CAPITOLO X IL DIRITTO COME SISTEMA SOMMARIO: 1. Il sistema

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CAPITOLO X IL DIRITTO COME SISTEMA SOMMARIO: 1. Il sistema
CAPITOLO X
IL DIRITTO COME SISTEMA
SOMMARIO: 1. Il sistema come assetto della realtà; 2. La dimensione giuridica del sistema; 3.
Le regole come assetto di sistema; 4. La logica di sistema; 5. La logica di sistema nel diritto
medievale e moderno; 6. Il diritto come ordinamento.
1. Il sistema come assetto della realtà
Per sistema (dal greco sun-ìstemi, stare insieme) sarebbe a rigore da intendere qualunque realtà
complessa, colta attraverso gli equilibri interni da cui dipende la sua esistenza.
Occorre però tener presente che non è possibile affrontare la realtà senza intervenire su di essa,
e quando se ne vuol dar conto in termini di sistema è inevitabile che il sistema risulti condizionato
dall'impostazione adottata per rilevarlo, in relazione agli aspetti che interessa portare in luce. Quindi
si ottengono delle rappresentazioni selettive, che non possono mai avere piena corrispondenza con
la realtà affrontata.
Aggiungasi che la realtà è una congerie di situazioni in perenne movimento, sulle quali possono
interferire i più svariati fattori, e la sola cosa che si può fare, per darne conto, è tentare di
valorizzare le ricorrenze, così da rendere le variazioni per quanto possibile subordinate alle
ricorrenze prescelte, riducendole al rango di semplici interferenze che qualche elemento del sistema
va ad esercitare sugli altri, incidendo sugli equilibri che attraverso le ricorrenze sono stati portati in
luce1.
Lo strumento che consente di fare questa operazione, come si è già avuto modo di rilevare nel
cap. VI, sono le relazioni. Infatti attraverso esse è possibile anzitutto isolare come ricorrenze quelle
connessioni che si presentano come nuclei stabili d'esperienza, cioè come 'oggetti',
contrassegnandole a livello linguistico coi sostantivi; in secondo luogo, distinte da queste, è
possibile isolare quelle ricorrenze che si presentano invece come interferenze fra oggetti, più o
meno occasionali, contrassegnandole a livello linguistico come verbi.
E' il caso di ricordare che non necessariamente ai sostantivi devono corrispondere delle realtà
materiali, percepibili ai sensi. Anche le costruzioni del pensiero possono essere assunte come cose
(la parola res come già si è detto esprimeva entrambe le possibilità), e in questo modo le operazioni,
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Quindi il sistema si presenta sempre come un modello di assetti di per sé stabile, che nel concreto della vita subisce
delle interferenze, a fronte delle quali nel campo del diritto sorge il problema di stabilire, se siano da assecondare o
reprimere.
Questo consente anche di spiegare il diverso ruolo delle regole. Ammettiamo di avere un sistema ben formulato di
regole, ad esempio quelle che il codice assegna alla locazione. In pratica, se nasce controversia, vuol dire che una delle
parti ne pretende l'osservanza, e l'altra la rifiuta. Assumendo la regola come prescrizione è sufficiente verificare se nel
caso concreto sussistono i presupposti richiesti dalle regole (giudizio di fatto); assumendola invece come semplice
direttiva, occorre stabilire se i fatti accertati, così come si sono svolti, giustificano o meno l'applicazione della regola
(giudizio di diritto). In questo modo però la regola diventa oggetto del giudizio, e per svolgerlo correttamente devo
portare in chiaro le premesse che la sorreggono (assunte nel ruolo di principi) e ripercorrerne poi gli sviluppi alla luce
dell'esperienza.
A questo punto si aprono due possibilità. Se la regola risulta giustificata, vuol dire che è in grado di incorporare quei
fatti, e nei loro confronti vale come norma; se viceversa non risulta giustificata, perché le conseguenze sarebbero
aberranti, essa rimane al rango di semplice regola e deve lasciare spazio ad una sottoregola, che consenta di far
conseguire ai principi delle applicazioni plausibili. Questa ad esempio è la situazione che si era verificata negli anni
settanta del secolo scorso, prima che venisse in chiaro che molti dei "nuovi contratti" importati dall'esperienza
anglosassone erano applicazioni diversificate degli stessi principi che storicamente avevano generato le figure affrontate
dal codice.
come ad esempio le vendite, i testamenti, i furti, che nella realtà fattuale sono destinate a perdersi
nel momento in cui si esauriscono, si conservano invece nel pensiero come realtà permanenti, sotto
forma di evenienze possibili. In questo modo le esperienze della vita quotidiana vengono convertite,
da manifestazioni presenti nella realtà in modo occasionale, in schemi di pensiero presenti alla
mente in modo stabile, e sotto certi aspetti più preciso di quanto sia poi possibile riscontrare
effettivamente nella realtà, se costruiti a misura di ciò che interessa affrontare.
