necessità imposte all’Italia dall’evoluzione della politica
internazionale. Sorprende quindi solo fino a
un certo punto la definizione coincidente data
dell’intervento in Libia dallo stesso Giolitti e
dal riformista Ivanoe Bonomi: “una necessità
storica”. Il 5 novembre, con Regio Decreto,
Cirenaica e Tripolitania venivano dichiarate
sottoposte alla sovranità italiana.
La guerra di Libia rappresentò per l’opinione
pubblica italiana e per i partiti uno spartiacque
destinato a riproporsi quattro anni dopo con la
Grande Guerra. D’Annunzio scrive le Canzoni
della gente d’oltremare. Pascoli, il 6 aprile
1912, poco prima di morire, afferma che “la
grande proletaria si è mossa dopo soli 50 anni
ch’ella rivive”. Il liberale meridionalista Giustino Fortunato dichiara l’importanza per la
nuova Italia di una vittoria virile che coinvolga
anche i contadini. I partiti si spaccano. I radicali e i sindacalisti rivoluzionari a favore; divisi
i repubblicani e i socialisti, dove emerge per la
prima volta clamorosamente la spaccatura tra
i riformisti: Bissolati, Bonomi e Cabrini possibilisti, Turati ( a cui si accoderà poi anche Treves) nettamente contrario. Proprio Turati il 25
settembre del 1911 aveva definito “ l’occupazione militare di Tripoli non giustificata né da
ragioni di diritto né da rispettabili interessi materiali della nazione”, protestando “in nome degli interessi più profondi e più veri della patria
e soprattutto delle classi lavoratrici”.
La formalizzazione della rottura avvenne tra
il 15 e il 18 ottobre al congresso di Modena
del partito, dove Turati definì la guerra un “tradimento del programma di democrazia da parte del governo”, mentre Bonomi gli rimproverava di non capire la necessità per l’Italia di
affermarsi nel mondo, limitandosi a pronunciare delle “lamentazioni di Geremia”. Turati
concludeva con un’affermazione che metteva
una pietra tombale su ogni collaborazione con
le forze liberali, ipotecando così il futuro del
Paese. Dichiarò infatti che “in nessun tempo
può riporsi fiducia in un governo borghese, per
quanto democratico”.
La situazione stava diventando insostenibile. Da una parte Bissolati, che aveva sempre
manifestato una maggiore attenzione per i problemi di politica estera, riteneva necessaria la
difesa degli interessi nazionali da parte del governo nel quadro delle alleanze europee. A suo
giudizio, nessuna nazione poteva vivere in
modo autarchico e per il proletariato non era
indifferente che prevalesse una politica estera
piuttosto che un’altra. Per l’occupazione della
24 ■ CRITICAsociale
Libia riteneva inoltre che una forma di colonizzazione fatta nel modo giusto avrebbe potuto rappresentare una buona opportunità sia
per gli occupanti che per gli occupati. Dall’altra parte, Turati ( a differenza di Treves, che
però subiva l’autorità del leader) non aveva
mai mostrato un particolare interesse per la politica estera, e soprattutto non aveva nel suo
DNA (almeno fino a quel momento) la vocazione a rotture sulla sua sinistra e quindi con
l’ala ‘rivoluzionaria’ del partito.
Lo scontro si ripropose alla riunione congiunta del gruppo parlamentare e della direzione del partito dell’8 febbraio 1912, che preludeva al dibattito alla Camera, del 23 successivo, per la conversione del RD sull’annessione della Tripolitania e della Cirenaica, quando
il gruppo socialista dichiarò il proprio voto
contrario, mentre, nel segreto dell’urna, tredici
deputati del PSI votarono a favore. Subito dopo Bissolati si dimetteva da deputato. Il 14
marzo un altro episodio metteva in evidenza
la frattura ormai in atto: lo stesso Bissolati, insieme a Bonomi e Cabrini, si recavano al Quirinale per congratularsi con il re per essere
scampato all’attentato organizzato dall’anarchico Antonio D’Alba: un gesto che suscitò la
reazione violenta di tutta la sinistra, con Mussolini tra i critici più accesi.
La resa dei conti avvenne al congresso di
Reggio Emilia, tra il 7 e il 12 luglio, del 1912,
dove la sinistra del partito, rafforzata anche dai
contrasti in seno ai riformisti, si presentò con
il 55% delle deleghe, puntando decisamente all’espulsione dei riformisti di Bissolati, accusati
da Mussolini di “gravissima offesa allo spirito
della dottrina e della tradizione socialista”.
Pur non risparmiando critiche a Bissolati,
Treves tenne una posizione più accomodante,
temendo il rischio di una frattura, e allo stesso
modo si pronunciò, su sollecitazione dell’amico, anche Turati, che si dichiarò contrario all’espulsione invocando ragioni di coscienza,
ragioni che risultarono deboli di fronte alla volontà della nuova maggioranza.
Si arrivò così all’espulsione del gruppo dei
riformisti di ‘destra’ (Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca), condannando all’isolamento la
componente di Turati e Treves, che fino a quel
momento aveva conservato l’egemonia nel partito e che dimostrò poi di non avere una politica
riformista di ricambio. Gli espulsi andarono a
formare il Partito socialista riformista italiano,
con un suo nuovo giornale : “Azione sociale”.
La scissione ebbe conseguenze tragiche per
il socialismo riformista. Nonostante conservassero la maggioranza all’interno del sindacato, i riformisti, divisi in due tronconi, vennero ridotti praticamente all’impotenza,con
conseguenze gravi per il futuro del Paese:
dall’indebolimento del governo Giolitti all’incertezza della politica di fronte alla crisi europea del 1914. La guerra di Libia fece quindi
precipitare le contraddizioni del riformismo
socialista. Rifiutando le ragioni degli interessi
nazionali, Turati e Treves rimasero succubi
dell’ala intransigente, che avrebbe condannato
il socialismo a un’opposizione sterile fino alla
scissione del PCd’I del 1921, quando il futuro
della democrazia in Italia era ormai largamente compromesso. Una amara conclusione per
una forza politica e culturale, quella appunto
del riformismo socialista, che negli anni precedenti aveva dato un contributo importante al
progresso materiale e sociale del Paese. Gli
eventi degli anni successivi avrebbero dimostrato che le parole di Bissolati, pronunciate
nel 1910, erano giuste: il partito era ormai un
“ramo secco”, incapace di reggere il confronto
con le drammatiche prove che attendevano
l’Italia e il movimento dei lavoratori. s
Aldo Giovanni Ricci
3-4 / 2012
■ È MOSCA CHE IMPONE AL PCI DI SACRIFICARE GLI INTERESSI NAZIONALI
“PORZUS” NELLA STORIOGRAFIA
LA OSOPPO E IL MANCATO “ROVESCIAMONETO DI FRONTE”
Elena Aga Rossi
C
osì com’è avvenuto per il dibattito pubblico, anche la storiografia ha continuato fino a questi ultimi anni ad avallare ricostruzioni parziali
quando non ideologicamente viziate. Contemporaneamente sono stati pubblicati alcuni studi circostanziati, ma poco approfonditi.
Diverse ipotesi si sono susseguite nel corso
del tempo, alcune chiaramente funzionali a negare o minimizzare quanto più possibile un
coinvolgimento dei vertici del PCI attribuendo
la responsabilità dell’eccidio a un’iniziativa
personale di «Giacca», o identificando nei
mandanti dell’eccidio i soli sloveni. Per lungo
tempo sono prevalse versioni tendenziose, piene di omissioni quando non di vere e proprie
falsificazioni storiche.
Soprattutto, si è voluto ridurre Porzûs a un
episodio di violenza (ome tanti altri, evitando
di inquadrarlo nella particolare situazione del
confine orientale, che non può essere ricondotta
nei termini di una contrapposizione tra fascismo e antifascismo: qui emerse nel modo più
evidente la triplice contrapposizione tra fascisti,
antifascisti democratici e antifascisti comunisti
e il carattere internazionalista del PCI, che subordinava la liberazione del paese all’obiettivo
dell’instaurazione di un regime socialista.
Nelle opere di più largo respiro di autori vicini al PCI, la scelta è stata quella di omettere
l’eccidio di Porzûs o di considerarlo un episodio di scarso rilievo. Abbiamo già accennato
alla scelta di Pavone di accennarvi in una nota,
ma anche Paolo Spriano nella sua Storia del
Partito comunista italiano non ne parla, pur
ricordando la lettera di Togliatti a Bianco. 1
Roberto Battaglia a sua volta nella Storia
della Resistenza italiana relega in una nota la
descrizione dell’eccidio sostenendo, sulla base
della sentenza della Corte di Assise di Lucca,
che «l’omicidio ebbe per causale non il tradimento osovano e garibaldino, ma l’odio politico divampato dall’anticomunismo di Bolla»
che si sarebbe scontrato con «l’animosa intolleranza di fanatici avversari».2 Nello stesso
tempo accenna solamente al passaggio della
Natisone al IX Korpus attribuendolo non alla
politica degli sloveni e alla subordinazione del
PCI a Tito, ma alla necessità del momento: esso fu «imposto dalle circostanze, dopo che il
terribile rastrellamento del novembre le [alla
Natisone] [aveva] lasciato solo questa via di
scampos».3
La versione accreditata da Battaglia secondo
cui la responsabilità ultima dell’ eccidio sarebbe da imputare all’acceso anticomunismo degli stessi osovani e al clima di tensione tra garibaldini e autonomi ebbe largo seguito nelle
principali ricostruzioni successive e su di essa
si sarebbero attestati la maggioranza degli autori. Nella sua Storia dell’Italia partigiana,
Giorgio Bocca, pur condannando l’eccidio, ne
addossa la colpa a Bolla, reo di aver denunciato le «mene slavo-comuniste»:
Gli autonomi della Osoppo hanno commesso l’imprudenza di mettere a Porzùs un distaccamento comandato da un certo Bolla (Francesco De Gregari) uomo sbagliato nel luogo
sbagliato. Un piccolo reparto «verde» in mezzo al mare «rosso» potrebbe sopravvivere solo
al prezzo di un’attività militare tale da meritare
la stima e da incutere rispetto; purtroppo, Bolla è un. attendista afflitto da grafomania, il
quale invece di difendere l’italianità del luogo
sui campi di battaglia, scrive in continuazione
rapporti al CLN di Udine sulle mene slavo-comuniste. L’alleanza fra gli slavi e i garibaldini
è un fatto reale, la politica internazionale impone al PCI di sacrificare in parte gli interessi
nazionali, volenti o nolenti i garibaldini devono piegarsi ad accettare una certa supremazia
titina. Ma Porzùs non deriva da un ordine titino, Porzùs è una faccenda italiana, le accuse e
le denunce di Bolla, ripetute al CLN di Udine,
mettono in allarme i rappresentanti comunisti,
da essi parte l’avviso al Comando della Divi-
sione Natisone: risolvete in qualche modo la
grana Bolla. li Comando di divisione esegue:
Bolla sarà messo a tacere in quel modo che
non ha rimedio, la morte.4
Al contrario di quanto ha sostenuto Bocca,
Porzûs non è una «faccenda italiana». Oltre alla documentazione da noi citata altri elementi
mostrano la rilevanza internazionale dell’ episodio, come i rapporti, che finora non sono stati adeguatamente sottolineati, tra Toffanin
«Giacca» e alcuni «elementi del servizio informazione e sicurezza dei partigiani sloveni»
dopo il 1943, elemento che dovrebbe avere
una certa rilevanza.5
Non solo, ma alcuni autori hanno messo sullo stesso piano la subordinazione dei comunisti alle tesi jugoslave con l’anticomunismo degli osovani, riconducendo l’eccidio allo scontro tra due estremismi entrambi esecrabili.
Giampaolo Gallo ad esempio, che pur condanna nettamente le responsabilità indirette del
Partito comunista nell’eccidio, scrive che «da
una parte [...] i comunisti triestini e isontini
rompono col CLN e aderiscono alle tesi jugoslave [...] dall’altra [...] i partiti moderati giuliani, e anche friulani, cedono a un crescente
inquietante di risentimento antislavo, nazionalista e anticomunista, in pericolosa assonanza
con quello fascista e tedesco.6
Facendo un passo ulteriore, altri autori si sono concentrati poi sui contatti tra gli osovani
e la X MAS nei mesi precedenti all’eccidio,
circostanza che avrebbe se non giustificato
quanto meno reso comprensibile la reazione
degli uomini di Toffanin. Su questo aspetto ha
insistito ad esempio Alberto Buvoli, oggi Direttore dell’Istituto Friulano per la Storia del
Movimento di Liberazione.
Secondo Buvoli,
L’efferatezza dell’ eccidio e l’animosità che
ne fu alla base furono probabilmente una comunque ingiustificata e violenta risposta al
comportamento a volte equivoco di alcuni comandanti dell’Osoppo, che, nonostante i ripetuti richiami degli organi dirigenti della Resistenza italiana, non si peritarono di prender
contatti e di dimostrarsi disponibili ad accordi
con il nemico, con comandanti tedeschi e con
esponenti fascisti locali e della X MAS, contatti che avevano come obiettivo anche un capovolgimento di fronte in funzione antislovena e anticomunista.7
Tali accuse, che arrivano fino ad attribuire
alle «Osoppo» la volontà di passare dalla parte
dei fascisti e dei tedeschi contro i titini, non sono mai state provate, ma sono riuscite a oscurare il carattere antifascista delle formazioni
delle «Osoppo» e a delegittimarne l’azione.8
Sulla stessa linea, anche se in tono minore,
le valutazioni di Pierluigi Pallante, secondo
cui l’uccisione fu decisa non dai dirigenti - visto che non c’è alcun ordine scritto che la provi - ma da Giacca e dai suoi, per reazione ai
contatti degli osovani con i repubblichini.9
Alessandra Kersevan ha addirittura adombrato
la responsabilità nell’ eccidio di rappresentati
dei servizi segreti americani, che avrebbero
operato per dividere al suo interno la Resistenza italiana in combutta con i membri della
«Gladio», che peraltro non era ancora nata.10
Naturalmente, tali considerazioni non si basano su alcun solido apparato documentario.
Non sembra innanzitutto ammissibile mettere sullo stesso piano la connivenza dei comunisti italiani con un regime dittatoriale come quello titino, che mirava a sottrarre all’Italia pezzi importanti del paese, con l’anticomunismo che faceva parte del portato ideale
dell’«Osoppo». Non solo perché tale equiparazione è moralmente inaccettabile, ma anche
perché l’anticomunismo dell’«Osoppo», a differenza di quanto avvenne per i comunisti, non
CRITICAsociale ■ 25
3-4 / 2012
portò mai i suoi membri ad imbracciare le armi contro quelli che erano comunque i loro alleati nella causa antifascista.
In secondo luogo il tema dei contatti con le
formazioni fasciste è assai più complesso di
come si vorrebbe dare a vedere. Rapporti tra
le forze di resistenza e gli occupanti hanno caratterizzato tutti i teatri europei, e uno dei casi
più clamorosi in questo senso riguarda proprio
il campione della resistenza comunista, il maresciallo Tito, che arrivò a proporre ai tedeschi
un’ alleanza contro i nazionalisti di Mihailovié: una soluzione che non si concretizzò solo
per intervento diretto di Hitler che impedì ai
suoi comandanti di procedere in questo senso.11 Nel caso dell’«Osoppo» si trattò soprattutto di rapporti incoraggiati dalla Curia per
scopi umanitari, o di trattative avviate da uomini della X MAS o dei servizi segreti alleati
che, pur se portarono a colloqui tra esponenti
delle due parti, non ebbero alcun seguito da
parte dei vertici dell’ «Osoppo». Quello che le
ricostruzioni che insistono su questi aspetti
non prendono in considerazione è soprattutto
il fatto che l’ostilità nei confronti degli osovani
aveva ragioni prettamente ideologiche e prescindeva da qualsiasi atteggiamento che questi
ultimi avessero voluto adottare. Tutt’altra questione è rilevare l’inopportunità di questi contatti in una situazione già di per sé tesa,12 o il
fatto che la loro conoscenza sia stata utilizzata
ad arte per confermare le accuse, totalmente
inventate, di una connivenza tra fascisti e osovani, e quindi del tradimento di questi ultimi.
Nella metà degli anni Novanta sono stati
pubblicati alcuni resoconti più bilanciati dell’
eccidio. Risale al 1996 un primo tentativo, ad
opera di una giovane studiosa dell’Università
di Pisa, Daiana Franceschini, di elaborare una
ricostruzione dei fatti basata su un uso rigoroso
della documentazione esistente.13 Nel 1997
Sergio Gervasutti pubblicò una nuova edizione
del suo volume su Porzùs, nel quale sosteneva
che «se il Friuli Venezia Giulia alla fine della
guerra di liberazione è potuto rimanere italiano
e appartenere al mondo occidentale, lo si deve
in buona parte all’Osoppo, i cui combattenti si
opposero alla strategia del pcr, che avrebbe voluto annetterlo alla Federazione Jugoslavava».14 Nel 2004 Ugo Finetti ha dedicato ampio
spazio all’ eccidio e alla sua memoria nel suo
volume sulla «Resistenza cancellata».15
Nonostante decenni di polemiche e ricerche,
non è comunque tuttora disponibile un’esauriente ricostruzione che inquadri l’episodio nel
suo contesto, analizzando l’eccidio in relazione
al tema più generale non solo dei rapporti interni alla Resistenza italiana e della politica del
pcr, ma anche delle relazioni tra le altre forze
in campo, i comunisti sloveni e la X Mas, che
anche in contrasto con i tedeschi era accorsa
nella Venezia Giulia per difenderne l’italianità.
A sessant’anni di distanza dagli eventi, si tratta
di una lacuna certamente rilevante, alla quale
questo volume cerca almeno parzialmente di
porre rimedio per contribuire a una più chiara
conoscenza di quel periodo. La recente pubblicazione di alcuni testi su questo tema fa pensare però che il raggiungimento di un consenso
sulla vicenda sia ancora lontano. Emblematico
a questo proposito il Dizionario della Resistenza edito da Einaudi nel 2000-2001. Qui, accanto a un equilibrato contributo su Porzûs di Galliano Fogar, se ne può leggere uno firmato da
Marco Puppini secondo il quale il 7 febbraio
1945 «l’intero comando della I brigata [Osoppo] è arrestato da uomini dei GAP a Porzûs»,
senza che si faccia alcun riferimento all’eccidio.16 Ultimo a riprendere la versione dei contatti tra osovani da una parte fascisti e tedeschi
dall’ altra, cui si aggiunge una presunta uccisione di garibaldini come causa scatenante dell’eccidio, è stato invece Joze Pirjevec, in un
saggio pubblicato nel 2010 sempre da
Einaudi.17 Il libro di Pirjevec mostra come
molto lavoro sia ancora da fare per restituire ai
caduti di Porzùs il ruolo che loro spetta di difensori dell’italianità di quelle terre.
Nell’agosto del 1945 Pier Paolo Pasolini, il
cui fratello cadde nell’ eccidio, così ricordò
quel crimine:
essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler
combattere per l’Italia e la libertà; non per Tito
e il comunismo. Così sono stati ammazzati tutti, barbaramente.18
Questa potrebbe essere un’ epigrafe ideale
per ricordare il loro sacrificio, che aspetta ancora di essere riconosciuto come parte del patrimonio della nazione. s
“L'eccidio di Porzus e la sua memoria”
saggio pubblicato in Tommaso Piffer (a cura
di) "Porzus. Violenza e Resistenza sul confine
orientale" edito da Il Mulino, 2013, 15 euro.
NOTE
9
Cfr. P. Pallante, Il PCI e la questione nazionale, Friuli- Venezia Giulia 1941-1945,
Udine, Del Bianco, 1980, pp. 236 ss. Si veda
anche M. Cesselli, Porzûs, due volti della Resistenza, cit., 1975.
10 R. Kersevan, Porzûs, dialoghi sopra un
processo da rifare, cit.
11 Si questo si veda il racconto di M. Gilas,
Wartime, New YorkLondon, Harcourt Brace
Jovanovich, 1977, pp. 229-245, e anche W.
Roberts, Tito, Mihailovié and tbe Allies, 19411945, II ed., Durham, N.C., Duke University
Press, 1987, pp. 106-112.
