UN VEDERE INVIDIOSO, O AMORE E PSICHE

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UN VEDERE INVIDIOSO, O AMORE E PSICHE
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UN VEDERE INVIDIOSO, O AMORE E PSICHE
di
Giacomo Contri 1
Supero con uno strappo la paura della banalità (mia), riferendo quello che mi è apparso come un
dato d‟osservazione in diversi quadri di Congdon degli ultimi anni.
Il dato e questo: molti di essi potrebbero essere appesi al muro per mezzo di un gancio infisso a
uno qualsiasi dei lati, cioè indifferenza oggettiva verticale/orizzontale, destra/sinistra. É una banalità (la
mia), o é un miracolo (il suo)?
Congdon aveva già guadagnato il superamento della opposizione superficie/profondità. Ma qui,
egli, avrebbe guadagnato il non esserci più gravità, gravità-grevità: i corpi non cadono più in basso, né,
allora, neppure in alto. L‟idea è di leggerezza, ma assoluta. Verrebbe da parlare di una fisica di Congdon:
la massa – sto giocando con le parole – non ha più peso, né pesantezza. In questa resurrezione dei
corpi, sembra fare concorrenza a Dio. Si potrebbe parlare di una sorta di metafisica, e in ogni caso non
di una microfisica estetica, siamo sempre nel campo del macroscopico, del visibile ad occhio «nudo»,
cioè dell‟esperienza comune.
Forse si potrebbe persino rincarare, ammettendo che tali quadri possano ruotare (ancora
indifferentemente, ma forse meglio, contingentemente) non solo sull‟asse antero-posteriore, ma anche
su quelli verticale e orizzontale. Fine delle ostilità, dell‟oppressione. Mi è anche sembrato di osservare
degli abbozzi di schemi levogiri e destrogiri.
In queste righe tenterò di rispondere alla domanda: se questo è un punto di arrivo (non dico il
solo), lo è da quale partenza?
Non ho ambizioni critiche né estetiche, non avendo neppure le doti richieste da simili ambizioni.
In fondo vorrei solo porre a Congdon, come in privato, le domande buone, meno buone, che il
guardare le sue opere mi ha, fatto sorgere. Domande come queste:
Che cosa sa un artista?; chi, che cosa, glielo fa fare?; qual è il valore delle opere (d‟arte)?; c‟é un
«Dio degli artisti?» (non mi risulta che altri abbia avuto un‟idea simile), cosi come si dice «Dio degli
scienziati»?; un artista come tale, può ingannare?; può esserci malignità dell‟artista, e dell‟arte?; c‟e
sempre per un artista un committente?, quanti tipi di committenti sono concepibili?; la stessa domanda
per il pubblico: quanti elementi relazionati tra loro possono convivere in un‟immagine?; e possibile, in
pittura, un‟immagine oscena? e un‟immagine non oscena?; è possibile la pornografia?; come ti permetti
di essere un artista, e di dirti tale?; ci sono eros e psiche nei tuoi i quadri?
Proverò appena a giustificare alcune di tali questioni.
1 Pubblicato in CHI HA PAURA DEL ROSSO, DEL GIALLO, DEL BLU. IMMAGINE, ICONA, VISIONE,
“Quaderni di The Foundation for Improving Understanding of The Arts”, n. 1, Jaca Book 1987, pp. 147-153
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Ammettendo che la mia osservazione iniziale non sia né sbagliata, né costernantemente banale,
perseguirò poveramente certe tappe nello sviluppo temporale dell‟opera di Congdon, il cui senso
sarebbe quello di trovare esito in quel punto di arrivo.
Non mi sentirei di escludere che tale punto di arrivo si dia anche per altri pittori: escluderei
tuttavia che sia cosi per almeno ciò che conosco di Pollock, di Kandinsky, e anche di Fontana (anzi, é
stato per confronto con quest‟ultimo – che ritengo sia molto amato da Congdon – che mi sono sentito
un po‟ confortato, quanto alla pertinenza della mia osservazione: un taglio di Fontana, infatti,, non mi
sembra mai poter essere‟appeso indifferentemente).