A questo riguardo è da ribadire che, dal punto di vista logico, ai sostantivi (e non soltanto ai
cosiddetti "nomi astratti") corrispondono sempre delle relazioni, ottenute isolando le ricorrenze che
si considerano fondamentali da quelle che, di conseguenza, risultano marginali. Anche fra queste
però si possono evidenziare gradi diversi di ricorrenza, e questo consente di portare in luce
sequenze di figure che risultano uniformi per alcuni aspetti e diverse per altri, dando luogo a quegli
schemi rappresentativi delle possibili esperienze che vanno sotto il nome di 'generi' e 'specie'. Così
ad esempio l'operazione speculativa ricordata da Cicerone, del banchiere che era riuscito a far
comprare la sua villa ad un prezzo esorbitante, affrontata come genere può essere configurata sia
come contratto (atto lecito) sia come delitto (atto illecito), mentre affrontandola come specie
risulterà rispettivamente compravendita ovvero truffa.
Quel che però occorre non perdere di vista è che gli schemi non possono esaurire la realtà, tanto
è vero che non si potrebbe mai stabilire se l'episodio accaduto sia da trattare come vendita o come
truffa, senza tener conto del modo in cui i fatti si sono svolti, prendendo in considerazione anche gli
aspetti occasionali. Occorre dunque prendere in considerazione l'episodio nella sua interezza, come
'caso' 2.
2. La dimensione giuridica del sistema
Nel campo del diritto quei condizionamenti di cui si diceva sopra risultano tanto a maggior
ragione giustificati, se si considera che la sua funzione è proprio quella di affrontare le operazioni
della vita corrente in modo selettivo, per assecondare quelle compatibili con gli assetti della
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Occorre però intendersi sull'uso della parola caso, perché anche questa parola ha una valenza 'logica', per indicare
l'episodio tradotto in termini linguistici, e quindi già elaborato rispetto ai puri e semplici accadimenti. Una prima
considerazione da fare dunque è questa, che il 'caso', in quanto riferito in termini linguistici, non è più l'episodio
autentico, in quanto il linguaggio per sua natura lo va a strutturarein termini convenzionali.e lo converte in una
dimensione logica del tutto analoga a quella per cui, nel campo delle realtà corporee, si parla di 'individui', come realtà
'singole', di per sé irripetibili (destinate cioè a perdersi nel vuoto una volta che ne vien meno la presenza), ma
riconoscibili attraverso attraverso quegli schemi ripetibili (generi e specie) che ne suggeriscono la rilevanza all'interno
del contesto.
Un'attenta riflessione su questo impianto operativo è importante per capire l'impostazione del diritto romano,
caratterizzata da percorsi che sono l'opposto di quel che solitamente si assume quando si dice che i generi e le specie si
ottengono per 'astrazione'. Nel campo del diritto accade il contrario. I generi sono relazioni che consentono di affrontare
le concrete esperienze di vita portando in luce la loro rilevanza rispetto al contesto, come ad esempio accade quando
una persona viene qualificata al tempo stesso come padre e come figlio, a seconda del profilo che viene in
considerazione. Ed infatti, mentre la diretta rilevazione della realtà la riduce a semplice "dato di fatto", cioè a presenza
occasionale di elementi variamente intersecati fra loro, non ripetibile nella sua occasionalità, attraverso le relazioni
diventa possibile assegnare ben precise rilevanze rispetto al contesto, e farne quindi delle realtà definite.
Da questa impostazione deriva un problema delicato di precedenze (e soprattutto di equilibri) fra schemi e realtà,
che i Romani hanno sempre affrontato in modo diverso dai Greci e che nel diritto ha sempre svolto un ruolo
determinante, fin dal tempo delle XII Tavole; al punto che i Romani anche dopo aver mandato un'apposita commissione
nelle città greche per vedere come si regolavano con le leggi scritte, alla resa dei conti avevano deciso, per quanto
possibile, di dare riscontro alle parole della legge con delle operazioni formali, sia negoziali che processuali, come
appunto le actiones. Attraverso le actiones iI caso singolo assumeva una impostazione che lo convertiva in una species
assai più precisa di quanto consentisse la semplice parola, e questo aveva come conseguenza che le relazioni presenti al
suo interno, se ritenute plausibili alla luce dell'esperienza, assurgevano automaticamente al rango di regole che
potevano governare i futuri rapporti, dando luogo a quel processo virtuoso che Pomponio presentava come cottidie in
melius perducere ius.