12 Si veda a questo proposito A. Moretti, Il
problema delle zone di confine tra Italia e Jugoslavia nella provincia di Udine nell’ultima
fase della Resistenza, in «Storia contemporanea in Friuli», V, 6, 1975, pp. 121-132, e le osservazioni dell’agente arruolato in una missione dei servizi segreti americani che favorl tali
contatti, Cino Boccazzi (Moventi e pretesti alle malghe di Porzûs, in «Storia contemporanea
in Friuli», VI, 7,1976, pp. 331-339).
13 D. Franceschini, Porzùs, cit,
14 S. Gervasutti, Il giorno nero di Porzùs,
cit., p. 7.
15 U.
Finetti, La Resistenza cancellata, Milano, Ares, 2004, pp. 307 -320.
16 M. Puppini, FriulI; divisione Osoppo, in
E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, val. II, Torino, Einaudi, 2001, p. 200.
17 J. Pirjevec, Foibe, Una storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2010. Non si può fare a meno di
notare che se tale circostanza fosse vera sarebbe stata certamente utilizzata dalla difesa dei
garibaldini accusati dell’ eccidio nel corso dei
processi celebrati negli anni ‘50. L’autore non
cita alcun documento specifico per sostenere
le sue affermazioni, ma indica i me negli archivi di Stato russo (Fond 17, Opis 128, Delos
799 and 800). A seguito di nostra specifica richiesta i responsabili dell’archivio V. Shepelev
e S. Rosenthal hanno risposto che in tale collocazione non sono stati rivenuti documenti
relativi a un «conflitto tra partigiani comunisti
e partigiani democratici sul confine orientale
italiano nel 1945». Ringrazio Patrick Karlsen
per la consulenza archivistica.
18 Lettera a Luciano Serra, 21 agosto 1945,
in P.P. Pasolini, Lettere agli amici, Parma,
Guanda, 1976.
1
P. Spriano, Storia del Partito comunista
italiano, cit., pp. 437-438.
Anche Wörsdörer, autore di uno studio sui
rapporti tra Italia e Jugoslavia in cui si sofferma sulle vicende delle formazioni comuniste
e autonome italiane e sui rapporti con i comandi sioveni, omette l’eccidio di Porzûs: R. Wörsdörer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia
dal 1915 al 1955, Bologna, Il Mulino, 2009.
2 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1964, pp. 442- 443.
3 Ibidem, p. 442.
4 G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Bari, Laterza, 1966, p. 441.
5 Cfr. G. Fogar, L’antifascismo operaio
monfalconese tra le due guerre, Milano, Vangelista, 1982, p. 254. Ringrazio Patrick Karlsen per la citazione.
6 G. Gallo, La Resistenza in Friuli, Udine,
Istituto Friulano per la Storia del Movimento
di Liberazione, 1988, p. 209.
7 A. Buvoli (a cura di), Le formazioni Osoppo Friuli, cit., p. 26.
8 Sull’azione della X Mas in quell’area si
veda S. De Felice, La Decima Flottiglia Mas
e la Venezia Giulia 1943-1945, Roma, Edizioni Settimo sigillo, 2000.
■ UN PEZZO DI CULTURA INGLESE NELLA STORIA ITALIANA
LA NAZIONE SICILIANA DEL 1812
LA PRIMA COSTITUZIONE FU NEL REGNO BORBONE
Pasquale Hamel
Il 10 agosto 1812, duecento anni fa, il luogotenente del Regno di sicilia, Francesco
di Borbone, firmò la Costituzione che il
Parlamento siciliano aveva approvato a
conclusione di un lungo braccio di ferro fra
la monarchia borbonica che intendeva affermare anche in Sicilia la propria sovranità e i baroni siciliani che non intendevano
rinunciare ai propri privilegi. La nuova
Costituzione, il cui impianto risentiva dell’esperienza inglese, sanciva la fine della
feudalità, allargava la base del potere ma,
a nostro avviso, non determinava un reale
mutamento dei rapporti economico-sociali
nell’isola. Il possesso feudale si trasformò
infatti in proprietà latifondista e i baroni,
per di più, aggiunsero una nuova legittimazione di diritto a quella fondata sulla consuetudine e, soprattutto, vennero riconosciuti nell’antica pretesa di essere l’incarnazione stessa della nazione siciliana.
L
a Costituzione del 1812 apre la
porta della Sicilia alla modernità, nel senso che offre spazio
di libera discussione a tutte quelle novità culturali diffuse nel resto d’Europa, anche per
26 ■ CRITICAsociale
merito del ciclone napoleonico, che in Sicilia
stentavano a diffondersi. Idee illuministe, giurisnaturaliste e fisiocratiche, ormai patrimonio
consolidato della civiltà occidentale e fino allora considerate eretiche, inconciliabili cioè
con la storia e le tradizioni dell’isola – non si
dimentichi la triste vicenda dell’illuminista
Francesco Paolo Di Blasi che sognava la rivoluzione giacobina e finì i suoi giorni sul patibolo - potevano, naturalmente con i limiti ambientali pur sempre presenti, essere adottate o
discusse dagli intellettuali più avvertiti senza
il timore di incappare nelle maglie della censura poliziesca. Uomini come Gioacchino De
Cosmi, Paolo Balsamo, che peraltro ebbe modo di approfondirle nel corso dei suoi soggiorni all’estero, o Tommaso Natale potevano, infatti, gettare lo sguardo oltre i tradizionali recinti della cultura siciliana e discutere delle
“nuove dottrine” dei vari Voltaire, D’Alambert, Montesquieu, Locke o Hume, rielaborandone le conclusione alla luce del contesto culturale nel quale vivevano.
“Les Siciliens – scriveva il contemporaneo
Giovanni Aceto, evidentemente riferendosi ai
ceti dominanti visto che il popolo ben poco
aveva capito di quanto accadeva - éprouverènt
une joie inexprimable de ces changements; ils
crurent voire, avec l’anné 1812, commencer
pour eux une nouvelle èra qui allait enfin fixer
le sort de la Sicile et faire renaître les beaux
jours de son ancienne gloire”.
3-4 / 2012
te, sia da parte della pubblicistica storiografica
che nel linguaggio corrente.
Scrive a questo proposito la studiosa Cettina
Laudani - che ha dedicato un interessante volume all’argomento - che da allora, si parla del
1296, “cominciò a formarsi nell’isola un modo
nuovo di concepire la propria storia, la propria
identità, la propria cultura...conti e baroni, in
quanto componenti delle assemblee, cominciarono per primi a sviluppare il senso di comunità, a sentirsi spiritualmente parte di essa
e ad assurgere col tempo al ruolo di nazione.”
Riflettere su questa formula ci porta a evidenziare un’ulteriore originalità che aveva
contraddistinto il sistema siciliano e cioè la
non identificazione fra nazione e Stato, una
spirituale di un popolo scriveva Ernest Renan
- che trascende la volontà individuale e delega
l’Assemblea dei rappresentanti, il Parlamento,
ad esercitare il potere legislativo, così come la
immaginava, ad esempio, J.J. Rousseau nel
suo Contratto sociale, ed invece si poteva
compendiare in quella che, criticando la Costituzione “come ogni altra semente fuor di
sua regione e per ciò stesso fatalmente destinata a far mala prova”, aveva elaborato il filosofo Tommaso Natale, nel suo Memoriale intorno alla nuova costituzione del 1812. In poche parole per nazione siciliana veniva inteso
lo stesso baronaggio. Dunque, quella Costituzione, pur con le sue innovazioni, in talune
parti perfino provocatorie, voleva e doveva es-
non identificazione che, in taluni passaggi storici, diviene perfino contrapposizione fra nazione e Stato. Non può meravigliare dunque
che si elabori la concezione, che gli storici siciliani fanno spesso propria, di una “Sicilia,
sotto tutte le dominazioni...sempre una nazione a se stante ‘protagonista della sua storia e
pertanto distinta dalle altre nazioni d’Europa”.
Una concezione e un’idea di nazione che, a
ben vedere, non coincide con la idea di nazione che nel resto del mondo occidentale, proprio alla fine del settecento, trova piena e consolidata evoluzione.
L’idea di nazione cui fanno riferimento i Siciliani, è infatti lontana da quella intesa come
corpo unitario di cittadini – anima e principio
sere l’affermazione, il consolidamento e la legittimazione dell’unica classe interprete dello
spirito comunitario siciliano, della nazione siciliana, cioè la classe baronale.
Significativo, a questo proposito, è un’intelligente resoconto che il 26 agosto del 1812 il
corrispondente del Morning Cronicle, l’intellettuale scozzese Francis Leckie pubblicò sul
suo quotidiano. Liquidando gli avvenimenti siciliani come una farsa, egli evidenziò il ruolo
perverso del baronaggio che, dietro la copertura fornitagli dall’adozione per sommi capi
del modello inglese, si ripropose, senza mezzi
termini come classe dirigente e classe di riferimento esclusiva ribadendo il modello di potere storicamente presente nell’isola. Quanto
E
di queste idee, di queste sensibilità si nutre
il testo costituzionale, “aderendo alle proposte
del parlamento, ed in conseguenza del voto
della nazione” - materialmente è l’anglofilo
“abate” Paolo Balsamo a redigerla -, che viene
imposto, non si tratta infatti di costituzione ottriata, a Ferdinando III di Sicilia il cui poco accorto comportamento, indirettamente e ingiustificatamente se ne reputò anche responsabile
il suo ministro Luigi de’ Medici che non ne
aveva colpa, aveva scatenato il temporale politico che portò a quell’esito. La stagione costituente, favorita e, sicuramente, voluta dagli
inglesi del “juste e illustre” lord Bentick – così
lo definisce Nicolò Palmeri nell’Appel des siciliens a la nation anglais garante de la costitution violèe par le roi de Naples” - non ebbe,
come è noto, la sanzione personale dello stesso
sovrano, il quale si era autosospeso dalle funzioni, forse addirittura era stato costretto a sospendersi dagli stessi inglesi, ritirandosi “offeso e umiliato” nella sua tenuta della Ficuzza,
ma del figlio Francesco, investito della funzione di Luogotenente del regno con l’autorizzazione all’alterego.
Ma pur nutrendosi di quelle idee “nuove”,
lo stesso testo costituzionale non si astenne dal
manifestare la sua pesante impronta politica di
stampo conservatore, cioè di essere l’espressione del sistema di potere che in Sicilia - partiamo dal 1296, data decisiva per quanto riguarda gli assetti politici del Regno di Sicilia,
anno in cui il Parlamento siciliano dichiara decaduto re Giacomo e incorona al suo posto il
giovane fratello Federico d’Aragona, che per
distinguerlo dall’omonimo imperatore svevo
viene indicato nella pubblicistica corrente come III mentre andrebbe individuato più correttamente come II di Sicilia, come primo vero e
proprio sovrano costituzionale – da almeno
cinque secoli non aveva subito mutamenti.
Federico III, per la cronaca, viene considerato il fondatore o l’iniziatore della cosiddetta
nazione siciliana.
Il segno sicuramente più importante di questi caratteri conservatori è quello, appunto, che
si compendia nella formula nazione siciliana
che, troppo, spesso ricorre, offrendo il campo
a interpretazioni, a nostro avviso, poco corret-
scriveva Leckie l’aveva già stigmatizzato lo
stesso Luigi de’ Medici nel suo diario dove, alla data 22 dicembre 1811, fra l’altro, si può
leggere: “…veramente tutt’i baroni che di libertà e costituzione parlano da sera a mattina,
sapete voi cosa celano queste sante parole ?
Non contribuire ai pesi pubblici; conservarsi
nel possesso dei ditti angarici usurpati…far cadere le imposizioni sulle spalle de’ poveri…”
Riprendo, a questo proposito, un eloquente
brano dal volume di Cettina Laudani dove la
studiosa scrive :” …il baronaggio, nonostante
le apparenze, uscì rafforzato nel suo potere
economico e politico, a scapito della monarchia e di quell’embrione di classe media, la
quale trovava nella permanenza della struttura
politica feudale un’insormontabile barriera che
soffocava di fatto le aspirazioni per un inserimento nell’apparato politico”. Coglie l’autrice,
in questo scritto, anche un elemento spesso sottovalutato, quello relativo alla posizione della
borghesia delle professioni e della borghesia finanziaria, si tratta di poco meno che usurai - il
ricordo va alla stupenda pagina del Gattopardo
con la descrizione dell’ascesa fisica ma soprattutto politica di don Calogero Sedara, intelligente è il soffermarsi dell’autore sul simbolismo del frac di cattiva fattura, fra coloro che
avevano fino ad allora detenuto il potere in
esclusiva in Sicilia – la quale, piuttosto che affermare un’autonomia di classe, aspira ad essere accolta, il termine corretto sarebbe “cooptata”, fra coloro che incarnano la nazione siciliana assumendone, a rischio di degradarli e ridicolizzarli come appunto fa il Sedara del Lampedusa, le liturgie e gli stili di vita.
In questo senso, proprio la Costituzione
consentì, a nostro avviso, il realizzarsi di quella che indichiamo come forma deviata mobilità sociale, un falso cambiamento, che ha avuto in Sicilia un significativo precedente storico
nelle rivolte palermitane che insanguinarono i
primi anni del cinquecento, rivolte conclusesi
con la sussunzione del ceto dei mercanti nella
cerchia dei titoli del Regno.
Se è vero, dunque, che la Costituzione accolse molte novità del costituzionalismo della
fine del settecento, è però opportuno sottolineare che la sua peculiarità consistette nel
mantenere intatto il vantaggio dell’aristocrazia
isolana che si vedeva riconoscere, grazie al
fatto che sedeva tra i Pari, la rappresentanza
politica perpetua, alla quale la concomitante
abolizione della feudalità – “che non vi saranno più feudi, recita al punto XI la premessa
della Costituzione, e tutte le terre si possederanno in Sicilia come in allodi, conservando
però nelle rispettive famiglie l’ordine di successione che attualmente si gode” - garantiva
enormi opportunità con la trasformazione del
possesso in piena e “libera” proprietà della terra. In fondo quelli che erano padroni feudali
divennero padroni latifondisti senza i problemi, i limiti che il diritto feudale prevedeva al
godimento del feudo-beneficio, che nello status precedente potevano avere.
Senza, dunque, volerne sminuire la portata
innovativa – non si dimentichi che fu la prima
costituzione approvata nella penisola nell’800
che precedette di ben 36 anni lo Statuto albertino -che sarebbe scorretto disconoscere, ci
preme, in conclusione, e sinteticamente, sottolineare come, attraverso lo strumento costituzionale adottato, i baroni siciliani, che incarnavano l’essenza della nazione siciliana, riuscirono a superare la crisi che attraversava
l’assetto di potere e a riproporre e, perfino, a
rafforzare, in forme più moderne ed accettabili
i consolidati equilibri economici e sociali presenti nell’isola. s
Pasquale Hamel
CRITICAsociale ■ 27
3-4 /2012
DOCUMENTO ■ ANALISI E PROPOSTE DEI SOCIALDEMOCRATICI TEDESCHI SULLA CRISI IN EUROPA
MODELLO PER UNA POLITICA ECONOMICA PROGRESSISTA
I
International Policy Analysis – Friedrich Ebert Stiftung
l concetto di «crescita sociale» presentato in queste pagine rappresenta la proposta della Friedrich Ebert Stiftung (Fes) per un modello di politica economica
progressista. L’obiettivo è sviluppare un modello di crescita che combini la
prosperità per tutti con la sostenibilità e la giustizia. Il target principale dell’analisi è la Germania, ma è chiaro che l’orizzonte è europeo e globale.
Sebbene la politica economica progressista qui delineata sia indirizzata direttamente al
superamento dell’attuale crisi socio-economica per mezzo di una crescita sociale, strutturata
equamente, il suo obiettivo indiretto è alleviare la crisi politica e ambientale che sta coinvolgendo la Germania, l’Europa e il resto del mondo.
La crescita sociale, focalizzandosi su istruzione, salute e protezione ambientale, allenta
la pressione sulle risorse naturali più di quanto faccia il modello convenzionale di crescita
fondato sul mercato. Essa consente inoltre i risultati che i cittadini si aspettano dalle politiche
democratiche, in particolar modo l’occupazione e la maggiore condivisione della prosperità
che il lavoro permette.
In questo modello, le crescita sociale conferisce legittimità a una democrazia che sembra
aver perso vigore, non tanto a causa dell’opacità delle sue procedure quanto piuttosto per risultati socialmente poco accettabili – in altre parole, a causa dell’incapacità degli Stati di
governare il mercato nell’interesse della società.
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
I
l concetto di «crescita sociale» presentato in queste pagine rappresenta la proposta della
Friedrich Ebert Stiftung (Fes) per un modello di politica economica progressista. L’obiettivo
è sviluppare un modello di crescita che combini la prosperità per tutti con la sostenibilità e
la giustizia. Il target principale dell’analisi è la Germania, ma è chiaro che l’orizzonte è europeo e globale.
Sebbene la politica economica progressista qui delineata sia indirizzata direttamente al
superamento dell’attuale crisi socio-economica per mezzo di una crescita sociale, strutturata
equamente, il suo obiettivo indiretto è alleviare la crisi politica e ambientale che sta coinvolgendo la Germania, l’Europa e il resto del mondo. La crescita sociale, focalizzandosi su
istruzione, salute e protezione ambientale, allenta la pressione sulle risorse naturali più di
quanto faccia il modello convenzionale di crescita fondato sul mercato. Essa consente inoltre
i risultati che i cittadini si aspettano dalle politiche democratiche, in particolar modo l’occupazione e la maggiore condivisione della prosperità che il lavoro permette. In questo modello,
le crescita sociale conferisce legittimità a una democrazia che sembra aver perso vigore, non
tanto a causa dell’opacità delle sue procedure quanto piuttosto per risultati socialmente poco
accettabili – in altre parole, a causa dell’incapacità degli Stati di governare il mercato nell’interesse della società.
Questo testo è basato su di una pluralità di studi e riflessioni che sono emersi in anni recenti o all’interno della Fes o commissionati dall’organizzazione stessa - in parte nell’ambito
del progetto “Germania 2020” (2007-2009), in parte nel quadro del progetto che ne è stata
la continuazione, “Crescita Sociale”. La lunga bibliografia include le suddette pubblicazioni,
ma riflette anche i diversi contributi di eminenti esperti. All’interno della Fes, René Bormann,
Michael Dauderstädt, Philipp Fink, Sarah Ganter, Sergio Grassi, Björn Hacker, Marei JohnOhnesorg, Gero Maaß, Christoph Pohlmann, Markus Schreyer, Hubert Schillinger e Jochen
Steinhilber, hanno collaborato nell’ambito di una task force.
SUMMARY
La crisi economica e finanziaria ha evidenziato senza mezze misure la debolezza del modello di crescita attualmente dominante. Evidentemente, quel tipo crescita, ampiamente abbandonata alle forze di mercato, non era sostenibile. Spinta dal generale ripiegamento dello
Stato e dalla liberalizzazione del mercato del lavoro, in Germania, e in realtà nel resto del
mondo, l’ineguaglianza reddituale si è accresciuta. Una situazione esacerbata da uno sviluppo
economico squilibrato, mosso da una globalizzazione dei mercati finanziari che ha portato
all’esplosione degli asset finanziare dei corrispondenti debiti.
A livello internazionale, questo sviluppo ha preso la forma di un grosso squilibrio nei
commerci e nei movimenti di capitale. A oggi, al notevole surplus di alcuni paesi fa da contraltare il deficit di altri. Negli anni, avanzi e disavanzi hanno generato un alto livello di
esposizione e debiti esteri, che, combinati con il debito pubblico che è cresciuto bruscamente
dall’inizio della crisi, hanno raggiunto un livello alla lunga insostenibile. Le strategie di riduzione del debito richiedono ora un capovolgimento degli attuali flussi di capitale. Ad ogni
modo, il peso dell’aggiustamento non può essere sostenuto unicamente dai paesi in deficit;
i paesi che contano su di un surplus – e la Germania in particolare – devono partecipare
anch’essi.
Un semplice ritorno alla situazione ante-crisi pare poco convincente. Se si vuole imboccare il sentiero di una crescita più bilanciata e sociale, è tempo di dire addio all’idea di mercati
finanziari «efficienti». La crisi ha mostrato come i mercati siano caratterizzati piuttosto dal
ripetersi regolare di comportamenti azzardati e cambiamenti d’umore. Devolvere l’allocazione del capitale ai mercati finanziari ha condotto a errori colossali. Alla luce di tali enormi
fallimenti del mercato, sono richiesti sia l’effettiva regolazione delle banche e dei mercati
finanziari, sia l’impegno degli Stati per una più decisa politica sociale e industriale.