Per un momento mi aiuterò con un esempio. Prendo le parole: «mano nuda». Penso che esse non
abbiano alcun senso immediato, perché in natura l‟oggetto «mano nuda» non esiste, esiste soltanto in
certe condizioni. Nel nostro abbigliamento consueto, le mani, il viso, o il capo, sono sì solitamente
scoperti, ma non ha senso dirli «nudi». Nuda, la mano scoperta lo diventa in certe condizioni, come
un‟attività svolta a temperature molto basse, o molto alte, o se l‟attività e tale da esigere guanti o
guantoni: si dirà allora «a mani nude».
Per inciso, aggiungo che quando vedo un «Nudo» d‟artista, provo solitamente un senso d‟ironia
(da parte dell‟artista), e la mia mente va al Magritte di ceci n’est pas une pipe.
In breve, per vedere nudo l‟oggetto «mano», occorre la relazione con la presenza, dovunque essa
sia collocata, di un altro «oggetto», quale che sia la natura di questo altro oggetto. «Nudo» non è effetto
o fenomeno naturale, ma creazione, artefatto. «Freddo» assolve qui alla funzione di un tale secondo
oggetto, che, poiché «freddo» non è l‟unico di tali oggetti (infatti anche «caldo» può avere tale funzione),
possiamo chiamare oggetto (x).
Le cose non sono pero cosi semplici, o meglio così innocenti. Penso al dramma della pornografia,
in cui, malgrado ciò che si crede, non é di mostrare di che si tratta, ma di dimostrare, come in una tesi
di laurea troppo diligentemente accademica. Tesi: dimostrare l‟esistenza del nudo in natura (cioè senza
la presenza di un altro oggetto che lo faccia nudo). Quando si tratta di dimostrare, vuol dire che non è
manifesto. Il laureando si sforza, si sforza, ma alla fine deve fare ciò che la consueta pornografia
commerciale fa ordinariamente senza bisogno di bibliografia, cioè metterci una didascalia, come dire
una soluzione magrittiana: ceci est un nu. E appunto ciò che vuol dire «luci rosse», una didascalia, come
pure l‟abbondante varietà dei titoli delle riviste specializzate. Dato che la didascalia esplicita l‟incertezza,
e che ci si può soltanto credere, tanto varrebbe scriverci: ceci n’est pas un nu. Il peccato della pornografia,
infatti, è simile alla truffa, come per certe monete d‟oro a bassa percentuale di oro, come ben sa il
consumatore del suddetto genere visivo, che non fa che chiedere di vedere... di più.
Ma nella civiltà come mondo fatto dagli uomini, la storia estetica del nudo si è anche fatta atroce.
Si da, si è data, si rida ancor oggi, la possibilità ben reale del fenomeno opposto, anzi di un opposto
artefatto: quell‟artefatto per cui il corpo semplicemente scoperto, dalla nudità non ancora arte-fatta
nuda, viene fatto, artefatto, come non-nudo, grazie ad altri, e opposti, oggetti (x): l‟umiliazione, lo
squallore, lo sporco di solito compagni obbligati del dolore. Quelli della mia generazione lo hanno visto
nei documenti fotografici dei campi nazisti: che hanno realizzato, tra altri delitti, l‟artefatto del nonnudo. Che distanza dalla barocca nudità sensuale del teschio vivente di Yorick nelle parole di Amleto,
dove l‟oggetto (x) che artefà il nudo è fatto di parole. Ma ci sono anche parole che disfanno ad arte la
nudità: e vi sono parole, anzi stili di parole, la cui oscenità censurante il nudo, non ha eguali
nell‟esperienza umana. C‟e poi la luce, opposte luci creatrici di questi opposti artefatti.
Questo greve excursus non ha perso di vista l‟opera di Congdon: sto al contrario inflettendo
l‟attenzione a un suo disegno del „45 dal titolo Bergen Belsen shack, proprio a proposito del lato cui
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appendere il quadro, dell‟immagine, degli oggetti, della luce come uno di questi oggetti (sole, luna,
finestra, lampada, shining).