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comunità e contrastare quelle incompatibili. Così fan parte del diritto, perché fan parte della realtà,
sia i furti, che il diritto reprime, sia gli accordi, che il diritto a volte asseconda, a volte reprime, e a
volte semplicemente ignora, rinunciando ad occuparsene. In quest'ultimo caso restano dei vuoti nel
sistema, che nulla impedisce di affrontare in termini di diritto se se ne presenta la necessità, e non
per analogia, come spesso si sostiene, ma semplicemente perché il fatto di di sottoporli a giudizio in
termini di ius automaticamente comporta che se ne adotti l'impianto. La vicenda storica dell'Editto è
la prova più evidente di questa impostazione, fondata sulla persuasione che qualunque segmento
d'esperienza ha i suoi equilibri interni, ed è solo questione di opportunità affrontarli o meno in
termini di ius, in relazione alle ragioni che sollecitano a farlo. Attraverso la clausola “de rebus
creditis” è stata introdotta la tutela dei rapporti puramente convenzionali in aperto contrasto rispetto
agli schemi già noti, non certo per analogia.
Mentre l'esperienza romana arcaica, come s'è visto nel capitolo VII, era orientata a riconoscere
rilevanza giuridica alle operazioni della vita quotidiana solo se venivano espressamente predisposte
a tal fine (si pensi alla mancipatio o alla sponsio o alla manus iniectio), l'esperienza dell'Editto si
può leggere come progressiva acquisizione al diritto delle esperienze di vita colte nel loro puro e
semplice manifestarsi3.
Proviamo a riassumere brevemente quel che era emerso nel capitolo settimo.
Per inquadrare la vicenda del diritto romano un punto di riferimento sicuramente centrale,
proprio sotto il profilo operativo, è rappresentato dalla legge delle XII Tavole, che anche in
prospettiva storica possiamo tranquillamente assumere come momento iniziale a cui ricollegare
l'intero sviluppo del diritto romano. E' chiaro che le XII Tavole avevano le loro radici nella fase
storica precedente, come anche Pomponio ricorda, ma non abbiamo elementi utili per affrontarla, ed
i discorsi che se ne possono fare finiscono per avere una rilevanza sostanzialmente sociologica,
come ricostruzione delle condizioni di vita arcaiche, e non certo una rilevanza sul piano del
giudizio. E' solo con le XII tavole che l'indistinta presenza dei mores viene convertita in un sistema
coerente di regole formulate con un linguaggio appositamente elaborato, ed anche se il tempo ne ha
corroso i contenuti contingenti, i principi di fondo non sono mai venuti meno. L'importanza
straordinaria delle XII sta proprio nell'aver tradotto per la prima volta le esperienze di vita in un
sistema di regole rigorosamente formulate, e non nell'aver stabilito delle semplici prescrizioni,
come le altre leggi successive.
Un altro termine di riferimento di non minore importanza è stato l'Editto, che di fatto si è
surrogato alle XII Tavole come fonte di direttive da adottare in chiave giudiziale; ma come già si è
detto, con impostazione opposta. Opposta soprattutto nel senso che, mentre le XII Tavole erano
state introdotte col proposito di dare un assetto preciso e rigoroso ai rapporti di vita, l'Editto ha
svolto la funzione di adattare man mano al diritto le nuove istanze sociali, senza ricorrere ad una
regolamentazione preventiva. Potremmo dire che la grande importanza dell'Editto sta proprio
nell'aver saputo assecondare i rapporti di vita nel loro spontaneo svolgimento, limitandosi ad un
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A questo riguardo altre interessanti riflessioni si potrebbero fare sulla necessità,di precise opzioni di fondo che si
devono accompagnare alla scelta di estendere il campo del diritto. La rigorosa tipicità delle operazioni negoziali
arcaiche era stata superata dal pretore in nome della fides, e su quel principio poco alla volta è stato possibile ricondurre
a disciplina l'intero campo dei rapporti contrattuali. L'analoga operazione avviata da Augusto in campo successorio, per
dar spazio ai fedecommessi in alternativa ai legati, ha creato solo delle gravissime difficoltà, perché l'impostazione
esasperatamente individualista che si era ritenuto di assecondare era incompatibile con l'impianto tradizionale del ius, al
punto che si è dovuto ricorrere ad una giurisdizione diversa, in cui la logica della controversia era accantonata. Nel
tempo, come si avrà modo di rilevare, si erano creati problemi ingestibili proprio a livello di sistema, per la
contraddizione di fondo implicita nella scelta di convertire in ius la pura e semplice volontà del testatore, tanto che già
Giustiniano si era visto costretto a riportare i fedecommessi sotto il regime dei legati ed il nostro codice addirittura ha
preferito abolirli. Del resto si pensi alle delicate implicazioni che ancora oggi comporta la scelta di affrontare i furti
civiliter (cioè come riequilibrio fra le parti) o criminaliter (cioè come salvaguardia di un interesse pubblico).