Obiettivi del modello di crescita sociale qui proposto sono il cambiamento del corso della
politica economica e il rafforzamento della domanda domestica. La futura crescita in Germania riguarderà primariamente i servizi, non l’industria. C’è una grande questione da affrontare, soprattutto nei servizi pubblici come istruzione, salute e previdenza. Molti bisogni,
in particolar modo avvertiti dalle fasce economiche medio-basse della popolazione, non possono essere soddisfatti a causa della carenza di potere d’acquisto. Questo è il motivo per cui
un nuovo modello di crescita economica, che sia sociale, macroeconomicamente realizzabile,
strutturalmente coerente ed equo è necessario per assorbire, con un lavoro decente, la disoc-
28 ■ CRITICAsociale
cupazione o la sottoccupazione in un settore dei servizi in crescita; per accrescere l’occupazione e la produttività complessive; per migliorare la distribuzione del reddito.
Per ridurre l’ineguaglianza, che è una delle cause della crisi fiscale, la politica deve essere
usata più vigorosamente, ad esempio innalzando l’aliquota massima e reintroducendo l’imposta sulla ricchezza. Per ridurre gli squilibri nell’Eurozona, il coordinamento delle politiche
salariali ha un senso, allo stesso modo di una più stretta coordinazione delle politiche economiche, includendo la sorveglianza degli avanzi e disavanzi delle partite correnti. Eurobond
condivisi potrebbero rappresentare l’inizio di una genuina integrazione, anche fiscale, all’interno dell’Eurozona.
La crescita sociale deve guidare i mercati, non solo in Europa ma anche globalmente,
mantenendo i loro effetti lungo un sentiero socialmente desiderabile. Ciò include standard
minimi in riferimento alle condizioni lavorative, salvaguardando il welfare state e una politica
monetaria globale che controlli le turbolenze dei tassi di cambio, che risultano tanto dannose
per l’economia reale. Una politica economica progressista che implementi questo modello
dovrebbe pertanto essere basata sul seguente programma in dieci punti:
1) Garantire un’offerta di credito stabile con una effettiva regolazione del mercato finanziario; 2) Utilizzare la politica dell’istruzione per stimolare le forze della crescita ed espandere le opportunità per tutti; 3) Aprire nuove aree di crescita con la politica industriale; 4)
Rafforzare la posizione dei lavoratori per mezzo del salario minimo e della codeterminazione;
5) Finanziare il settore pubblico adeguatamente ed equamente riformando la politica fiscale;
6) Stabilizzare l’economia e la situazione debitoria per mezzo di una politica fiscale anti-ciclica; 7) Rafforzare le forze della crescita in Europa tramite una robusta architettura di finanza
pubblica; 8) Operare per una maggiore stabilità nell’Eurozona tramite il coordinamento politico-economico; 9) Assicurare un lavoro decente per tutti per mezzo di standard europei e
globali; 10) Gestire la globalizzazione attraverso un nuovo ordine economico e monetario.
1. Il Problema: Crescita Sbilanciata
La crisi globale economica e finanziaria scoppiata nel 2007, che aveva appena iniziato a
mostrare segni di essere - almeno in parte – superata, è tornata in tutta la sua intensità. Mentre
in alcuni Stati gli enormi patrimoni finanziari e il prodotto interno lordo (Pil) del periodo
pre-crisi sono stati più o meno restaurati, altri purtroppo continuano a soffrire le conseguenze
della crisi in termini di bassa crescita, alta disoccupazione e debito pubblico. L’allarmante
livello del debito pubblico, quanto meno, non è il risultato delle politiche anti-crisi che, in
primo luogo, per mezzo di salvataggi bancari e pacchetti di stimolo economico, hanno permesso il rapido superamento della crisi. Ora la crisi dei mercati finanziari si è trasformata in
una crisi del debito pubblico che, dal canto suo, minaccia di innescare una nuova crisi bancaria.
La crisi economica dimostra che il modello prevalente di crescita economica ha punti
deboli fondamentali. Un semplice ritorno alla situazione pre-crisi sembra irrealistica. In linea
con questo, recentemente si è aperto un ampio dibattito sui vantaggi e gli svantaggi della
crescita economica. Questo va di pari passo con un altro dibattito sui fallimenti dello Stato
e del mercato, causati dalla crisi economica e finanziaria. Dobbiamo capire gli errori risultanti
da processi di crescita non guidati, in modo da essere in grado di sviluppare strategie alternative. Il modello di «crescita sociale» serve a questo scopo. Un modello di crescita deve
essere socialmente equilibrato e quindi anche meno soggetto a crisi. Ciò comporta un ruolo
più attivo per lo Stato, non solo a livello nazionale, ma anche a livello internazionale nel
quadro della cooperazione tra i paesi nel coordinamento della politica economica e sociale.
La crisi non è nata dal nulla. Le sue cause si rintracciano in un lungo periodo di crescita
globale sbilanciata, accompagnato da una sempre più iniqua distribuzione del reddito che, a
sua volta, ha portato a un’esplosione delle attività finanziarie. Tali attività hanno avuto il
loro rovescio della medaglia nell’accumulo di enormi debiti derivanti dal bilancio dello Stato
e dai disavanzi delle partite correnti. In molti paesi, questo è stato aggravato dall’iper-indebitamento delle famiglie, per esempio, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Grecia, Spagna
e Irlanda. In alcuni paesi - per esempio, Stati Uniti, Giappone e Grecia - le autorità pubbliche
hanno fatto ricorso profondamente al debito, finanziando la domanda necessaria per la crescita. Il rapido sviluppo parallelo dei debiti e del mercato degli asset fino allo scoppio della
crisi è stato reso possibile dalla mancanza di regolamentazione dei mercati finanziari globali
e dalla avventata distribuzione del rischio senza adeguata trasparenza e controllo.
In questo modo, si sono consolidati grandi squilibri accumulati nel commercio internazionale che non potevano essere riequilibrati attraverso meccanismi di mercato o di prezzo.
Nell’Eurozona, nonostante la forte crescita, le divergenze tra gli Stati membri negli ultimi
anni sono aumentate. La politica monetaria unica della Banca centrale europea (Bce) ha incoraggiato una crescita asimmetrica sospinta dal debito nei paesi dell’Europa meridionale
(caratterizzati in passato da alti tassi d’interesse), con marcati squilibri delle partite correnti,
crollate nella crisi dei mercati finanziari.
Questa crescita asimmetrica è stata resa possibile dalle seguenti tendenze a lungo termine
che, a loro volta, hanno avuto - e continuano ad avere - ripercussioni per la crescita globale
(Dauderstädt 2011b):
• Globalizzazione: L’internazionalizzazione dei mercati per quanto riguarda informazioni,
capitali, beni, servizi e lavoro ha favorito la crescita a partire dall’inizio degli anni novanta.
La trasformazione delle economie ex comuniste - soprattutto della Cina - e il coinvolgimento
crescente dei paesi emergenti e in via di sviluppo nell’economia globale hanno permesso
una divisione internazionale del lavoro e degli utili derivanti dalla specializzazione, aumentando così la produttività. In termini globali, questo ha portato a una maggiore prosperità.
D’altra parte, questo modello di globalizzazione, orientato esclusivamente al mercato e alla
concorrenza, ha costretto tutti i paesi interessati a subire grandi sconvolgimenti al fine di
adattarsi alle nuove circostanze.
• Aumento delle disuguaglianze: L’aumento dei redditi si è tradotto nell’aumento delle
diseguaglianze, poiché il potere distributivo degli Stati, dei sindacati o dei dipendenti è stato
indebolito dalla concorrenza globale per le entrate fiscali, gli investimenti e l’occupazione a
favore delle corporation, dei detentori di asset e investitori. In pratica, uno scenario caratte-
3-4 / 2012
rizzato da utili in aumento e caduta dei salari può essere colto in tutti i paesi, così come un
divario crescente tra ricchi e poveri, come conseguenza della distribuzione estremamente
diseguale dei frutti della globalizzazione.
• Mercati finanziari soggetti a crisi: la liberalizzazione dei mercati globali dei capitali ha
anche fatto sì che il settore finanziario oggi operi in gran parte isolato e scollegato dall’economia reale. A breve termine, i movimenti di capitali speculativi spesso minacciano la stabilità dei sistemi finanziari ed economici. Negli ultimi anni e decadi dunque, l’economia
globale è sempre più soggetta a crisi.
A prima vista, l’economia della Germania - in particolare la sua economia di esportazione
- ha beneficiato di questi sviluppi. Offre una gamma di prodotti - beni strumentali e di lusso
- per i quali, grazie alla disuguaglianza di crescita globale, la domanda dall’estero è forte.
La Germania ha internazionalizzato i suoi processi produttivi, il cui esito è - nel confronto
internazionale - forte e relativamente elevato nel settore industriale, a fianco di un settore
dei servizi relativamente piccolo.
A un esame più attento, tuttavia, possono essere individuati una serie di sviluppo problematici in Germania. Per esempio, a causa della sua forte dipendenza dalle esportazioni,
l’industria e l’economia tedesche sono molto sensibili alle crisi all’estero. Ciò condiziona
non solo il settore bancario, che sulla scia della crisi finanziaria globale è stato portato sull’orlo del disastro e ha dovuto essere salvato dallo Stato, ma anche l’economia reale. A un
livello di circa meno 5%, il crollo della crescita in Germania nel 2009 è stato tra i peggiori
sulla scena internazionale. Sebbene la disoccupazione fosse aumentata moderatamente, quel
dato nascondeva un calo massiccio di ore lavorate a causa di riduzioni del lavoro continuato
nel tempo e del lavoro di breve durata.
In una prospettiva a lungo termine, anche la crescita della Germania e la dinamica dell’occupazione sono deludenti nel confronto internazionale. La crescita è stata piuttosto debole
fino al 2005 a causa della dipendenza predominante dalle eccedenze di esportazione a scapito
della domanda interna. E’ anche allarmante, nel confronto internazionale, la bassa, e in rapido
calo, crescita della produttività aggregata (van Ark et al. 2009). Le cifre della disoccupazione
in Germania sono state elevate per un considerevole periodo, anche prima della crisi. Grazie
all’avanzata del capitalismo dei mercati finanziari e a una politica del mercato del lavoro
che ha promosso il lavoro precario, i salari reali hanno ristagnato. Le disuguaglianze del reddito e della ricchezza sono aumentate più rapidamente che in qualsiasi altro paese Ocse (Bontrup 2010). I lavoratori con qualifiche basse continuano in particolare ad avere grandi difficoltà a entrare nel mercato del lavoro. Di conseguenza, già nel corso degli anni precedenti
la crisi, sempre meno persone hanno beneficiato dello sviluppo economico; le opportunità
di mobilità economica e sociale si sono deteriorate e il rischio di povertà (soprattutto in età
avanzata) è aumentato. Questi gravi problemi sociali minacciano non solo un ulteriore sviluppo economico, ma anche la coesione sociale.
Lo Stato in Germania si è inoltre ritirato da molti settori della vita economica e sociale
negli ultimi anni. Ciò si riflette, da un lato, nello sviluppo delle spese di governo in rapporto
al Pil, che, poco prima che scoppiasse la crisi, è sceso al valore più basso dalla riunificazione
in poi. Come conseguenza di ciò, nel settore pubblico in Germania si ha ora uno dei più bassi
rapporti di investimento e di spese per la formazione iniziale e continua, così come per le
infrastrutture pubbliche. Ciò ha frenato la crescita economica negli ultimi anni e minato le
basi della crescita futura.
Il gettito fiscale è sceso drasticamente a seguito di ampi tagli fiscali, in virtù dei quali lo
Stato, negli ultimi dieci anni, ha rinunciato a un fatturato di circa 350 miliardi di euro e si
trova ora a un livello molto basso nel confronto internazionale. L’obiettivo di utilizzare tagli
fiscali per stimolare l’attività di investimento tra le aziende private non è stato tuttavia raggiunto. Invece, i tagli fiscali hanno ridotto la capacità redistributiva del sistema fiscale tedesco. Capitali e asset sono poco tassati, una circostanza che finisce per accelerare la disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Al contrario, i beneficiari di redditi da lavoro, in particolare il ceto medio - come anche i consumatori – stanno effettivamente portando sempre
più sulle proprie spalle il peso complessivo delle imposte e l’onere contributivo. Di conseguenza, lo Stato e principalmente i Länder e le municipalità, che gestiscono la maggior parte
degli investimenti pubblici, non hanno la forza finanziaria di cui hanno bisogno per affrontare
i compiti che si presentano. Nemmeno l’obiettivo di ridurre il debito pubblico potrebbe essere
raggiunto. Il debito pubblico tedesco è cresciuto a causa del lungo periodo di debole crescita
economica e di disoccupazione elevata anche prima della crisi ed è fortemente aumentato
sulla scia dei salvataggi di politica fiscale necessari per superare la crisi attuale (Priewe /
Rietzler 2010).
A causa del suo forte orientamento alle esportazioni, la crescita in Germania è crollata
drasticamente (meno 5%). D’altra parte, è stata in grado di recuperare molto più velocemente
di altri paesi dal momento che ha beneficiato in modo sproporzionato dalla recente ripresa
globale. Una ripresa aiutata dai pacchetti di stimolo economico del governo e dalle politiche
monetarie espansive delle banche centrali applicate in maniera massiccia a livello mondiale.
Le agevolazioni al mercato del lavoro hanno consentito modesti aumenti dei salari nominali.
Tuttavia, l’economia tedesca è tornata al suo modello di crescita squilibrata, legato alle esportazioni. Gli attuali tassi di interesse reali, davvero molto bassi - a causa dei bassi tassi di interesse nominali e di un’inflazione leggermente superiore – hanno anch’essi rafforzato la
crescita. «Il miracolo economico post-crisi», tuttavia, dipende dalla domanda europea e globale, come è stato prima della crisi. I paesi in via di sviluppo ed emergenti che attualmente
stanno sostenendo la ripresa dell’economia mondiale si trovano a dover lottare contro il surriscaldamento delle loro economie, l’afflusso di capitali speculativi e il profilarsi di bolle sui
prezzi. Ci sono considerevoli rischi macroeconomici e le carenze di politica pubblica, sia in
Europa che nel mondo, rendono fragile la base della ripresa e iniqua la distribuzione dei suoi
vantaggi.
Le crisi economiche sono destinate a peggiorare se le loro cause non vengono affrontate
e le loro manifestazioni non sono adeguatamente regolamentate e gestite. Una crescita economica non guidata aumenta ulteriormente rischiosi sviluppi a livello mondiale: per esempio,
in passato, la crescita economica ha determinato un aumento dei gas serra (CO2) e causato
CRITICAsociale ■ 29
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l’aumento del prezzo delle materie prime. La protezione del clima rappresenta una sfida importante per l’azione collettiva globale, dal momento che gli inquinatori - le famiglie, le società e i paesi – si comportano come free-rider rispetto a coloro che fanno economie. La
competizione per l’accesso alle materie prime condurrà - nel migliore dei casi - a una maggiore concorrenza tra gli importatori di materie prime per i mercati dei paesi esportatori (in
modo che siano in grado di pagare per quelle materie prime) e a una competizione per migliorare l’efficienza delle risorse, ma potrebbe anche trasformarsi in conflitti per il controllo
territoriale ed economico delle risorse naturali.
L’aumento della popolazione mondiale sta inoltre progressivamente diventando una minaccia per la crescita, anche se in passato il fattore demografico è stato fondamentale per sostenere la crescita economica. La transizione demografica da popolazioni stabili o in calo a
una situazione in cui la vita media si prolunga sta modificando radicalmente la struttura anagrafica delle società. L’offerta di lavoro tenderà a diminuire, mentre i bisogni e le aspettative
della popolazione anziana aumenteranno. I disagi legati a questa transizione demografica
cominceranno a farsi sentire in Germania solo a partire dal 2020, anche se probabilmente
avranno l’effetto positivo collaterale di ridurre la disoccupazione.
2. Il Dibattito intricato tra Liberali di Mercato e Scettici della Crescita
Le interpretazioni correnti delle crisi tendenziali dei modelli di crescita dominanti variano
ampiamente. Da un lato, vi sono quelle che sostengono, per quanto possibile, approcci miranti a soluzioni giuridicamente codificate sulla base di consenso politico e democraticamente
legittimate. Queste dovrebbero essere globali o almeno multilaterali, europee o nazionali.
D’altra parte, vi sono coloro che sono convinti che grazie a un ruolo statale minimo la competizione tra nazioni, imprese e singoli individui porterà alla soluzione dei problemi attuali
a livello nazionale, europeo e mondiale. Per gli stati creditori, i titolari di asset e la maggioranza dei datori di lavoro il fascino di questa opzione è che simili soluzioni tendono a riflettere le loro attitudini e interessi.
Un contesto caratterizzato da una frattura tra coloro che sostengono la globalizzazione,
l’europeizzazione e la crescita e coloro che si oppongono frontalmente. Questi ultimi vogliono frenare la globalizzazione a favore della circolazione nazionale, regionale e locale
delle merci e delle finanze e rinunciare alla crescita; i primi ritengono invece positivi gli sviluppi legati alla globalizzazione, anche se vorrebbero organizzarla in modo diverso. Coloro
che abiurano la crescita si posizionano sullo spettro politico dalle destre alle sinistre radicali:
le frange della destra cercano la salvezza nello smantellamento della globalizzazione a favore
della circolazione nazionale, regionale o locale delle merci e della finanza e del ritorno alla
politica populista-nazionalista; le frange della sinistra sognano di costruire un eco-socialismo
in un paese liberato dai dettami del mercato mondiale e della crescita e chiedono inoltre la
contrazione della crescita («decrescita») al fine di consentire ai paesi in via di sviluppo ed
emergenti, tenendo conto dei limiti ambientali, di crescere ulteriormente.
PERCHÉ LA CRESCITA?
I critici alla crescita, conservatori (Miegel 2010), verdi (Seidl/Zahrnt 2010) e di sinistra (Passadakis/Schmelzer 2011) che siano, fondamentalmente mettono in discussione
l’opportunità di un’ulteriore crescita. L’ambiente non è in grado sostenerla, essa non
soddisfa più le esigenze «genuine», non rende più felice la gente e si basa sullo sfruttamento di natura e persone, specialmente nei paesi più poveri. La compulsione per una
maggiore crescita si manifesta, da un lato, come il risultato della necessità di finanziare
e mantenere i sistemi di sicurezza sociale e, dall’altro, è legata alla necessità di soddisfare
gli interessi commerciali del capitale.
Questa critica non regge. La crescita è importante al fine di soddisfare importanti
esigenze sociali che non sono ancora state soddisfatte. La crescita ha senso anche nei
settori che rimangono sottosviluppati, quali l’istruzione, la salute e la protezione del clima. La crescita economica non è necessario che consumi più materie prime ed energia.
Ad esempio, può anche derivare dalla trasformazione delle attività domestiche in impieghi correlati al mercato del lavoro. La crescita non è pertanto da respingere a tutti i
livelli. E’ piuttosto una questione di quali beni reali e servizi dovrebbero essere forniti
e di quali redditi dovrebbero crescere. Più istruzione, più energia, più previdenza, più
salute e più rinnovabili sono socialmente desiderabili. I redditi delle persone più povere
in Germania, e non solo, dovrebbero inoltre aumentare nel prossimo futuro.
Tuttavia, la crescita non è affatto una panacea automatica. Ad esempio, sebbene i
sostenitori acritici della crescita siano ansiosi di sottolineare che, senza di essa, la piena
occupazione e la più equa distribuzione mai saranno raggiunte, questa è solo una mezza
verità. In primo luogo, la piena occupazione potrebbe anche essere raggiunta attraverso
la redistribuzione del lavoro necessario e del reddito, anche se sarebbe molto più difficile
politicamente senza crescita. In secondo luogo, come il passato ha dimostrato, la crescita
non è garanzia di piena occupazione e di distribuzione del reddito più equa. Al fine di
raggiungere o mantenere la piena occupazione, la crescita deve essere superiore alla soglia di occupazione garantita da un aumento della produttività aggregata. Ma questi guadagni di produttività possono essere convertiti - come è spesso avvenuto in passato anche in più tempo libero. Questo dovrebbe essere distribuito in modo tale che grandi
gruppi di lavoratori non diventino disoccupati di lunga durata, offrendo loro la riduzione
dell’orario di lavoro settimanale, più vacanze o più opportunità di pensionamento in età
avanzata.