Collego subito Bergen Belsen shack con un altro disegno in block-notes, del ‟50, intitolato Caffé
Florian: non c‟e, tra essi, grande differenza, in particolare tra i finestroni quadripartiti dello stanzone
gremito di corpi, e le luci dall‟alto del Florian che illuminano un altro stanzone gremito di corpi.
Ancora, non trovo grande differenza tra la luce di quei finestroni, e la luce del sole quadripartito
in Inverno n° 1 del ‟50, né tra il campo di quest‟ultimo (gremito di alberi, ma perché non figure umane
stilizzate all‟estremo?, non ignude ma innude), e quei due stanzoni d‟umanità.
Mi trovo qui di fronte a un‟altra difficoltà, che cerco di superare articolando un altro passaggio.
Di quell‟altro oggetto, quello (x), quello che fa qualcosa dell‟oggetto naturale cui pur sempre si
riferisce l‟immagine del quadro nella nudità (visibilità) di esso, che farne?, dove metterlo?
Nell‟immagine? E che succede se lo si mette nell‟immagine?
Prima di passare per le incredibili (e troppo credibili) cities di Congdon, penso a Uccelli della spiaggia
del ‟50 (che mi ha sempre fatto ricordare Uccelli di Hitchcock, influenzato forse dal fatto che conosco
Uccelli di Congdon soltanto in una riproduzione in bianco e nero).
In questo quadro – in cui è anche più pesantemente possibile, se possibile, un solo gancio – , lo
spazio (di cui prevale l‟asse orizzontale), diviso in quattro fasce orizzontali, ma essenzialmente in due da
una linea mediana, è abitato, nella fascia appena superiore a questa, da numerosi (quindici, ma poco
importa) uccelli terrifici nella loro diafana stilizzazione, tutti eguali tra loro, e specialmente nella tonda
macchia scura che ne simbolizza l‟occhio, uno a testa. Qui, l‟oggetto (x) presentificato nell‟immagine, è,
più ancora che le stesse figure d‟uccello, l‟occhio, ripetuto n volte, con la monotonia dell‟infinito
potenziale, cioè il quadro mostra di potersi estendere orizzontalmente all‟infinito, un infinito che non è
che simbolo di una crudeltà inappellabile.
Questi Uccelli sono ossessionanti, maniacali, silentemente sguaiati, e questa serie di parole merita
di concludersi con: osceni (i censori di ogni tempo non sembrano avere meditato su questa altra
oscenità prima e principio della serie). Questi uccelli, questi occhi, sono moltitudine, stuolo: sono le
parole del Vangelo per ciò che è diabolico.
Eppure non «vedo», nel Congdon autore allora di quel quadro, un Congdon ossessionato, né
depresso, né maniacale: ci vedo piuttosto un diavolo-poltergeist, ammiccante, quasi divertito, avvocato
del diavolo per se stesso, Pubblico Ministero del diavolo per il diavolo.
Le folli cities di Congdon sono del ‟49, come Cairo, e un altro Caffè Florian.
Rispetto a Uccelli non è cambiato nulla: semplicemente l‟oggetto vi è raccolto a fattor comune, a
sovrastare un medesimo schema: una stretta striscia di spazio sovrastante, incombente, cui l‟enormità
del restante soccombe, mentre l‟oggetto (x), un bello cattivo crudele sole, è fisso sul confine.
Sorvolo per inadeguatezza sul commento di altre grandi opere di Congdon in quegli anni: osservo
soltanto che cosa succede quando il tondo – sole – occhio, cioè l‟oggetto che fa essere (o non essere) la
visibilità dell‟oggetto dell‟ immagine, è collocato, ma conservando la stessa funzione, in posizione
variata (ma non spostata veramente) rispetto allo schema d‟orizzonte schiacciato dello schema
precedente. Mi sembra che sia il caso di Arena Messico del ‟49: l‟Arena, le cui pareti sono percorse da
linee intersecantisi come nelle Cities, è simile a un pozzo, non tanto senza fondo - il che lascerebbe
sperare di uscirne dall‟altra parte - , quanto è senza risalita. Una fossa acustica in cui anche il bisbiglio
diventa rimbombo o sghignazzo. Ma forse è Congdon che sghignazza del diavolo, e, se ho ragione,
Congdon, qui, è cristiano, ma luterano.
