Il “Rumore di acque” agita il Mediterraneo

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Il “Rumore di acque” agita il Mediterraneo
 Il “Rumore di acque” agita il Mediterraneo Le Albe fanno emergere storie di migranti dal fondo del Mare Nostrum Tommaso Chimenti, 28 febbraio 2012 PRATO -­‐ Le acque fanno stridore e urla, le acque parlano, si lamentano. Soprattutto se il “Rumore di acque” è causato dalle decine, migliaia, innumerevoli corpi di migranti, di africani che cercano un passaggio di fortuna su carrette del mare, sfruttati, violentati, torturati da scafisti senza scrupoli in una guerra continua. Il Teatro delle Albe, nel fine settimana scorso al Teatro Fabbricone di Prato, mette in piedi un concerto con un front man, su un piccolo palco illuminato che pare un blocco di marmo statico per andare meglio a fondo e per chiudere, seppellire una volta le tutte le voci di dentro che si agitano senza posa né meritato riposo, dietro di lui i Fratelli Mancuso, eccellenti esecutori dal vivo di canti popolari strazianti e dilanianti del Mediterraneo, sardi, siciliani, della mezzaluna araba che s’affaccia sull’Europa. Due cantori sonori, due aedi che accompagnano il cinico untore, il traghettatore di anime che arringa dal suo pulpito, spiega le sue ragioni dal ring dai bordi di luci come avanspettacolo, il Caronte vestito come un generale appuntato ed appesantito di medaglie, il sottosegretario del Ministro del Male, uno “Schettino” che ricorda le tragedie marittime, un Gheddafi in occhiali da sole, un ammiraglio disgustoso nella sua voce roca (nell’impostazione vocale Alessandro Renda ricorda i recenti personaggi viscidi e squallidi portati sul palco da Ermanna Montanari) snocciola numeri come tatuaggi di riconoscimento in un campo di concentramento, come codice di merce scaduta, avariata e quindi marcita tra i flutti, nella pancia del Mare Nostrum. E’ un San Pietro al contrario che accoglie sulla porta dell’Ade, un Dio Vulcano, un messaggero di morte. Scorrono i numeri che lui calcola, decodifica, incanala, assomma, elenca, tiene a mente, in ordine. Suona la campana a morto. Numeri come fosse una deportazione. E corrono i barconi zeppi fino all’inverosimile di disperati, l’acqua imbarcata che sembra di sentirne il sapore salato sulla lingua, le onde a sprofondare, inghiottire gente scappata dalla propria terra che nessuno sta attendendo dall’altra parte. “In alcuni punti l’acqua sa di carne morta”, serra le mascelle, fa deglutire, fa vedere il mare rosso, il sapore di ferro tra una bracciata e l’altra sui litorali di casa nostra tra ombrelloni, pattini, bagnini e bikini, asciugamani e creme solari, abbronzature e tatuaggi, bicipiti e sorrisi bianchi. L’S.O.S. che diventa, realistico, un “essere o non essere”, con la seconda opzione nettamente favorita sulla prima. Il mare che è “il cimitero più efficace ed economico che ci sia”. Il pubblico, che non è innocente e non può essere indifferente ed ignorante in merito, sono ora gli spettri dei morti annegati, adesso gli squali che sventrano i cadaveri. E’ un’Odissea senza fine e senza scampo, un inferno “con tanta acqua intorno senza poterne bere neanche una goccia”, una parentesi senza regole, un lasso di spazio dove sorte fa rima con morte. Non c’è salvezza: il futuro dell’Africa resta nerissimo. Visto al Teatro Fabbricone il 26 febbraio 2012.