In ultima analisi, la crescita continua ad avere un senso dove esistono ancora grandi
bisogni insoddisfatti: che sia tra la povera gente a basso reddito o in settori con basso
potere d’acquisto quel che conta è che vi siano esigenze sostanziali da soddisfare (Dauderstädt 2010a). Al contrario, non vi dovrebbe essere alcun aumento dei beni di lusso
che difficilmente migliorano la prosperità sociale.
In Germania, le posizioni politiche più radicali hanno finora svolto un ruolo relativamente
marginale e si esprimono quasi esclusivamente fuori dal parlamento. Anche se critiche alla
crescita, alla globalizzazione e l’euroscetticismo si incontrano spesso nel dibattito pubblico,
bisogna constatare che - almeno finora - non si sono coagulate in un punto di vista politico
serio. Tuttavia, in fondo vi sono anche notevoli differenze tra coloro che sostengono la crescita
e credono che sia necessaria l’estensione della disponibilità a cercare soluzioni sovranazionali
e ad assumersi la responsabilità globale ed europea per iniziative solidali in tal senso.
Queste differenze si manifestano in particolare con riguarda a:
La gestione/governance democratica e sociale della globalizzazione;
Il rapporto tra gli orientamenti relativi al lato dell’offerta e al lato della domanda in politica economica;
L’importanza della cooperazione e competizione tra Stati;
La questione del contenimento dei mercati globali - specialmente dei mercati finanziari
- per mezzo di standard e regolamenti concordati a livello internazionale.
Il dibattito di politica economica tedesca è dominato dalla tradizionale scissione tra coloro
che attribuiscono maggiore importanza alle forze di mercato, all’iniziativa privata e alla «responsabilità personale» e coloro che desiderano instaurare relazioni sociali, o anche ecologiche, più egualitarie tramite l’intervento statale nel, e contro, il mercato. Il ruolo di governo
dello Stato non è in discussione. Nel primo «campo» l’accento viene posto sulle forze del
lato dell’offerta, che sono ostacolate da un’eccessiva regolamentazione del governo, da tasse
troppo alte e da forti sindacati; nell’altro campo tutto ciò è considerato come una correzione
necessaria ai fallimenti del mercato. Se la prima fazione ritiene le disuguaglianze fattori naturali e importanti per la crescita che devono essere pertanto accettati, la seconda sostiene
che esse siano il risultato del potere del mercato e che, anche nell’interesse della crescita a
lungo termine, debbano essere livellate.
3. Il Concetto di «Crescita Sociale»
Il concetto di «crescita sociale» è inteso per definire un paradigma che offra un’alternativa
al discorso dominante basato su una crescita guidata dal mercato, ma anche allo scetticismo
attualmente in voga rispetto alla crescita stessa. L’idea è ridefinire nozioni chiave quali lavoro, creazione di valore, produttività, investimento e debito e di istituire una politica economica rivitalizzata. Il punto focale sta nel riconoscimento che i mercati in generale – e, in
particolare, i mercati finanziari – si sono dimostrati inadatti a garantire l’allocazione razionale
delle risorse e la distribuzione del reddito. I bisogni sociali si distinguono fondamentalmente
a causa di un’ineguale distribuzione del potere d’acquisto. L’approccio verrà espresso in termini di concrete raccomandazioni di politica economica, il cui inserimento nel paradigma
della «crescita sociale» conferirà loro una più forte giustificazione e consistenza.
La «crescita sociale» è intesa per offrire al maggior numero possibile di persone l’opportunità di un lavoro decente e la condivisione della prosperità sociale. E’ inutile dire che
è possibile distribuire solo ciò che viene prodotto – ma le persone dovrebbero poter ricevere
la loro legittima quota di benessere. Una distribuzione volta ad aumentare l’occupazione e
la produttività dovrebbe sostanziarsi in un aumento del consumo privato e pubblico, ma
anche in più tempo libero. Ciò include settimane lavorative più brevi, più periodi di vacanza
e un più lungo, e garantito, periodo di pensionamento. L’aumento di lavoro e produttività richiede investimenti in stock di capitale tangibili e intangibili, incluso il capitale umano. Questi investimenti sociali devono essere promossi, incanalati e liberati dai rischi dei mercati finanziari (Dauderstädt 2010d).
3.1 Lavoro, Produttività, Investimenti
Sul lato dell’offerta, la crescita economica è la risultante di più lavoro e/o di una maggiore
produttività (vedi la Figura 1). Entrambi scaturiscono primariamente da maggiori investimenti, che creano nuovi posti di lavoro, o dalla modernizzazione degli stock di capitale, in
grado di rendere il mercato del lavoro più produttivo. Comunque, i tre fattori chiave della
crescita richiedono una definizione più precisa per avere la patente di «buoni» o «sociali».
• Un lavoro decente è un’occupazione decentemente pagata che consente ai lavoratori di
badare a sé stessi e alle proprie famiglie in modo adeguato. Esso consente anche ai lavoratori
di avere un ruolo nella propria azienda. Queste condizioni vengono raggiunte al meglio in
una situazione di piena occupazione, poiché questa conferisce sostanziale potere di mercato
ai salariati. Deve essere notato, comunque, che il lavoro addizionale rimpiazza il lavoro non
dichiarato («nero»), quello domestico e quello volontario, e crea nuova prosperità in quanto,
e se, più produttivo.
• La produttività sociale si differenzia dalla produttività tradizionalmente intesa e misurata
poiché essa tiene in considerazione (negativamente) le esternalità ed esclude gli incrementi
produttivi raggiunti a spese dei lavoratori. Il valore di un prodotto – bene o servizio – esprime
un bisogno sociale. La creazione di valore può anche risultare da miglioramenti nella qualità
dal punto di vista dei consumatori. Gli apparenti incrementi di produttività, ottenuti solamente
per mezzo di un maggiore output o di un minore input di prezzo, di una intensificazione del
lavoro (in altre parole, più lavoro nello stesso tempo), di una riduzione nascosta della qualità
o di un orientamento verso una struttura di domanda elitaria, sono il risultato di una distribuzione ineguale del reddito che non accresce il benessere sociale aggregato.
• Gli investimenti sociali sono spese che generano crescita sia creando lavoro si accrescendo la produttività. La ristrutturazione degli asset tra differenti modalità di investimento
finanziario non conta. Oltre ai tradizionali investimenti del settore privato in migliori stock
di capitale e dunque in nuovi e più produttivi lavori, le spese governative non dovrebbero
concentrarsi solo su «mattoni e malta» (in altre parole, infrastrutture), ma anche in istruzione,
ricerca e salute. Le spese dei privati in abitazioni, istruzione e simili contribuiscono ad accrescere la prosperità nel lungo periodo.
Vi sono investimenti nell’economia privata solo se gli investitori possono attendersi un
ritorno che giustifichi la loro spesa iniziale, spesso finanziata con prestiti. Le imprese si at-
30 ■ CRITICAsociale
tendono una domanda per i loro prodotti; lo Stato si attende più elevate entrate fiscali; i
privati si attendono redditi in crescita e/o costi in discesa (ad esempio, gli affitti). I redditi
aumentano solo se altri attori sostengono le spese corrispondenti. Motivo per cui essi hanno
bisogno di accedere al reddito o al credito (vedi la Sezione 3.2).
Se da un lato, non tutti gli investimenti economici privati sono utili per la crescita sociale
in se stessa, dall’altro l’economia privata ignora sistematicamente gli investimenti ad alto
valore sociale. Questi fallimenti del mercato sollevano la questione di cosa dovrebbe crescere
in futuro. Sebbene il settore industriale continui a occupare un’importante posizione nell’economia della Germania, non può essere assunto che la sua crescita porterà nel lungo termine a un maggiore impiego. Infatti, la quota di Pil detenuta dal settore industriale sta declinando da diverse decadi nei paesi più sviluppati, anche se in Germania tale trend si sta dimostrando meno accentuato. In diretto contrasto, l’impiego nel settore dei servizi è in crescita. In questo settore esiste un considerevole potenziale di crescita, in particolar modo nei
servizi sociali.
La crescita sociale avrà anche luogo in modo predominante attraverso l’espansione della
fornitura di servizi, specialmente in aree quali istruzione, previdenza e salute.
Grafico 1: Il Lato dell’Offerta della Crescita Sociale
Pieno impiego - Crescita Sociale - Valore = bisogno sociale
Codeterminazione - Lavoro decente - Produttività sociale - Sostenibilità
Lavoro »Sociale«: lavoro da casa, lavoro volontario, lavoro non dichiarato
Investimenti sociali - Qualità (per i consumatori)
Qui, inoltre, la crescita si concretizzerà, d’altro canto, in impiego addizionale e, dall’altro,
in più alta produttività. I nuovi lavori stanno in parte assorbendo gli inoccupati o coloro che
involontariamente lavorano solo part time e, in parte, i servizi svolti all’interno delle famiglie
stanno mutando in servizi offerti sul mercato. Questo accresce il Pil, sebbene la prosperità
sociale si accresca solo quando il lavoro orientato al mercato diventa più professionale, più
produttivo e di migliore qualità. Si è a lungo temuto che la produttività dei servizi non potesse
realmente aumentare (un fenomeno conosciuto come «morbo di Baumol»). Ad ogni modo,
questa tesi sottostima importanti componenti della produttività, come la qualità e il capitale
intangibile.
3.2 Domanda e Distribuzione
La crescita sociale richiede – come ogni stabile e sostenibile processo di crescita – uno
sviluppo adeguato della domanda aggregata. La domanda sociale è condizionata dai valori
aggregati di redditi, trasferimenti statali e prestiti addizionali (vedi il Grafico 2). I redditi
hanno un impatto sulla domanda solo se vengono spesi direttamente o vengono sottratti dallo
Stato – mediante tasse e contributi – o dal sistema finanziario a coloro che li dovrebbero
spendere. Come regola generale, il denaro deviato attraverso lo Stato viene speso dal momento che sia i destinatari di trasferimenti che lo Stato come fornitore di beni pubblici faticano a risparmiare. Per quanto riguarda i risparmi messi a disposizione del settore finanziario,
le cose si fanno ancora più problematiche in quanto essi vengono convogliati in strumenti di
investimento che a malapena riescono a stimolare l’economia reale, almeno direttamente.
Tuttavia, il settore finanziario - specialmente quando la politica monetaria della banca centrale è accomodante – può anche creare i prestiti aldilà dei risparmi di altri attori (soprattutto
le famiglie, ma anche imprese e, raramente, lo Stato). Solo questi prestiti, che superano il risparmio, alimentano la crescita.
La crescita in realtà richiede che i settori o gli attori siano disponibili a contrarre debiti
in modo da assorbire i risparmi di altri attori e settori. Senza questa disponibilità a contrarre
debiti, la crescita si arresterebbe sin quando una crescente offerta non trovasse una sufficiente
domanda, ma non alimentata dalla caduta dei prezzi. Questa disponibilità dipende dal tasso
di interesse. I tassi devono essere inferiori ai rendimenti attesi. Con riferimento all’economia
nel suo insieme, comunque, la banca di emissione deve scegliere il tasso di interesse in modo
tale che il prestito risultante totale e la corrispondente domanda non eccedano di troppo le
reali opportunità di offerta, evitando dunque di generare un effetto puramente inflattivo. In
passato la Bundesbank tedesca e la Banca Centrale Europea, dal punto di vista della Germania, hanno agito in maniera troppo restrittiva, determinando una caduta della domanda al di
sotto dell’offerta potenziale e generando disoccupazione e crescita debole.
Per un periodo, comunque, i prestiti possono compensare la mancanza di domanda dovuta
ai bassi salari, come è successo negli Stati Uniti negli anni prima dello scoppio della crisi finanziari del 2007. L’esempio americano mostra, comunque, che un debito galoppante non
può essere un sostenibile sostituto per redditi troppo bassi e non equamente distribuiti.
Grafico 2: Circolazione del Reddito
Reddito familiare da salari e altri redditi, come i trasferimenti sociali
Tasse e contributi - Risparmi - Spese dei consumatori
Trasferimenti - Produzione di beni pubblici e servizi - Prestiti del settore finanziario
Produzione per il mercato
Reddito familiare da salari e altri redditi, come pure i trasferimenti sociali
più nuova rete del debito
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Alti redditi conducono a un elevato tasso di risparmio. In Germania e in molti altri paesi
la distribuzione dei redditi negli ultimi venti anni è diventata marcatamente iniqua. I redditi
delle fasce più ricche della popolazione sono cresciuti molto più rapidamente di quelli degli
strati più poveri. Questo non solo ha frenato la domanda, ma ha causato l’emergere di una
struttura della domanda sempre più orientata verso gli interessi delle famiglie più ricche
(beni di lusso e posizionali). Questa tendenza è stata rafforzata dalla diminuzione della pressione fiscale sulle famiglie più ricche. Questi sgravi fiscali hanno anche limitato la capacità
dello Stato di soddisfare i bisogni sociali di beni e servizi pubblici. In futuro, quindi, è necessario garantire che la creazione di valore aggiunto venga anche condivisa dai dipendenti.
Solo in questo modo si eviterà che la debolezza della domanda sia di ostacolo alla crescita.
3.3 Stato e Mercato
Per cominciare, la circolazione del reddito tra offerta e domanda opera a prescindere dal
fatto che i bisogni sociali siano soddisfatti pubblicamente e collettivamente o privatamente
tramite il mercato. L’assunzione frequentemente espressa secondo cui le tasse e i contributi
abbasserebbero la domanda è sbagliata, come già spiegato. Al contrario, quando lo Stato si
sobbarca tutte le spese non sostenute dal settore privato, la domanda e la crescita vengono
create e ne consegue un aumento dell’impiego e della crescita. Rimane una giustificazione
per lo scetticismo nei confronti dello Stato nell’assunto per cui lo Stato stesso potrebbe essere
un fornitore meno efficiente rispetto al mercato e all’impresa privata. Solo in questo caso ci
si potrebbe attendere una maggiore crescita dalla privatizzazione.
Un possibile vantaggio del mercato è il miglior aggiustamento dell’offerta alla domanda
attraverso meccanismi di prezzo. Idealmente, i prezzi dovrebbero riflettere le preferenze sociali e guidare i fattori della produzione verso quelle attività che forniscono l’offerta corrispondente a quelle preferenze. La realtà, comunque, è differente:
• Vi sono marcate differenze di reddito e ricchezza e il potere d’acquisto è distribuito iniquamente. Ciò distorce la relazione tra i prezzi e le preferenze e i bisogni sociali.
• Il meccanismo di prezzo esclude costi esterni – come le emissioni inquinanti – e benefici
e funziona male rispetto ai beni pubblici (ad esempio, sicurezza sociale, stabilità dei mercati
finanziari e via dicendo).
• A causa delle asimmetrie informative i benefici per i consumatori sono significativamente più piccoli. Ad esempio, un consumatore compra un bene e in tal modo accresce il
Pil, ma più tardi si rende conto che il prodotto acquistato lo soddisfa poco (o per nulla).
• I mercati dei capitali rispetto ai quali i prezzi degli asset si suppone riflettano i rendimenti attesi – contrariamente alla vecchia ipotesi popolare sui mercati efficienti – non sono
così efficienti, ma operano piuttosto condizionati “dall’istinto del gregge”. In tal modo essi
guidano gli investimenti verso segmenti – ad esempio, l’edilizia negli Usa, in Spagna e Irlanda – nei quali i bisogni sociali possono, in ultima analisi, essere meno significativi di
quanto i mercati si aspettano.
Per tutte queste ragioni, che riflettono fallimenti di mercato, la regolazione dei mercati
è necessaria e lo Stato deve occuparsi di determinati bisogni sociali. Comunque, l’efficienza
potrebbe migliorare se l’offerta fosse soddisfatta da imprese private in vece dello Stato. Ad
ogni modo, efficienza e produttività non devono essere confuse con la riduzione dei costi.
Questi ultimi possono risultare dall’affievolimento della pressione sui salari o su altri prezzi
di input, che significa mera ridistribuzione della prosperità.
A un’analisi più attenta, la domanda spesso esprime il fatto che lo Stato dovrebbe accompagnare i cambiamenti strutturali in economia, consentendo alla forze di mercato di agire
con una certa libertà. Lo Stato ha sempre sviluppato politiche industriali, sia direttamente
attraverso l’aperto sostegno a settori ben precisi o aree, sia indirettamente, promuovendo,
ad esempio, la competitività internazionale tramite la pubblica istruzione e il sistema formativo/addestrativo o, ancora, per mezzo di stimoli economici, come la compensazione per
brevi periodi lavorativi, che hanno reso più semplice al settore edilizio e manifatturiero affrontare la crisi economica e finanziaria, evitando la perdita di potenziale produttivo, di potenziale di crescita e know-how.
Inoltre, vi sono numerosi esempi storici che confermano che il mercato non funziona
sempre meglio dello Stato nell’aprire nuove aree di crescita in maniera effettiva e sostenibile
(microprocessori, internet, energie rinnovabili). La crisi economico-finanziaria, per giunta,
ha dimostrato che consentire alle forze di mercato di determinare troppo liberamente il gioco
dei mercati non sempre apporta benefici alla società. Lo Stato dovrebbe insomma tentare,
nel quadro di una politica industriale e strutturale sostenibile, di guidare gli investimenti e i
flussi di capitale verso utilizzi lungimiranti e progressisti che beneficino la società nel complesso. Allo stesso tempo, non dovrebbe tentare di sovvertire inevitabili cambiamenti strutturali, ma sostenere politiche sociali per i necessari aggiustamenti ai processi ambientali,
economici e sociali. Non c’è alternativa all’organizzare la produzione e il consumo futuri
secondo modalità in grado di conservare le risorse e di preservare clima e ambiente.
3.4 Integrazione Europea e Globalizzazione
Nei mercati transazionali la circolazione dei redditi (vedi Grafico 2) ha luogo lungo i
confini nazionali e non può essere regolata e bilanciata da uno Stato sovranazionale se gli
attori privati o i singoli Stati generano squilibri. Sulla base di differenti livelli di redditi nazionali la competizione globale – o europea – tra forza lavoro ostacola lo sviluppo dei salari
in molti paesi, slegandoli in maniera crescente dall’evoluzione della produttività. L’ineguaglianza dei redditi sta crescendo in molti paesi. Ad ogni modo, l’ascesa di alcuni attori, come
la Cina, sta riducendo la disuguaglianza globale tra paesi. La relativa crescita dei risparmi,
comunque, stimola la speculazione sui mercati degli asset.
La crescita sociale al livello globale ed europeo auspica un pieno impiego, legato a incrementi della produttività tramite investimenti nell’economia reale. La domanda deve essere
consentita grazie a una migliore distribuzione, in particolare per mezzo di salari orientati
dalla produttività.
• Globalmente, questo significa che, specialmente nei paesi poveri, la disoccupazione
deve essere ridotta, le condizioni di lavoro migliorate e i salari alzati. Le strategie basate sui
surplus di esportazione e sui bassi salari dovrebbero essere bilanciate da strategie mirate alla
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domanda interna e alla lotta alla povertà. Finanziare i necessari investimenti non dovrebbe
essere prerogativa di un mercato dei capitali scarsamente regolato e soggetto agli istinti del
gregge, alle manie e agli attacchi di panico degli attori che vi operano.
• Vi è anche un alto livello di ineguaglianza in Europa, che prende innanzi tutto la forma
di grandi differenziali di reddito tra paesi, sebbene l’ineguaglianza all’interno della gran
parte degli Stati sia aumentato negli anni recenti. Gli ultimi progressi a livello regionale, che
hanno ridotto il gap tra i paesi (e che la crisi del debito ha bruscamente interrotto), devono
essere rivitalizzati nel quadro di una strategia di crescita europea. Nell’Unione Europea, inoltre, i requisiti per gli investimenti non dovrebbero essere abbandonati al libero mercato. Troppo è stato investito – e avventatamente – nell’immobiliare spagnolo e irlandese; scelta sbagliata con gravi conseguenze. L’occupazione a condizioni decenti in un singolo mercato deve
essere protetta per mezzo di alti standard minimi relativi a orario di lavoro, condizioni e remunerazione. Offerta e domanda in Europa devono essere gestite da una politica economica
coordinata che promuova uno sviluppo compatibile, a livello ambientale e sociale, che consenta di raggiungere obiettivi solidi in termini di crescita e impiego e che limiti gli squilibri.