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Mi sono anche chiesto (forse esagero ad abbandonarmi alle mie associazioni di idee) come abbia
fatto Congdon a salvarsi dal prendere la strada visionario-demenziale di un Lovercraft, per intendersi:
ma non saprei non chiedermelo, se guardo il suo nero Tempio Messico del ‟49.
Fin qui, la determinazione, e il determinismo di concezione, imposta dall‟orizzonte - parola,
questa, della filosofia moderna - è assoluta. Ciò non sarebbe molto grave, se non fosse che si tratta di
un assoluto in-assolvente, insolvente e insoluto. Il quadro s‟appende così, come s‟impicca un uomo.
Proseguo, ora, compiendo un lungo salto aldilà di opere il cui valore potrei solo qualificare come
inestimabile, e il cui ricordo fa parte di me come evento saliente della mia vita, le Venezia, il Sahara, le
Assisi, certi Crocefissi, le Luna e i diversi disegni di luna; e anche Avila, che lo subito riconosciuta, (per
esservi stato) ma certo non per memoria fotografica.
Il salto è alla modestia senza éclats di un disegno Subiaco del ‟67. Provo a dire perché mi ha colpito.
Si tratta di una semplice linea curva dolcemente ascendente da sinistra a destra, o digradante, se si vuole,
da destra a sinistra, che divide (ma ormai non è più questa la parola giusta) due spazi quasi equivalenti, e
che, se sono sovrapposti, lo sono ormai senza impostazione. Essi sono occupati appena da un via-vai,
persino superfluo, di matita verticale. Già questo disegno potrebbe essere appeso dal lato opposto.
In questo disegno, l‟oggetto (x), nella sua mortificante comparsa superiore, non ha più bisogno né
dovere di comparire, né sopra né sotto: il che non esclude che eventualmente lo possa.
Ciò non mi sembra molto diverso da Piazza San Babila n° 3, ‟67, in cui l‟oggetto può liberamente
comparire sia sopra sia sotto, e dalla stupenda Morte di un piccione, ‟68, in cui l‟oggetto «morto», sotto, è
solo morte di ciò che è mortifero nell‟oggetto quando questo è oggetto forzato in uno schema forzoso,
oggetto fissato sopra la fissità spaziale; e in cui i colori degli spazi (ocra-terra, verde-erba) sono già quelli
dei quadri più recenti da cui sono partito.
Oso pensare che Congdon debba liquidare, non un male astratto, ma il cattivo amore, non certo
la «cosa» dell‟amore.
Allora, La «Carolina» ( 2 CV) tra gli ulivi, ‟69, è come scherzare allusivamente con amici discreti,
sulla storia dell‟amore, che, si sa, è di «gioventù». É morta la morte inflitta dall‟oggetto.
Dall‟oggetto che inanima il quadro anche quando è un quadro animato. È guarita la gravità
«clinica» dell‟oggetto nel determinare la gravitazione del quadro, cioè lo stato della psiche.
Non voglio dire con questo che l`opera pittorica di Congdon sia autobiografia. E nemmeno
negarlo. Penso che ciò riguardi il rapporto personale-universale nell‟artista.
Il punto di arrivo di Congdon mi sembra allora l‟irrisione dell‟antica vittoria della morte: morte
risultante da un‟organizzazione dello spazio (dell‟esperienza) che nega, rigetta, esilia, esclude, preclude,
l‟oggetto (x) che presiede alla visibilità, in un aldilà separato per sempre dalla cosa che è resa visibile
nell‟immagine: il che obbliga quell‟oggetto a ritornare nell‟immagine con tutto il suo peso, anzi (poiché
in se stesso poteva averne ben poco), con un peso centuplicato, e di imporsi mortificando l‟immagine.
Si potrebbe anche dire che si trattava di uscire dalla confusione tra inferno e paradiso, quella
stessa confusione che nell‟esperienza comune trova ordinaria coltivazione nell‟innamoramento.
L‟oggetto che in vedere era diventato oggetto in-vidioso.