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controllo di compatibilità con le condizioni di sussistenza della civitas in un primo tempo, e dello
Stato in un secondo tempo, inteso come struttura amministrativa preposta, man mano che si
affievoliva la diretta partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, a salvaguardare la sopravvivenza
della comunità dalle tensioni interne e dalle interferenze esterne.
Vi è però anche un terzo punto di riferimento da tenere presente, non meno importante,
rappresentato dalle actiones, come strumento tecnico introdotto dapprima per dare attuazione alla
legge, poi anche alle direttive edittali. La loro importanza, al di là dei profili strettamente
processuali, sta in questo, nell'aver introdotto impostazioni rigorose di giudizio, che avevano nelle
formule lo strumento operativo attraverso cui le concrete esperienze di vita quotidiana dovevano
essere affrontate: compito che non era affidato direttamente ai iudices, che avevano il compito di
iudicare, nel senso di decidere, ma ai magistrati, che avevano il compito di stabilire (ius dicere), ed
indirettamente ai prudentes, che avevano il compito di suggerire.
A fronte di questi tre fattori, tutti gli altri che sono stati ricordati nel capitolo V (leggi comiziali,
senatoconsulti, costituzioni imperiali) si possono considerare delle manifestazioni del tutto
marginali, indotte dalle contingenze storiche.
A questo riguardo sarebbe importante poter affrontare in termini più precisi l'utilizzazione delle
formule utilizzate dai giuristi classici, ma purtroppo non siamo più in grado di ricostruirle nel loro
impiego effettivo, abolito da Costantino, ma evidentemente già da tempo in crisi. Tuttavia, grazie al
fatto che le Istituzioni di Gaio ne riportano alcune, siamo in grado quanto meno di coglierne
l'impianto fondamentale, riconducibile in sostanza a due schemi, quello delle formulae in factum e
quello delle formulae in ius.
Sembra corretto, stante l'uso della preposizione in con l'accusativo, interpretare la distinzione
rispettivamente come "giudizio preordinato al ius" e "giudizio preordinato al fatto". Questo trova
conferma anche nell'impianto sintattico. Nel primo caso il fatto viene assunto come un dato certo
("Dal momento che Aulo Agerio ha depositato presso Numerio Negidio il vassoio d’argento di cui
si discute" e si tratta di trarne le conseguenze ("Qualunque cosa risulti che a tale riguardo Numerio
Negidio secondo buona fede è tenuto a dare o fare in favore di Aulo Agerio, tu giudice condanna, se
non risulta assolvi". Nel secondo caso invece il fatto è bensì definito, ma in termini ipotetici ("Se
risulta che Aulo Agerio ha depositato presso Numerio Negidio un vassoio d’argento e che per dolo
di Numerio Negidio non è stato restituito ad Aulo Agerio"), come premessa da accertare per
ricollegarvi o meno conseguenze già definite (Tu giudice condanna Numerio Negidio nella somma
di denaro corrispondente; se non risulta, assolvi").
La differenza dunque consisteva in questo, che in un caso la controversia si configurava come
giudizio sulla esistenza dei presupposti che stavano a fondamento di una pretesa già ben definita,
quindi come giudizio di fatto (an verum sit), mentre nell'altro caso si configurava come giudizio
circa le conseguenze che si dovevano ricollegare ai fatti considerati, quindi giudizio di diritto (quid
rectum sit). Il ius, cioè la situazione protetta, poteva derivare a seconda dei casi dalla legge (per
specifica previsione, come nel caso della lex Aquilia, o per riconoscimento indiretto, come nel caso
di una sponsio), o dalla statuizione del pretore, come risarcimento in termini di controvalore (quanti
ea res erit) o di perdita subita (id quod interest), o infine dalla valutazione del giudice, come dovere
inerente alle circostanze che avevano inciso sul rapporto (quidquid dare facere oportet)4.