Uno dei problemi chiave dell’attuale sistema monetario internazionale discende dal fatto
che una valuta nazionale – al momento, il dollaro statunitense – viene utilizzata come moneta
globale e come principale valuta di riserva. Al fine di rendere disponibile liquidità sufficiente
per l’economia globale, il paese che emette la valuta di riserva globale deve avere un deficit.
La stabilità dell’economia globale e del sistema monetario internazionale, comunque, dipende dal livello di fiducia dei mercati dei capitali sulla stabilità della principale moneta di riserva. I deficit scuotono questa fiducia, e ciò si è riflesso in rapide fluttuazioni del valore
reale del dollaro. Grazie alla posizione dominante economico-politica degli Stati Uniti e in
mancanza di alternative, questa fiducia – almeno sino a tempi recenti – mai è andata persa
interamente.
Dato che le riserve internazionali di valuta sono state detenute tradizionalmente in dollari,
gli Usa sono stati in grado di perseguire una politica domestica espansiva, che ha favorito
un insostenibile livello dei prezzi degli asset e un boom dei consumi. Nell’attuale sistema
monetario globale, l’accumulazione di riserve da parte della Cina, combinata con politiche
monetarie e fiscali espansive negli Usa, si è tradotta in un « symmetrical maladjustment »:
sin quando i paesi in surplus sono disponibili a mantenere le loro riserve in dollari, nessuno
sarà sottoposto ad alcuna pressione per l’aggiustamento. Le politiche monetarie e fiscali del
paese detentore della valuta di riserva dominante (gli Usa) sono orientate prioritariamente
verso obiettivi economici domestici e pertanto, più o meno, accettano gli effetti negativi (in
termini di eccesso o di carenza di offerta) della liquidità globale. In un contesto di deregolamentazione dei mercati finanziari, un sistema monetario mondiale strutturato in tal modo
determina cicli di « boom and bust», in altre parole alla periodica creazione ed esplosione di
bolle sui prezzi degli asset. Fin quando non verranno intrapresi seri passi per ridurre gli squilibri globali e per ristabilire un certo equilibrio nell’economia mondiale, si verificheranno
nuove crisi finanziarie ed economiche, dannose per la crescita globale e quindi anche per la
prosperità di tutti i paesi.
4. «Una Traiettoria per il Futuro»: Una Politica Economica Progressista
Come dovrebbe essere il nuovo modello di crescita sociale e quali strumenti di politica
economica potrebbero essere utilizzati per implementarlo? Nel breve periodo, dobbiamo superare la crisi del debito, che deve essere accompagnata da una ri-regolazione strutturale dei
mercati finanziari. Nel medio e lungo termine abbiamo bisogno di un modello di crescita
che consenta e garantisca più equilibrio sociale e sostenibilità ambientale. Dato che è irrealistico attendersi tutto ciò dalle forze di mercato – anche se queste forze fossero dispiegate
sulla base di un’ingegnosa politica economica per raggiungere tali obiettivi –, il successo
dipende più che mai dalle politiche governative. In un’economia globalmente interdipendente, un’effettiva politica economica sovranazionale richiede la stretta cooperazione dei
governi nazionali e lo stabilimento di strutture regolatorie e di governance.
4.1 Superare la Crisi del Debito
La crisi del debito ha le sue radici nell’economia reale e nel sistema finanziario. Nell’economia reale l’ineguaglianza di reddito all’interno dei paesi e – in parte causati da quella – gli
squilibri macroeconomici tra i paesi si sono accresciuti (Busch 2009). Senza il crescente indebitamento dei settori e il deficit di quei paesi che, nell’attesa di crescere nel lungo termine,
siano disponibili a consumare e a investire oltre i propri redditi, la crescita della quale i paesi
in surplus avevano beneficiato sarebbe collassata ben prima della crisi finanziaria. Il sistema
finanziario, da un lato, ha creato le condizioni per consentire a una crescita guidata dal debito
di mantenersi funzionante per tanto tempo, dall’altro, ha procrastinato un processo di crescita
insostenibile, accantonando momentaneamente ed eludendo i rischi. Peggio ancora: la percezione del rischio ha fluttuato in modo caotico tra falso ottimismo e attacchi di panico, determinando un approfondimento della crisi con gravi conseguenze per l’economia reale.
Soltanto un intervento massiccio di politica fiscale e monetaria da parte delle banche
centrali e dei governi è stato in grado di limitare e mitigare gli effetti di questa crisi dei mercati finanziari sull’economia reale. Come risultato, i valori degli asset hanno recuperato bene,
ma a scapito di una ristrutturazione dal lato del passivo dagli Stati, che ha ormai assunto una
proporzione molto più grande di debiti e di rischio (Dullien/von Hardenberg 2011; Dullien
2010a; McKinsey 2011 ). Per spianare la strada a una crescita nuova e sostenibile, la sostanziale riduzione del debito è inevitabile. Ciò può essere realizzato in tre modi - che possono
essere combinati – (Dauderstädt 2009b):
1. Un « taglio» al debito (e alla ricchezza), che ha già avuto luogo con riguardo ai debiti
privati (ad esempio, i mutui americani). La cancellazione del debito nei confronti degli Stati
ha meno senso, anche perché in molti casi si colpiscono le banche che devono poi essere
ricapitalizzate o salvate. In questo modo non ci sarebbe alcun taglio, ma solo un cambiamento di debitore; lo Stato rimarrebbe seduto sul debito (come una sorta di debitore di ultima «istanza»).
CRITICAsociale ■ 31
2. Le eccedenze di spesa da parte dei creditori portano a eccedenze delle entrate da parte
dei debitori. A tal fine, i paesi in surplus dovrebbero essere disposti ad accettare disavanzi
delle partite correnti; i detentori di asset dovrebbero investire e/o consumare pesantemente
o essere tassati di più (tasse sulla ricchezza, prelievi sul patrimonio, imposte di successione).
3. Un’inflazione molto più alta ma controllata – tra il 4 e il 6% annui – per diversi anni
svaluterebbe il debito in termini reali. Le banche centrali dovrebbero fare i conti con questi
aumenti di prezzo e non rispondere con aumenti dei tassi di interesse. In particolare, i più poveri percettori di redditi regolari – pensioni, benefit sociali, bassi salari – dovrebbero essere
protetti dalla caduta dei loro standard di vita e dalla diminuzione del loro potere d’acquisto
da una sorta di aggiustamento inflattivo nella forma di aumenti di reddito o sgravi finanziari.
La via d’uscita dalla crisi coinvolge tutti e tre queste componenti. Dal punto di vista di
una politica economica progressista, comunque, la seconda componente sarà dominante.
Essa riduce il rischio distributivo per i poveri e riduce gli squilibri della crescita. Allo stesso
tempo, i mercati finanziari devono essere regolati in modo tale che nessun’altra bolla sugli
asset possa emergere. Ciò non significa una irragionevole restrizione dei prestiti per l’economia reale ma un contenimento della speculazione, più trasparenza e una chiara attribuzione
di rischi e responsabilità. A tal fine tutte le banche ombra devono essere abolite e, allo stesso
tempo, la miriade di prodotti finanziari esotici deve essere resa trasparente, una tassa sulle
transazioni finanziare deve essere introdotta e il settore finanziario nel suo complesso deve
essere temperato da un solido e «noioso» modello di business (finanziamento dell’economia
reale, maturità, trasformazione del rischio) con strutture di remunerazione adeguata (Kamppeter 2011; Kapoor 2010; Dullien/Herr/Kellermann 2009, 2011).
4.2 Scenari per una Germania Sociale
In Germania, il modello di crescita basato sulla contrazione dei salari e il ritiro dello
Stato deve essere corretto. Ciò ha causato divisioni sociali e una crescita fragile, asimmetricamente dipendente dall’export (Bontrup 2010). La domanda domestica, in particolare in
aree caratterizzate da bisogni sociali sostanziali – come le energie rinnovabili, l’istruzione,
la previdenza e la sanità – deve essere rinforzata per mezzo di una più equa distribuzione di
reddito e di un più solidamente finanziato consumo pubblico. In queste aree, possono essere
creati ulteriori posti di lavoro e reddito addizionale.
La Friedrich-Ebert-Stiftung (Fes), in tre grandi ricerche, ha simulato scenari diversi per
la crescita sociale in Germania:
1. Il primo studio, nel quadro del progetto Futuro 2020, è stato portato avanti da Bartsch
Econometrics nel 2008/2009 (Bartsch et al. 2009a; Bartsch et al. 2009b). Esso assume una
aumento nell’investimento pubblico, specialmente nell’addestramento lavorativo e nell’istruzione, così come una politica salariale orientata alla produttività. Il risultato, comparato con
uno scenario base legato a una politica economica invariata rispetto all’attuale, evidenziava
la possibilità di avere una crescita molto più sostenuta, con un tasso di disoccupazione più
basso, una migliore distribuzione e un debito pubblico più basso (Bormann et al. 2009a; Bormann et al. 2009b).
2. Un secondo studio sulla crescita attraverso l’espansione dei servizi sociali, portato avanti
da Prognos (2010/2011), ha calcolato che la creazione di circa un milione di posti di lavoro,
specialmente nel settore previdenziale, incrementerebbe il Pil di circa 22 miliardi di euro (in
altre parole, di circa l’1% del Pil attuale), 2/3 dei quali passerebbero attraverso lo Stato (metà
in tassazione, metà in contributi sociali) e 1/3 attraverso il mercato. I contribuenti finanzierebbero circa 1/3 del loro reddito addizionale da salario aumentando le spese in consumi individuali, mentre i restanti 2/3 arriveranno dalle spese nei servizi pubblici (Prognos 2011b).
3. In un terzo studio (2011) sull’Interdipendenza tra lo Sviluppo del Mercato della Salute
e lo Sviluppo dell’Economia e dell’Occupazione, il Rheinisch-Westfälische Institut für Wirtschaftsforschung (Rwi) ha esaminato le conseguenze per crescita e occupazione di una forte
espansione – 2% annuo – del settore della salute. Esso assume una crescita media della produttività reale dell’1% annuo, con la produttività del settore della salute in aumento solo dello
0.5%. Entro il 2030, in questo caso, la quota di valore aggiunto del settore della salute aumenterà dal 10 al 13% e la sua quota di occupazione dal 12 al 16% dell’economia della Germania.
In corrispondenza di ciò, la spesa per la salute crescerà in proporzione alle spese dei contribuenti, sebbene in una quota maggiore tra i più poveri (dal 16 al 24%) rispetto agli altri (dal 6
al 10%). Anche le aliquote contributive aumenteranno rapidamente. Ad ogni modo, le spese
in altre aree non diminuiranno in termini assoluti e anche il welfare si estenderà (Rwi 2011).
La Germania può quindi seguire differenti sentieri di crescita, che includano la transizione
energetica e l’espansione dei servizi sociali, senza aumentare l’indebitamento dei contribuenti
e dello Stato. Il suo alto surplus dell’export denuncia l’esistenza di potenziali di consumo e
investimento non sfruttati a pieno. Tuttavia, la Germania non deve temere un calo della sua
prosperità. Sebbene le strutture di consumo e produzione debbano cambiare, la trasformazione può avere luogo in un contesto di crescita per mezzo di più impiego e produttività più
alta, senza involontarie riduzioni nei consumi tradizionali. A tal fine, deve essere assicurato
uno stabile potere d’acquisto per soddisfare i nuovi bisogni. Essi possono essere ottimamente
raggiunti per mezzo di una più equa distribuzione del reddito e di una limitazione nella crescita degli asset (Dauderstädt 2011a; Pfaller 2010b).
4.3 Crescita Sostenibile per l’Economia Mondiale
La crescita tedesca orientata all’export ha contribuito all’emergere di squilibri nell’economia europea e globale, che si sono rivelati insostenibili sul lungo periodo (Artus 2010;
Dauderstädt/Hillebrand 2009; Dullien 2010b; Münchau 2010). La crescita sociale – come
descritta in precedenza – aiuterà a migliorare la situazione economica. A prescindere dalla
Germania, comunque, vi sono diversi paesi – in particolar modo Cina, Giappone e alcuni
esportatori di petrolio – che possono contare su considerevoli surplus relativi all’export. Come rovescio della medaglia vi sono massicce esportazioni di capitali che innescano nei paesi
beneficiari fenomeni di crescita «esuberanti» e gonfiati (Priewe 2011). Di regola, questi squilibri sono accompagnati da differenti trend salariali, ossia stagnazione dei salari reali combinata con bassi costi unitari dei salari in molti paesi in surplus (specialmente, Germania e
32 ■ CRITICAsociale
Giappone) e rapidi aumenti unitari dei costi salariali in molti paesi in deficit (ad esempio,
l’Europa periferica) - (Dauderstädt 2009a; Busch 2009).
La crescita pre-crisi ha in certo modo ridotto gli ancora enormi differenziali di reddito
tra i paesi in Europa e anche globalmente (Dauderstädt 2010c; 2011c), sebbene accompagnata
da, a fronte di ciò, perversi flussi di capitale dai paesi poveri (Cina) a quelli ricchi (Stati Uniti). Questo rende ancora più importante stabilire la ripresa economica dei paesi più poveri
su basi sostenibili e liberarli dalla subordinazione ai veloci movimenti ondulatori del mercato
del capitale. Finanziare l’espansione dei loro stock di capitale - in forma di capitale sociale,
infrastrutture e capitale umano, come la sanità e l’istruzione – deve essere un impegno a lungo termine e a prova di speculazione. Gli incrementi di produttività che ne risulteranno, beneficeranno la società nel suo complesso in un dato paese come a livello mondiale, anche se
in particolari settori e località non mancheranno dolorosi processi di aggiustamento (Dauderstädt 2010b).
La sostenibilità della crescita non solo è minacciata dalla sua dipendenza dal mercato finanziario, ma anche dall’immenso sfruttamento delle risorse globali. La crescita dei prezzi
delle materie prime indica che il consumo desiderato eccede l’attuale – e, nel caso di molte
risorse, futuro – livello dell’offerta. Il meccanismo di prezzo farà in modo che nel lungo periodo l’offerta aumenti e che la domanda, soggetta a considerazioni di economicità e sostituzione, tenda relativamente a diminuire. Ma i prezzi crescenti gravano sui poveri in maniera
sproporzionata e il più intensivo sfruttamento delle risorse minerarie è accompagnato spesso
da pesanti costi sociali e da inquinamento ambientale, che anche i prezzi crescenti altrettanto
spesso non riflettono adeguatamente.
Ad ogni modo, dato che a causa della crescita tradizionale le emissioni nocive pesano
duramente sulle basi naturali della vita, il clima specialmente (Netzer 2011), la via d’uscita
non può semplicemente essere rinunciare alla crescita o la «decrescita». Troppe persone ancora non hanno nutrimento, vestiti, abitazioni, diritto alla salute e istruzione. La crescita sociale deve pertanto essere applicata selettivamente sotto vari aspetti: il reddito dei poveri dovrebbe crescere più rapidamente; gli investimenti che risparmiano risorse nel medio termine
dovrebbero crescere; i servizi sociali dovrebbero crescere sino al punto di incontrare i bisogni
sociali, senza contare il fatto che richiedono in genere uno sfruttamento meno intensivo delle
risorse (Spangenberg/Lorek 2003).
4.4 Governance Democratica di Economie Interdipendenti
Considerato l’enorme impatto dei rischi globali che abbiamo descritto, il successo dei
percorsi nazionali di sviluppo dovrebbe essere assicurato da una politica economica globale
cooperativa e strutturale. In contrasto con il discorso dominante sulla globalizzazione negli
anni novanta, in cui l’economia veniva depoliticizzata, lo Stato screditato e i processi globali
tenuti a distanza dal «Moloch» statale, negli anni a venire la politica dovrà rimpiazzare il
primato dell’economia. La ricerca di nuovo spazio politico in questo quadro dovrebbe essere
caratterizzata da soluzioni pragmatiche, comunque, oltre lo statalismo, ma anche oltre l’ostilità nei confronti dello Stato. Ciò apre la possibilità di condurre un dibattito politico sulla
moderna concezione dello Stato – ma anche specialmente a livello regionale e globale (Steinhilber 2008).
Anche se la sua fissazione sull’export diminuirà, la Germania rimarrà anche in futuro
dipendente da una economia globale funzionante. La sua prosperità dipenderà, tra le altre
cose, dal fatto che i beni internazionali e i mercati finanziari rimangano stabili e che gli elementi della regolazione economica globale possano essere adattati alle nuove condizioni.
Creare un politica economica esterna praticabile e mirata alla cooperazione e all’integrazione
sarà un compito cruciale per il futuro. Data la relativa debolezza della voce della Germania
nel concerto delle potenze economiche, ciò potrà essere realizzato solo nel contesto di una
forte Unione Europea.
Il fatto è che in Europa, come dimostrato dalla crisi e dagli sforzi per superarla, ma anche
rispetto alle sfide comuni che si prospettano – ad esempio, con riferimento alla ulteriore globalizzazione dei mercati, al cambiamento climatico, alla crescente scarsità di risorse e al mutamento demografico – , la politica economica non può essere ancora per molto confinata
all’interno dei confini nazionali. Il mercato unico e l’unione monetaria hanno creato da tempo
una situazione di condivisa responsabilità e competenza tra i livelli nazionale e sopranazionale all’interno dell’Ue. Ad ogni modo, la crisi economico- finanziaria ha rivelato numerosi
difetti, carenze e squilibri nel parziale processo di integrazione (Busch/Hirschel 2011; Hacker
2011a). Il suo progetto centrale – la formazione di un mercato unico e di un’unione economica e monetaria (Emu) – ha in realtà portato prosperità all’interno degli Stati membri, ma
allo stesso tempo gli effetti negativi della globalizzazione in Europa si sono sono acuiti. L’integrazione ha avuto inizialmente luogo come un processo di «creazione di mercato» tra le
aziende, ma anche tra gli Stati: smantellando barriere commerciali e intensificando la competizione, abbassando salari, contributi di sicurezza sociale e carico fiscale e mi migliorando
le condizioni di locazione in una modalità «market friendly ». In contrasto, il processo di
«modellamento e correzione del mercato», caratterizzato per esempio da standard sociali e
di protezione dell’occupazione comuni o da organizzazione istituzionale e ulteriori sviluppi
nelle competenze delle politiche Ue, ha continuato ad aggrapparsi (Höpner/Schäfer 2010) a
un «minimalismo costituzionale» (Platzer 2009).
Tuttavia, problemi e difficoltà, incluso il collasso dell’euro e, in ultima analisi, dell’Europa e dell’Idea europea – possono essere evitati solo rafforzando strumenti politici di correzione e modellamento del mercato e, in ultima istanza, per mezzo di «più Europa», intesa
come unione politica (Arbeitskreis Europa 2010b). L’obiettivo finale deve essere la conversione dell’Ue in un’unione politica con diritti di partecipazione democratica simili a quelli
garantiti nei paesi membri. Comunque, non dovrà esserci una semplice centralizzazione del
decision-making di politica economica intergovernamentale a Bruxelles. Questo sarebbe giustificato solo se fosse controllato democraticamente (ad esempio, nel quadro del metodo comunitario) - (Collignon 2010). Prima che un simile scenario diventi realtà, non resterà altro
che rinforzare la coordinazione e l’accordo tra le politiche economiche statali. Ciò significa
anche, comunque, che l’Ue, o tutti i membri Ue uniti, avranno istituzionalmente il diritto di
esprimersi su questioni politiche finora appannaggio degli Stati individualmente (Heise/Heise
2010). In particolare, ciò significa mettere in agenda l’intenzione di avanzare nelle misure
3-4 / 2012
di integrazione: «più Europa» nel senso di rafforzare ulteriormente il principio di competizione e di restringere la finalità politica condurrebbe all’implosione del progetto europeo.
Ciò che è decisivo, allora, è un nuovo paradigma per la governance che comprenda l’equalizzazione degli squilibri economici e il progresso sociale nell’Ue come un compito centrale
(Hacker/van Treeck 2010).