È stato detto che a Congdon potrebbero essere prestare le parole di Newman: «Non ho mai
peccato contro la luce», e la luce è per eccellenza l‟oggetto che fa vedere. Questo è certamente vero, ma
mi sembra che Congdon si sia imbattuto nel fatto che c‟è peccato originale anche nella luce, cioè che il
bene - e penso che Congdon, prima che col bello, si dibatta col bene –, se è, non è nella natura-cosa
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ma nel rapporto. Non basta fare della luce un simbolo, né introdurre simboli della luce, per bonificarla.
Congdon conosce anche il cielo livido, il sole livido, la luce livida dell‟invidia. `
L‟altro oggetto è lì a far vedere bene, o male, non solo «bello».
La luce, le madri, gli artisti, non nascono per immacolata concezione.
Ho citato Disegno Subiaco come passaggio liberatorio rispetto allo schema antico di una striscia di
cielo respinta da una terra che ne è oppressa. Coeli che non rorant desuper, e nubes che non pluant justum.
Qui la linea, orizzontale e liberamente un po‟ obliqua, non divide, né contrappone più spazi separati,
ma è segno materiale di luoghi, abitati, disabitati e abitabili, disabitabili e riabilitabili, e riabilitati, nel
tempo. Prima non c‟era tempo. L‟oggetto, l‟uno dell‟altro, non è più tiranno: libertà dall‟oggetto, ma
anche (ciò è spesso dimenticato) anche dell‟oggetto.
Diversi anni dopo, nei quadri di Congdon ho visto questa linea farsi verticale, cioè nuovamente
con due lati liberi. Alla fine, ed è ciò che osservavo all‟inizio, i lati liberi diventano quattro, ciò che
chiamavo il miracolo di masse libere dal peso, che è quello di una gravità meno terrestre che mondana.
Si potrebbe dire che le masse non sono irrelate, fluttuanti, ma che esse stanno l‟una rispetto all‟
altra – cioè non è la relazione della reciprocità che è perduta –, l‟una nel rispetto all‟altra, senza essere di
peso l‟una all‟altra, e, se del caso, l‟una porta il peso dell‟altra. Ciò che è perduto, e rinunciato, non è
l‟oggetto ma la maledizione della sua fissità, del suo fissare senza tregua reciproca il suo sguardo
sull‟altro. Degli oggetti, anzi per gli oggetti, il posto è tenuto libero, cioè occupabile da essi, e meno
nell‟effimero che nella contingenza.
C‟è astrazione, senza che questa sia geometria pura, né topologia pura. Allora l‟astrazione non e
più astrazione dal concreto, ma astrazione dalla fissazione all‟unicità del quadro: un quadro è sempre
due, quello dei posti (le stesse campiture di colore, in cui l‟oggetto è scomparso come figura, ma è libero di emergervi in ogni momento) e quello delle immagini (le figure, cioè la visibilità degli oggetti).
Vedere, allora è vedere il secondo nel primo. Il secondo è amore, il primo è psiche. Non che Amore e
Psiche in persona non possano giacere eventualmente nello stesso quadro, ma l‟errore di Psiche nel
mito è quello di essere un soggetto di poca psiche: il suo lume, di lei Psiche, era psiche, che implicava
già la possibilità dell‟evento, l‟intervento possibile di Amore. Si è sbagliata di lume. Accendendone un
altro, ferisce, e tradisce, Amore, che già era nudo.
È l‟errore comune di fare l‟amore, in tutti i sensi e i gesti di questa espressione: fare l‟amore - e
quello comunemente inteso ne è solo il caso meno frequente: per lo più lo si fa con le parole, e anche
questo abbastanza male – comporta sempre un‟astrazione: castrazione, la chiamava anche qualcuno,
cioè fare astrazione dall‟ostacolo di una soggezione, e dalla soggezione allo scandalo.
Questa astrazione rende possibili i tempi, i modi, i moti, del sensibile,
Mi piace pensare che a Congdon sia venuto naturale, un certo giorno, nella cronologia di questi
ultimi sgravati quadri, fare amore, nella sua psiche, di due papaveri2 esperti in natura e astrazione
insieme.
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Papaveri si intitolano due quadri eseguiti da Congdon nel 1983.
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