Benché negli anni recenti la politica di sicurezza abbia in modo crescente eclissato il dilemma dello sviluppo globale, ora la questione della crescita sociale sta tornando con prepotenza in agenda, anche a livello globale. Questo argomento determinerà sostanzialmente la
futura costituzione del mondo. E’ diventato evidente che i problemi di sviluppo non sono più
soltanto legati al Sud del mondo. L’impoverimento di molte regioni del Nord, non solo del
Sud, ha condotto a una crisi che sta minacciando anche i centri della prosperità globale. Il
modello di sviluppo sinora in auge viene messo in questione dalle crisi ambientali conseguenti
allo sviluppo economico di determinati paesi. La crescita sociale a livello globale non sarà
mai un’opzione se non verrà abbinata a un nuovo modello di sviluppo, che combini in ogni
paese la ristrutturazione ambientale dell’economia con una più giusta distribuzione (Netzer
2011). Rispetto al livello globale, ciò significa che i paesi meno sviluppato devono essere aiutati ad aprirsi a nuovi sentieri di crescita che devono tenere conto di quattro fattori:
1. Crescita ambientale con un’enfasi sulla riduzione delle emissioni di CO2;
2. Una crescita socialmente sostenibile che crei lavoro;
3. Una crescita sostenuta non più soggetta alla volatilità del mercato dei capitali;
4. Una crescita dovuta all’integrazione regionale e all’intensificazione delle infrastrutture.
A questo fine, la crisi regolatoria (con riferimento alle banche) e la crisi della governance
economica globale (con riferimento agli squilibri globali) deve essere risolta.
Ad ogni modo, le strutture del decision-making a livello globale – in particolare nel caso
delle organizzazioni internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca
Mondiale – continuano a fronteggiare seri problemi concernenti la legittimità e l’accettabilità.
Queste organizzazioni sono ancora dominate dai tradizionali paesi industrializzati di cui rappresentano primariamente gli interessi. Esse riflettono l’equilibrio di potere economico risalente al periodo della loro creazione, dopo la Seconda guerra mondiale, e non l’attuale
configurazione di forze. Pertanto sono considerate poco rappresentative e non democratiche
dai paesi emergenti e in via di sviluppo. Comunque, informali ma potenti forum della governance, come il G7/G8 che va lasciando spazio al G20, hanno ormai dilatato i propri confini, includendo alcuni paesi leader tra gli emergenti, ma vivono anch’essi problemi di legittimità che inducono i paesi non rappresentati a non riconoscerne l’autorevolezza.
La soluzione di sfide chiave per il futuro che si stanno presentando a livello globale possono essere raggiunte solo con la collaborazione dei paesi emergenti e in via di sviluppo, che
in anni recenti sono stati strettamente integrati nelle strutture della finanza e del commercio
internazionali (Joerißen/Steinhilber 2008). Il multilateralismo post-bellico delle istituzioni di
Bretton Woods, che stanno oggi soccombendo sotto il peso delle loro strutture obsolete, deve
essere integrato in nuove istituzioni nei medesimi termini. Benché il G20 rappresenti un inizio
nello stabilimento di un forum in cui le attuali economie dominanti possano confrontarsi su
un piano di parità (Pohlmann/Reichert/Schillinger 2010), tutto ciò – così come le timide riforme del Fmi e della Banca Mondiale – non è sufficiente per dar luogo a una integrazione
positiva. La comunità internazionale ha già iniziato cautamente ad affrontare la questione di
efficienti e sostenibili strutture di governance globale, che aiutino a ridurre l’incertezza e la
complessità sulla base della fiducia e ad aprire una nuova finalità allo sviluppo.
5. Un programma in 10 Punti per una Politica Economica Progressista
Il seguente programma in 10 punti evidenzia le più importanti riforme necessarie o opportune per implementare il concetto di «crescita sociale».
5.1 Garantire una Stabile Offerta di Credito con una Effettiva Regolazione
5.1 dei Mercati Finanziari
La crescita sociale, come ogni forma di crescita, dipende da un’adeguata offerta di credito. Deve essere garantito che i mercati finanziari – con la loro propensione al breve periodo,
il periodico eccessivo appetito per il rischio e l’irrefrenata tendenza al prestito, per non parlare
dell’influenza perniciosa degli “istinti del gregge” – non sprofondino ripetutamente il sistema
finanziario, e in ultima analisi l’economia nel suo insieme, in crisi di proporzioni catastrofiche. In mercati finanziari integrati a livello transnazionale, le banche hanno sia creditori stranieri sul lato delle passività (depositi) sia debitori sul lato degli asset (investimenti). La protezione dei depositanti, il sostegno alla liquidità (prestatori di ultima istanza) e la valutazione
degli asset (con conseguenze per le riserve minime e via discorrendo) messi in pratica a livello nazionale sono sempre meno fattibili. In piccoli paesi con sistemi bancari sovradimensionati – Islanda, Irlanda, Svizzera – lo Stato può rapidamente essere sopraffatto.
Se si vuole che un simile fallimento del mercato venga superato e, in ultima analisi, che i
contribuenti siano protetti, una più forte, comprensiva ed efficiente regolazione dei mercati
finanziari si rende necessaria, in modo da ridurre il predominio del settore finanziario e da
rendere più solida l’economia reale (offerta di credito ai privati e alle imprese) (Kamppeter
2011; Dullien/Herr/Kellermann 2009, 2011). Gli elementi centrali della nuova regolazione
dei mercati finanziari che, idealmente, dovrebbe essere implementata uniformemente a livello
globale ma, se no, quantomeno a livello europeo, sono i seguenti (Noack/Schackmann-Fallis
2010; Kapoor 2010; Dullien/Herr 2010; Arbeitskreis Europa 2009; Steinbach/Steinberg 2010):
• Più trasparenza e la chiusura delle possibili scappatoie dalle norme per mezzo di una
supervisione centralizzata del mercato finanziario, che sia, per quanto possibile, uniforme,
potente e transazionale. Dovrà avere l’autorità a emettere direttive e di imporre condizioni,
proprio come le autorità nazionali preposto alla supervisione.
• Monitoraggio unificato della stabilità del sistema finanziario.
• Riserve di capitali più alte e anti-cicliche e requisiti di liquidità per tutte le banche e gli
intermediari finanziari; bando per le entità con bilancio patrimoniale in perdita senza copertura di capitale e imposizione di limiti alle opportunità per banche e attori del sistema finan-
3-4 /2012
ziario di accumulare nuovi debiti (la cosiddetta leverage ratio) per ridurre gli incentivi per
comportamenti speculativi e propensi all’indebitamento da parte degli investitori e per rafforzare la stabilità del sistema finanziario in situazioni di crisi.
• Più elevati requisiti di capitale per le banche sistemicamente rilevanti e piani di emergenza e di liquidazione (i cosiddetti «living wills»), mediante i quali le istituzioni transazionali possano essere liquidate in caso di insolvenza senza danneggiare qualcun altro; tutto ciò
per accrescere il costo per i privati di un fallimento scaturente da pratiche speculative.
• Riduzione del proprietary trading da parte delle banche commerciali, forse anche una
più stretta separazione dei prestiti tradizionali dalle banche di investimento; una più stretta
regolamentazione delle agenzie di rating e lo stabilimento di un’agenzia di rating europea
da finanziare con fondi comunitari (Arbeitskreis Europa 2010b).
• Riduzione del ruolo delle agenzie di rating private e modelli di rischio interno bancario
per valutarne l’adeguatezza patrimoniale.
• Riduzione della contabilizzazione del giusto valore in regime di quasi mercato.
• Limiti sulla rivendita di prestiti (cartolarizzazioni) da parte delle banche commerciali.
• Più stretta regolamentazione dei derivati di trading e fare in modo che essi vengano
esclusivamente regolati per mezzo delle stanze di compensazione (riduzione del mercato
over-the-counter).
• Un legge europea sulla bancarotta per gli istituti di credito che garantisca una ordinata
e agile liquidazione delle banche insolventi.
• Stabilimento di un «Mot» finanziario che valuti accuratamente il valore sociale e i rischi
di nuovi strumenti finanziari, sia per le banche che per gli investitori, prima della loro introduzione. Simili strumenti dovrebbero essere consentiti solo se in grado di fornire benefici
sociali (Dullien/Herr/Kellermann 2009, 2011).
• Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (Paul/Neumann 2011), così come
più severe, e più orientate al lungo termine, regolazioni sui bonus per i manager bancari che,
in particolare nel breve periodo, renderebbero meno attrattiva la ricerca del profitto e la speculazione sui mercati finanziari internazionali, così riducendo le fluttuazioni dei mercati.
Il tradizionale sistema bancario tripartito della Germania deve essere mantenuto e incoraggiato poiché ha dimostrato il suo valore – in particolare grazie alle casse di risparmio e
al settore cooperativo – come saldo ancoraggio nella crisi. Ciononostante le banche dei Land
(Landesbanken) dovrebbero essere consolidate e sviluppati nuovi modelli di business, sostenibili sul lungo periodo. Un’effettiva regolamentazione dei mercati finanziari è anche la
condizione chiave per una politica monetaria orientata alla crescita. Senza un’effettiva regolamentazione, questa sarebbe inevitabilmente frustrata nei suoi sforzi per assicurare la stabilità dei prezzi e del mercato finanziario solo per mezzo di una politica sui tassi di interesse.
Con un’effettiva regolazione dei mercati finanziari in atto, aumenterebbe lo spazio di manovra per perseguire una politica monetaria orientata alla crescita (Winkler 2008; Illing 2011).
5.2 Utilizzare la Politica dell’Istruzione per Stimolare le Forze della Crescita
5.2 ed Espandere le Opportunità per Tutti
Sul lato dell’offerta, la crescita sociale è dipendente da un buona e continua formazione.
Istruzione e conoscenza aumentano la produttività del lavoro e così contribuiscono alla crescita e alla prosperità (Prognos 2011a; Blossfeld et al. 2011). L’istruzione è un bene pubblico
che migliora le prospettive di vita delle persone. Fallimento del mercato significa insufficienti
risorse destinate dal mercato e dal settore pubblico all’istruzione. Solo una politica di istruzione governativa può adeguatamente fornire l’investimento nell’istruzione necessario per
la crescita e l’occupazione, senza che le ineguaglianze sociali si accentuino e che la coesione
sociale venga pregiudicata. Studi comparativi internazionali relativi agli standard educativi
dimostrano che la spesa della Germania in istruzione è circa sul livello medio Ocse e che sta
perdendo terreno rispetto ai paesi più virtuosi in tal senso. Le prospettive della formazione
continua sono parimenti sfavorevoli: quest’ultima deve essere incrementata se si vuole garantire la qualità del lavoro sui tempi lunghi, considerando l’aumento dell’età di pensionamento. In futuro, insomma, la Germania deve investire di più nella formazione iniziale e
continua, ma anche apportare aggiustamenti strutturali nel settore dell’istruzione (Borgwardt
2011; Wernstedt/John-Ohnesorg 2010; Autorengruppe Bildungsberichterstattung 2010).
Lo scopo di una politica dell’istruzione deve essere un sistema educativo socialmente giusto e altamente performante, che parta dal’educazione nella prima fanciullezza per arrivare
alla formazione continua degli adulti. Non è sufficiente per questo proposito avere singole
scuole di buon livello o alcune università di prestigio: è necessario un orizzonte nazionale che
includa le aree urbane e rurali. Solo un ampio impegno pubblico potrà raggiungere tutti i bambini, i ragazzi, gli apprendisti e gli studenti, senza condizionamenti legati al reddito familiare.
Solo in questo modo possiamo ridurre la forte correlazione tra successo educativo e origine
sociale, tra numero di giovani senza qualifiche e alto tasso di abbandono scolastico. Le seguenti
misure sono necessarie a questo fine (Baumert 2010; John-Ohnesorg 2009; Wernstedt 2010):
• La divisione dei compiti tra governo federale, länder e municipalità (con riferimento
alle scuole, all’istruzione di eccellenza e alla ricerca) necessita di essere ridefinita al fine di
assicurare una adeguata base finanziaria per i compiti che ci si trova a dover affrontare.
• L’istruzione deve diventare più individualizzata a tutti i livelli: i cosiddetti studenti a
rischio non sono un gruppo omogeneo. Un maggior addestramento alle lingue è particolarmente importante.
• L’istruzione deve iniziare prima, poiché l’educazione precoce e il sostegno all’apprendimento lasciano segni indelebili sui successivi step. Sostenere l’educazione dei bambini, in
particolar modo minori di tre anni, deve diventare un impegno sempre più sentito: è importante creare molti ambienti dedicati alla cura e formazione del bambino nei cosiddetti «Kitas
» (centri per la cura dei bambini con genitori impegnati a tempo pieno) e kindergarten; i periodi e gli orari di apertura dovrebbero essere adattati (anche per favorire la compatibilità tra
lavoro e vita familiare) e gli approcci pedagogici e lo staff migliorati, con l’inserimento di
personale qualificato.
• Il sistema scolastico deve essere orientato su un più lungo periodo e ogni tipo di selezione
deve essere preceduto da una fase di istruzione inclusiva, indirizzata a una maggiore permeabilità orizzontale e verticale. Ci si dovrebbe orientare a un sistema scolastico a due livelli.
CRITICAsociale ■ 33
• E’ necessario accrescere il numero delle scuole a tempo pieno che non solo si occupano
della cura del bambini, ma anche di formazione pomeridiana erogata da staff qualificato, in
ambienti adeguati e con supporti educativi idonei. Esse potrebbero essere integrate in reti
educative locali in grado di fornire un supporto individualizzato.
• Espandere i tirocini e le scuole professionalizzanti full-time consentirebbe di soddisfare
i bisogni avvertiti di adeguato e operativo avviamento professionale. Per venire incontro alle
esigenze di coloro che non ricevono un addestramento a una professione che garantisca un
futuro lavorativo soddisfacente, devono essere adottate al più presto misure sostenibili, come,
ad esempio, l’intensificazione del sostegno ai giovani immigrati.
• La spesa per l’istruzione, la ricerca e la scienza deve crescere (almeno fino al 10% del Pil).
• I cambiamenti tecnologici fanno sì che aumenti la richiesta di personale qualificato in
tutte le aree. Strettamente connessa a ciò, esiste la possibilità per i singoli lavoratori di migliorare i propri guadagni. Per questa ragione, sia chi lavora sia chi è disoccupato con una
bassa, intermedia o alta qualifica deve ricevere ulteriore e migliore addestramento a tutti i
livelli della sua vita lavorativa, non solo per rimediare alla carenza di lavoratori qualificati
ma anche per far fronte all’innalzamento dell’età pensionistica. I sussidi di disoccupazione
dovrebbero tramutarsi in sussidi di occupazione (Schmid 2008). I diritti collegati a ferie,
permessi e ritorno al lavoro per dipendenti in formazione dovrebbero essere estesi e i fondi
aziendali per la formazione previsti negli accordi collettivi per le piccole-medie imprese devono essere sostenuti (Bosch 2010). Infine, ognuno dovrebbe aver diritto alla formazione e
al supporto individualizzato.
5.3 Aprire Nuove Aree di Crescita con la Politica Industriale
Come ogni processo di crescita, la crescita sociale non è caratterizzata dalla conservazione strutturale ma dal cambiamento. Al fine di soddisfare le esigenze del mercato, della
ristrutturazione ambientale e del rinnovamento dell’economia e della società – cambiamento
climatico, distruzione dell’ambiente, esaurimento delle risorse naturali – in futuro la politica
industriale ambientale dovrà identificare e promuovere con tempestività aree di crescita, ma
anche assicurare la sostenibilità sociale e ambientale (Schepelmann 2010). L’industria ambientale della Germania è un buon esempio di politica industriale di successo (Bmu 2009).
Comunque, senza un intervento politico – che stabilisca target, traducendoli in parametri
ambientali e tetti al consumo di risorse e alla loro costante estrapolazione nelle differenti
aree di produzione e consumo privato – questo importante settore industriale non sarebbe
emerso (Fischedick/Bechberger 2009). Lo Stato, per mezzo della regolamentazione legale,
il suo potere d’acquisto e di mercato e la ricerca ambientale, le sue infrastrutture, le politiche
economiche e fiscali, può e dovrebbe giocare un ruolo attivo e funzionare pertanto come un
importante technology driver e motore di innovazione. In tale quadro, esso dovrebbe promuovere lo sviluppo e l’introduzione nel mercato di prodotti innovativi e sostenibili, per
mezzo di significativi incentivi economici all’investimento (Meyer-Stamer 2009).
In futuro, nell’area della protezione climatica e ambientale, invece di dispendiosi programmi di intervento diretti dello Stato, dai risultati incerti, il consumo ambientale dovrebbe,
ad esempio, essere pienamente incorporato in un sistema commerciale dei diritti di emissione
di CO2 che, guidato dai prezzi, sia il più globale possibile (Löschel 2009; Knopf et al. 2011).
Vale la pena di considerare una legge nazionale relativa alla protezione climatica, che preveda
specifiche linee-guida per tutte le autorità locali e settori economici in un piano di implementazione. L’obiettivo sarebbe fondamentalmente il cambiamento delle attitudini di tutti
gli attori economici e di ecologizzare tutte le strutture produttive e le catene di creazione del
valore. Per mezzo di chiare linee guida di efficienza energetica e di obiettivi di riduzione dei
target di CO2, dovrebbe essere data ulteriore spinta alla domanda e all’offerta nel quadro di
direttive pubbliche di approvvigionamento e contratti di allocazione (Pfaller/Fink 2011).
Il livello locale dovrebbe godere di una particolare priorità. Nel framework di un dialogo
sociale, i bisogni dovrebbero essere determinati e le soluzioni attivate e sperimentate. Ciò
renderà possibile integrare strettamente e collegare network di consumatori, di imprese, di
scienziati, politici e amministratori. Soprattutto, in questo modo le linee guida governative
sulla protezione climatica, sulle risorse, sul consumo di energia, potranno aiutare a raggiungere i target climatici nazionali e a migliorare la competitività internazionale delle imprese
sugli emergenti “mercati green”. Inoltre, questo processo di dialogo può contribuire alla reciproca riconciliazione dei vincitori e dei perdenti della modernizzazione. Un radicale cambiamento strutturale può comunque condurre anche a un inasprimento delle condizioni sociali
per molti; un problema che dovrà essere risolto con la maggiore celerità possibile
(Pfaller/Fink 2011; Bär et al. 2011).
La crescita futura dipenderà considerevolmente dallo sviluppo del settore dei servizi.
Una politica industriale moderna deve dunque porre fine alla politica di sostegno e alla discriminazione finanziaria contro i beni non fisici. Oltre che dallo sviluppo di servizi collegati
all’industria a elevato valore aggiunto, la crescita sociale dipende primariamente dalla crescita di servizi sociali di alta qualità. La Germania, nel confronto internazionale, denuncia
un significativo gap occupazionale al proposito. Oltre ai servizi al business, esistono servizi
orientati socialmente di elevata qualità che mostrano i più alti tassi di crescita nei paesi dell’Europa a 15. Sullo sfondo dei cambiamenti demografici in atto, stanno crescendo considerevoli esigenze al riguardo, per esempio nell’area dell’assistenza ai malati e agli anziani e
nel sistema socio-educativo; pertanto il sostanziale potenziale di crescita e impiego è sin
troppo evidente.
La domanda di servizi sociali è spesso debole sul libero mercato a causa del cosiddetto
effetto Baumol (Baumol 1967) – anche conosciuto come «morbo del costo di Baumol». Le
aziende private spesso non soddisfano tale domanda adeguatamente. Questi fallimenti del
mercato possono ad ogni modo essere superati attraverso una intelligente politica dei servizi
(Bienzeisle et al 2011; Schett-Kat 2010). Ciò non deve implicare una strategia di basso profilo
di sviluppo dei servizi che tenti di accrescere la domanda potenziale e favorire un’ulteriore
espansione dei servizi per mezzo di riduzioni dei costi, incoraggiando i settori a basso salario
e amplificando i differenziali di reddito. Una simile strategia ultimamente conduce solo a
lavori mal pagati e precari e, in tal modo, a servizi di scarsa qualità e basso valore aggiunto.
L’espansione di servizi sociali di alta qualità, come dimostrano i paesi scandinavi, è possibile
anche combinando differenziali salariali moderati, più alti salari e una più limitata inegua-
34 ■ CRITICAsociale
glianza sociale. Comunque, una tale strategia di alto profilo richiede uno Stato più attivo,
nel ruolo di finanziatore, produttore e/o datore di lavoro in questo settore. In particolare, i
meccanismi di finanziamento statale, come i sistemi di sicurezza sociale, possono contribuire,
in primo luogo, allo sviluppo della domanda per servizi sociali in generale e, in secondo luogo, a una adeguata fornitura e accesso per tutti ai medesimi servizi. L’esempio scandinavo
mostra che un alto tasso di spesa governativa rispetto al Pil non è un ostacolo allo sviluppo
economico complessivo (Heintze 2011; Schettkat 2011).
Istruzione, famiglia e politiche fiscali devono essere in futuro meglio coordinate con la
creazione e promozione di occupazioni decenti con buoni salari nel settore dei servizi sociali.
Nelle politiche educative la previdenza deve essere tenuta in conto per consentire che gli addetti siano meglio addestrati, supportando e formalizzando qualificazioni formative e professionali riconosciute dallo Stato. La qualità più alta può accrescere l’accettazione e la disponibilità a pagare tra i potenziali consumatori. Le politiche famigliari, d’altro canto, possono
incoraggiare l’impiego femminile e creare nuove opportunità di lavoro nei servizi sociali, sia
sul lato della domanda che dell’offerta (Luc 2011). In particolare, l’integrazione di donne ben
formate e qualificate nel mercato del lavoro accresce la domanda e l’offerta di servizi sociali.
Attualmente, tali servizi sono forniti principalmente da donne, a casa. In futuro, il focus delle
politiche famigliari dovrebbe essere meno sul trasferimento di benefit, come i sussidi previsti
per l’infanzia, e in misura maggiore sui benefit “in natura”, come l’espansione dell’assistenza
all’infanzia (nidi, centri diurni, strutture per bambini minori di tre anni), che rispondano alle
esigenze delle persone e che siano, per quanto possibile, gratuiti.
5.4 Rafforzare la Posizione dei Lavoratori con la Previsione di un Salario Minimo
5.4 e della Codeterminazione
La crescita sociale richiede una politica salariale che assicuri ai lavoratori la partecipazione nella creazione di valore e innalzi così il potere d’acquisto delle masse. La stagnazione
dei salari reali e la crescita della ineguaglianza del reddito non devono essere rimossi solo
per considerazioni di giustizia sociale, ma anche perché contribuiscono alla stagnazione della
domanda interna e conseguentemente al basso tasso aggregato di crescita e all’aumento degli
squilibri interni (Joebges 2010; Joebges et al. 2010). La politica salariale dovrà in futuro essere orientata più decisamente verso aumenti nominali in termini di produttività dei salari in
proporzione ai guadagni di produttività aggregata sul lungo periodo più il tasso di inflazione
posto come obiettivo dalla banca centrale – non solo in Germania, ma a livello globale. Solo
in questo modo la domanda domestica potrà essere rinforzata in maniera sostenibile e il pericolo di squilibri emergenti all’interno dell’Unione Monetaria Europa ridotti (Busch 2010;
Busch/Hirschel 2011; Pusch 2011). Sebbene in Germania i contratti collettivi stabiliscano
dei limiti alla politica salariale, il governo può influenzare lo sviluppo dei salari:
• La previsione generale, completa, di un minimo legale dei salari fortifica la posizione di
ogni singolo lavoratore in contrattazione salariale e quindi aiuta a prevenire tabelle salariali
al ribasso basso e lo sviluppo di bassi salari, o peggio di salari da fame, che minacciano la capacità delle persone di far quadrare il bilancio (Bosch et al 2009a; Bosch et al. 2009b). I salari
minimi costringono le imprese a competere sulla base di una maggiore produttività e innovazione, a differenza dei bassi salari. Un salario minimo legale, per esempio, 8,5 euro l’ora, non
solo migliorerebbe la situazione economica di cinque milioni di persone, ma aumenterebbe
anche i guadagni di circa 14,5 milioni di famiglie private. Servirebbe inoltre ad alleviare l’onere per il bilancio pubblico tedesco per la somma di circa 7 miliardi di euro (per esempio, il
sostegno ai redditi più basso e le maggiori entrate fiscali) - (Ehrentraut et al. 2011).
• Il governo dovrebbe smettere di promuovere i cosiddetti mini- e midi- job e reintrodurre
l’obbligo generale di sicurezza sociale al fine di correggere gli sviluppi negativi vissuti dal
mercato del lavoro negli ultimi anni.
• La codeterminazione a livello di impianti produttivi e imprese deve essere estesa e i contratti collettivi generali devono essere rafforzati da imprese tenute ad aderire ad associazioni
dei datori di lavoro o a dichiarare l’obbligatorietà generale dei contratti collettivi di lavoro. Il
governo può e deve dare un aiuto sostanziale a rafforzare i sindacati in modo che siano in grado
di trarre pieno vantaggio del margine macroeconomico di distribuzione e di ottenere buone
condizioni di lavoro (Hörisch 2010; Greifenstein 2011; Greifenstein / Weber 2009, 2008).
• Inoltre, in futuro il governo potrà e dovrà essere una presenza più potente come datore
di lavoro, non solo perché i servizi pubblici e i servizi di interesse generale, in particolare,
sono caratterizzati da significative esigenze e carenze, ma anche perché lo Stato ha il potenziale per stabilire degli standard per decenti e ben pagati posti di lavoro in un importante
segmento del mercato del lavoro, inviando in tal modo importanti segnali positivi ad altri
segmenti del mercato del lavoro. Simili effetti positivi possono essere raggiunti legando la
concessione degli appalti pubblici al rispetto delle norme minime in materia di salari dignitosi
e condizioni di lavoro.
5.5 Finanziare le Funzioni Pubbliche Correttamente ed Equamente tramite
5.5 una Riformata Politica Fiscale
Il concetto di crescita sociale si basa sul fatto che lo Stato e la comunità sono responsabili
di un numero significativo di compiti qualitativamente impegnativi. L’azione dello Stato deve
compensare i fallimenti del mercato in molti settori e quindi creare le condizioni per una crescita equilibrata dell’economia, della finanza e di uno sviluppo ambientalmente e socialmente
sostenibile. Al fine di superare la mancanza di fondi in settori chiave della politica - per esempio, l’istruzione, dove esiste un deficit di almeno 25 miliardi di euro - e di essere in grado di
effettuare l’investimento necessario per il futuro, lo Stato deve avere risorse finanziarie sufficienti. Sullo sfondo del deficit di bilancio e dell’alto debito pubblico, il finanziamento delle
spese supplementari per mezzo di un ulteriore aumento del debito pubblico è difficilmente
sostenibile. Ciò che è necessario è il consolidamento di un bilancio sostenibile in futuro.
Anche se tutti gli aspetti della gestione statale devono certamente essere sottoposti a riflessione critica, l’esame degli investimenti programmati dello Stato in futuro e i problemi
di finanziamento non possono essere risolti esclusivamente da tagli alla spesa. Gli investimenti pubblici in Germania, insieme alla pressione fiscale, sono scesi al livello più basso
nel confronto internazionale. Una strategia di bilancio responsabile, orientata al futuro e sostenibile, deve pertanto ottimizzare le entrate e migliorare la base di finanziamento. In altre
3-4 / 2012
parole, l’obiettivo dovrebbe essere quello di alzare le tasse in alcune zone. In particolare, la
situazione delle entrate dei comuni e dei Länder deve essere migliorata, dal momento che in
futuro notevoli investimenti pubblici dorano essere ivi implementati e beni e servizi di interesse generale dovranno essere forniti.
Nell’ambito della politica fiscale, dunque, tutte le parti della società e tutte le fasce di reddito devono partecipare, sulla base della solidarietà e della giustizia sociale, nel fornire le entrate pubbliche necessarie per queste politiche (Corneo 2010). Oltre alle considerazioni di
giustizia (principio di base: la tassazione secondo la capacità di pagare), l’aumento delle tasse
deve sempre prendere in considerazione gli effetti di incentivazione (rinnovamento ambientale, evitando crisi finanziarie). Sulla base di considerazioni di distribuzione e giustizia, ma
anche di stabilizzazione, in futuro, in primo luogo, lavoratori più retribuiti dovrebbero sopportare il peso degli aumenti delle tasse. Considerando la crescente disuguaglianza di reddito
e ricchezza e il fatto che il reddito da capitale immobilizzato in Germania è poco tassato nel
confronto internazionale, il reddito da attività finanziarie dovrebbe essere tassato regolarmente
e più pesantemente. Le seguenti misure sono ragionevoli e appropriate (Mende et al 2011.):
• Un aumento dell’aliquota massima dell’imposta sul reddito: questo non avrebbe un effetto negativo sul versante della domanda, in quanto i percettori di alti redditi riuscirebbero
a risparmiare una percentuale maggiore del loro reddito. Aumentare la tassazione al 49% su
un reddito imponibile di 100.000 euro o 200.000 euro frutterebbe alle casse pubbliche circa
7 miliardi di euro all’anno. Inoltre, per i redditi particolarmente elevati, un aumento di un
ulteriore 3% sulla parte superiore dell’aliquota massima per i redditi oltre i 250.000 o i
500.000 € (una tassa sui ricchi) si potrebbe immaginare come esplicitamente collegato al
finanziamento della spesa necessaria all’istruzione.
• Revoca delle agevolazioni fiscali introdotte ai sensi della « Legge di accelerazione della
crescita»: Ciò consentirebbe l’accumulo di 5.6 miliardi di euro di budget.
• Riforma della tassazione sulle imprese: il taglio dell’ultima riduzione dell’imposta sulle
società e l’aumento delle tasse sulle plusvalenze potrebbe portare fino a 40 miliardi di euro.
D’altra parte, le agevolazioni fiscali dovrebbero essere utilizzate per incoraggiare le imprese
che investono nel capitale reale e in ricerca e sviluppo (R&S), in particolare, nei settori orientati al futuro e nei mercati di punta; ad esempio l’introduzione permanente di ammortamento
decrescente al 30%.
• Alzare l’imposizione sulle professioni: al fine di migliorare la situazione finanziaria di
città, comuni e distretti la tassa professionale dovrebbe essere aumentata, in particolare ampliando la base imponibile per includere tutti coloro che sono economicamente attivi, in particolare i lavoratori autonomi e i professionisti.
• Alzare l’imposta sugli immobili: lo stesso vale per l’imposta sugli immobili la cui base
imponibile deve essere modernizzata.
• Aumentare l’imposta sulle plusvalenze: questa dovrebbe essere nuovamente sollevata,
dal suo attuale 25 al 29% (esclusa la tassa sui ricchi) o 32% (compresa la tassa sui ricchi) o
sostituita con la reintroduzione della tassazione “di sintesi”.
• Riformare la tassazione sulle successioni: attraverso la riforma dell’imposta di successione, si manterrebbe la gratuità dell’eredità di piccole e medie imprese e doni all’interno
della cerchia familiare, ma si tasserebbero adeguatamente i trasferimenti più importanti di
asset fino a 5 miliardi di euro.
• Reintrodurre l’imposta sul patrimonio: solo questo potrebbe fruttare circa 16-20 miliardi
di euro e un contributo significativo alla riduzione delle disparità di reddito e ricchezza
(Schratzenstaller 2011).
• Introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie: questo sarebbe anche un importante
contributo alla riduzione delle disparità di reddito e a ricchezza - costringendo i responsabili
della crisi finanziaria a partecipare ai costi per superarla - e per prevenire le crisi future. Introdotta a livello europeo, anche con aliquote relativamente basse (per esempio, 0,05%) potrebbe aumentare i ricavi di circa 12-20 miliardi di euro all’anno (Paul / Neumann 2011).
• Abolire la scissione delle imposte sul reddito tra le coppie e introdurre la tassazione individuale (Färber et al. 2008).
• Tassare in modo più pesante l’utilizzo di energie e risorse non rinnovabili, nonché le
emissioni (tasse Eco): questo potrebbe ulteriormente rafforzare le finanze pubbliche e anche
ottenere importanti e utili effetti di incentivazione ambientale (Pfaller 2010a).
• Impegnarsi costantemente contro l’evasione fiscale: i paradisi fiscali internazionali e
le scappatoie fiscali dovrebbero essere preclusi.
Le entrate supplementari provenienti da queste misure consentiranno allo Stato di svolgere in futuro le attività finanziare, e di gestire la spesa necessaria, per la crescita sociale e
raggiungere la redistribuzione del reddito e della ricchezza necessari per uno sviluppo economico più sostenibile. Una tassazione equa e trasparente contribuirebbe anche a lenire il
senso di alienazione dei cittadini dallo Stato in corso da anni. Le nuove entrate fiscali permetterebbero di fornire, oltre alla sicurezza sociale, una più alta qualità dei servizi pubblici
sociali che consenta a tutti di partecipare al meglio alla vita economica e sociale.
La capacità dello Stato di aumentare le tasse deve essere protetta contro la concorrenza
internazionale. Ciò vale in particolare per la tassazione delle società in Europa. Al fine di ridurre la concorrenza basata sulla bassa imposizione sulle società e quindi di garantire la redditività dello Stato in materia di entrate fiscali, la struttura fiscale e gli effetti sulle altre forme
di imposizione, un accordo dovrebbe essere raggiunto in Europa sulle norme quadro in materia di tassazione societaria uniforme. Ciò richiede l’introduzione di un obbligo, a livello
Ue, su una base consolidata di valutazione e un minimum tax rate (Hull/Risorto 2007; Risorto/Hull 2011).
5.6 Stabilizzare l’Economia e la Situazione Debitoria per Mezzo di una Politica Fiscale
5.6 Anti-Ciclica
Nella crisi, l’attuazione delle politiche fiscali anti-cicliche è stata in grado di limitare la
recessione economica e di riportare l’economia mondiale rapidamente su un percorso di crescita. Le politiche di stimolo economico sono state a lungo accolte con perplessità, o perché
considerate inefficaci, o perché suscettibili di far salire la spesa pubblica, il Pil e il tasso di
indebitamento, e quindi sospettate di lasciare le generazioni future con un monte debiti ancora
3-4 /2012
più alto. In realtà, le politiche fiscali anti-cicliche in passato hanno avuto decisamente successo, sia in Germania che, ancor più, in altre economie. Una politica efficace di stimolo
economico non deve lasciarsi alle spalle il debito permanente se le eccedenze, derivanti durante il boom dopo ogni crisi, vengono utilizzate per il servizio e a ridurre il debito. Una politica anti-ciclica non solo stabilizza a breve termine la crescita economica, ma rafforza anche
la crescita a più lungo termine, perché la spesa societaria, che è molto sensibile alle fluttuazioni economiche, come la R&S, non è sospesa durante la crisi e continua invece a essere
investita in capitale e know-how e quindi nel potenziale di crescita dell’economia. Prolungare
una ripresa economica per quanto possibile, consente ai dipendenti precari e ai disoccupati
di lungo termine l’accesso al lavoro «normale».
A lungo termine, le esperienze in Germania e gli eventi più recenti della zona euro dimostrano chiaramente che i debiti pubblici non devono essere ridotti per mezzo di un’austerità
compulsiva nella crisi, ma solo da una crescita sostenuta dopo il superamento della crisi. Ridurre il deficit, riducendo le spese e aumentando i ricavi, nel bel mezzo di una crisi, non serve
a raggiungere l’obiettivo dichiarato, ma piuttosto prolunga il rallentamento economico e in
definitiva si rivela controproducente. Le riforme strutturali sul mercato del lavoro, senza il
giusto ambiente macroeconomico, smorzano i consumi e quindi la crescita. Anche in questo
caso, quindi, una politica anti-ciclica risulta essere una misura di accompagnamento per aiutare
a mantenere la ripresa economica nel tempo (Dauderstädt 2007; Lenz 2011; Heise/Leers 2011).
La politica anti-ciclica appartiene, quindi, all’armamentario degli strumenti di una politica
economica volta alla stabilità. Non dovrebbe essere meramente discrezionale: stabilizzatori
automatici dovrebbero essere costruiti nel sistema economico - ad esempio, nel sistema fiscale e sociale - e non indeboliti, per esempio, dalla riduzione dei contributi sociali in una
ripresa economica che in una successiva fase di rallentamento economico dovrebbero poi
essere recuperati. In questo contesto, il nuovo freno al debito è altamente discutibile. Si rischia di ostacolare gli investimenti importanti nel futuro, nel quadro di un politica pro-ciclica
di bilancio.
Il deficit pubblico non può in definitiva essere decisamente influenzato dalla politica di
bilancio, perché è il risultato dello sviluppo economico e dell’interazione delle imprese private, i privati e degli altri paesi. Sarebbe dunque meglio, da un punto di vista della crescita
e della politica di stabilità, orientare la politica finanziaria lungo un sentiero di spesa più a
lungo termine piuttosto che agli obiettivi di disavanzo. Mentre le fluttuazioni cicliche delle
entrate e delle spese possono quindi essere tollerate, e pertanto il loro effetto stabilizzatore
può essere sfruttato, la politica dovrebbe solo prevedere la spesa di Stato compatibile con il
trend di lungo periodo di crescita. Di conseguenza, possono essere programmati investimenti
sufficienti in materia di istruzione e infrastrutture e il saldo complessivo emergente non sarebbe una ragione per deviare da questo percorso, verso l’alto o verso il basso. Orientare la
politica finanziaria lungo un sentiero di spesa di lungo termine significa non solo prevenire
le influenze pro-cicliche e quindi stabilizzare la situazione economica a lungo termine lungo
un sentiero di crescita, ma anche stabilizzare il livello di debito governativo. Proprio per
questa ragione è più importante che le finanze governative e il debito pubblico siano sostenibili piuttosto che una riduzione del debito pubblico fine a sé stessa (Vesper 2008, 2011;
von der Vring 2010; Fischer et al. 2010).
5.7 Consolidare le Forze della Crescita in Europa per mezzo di una Robusta
5.7 Architettura di Finanza Pubblica
La crisi ha reso evidente l’esistenza di particolari problemi nell’Eurozona rispetto al finanziamento statale, ma anche più generalmente rispetto all’offerta di capitali nelle economie
degli Stati membri. Da un lato, gli Stati devono contrarre debiti per finanziare gli investimenti
pubblici nel quadro di una politica fiscale anti-ciclica. Dall’altro lato, comunque, i governi
sono anche i garanti dei propri sistemi bancari nazionali, sebbene siano strettamente integrati
nel mercato europeo dei capitali. Nella crisi ciò si è rivelato essere di particolare intralcio e
la principale ragione del rapido aumento nel debito. Sebbene una migliore regolazione bancaria (vedi Sezione 5.1) ridurrebbe tali rischi, in ultima analisi, sono necessarie ulteriori garanzie ed erogazioni di liquidità.
Una crescita sostenibile e sociale in Europa deve fornire un’offerta di credito fondata su
solide basi e indipendente da mercati valutari irrazionali. Le istituzioni europee sono necessarie a tal proposito per assicurare liquidità agli Stati e – importante a livello sistemico – alle
banche. Queste istituzioni devono, inoltre, avere a disposizione risorse di capitali indipendenti
dal mercato, così come chiare competenze di supervisione e regolamentazione. In ultima
istanza, la Banca Centrale Europea, con le sue di principio illimitate possibilità di creazione
del credito e della moneta, deve essere il garante dell’intero sistema. A questo proposito, si
possono prevedere emendamenti ai trattati per abolire le restrizioni – imposte sulla base di
una ormai obsoleta filosofia politica monetaria che durante la crisi è stata superata (per mezzo
dell’acquisto di bond governativi e via dicendo). Un chiaro segnale ai mercati nel senso che
la speculazione contro importanti istituzioni dell’Eurozona dovrà sempre confrontarsi con
la resistenza della Bce ridurrebbe in maniera significativa il rischio di simili comportamenti
sui mercati (Dauderstädt 2011d e 2011e; Schreyer 2011).
La seconda importante salvaguardia di queste istituzioni dell’offerta di capitale europeo
sono le garanzie solidaristiche di tutti gli Stati membri prima e dell’intera Eurozona poi. Uno
strumento chiave potrebbe essere un Fondo monetatio europeo che emettesse bond comunitari eurobond), garantiti congiuntamente dagli Stati membri dell’Eurozona e messi sul mercato a un tasso d’interesse uniforme e basso. Per evitare i problemi derivanti dagli azzardi
morali, dovrebbe esservi un tetto all’indebitamento in eurobond, pari al massimo del 60%
del Pil (blue bond). Prendere a prestito sopra quel tetto – red bond – riguarderebbe soltanto
la responsabilità nazionale degli Stati rilevanti e in caso di mancanza di disciplina fiscale e
capacità di credito sarebbe particolarmente dispendioso. Il concetto centrale sottostante ai
blue bond e ai red bond è la solidarietà fra gli Stati membri, che comunque non esime gli
Stati membri dall’assumersi le proprie specifiche responsabilità (Delpla/von Weizsäcker2011;
Deubner 2010).
Le regioni più povere dovrebbero avere la priorità nell’allocazione del credito in Europa.
Dato che gli stock di capitale devono crescere in quelle aree – ed è attesa una tendenza versa
una più alta produttività marginale – gli investimenti nella periferie hanno un più grande va-
CRITICAsociale ■ 35
lore economico. Il compito più urgente è condurre prima possibile gli Stati colpiti dalla crisi
lungo un sentiero di crescita. Un fondo di crisi sarebbe utile per finanziare gli investimenti
in capitale reale, innovazione e istruzione e può essere alimentato da contributi di solidarietà
o dal prelievo di ricchezza nei paesi dell’Eurozona (Hacker 2011a). Tale prelievo è giustificato perché l’esperienza passata dimostra che i valori patrimoniali sono stati protetti contro
rapide svalutazioni durante la crisi dall’intervento dello Stato e in futuro saranno in grado di
preservare il loro valore a lungo termine solo in presenza di crescita. Questo fondo di investimento europeo dovrebbe essere strettamente legato a una strategia di crescita ri-orientata
a livello Ue. La strategie di Lisbona ed Europa 2020 hanno portato a una corsa al ribasso tra
gli Stati membri. Dovrebbero essere sostituite da un mix politico economicamente forte, socialmente equo e ambientalmente sostenibile; da una politica che si concentri sempre più
sulla qualità della vita (Arbeitskreis Europa 2010a; Collignon 2008; Kellermann et al. 2009).
A lungo termine, le sole misure correttive non sono sufficienti per ridurre la pressione
della concorrenza. L’approccio attualmente dominante che «mantiene la sovranità» e accetta
le realtà costituzionali come dato di fatto immodificabile sta inevitabilmente arrivando ai
suoi limiti, come dimostra il fatto che più di una correzione si rende necessaria. Al contrario,
si impone una politica attiva e creativa europea. All’Unione Europea nel lungo periodo deve
quindi essere attribuita la competenza fiscale ed essa deve essere in grado di utilizzare le risorse del bilancio comunitario, attraverso l’espansione o la nuova creazione di fondi di investimento regionali, strutturali e di altro tipo, al fine di assicurare la convergenza delle condizioni economiche, di lavoro e degli standard di vita.
Proposte di vasta portata, come ad esempio attivare trasferimenti finanziari tra gli Stati
membri o la creazione di una assicurazione di disoccupazione unica europea per bilanciare
i cicli regionali di “boom and bust”, richiedono la diffusione di un cultura della solidarietà
all’interno dell’Unione Europea. In futuro, ciò diventerà più importante per evitare che alcuni
Stati finiscano per beneficiare in modo significativo dal processo di integrazione, mentre
altri vengano lasciati indietro. I possibili strumenti spaziano da un contributo di solidarietà
europea, a un trasferimento fiscale europeo, a un’unione fiscale. L’obiettivo di tutto ciò non
sarebbe di allineare le strutture economiche e produttive, ma una politica di crescita sociale
che si adatti a particolari contesti nazionali. Come risultato, l’individualità degli Stati Ue
non verrà meno, e i vantaggi economici comparati nazionali non saranno livellati verso il
basso. In un futuro, più robusto, accordo federale (che si dovrà sviluppare da una unione di
Stati in uno Stato federale europeo) la parità delle condizioni di vita dovrà essere l’obiettivo
a lungo termine.
5.8 Garantire più Stabilità nell’Eurozona per mezzo di una Politica Economica Coordinata
Il problema centrale della crisi europea può essere risolto sostenibilmente solo riducendo
gli squilibri delle partire correnti (Münchau 2010; Spahn 2010). D’altro canto, una strategia
che punti sul consolidamento del budget o sulla contrazione dei salari solo nei paesi afflitti
da deficit, con l’obiettivo di stimolare la competitività e mettere sotto controllo il budget e i
surplus dell’export, non avrà successo, perché finirà con l’inibire la domanda aggregata e
con il determinare una crescita dell’indebitamento nei paesi colpiti dalla crisi. Al contrario,
i paesi che hanno perseguito la suddetta strategia hanno considerevoli e condivise responsabilità rispetto allo scoppio della crisi nell’Eurozona (Dullien 2010b). Per contrastare i fenomeni correlati all’attuale crisi, evitare squilibri macroeconomici e incoraggiare la crescita
sociale in Germania ed Europa, in futuro sia la crescita del debito privato e pubblico, così
come gli errori macroeconomici che la sottendono, dovranno essere controllati o corretti al
più presto. A tal fine, devono essere intrapresi ulteriori passi per l’integrazione politica, specialmente per più forti coordinazione e controlli europei sulle economie nazionali, la finanza,
i salari, la tassazione e le politiche sociali (incluso lo stabilimento di un framework uniforme
di linee guida e di standard sociali minimi). Queste misure vanno ben oltre un approccio monodimensionale alle criticità del debito pubblico. (Hacker/van Treeck 2010; Arbeitskreis Europa 2010b; Heise/Heise 2010; Hacker 2011b).
Il Patto di Stabilità e Crescita dovrebbe essere sviluppato in un patto di stabilità delle
partite correnti – in altre parole, esteso per raggiungere l’obiettivo di un bilanciamento delle
partite correnti e della situazione debitoria delle famiglie e delle imprese di un paese. Nel
caso di squilibri delle partite correnti superiori al 3% del Pil dovrebbero prevedersi sanzioni
automatiche, mentre le necessarie misure di aggiustamento dovrebbero seguire un approccio
simmetrico: in alte parole, sia i paesi in surplus che in deficit dovrebbero essere obbligati a
ridurre gli squilibri delle partite correnti (Dullien 2010b).
Oltre alla politica finanziaria e fiscale, le politica salariali e sociali sono parte importante
di qualsiasi combinazione di politiche per correggere gli squilibri macroeconomici in Europa
(Fischer et al 2010; Joebges 2010). Al fine di aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori e
quindi di contribuire alla crescita sociale in aumenti dei salari nominali in Europa, gli Stati
membri dovranno in futuro essere più strettamente associati, a lungo termine, ai tassi di crescita della produttività aggregata e ai tassi di inflazione della banca centrale al fine di evitare
distorsioni della concorrenza legate ai prezzi. Per quanto riguarda l’andamento del costo unitario del lavoro questo comporta, a seconda della situazione, non solo aggiustamenti verso
il basso - nei paesi in deficit - ma anche verso l’alto (in paesi con eccedenze delle partite
correnti). La politica salariale deve essere maggiormente coordinata a tal fine e i salari nazionali esistenti oggetto di rinegoziazione estesa, in reti transnazionali di negoziazione dei
salari (Pusch 2011; Busch 2010). E’ quindi indispensabile una più forte europeizzazione istituzionale e organizzativa dei sindacati e delle associazioni dei datori di lavoro (Platzer 2010;
Busemeyer et al. 2007).
Il Dialogo macroeconomico (Med), per esempio, potrebbe quindi essere ripreso come
un forum per il forte coordinamento delle politiche salariali nazionali divergenti, come un
organismo congiunto del Consiglio europeo, la Commissione europea, la Bce e le parti sociali. Deve essere costantemente tenuto in considerazione che nel sistema europeo degli «Stati del mercato» (Busch 2009) una politica che porta a una corsa al ribasso dei salari, delle
imposte e dei contributi sociali in nome della competitività di prezzo non può offrire una
strategia sostenibile per la crescita e la prosperità. Non aumenta la qualità della vita, ma aumenta solo la redistribuzione del reddito e della ricchezza dal basso verso l’alto e aumenta
quindi il rischio di deflazione (Arbeitskreis Europa 2010a; Evans/Coats 2011).
36 ■ CRITICAsociale
5.9 Favorire un Lavoro Decente per Tutti per mezzo di Standard Europei e Globali
Crescita sociale implica «lavoro dignitoso per tutti ». Questo deve essere perseguito e
attuato non solo in Germania, ma anche in Europa e a livello globale. A livello europeo
questo obiettivo è ostacolato dalla deliberata creazione di un sistema di Stati di mercato
(Busch/Hirschel 2011). In un regime di politica monetaria unica, ma ancora in gran parte
determinata dalle politiche fiscali nazionali, gli Stati membri competono per investimenti di
capitali, i luoghi di produzione e posti di lavoro. Bassi salari, norme sociali, contributi sociali
e agevolazioni fiscali vengono utilizzati come vantaggi competitivi per questo scopo, che è
in contrasto con l’obiettivo di un «lavoro dignitoso per tutti». Invece di usare la leva fiscale,
i contributi sociali e i livelli salariali come merce di scambio in un sistema di Stati di mercato,
in futuro, dovranno essere introdotti meccanismi per riportate la coesione sociale al centro
del coordinamento degli sforzi europei (Hacker/van Treeck 2010).
Al fine di regolare la concorrenza intra-europea per investimenti, posti di lavoro e luoghi
di produzione, «un patto di stabilità sociale» dovrebbe supervsionare l’armonizzazione della
concorrenza. Si potrebbe definire un corridoio che impedisca ai salari e alle prestazioni sociali
di staccarsi dalla crescita generalizzata del reddito. Questo “modello del corridoio” servirebbe, ad esempio, a introdurre salari minimi, a seconda della performance economica espressa come percentuale del reddito nazionale medio - per prevenire la crescente differenziazione dei salari e l’espansione dei settori a basso salario. I salari in tutti gli Stati Ue dovrebbe garantire almeno un livello minimo di vita (Zitzler 2006).
La spesa sociale negli Stati membri dovrebbe essere collegata allo sviluppo del reddito
nazionale da capitale e gli intervalli dovrebbero essere stabiliti in modo che il totale delle
spese sugli anziani, sull’assistenza sanitaria, sull’incapacità lavorativa e la disoccupazione tra le altre cose - possano variare secondo gli sviluppi economici. Questo meccanismo di coordinazione assicurerebbe che l’attuale stretta correlazione tra progresso economico e sociale
nell’Ue sia mantenuta, ma che le pratiche pericolose di dumping, con le quali i singoli paesi
cercano di ottenere vantaggi competitivi, si fermino. Lo scopo di tutti gli Stati deve essere
quello di coniugare alta produttività con un elevato tasso di spesa sociale (Busch 2011). La
spesa in istruzione dovrebbe essere anche integrata nel suddetto “modello del corridoio” o
in una patto di stabilità sociale. Come nel caso di un patto di stabilità delle partite correnti,
tutto dipende da un’intelligente compensazione tra politiche coordinate e implementate a livello decentrato da un lato, e linee guida stabilite a livello centrale europeo dall’altro. Ciò
potrebbe essere ottenuto da un Metodo Aperto di Coordinamento ridisegnato nel quadro della
Strategia Europa 2020 (Hacker 2009; Arbeitskreis Europa 2010b).
Un «lavoro dignitoso per tutti» è anche una condizione chiave per la crescita sociale a
livello globale. A questo fine, gli standard internazionali devono consentire alle persone nei
paesi meno sviluppati di migliorare rapidamente il proprio reddito, ribaltare il trend verso le
disparità di reddito e la drammatica crescita dell’ineguaglianza nella distribuzione di ricchezza sociale e, in generale, stimolare la creazione, ovunque, di lavori decenti. Nei paesi in
via di sviluppo, i sistemi sociali devono essere espansi a tal proposito (Razavi 2011). In particolare, la recente crisi finanziaria ed economica dimostra che sistemi sociali basici sono
necessari anche nei paesi in via di sviluppo. L’ulteriore espansione di queste strutture e le
iniziative di rilievo, come il piano di protezione sociale dell’Ilo, dovrebbero essere valorizzate
negli anni a venire (Cichon et al. 2011).
5.10 Gestire la Globalizzazione tramite un Nuovo Ordine Economico e Monetario
La crisi finanziaria ed economica ha acclarato che la più stretta coordinazione delle politiche economiche e la cooperazione tra gli Stati sono necessarie non solo a livello europeo,
ma anche globale. Durante la crisi finanziaria i primi elementi di una simile cooperazione
potrebbero essere individuati. La loro forma e intensità è risultata del tutto nuova e hanno le
potenzialità per avere successo. Ad esempio, gli Stati più importanti hanno trovato l’accordo
sull’implementazione simultanea di politiche fiscali anti-cicliche. Allo stesso tempo, vi sono
stati accordi monitorati a livello internazionale di rinuncia a misure protezionistiche. La cooperazione tra le banche centrali, nel quadre di misure espansive di politica monetaria, durante
la crisi ha parimenti registrato un notevole successo. Anche se queste misure si sono rivelate
insufficienti a evitare la rapida caduta dei livelli di crescita nel 2009, la ripresa economica
globale successiva si è dimostrata comparativamente rapida. Soprattutto, il management
della crisi da parte degli Stati è apparso incoraggiante.
Una simile coordinazione delle politiche monetarie e fiscali non deve rimanere limitata
a periodi di gestione delle crisi. La stretta cooperazione macroeconomica e l’azione unificata
devono proseguire in futuro e hanno un ideale ancoraggio strutturale e istituzionale, in particolare al fine di prevenire nuove crisi e consentire la crescita sociale a livello globale. Solo
per mezzo di salvaguardie economiche esterne – in altre parole, una soluzione condivisa ai
problemi globali a livello globale – una strategia nazionale di crescita sociale in Germania
può avere successo. Rafforzare una stabile e adeguata crescita nell’economia globale – che
sia per larga parte libera da periodiche o cicliche crisi finanziarie ed economiche – deve
essere l’obiettivo comune.
Il problema degli squilibri globali, che hanno contribuito così tanto alla crisi economica
e finanziaria, deve essere risolto. L’obiettivo deve essere quello di portare a regolazioni simmetriche dei saldi delle partite correnti sia nei paesi in deficit che nei paesi in surplus (Priewe
2011). Solo in questo modo gli enormi squilibri strutturali e la deviazione deflazionistica
nell’economia globale che li accompagna, possono essere ridotti. Questo dovrebbe essere
accompagnato da un migliore coordinamento e monitoraggio delle politiche macroeconomiche in tutti i paesi. L’esito di tali riforme deve essere che tutti i paesi si impegnino non
solo a mantenere le proprie case in ordine, ma anche a mantenere la stabilità economica globale e finanziaria. A tal fine, sistemi di allerta precoce per i test critici dovrebbero essere sviluppati (ad esempio, rispetto al debito pubblico, alla bilancia delle partite correnti, alle riserve
valutarie, alla stabilità del sistema finanziario e così via). Le sanzioni dovrebbero essere irrogate a un paese che non riesca a tenere il passo con gli impegni presi o con le necessarie
misure di adeguamento.
Sul lungo termine, vi dovrebbe essere una graduale transizione dall’utilizzo di valute puramente nazionali – come il dollaro Usa – come moneta di riserva globale verso una valuta
genuinamente globale e verso la creazione di asset di riserva del sistema monetario interna-
3-4 / 2012
zionale. Un ruolo fondamentale potrebbe essere svolto dagli esistenti diritti speciali di prelievo
(Dsp) del Fondo monetario internazionale (Fmi). I Dsp, come moneta e strumento di pagamento non legati a una particolare economia nazionale, potrebbero essere ancorati in un quadro
stabile e assegnati o rilasciati in conformità con regole chiare. L’offerta dovrebbe essere adeguata e sufficientemente flessibile per consentire tempestivi aggiustamenti per soddisfare la
cangiante domanda di liquidità. Tali aggiustamenti potrebbero così essere indipendenti dagli
interessi sovrani e dalla politica macroeconomica del paese detentore della valuta di riserva
dominante. Un primo passo importante sarebbe quello di aumentare la percentuale di Dsp come valuta di riserva globale nel sistema baasto sul dollaro come moneta di riserva.
Il Fmi ha compiti anche più gravi da eseguire. L’interdipendenza economica e finanziaria
tra i paesi è aumentata enormemente sulla scia della globalizzazione. Comunque, non esiste
ancora alcuna autorità con la responsabilità di assicurare che le decisioni importanti di politica economica e finanziaria adottate a livello nazionale siano reciprocamente coerenti e contribuiscano alla stabilità globale. Questo compito fondamentale potrebbe e dovrebbe in futuro
essere svolto da un Fmi riformato. Tale ancoraggio istituzionale sarebbe di gran lunga migliore rispetto agli attuali arrangiamenti ad hoc (G7/8, G20). Il Fmi dovrebbe essere ampliato
nella direzione di una banca centrale internazionale per farne quindi un prestatore globale di
ultima istanza, con la creazione di Dsp come valuta propria, emessa come moneta di riserva
globale e gestita in senso anti-ciclico. La possibilità di concessione illimitata - sia condizionata che incondizionata – di assistenza in termini di liquidità creerebbe, con una riforma del
Fmi in questo senso, una (più favorevole) garanzia collettiva contro le crisi a livello globale.
Ciò potrebbe, in particolare, impedire ai paesi in via di sviluppo di costruire forme di autoprotezione, sotto forma di accumulo di riserve valutarie, e quindi di altre forme di liquidità
a fronte di potenziali crisi della bilancia dei pagamenti (Kellermann 2009).
Più attenzione politica deve quindi essere prestata in futuro alla riforma e al funzionamento del sistema monetario internazionale. Deve essere chiaro a tutti i partecipanti che la
soluzione può consistere solo in una cooperazione più inclusiva e migliore tra le nazioni e
che questo richiede anche una nuova - illuminata - comprensione degli interessi nazionali.
Approcci cooperativi in politica economica globale saranno quindi indispensabili in futuro.
6. Epilogo
La crisi finanziaria globale ha inaugurato una svolta decisiva nel dibattito economico,
dominato per oltre trenta anni dal modello di mercato liberale. La promessa di prosperità per
tutti, determinata dal libero gioco delle forze di mercato - attraverso la triade deregolamentazione-privatizzazione-liberalizzazione - non sembra più sostenibile. Il cosiddetto «trickledown effect» del Washington Consensus ha beneficiato solo pochi. Al contrario, il divario
tra ricchi e poveri in quasi tutti i paesi si è ampliato e a una élite economica privilegiata fa
da contraltare una moltitudine di perdenti della globalizzazione. Il fallimento manifesto della
«mano invisibile» ha aperto la possibilità di delineare un percorso alternativo, sostituendo
la fede economica liberale nei meccanismi di mercato, propagandata come l’unica via, con
l’azione politica e una maggiore capacità di governance.
In effetti, la politica ha riacquistato la sua prevalenza sul mercato nella prima fase della crisi.
Lo Stato è intervenuto nel momento del bisogno, ha forgiato pacchetti di stimolo economico,
salvato istituti bancari vacillanti e sostenuto il mercato del lavoro. Tuttavia, il debito pubblico
che ha accompagnato questo sforzo ha dato luogo a nuovi fenomeni critici. Ciò ha permesso ai
rappresentanti dell’economia liberale di attuare energicamente il loro vecchio programma nella
seconda fase della crisi, alludendo a vincoli pratici e dichiarando l’assenza di alternative. Politiche fiscali pro-cicliche, il consolidamento di bilancio, l’austerità e i tagli al welfare godono di
approvazione nel dibattito politico in misura maggiore oggi, mentre si tenta di uscire dalla crisi,
rispetto a prima che la crisi cominciasse. Allo stesso tempo, una regolamentazione più severa
dei mercati finanziari è rimasta in gran parte una dichiarazione di intenti, come lo è stata un più
ampia politica di cooperazione economica e di coordinamento internazionale.
Che cosa accadrà se gli attori politici non prenderanno spunto dagli elementi fondamentali della crescita sociale, come indicato sopra, e se la possibilità di rimodellare le credenze
economiche non sarà colta? La crisi globale ha portato davanti ai nostri occhi gli alti costi di
rimanere sul sentiero di sviluppo indicato dal fondamentalismo di mercato: crollo della crescita, stagnazione economica, disoccupazione persistente e in aumento in molti paesi, stretta
creditizia, montagne di debito, impotenza politica, crescente esclusione e divisione sociale.
Il persistere di queste situazioni di crisi e la gravità delle loro conseguenze hanno dato luogo
a una discussione fondamentale - anche tra i campioni delle ideologie di mercato di centrodestra - sulla correttezza delle ipotesi proposte da oltre trent’anni sull’aumento della dipendenza degli individui dal mercato, a fronte del ritiro dello Stato e delle sue prerogative.
La finestra di opportunità per la sostituzione del modello fondamentalista di mercato si sta
chiudendo in fretta. Tuttavia, vi è ancora una possibilità per trasformare il dibattito per mezzo
di un nuovo modello di politica economica progressista. Un’opportunità da non perdere! s
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