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Gai IV 47: Sed ex quibusdam causis praetor et in ius et in factum conceptas formulas proponit, ueluti depositi et
commodati. Illa enim formula, quae ita concepta est: “Iudex esto. Quod Aulus Agerius apud Numerium Negidium
mensam argenteam deposuit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere
oportet ex fide bona, eius iudex Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato, si non paret absolvito”, in ius concepta
est. At illa formula, quae ita concepta est: “Iudex esto. Si paret Aulum Agerium apud Numerium Negidium mensam
argenteam deposuisse eamque dolo malo numerii Negidii Aulo Agerio redditam non esse, quanti ea res erit, tantam
pecuniam, iudex, Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato;si non paret absolvito”, in factum concepta est.
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In altre parole, se la pretesa corrispondeva ad un assetto di interessi già riconosciuto come
giusto, si trattava soltanto di stabilire se sussistevano i presupposti; diversamente si poteva discutere
delle conseguenze, ma a condizione che i fatti fossero già di per sé chiari. Quello che sembra da
escludere è che si potesse concedere la formula mettendo in discussione nello stesso tempo i fatti e
le conseguenze, non solo perché contraddiceva alla logica della controversia, che richiedeva delle
alternative rigorose, ma anche perché doveva apparire eticamente inconcepibile consentire di negare
i fatti e nel medesimo tempo di discuterne le conseguenze, tanto più che per stabilire le conseguenze
in termini di ius sarebbe stato necessario affrontare il fatto negato in tutte le sue componenti e
sfaccettature5.
3. Le regole come espressione del sistema.
A questo punto, se si volesse tentare una estrema sintesi dell'esperienza romana secondo i
canoni del pensiero classico, cercando cioè un punto di vista unificante, capace di recepire in sé i
tre fattori fondamentali che abbiamo considerato, è chiaro che il ruolo può spettare solo alla
controversia, come impianto di giudizio preordinato alla risoluzione dei contrasti in chiave di
ragione e di torto. Qui sta la vera forza generatrice del ius, a fronte della quale sia la legge e l'editto
sia l'assunzione dei fatti sono semplici termini di riferimento per garantire la soluzione dei contrasti
in modo rispettoso degli assetti di vita. E' solo attraverso l'assidua rielaborazione della realtà
quotidiana che si ottiene il ius come concreta esperienza di vita, e non come postulazione astratta,
alla stregua degli assunti giusnaturalisti, e si crea un sistema parallelo a quello che la realtà
spontaneamente produce attraverso le sue tensioni interne, impostato in chiave selettiva.
In questo modo il caso singolo, come si è già rilevato, attraverso la struttura logica della
formula, acquisiva una impostazione ricorrente che automaticamente convertiva in regole le
relazioni presenti nel caso considerato, ovviamente nei limiti in cui fosse stato possibile rilevarle
con sufficiente sicurezza. Certo è che l'impianto delle formule, fissandone preventivamente la
rilevanza, relegava le discrepanze nel limbo dell'irripetibile, rimesso al si paret del iudex, per cui
quale che fosse risultato l'esito della controversia il ius era salvo.
Contrariamente però a quel che potrebbe pensare chi non ne ha fatto diretta esperienza, le
regole giurisprudenziali che ci sono state tramandate attraverso il Digesto non sono affatto un
sistema ordinato, anzi, si presentano come dei coacervi abbastanza disparati, e questo non soltanto
per il modo in cui sono state raccolte, ma perché effettivamente traevano i loro contenuti dalle
controversie, e quindi rispecchiavano gli assetti di vita nei limiti in cui i problemi insorti fra le parti
li portavano in luce. Superata la fase arcaica, il numero delle actiones era aumentato a dismisura,
Come si diceva, non siamo più in grado di ricostruire l'impiego effettivo di questi schemi. Si direbbe che, nonostante la
duplice impostazione, il fatto fungesse sempre e comunque da premessa a cui il diritto veniva ricollegato in termini di
congrua conseguenza, ma con una casistica abbastanza differenziata, che richiedeva di stabilire di volta in volta i
termini della controversia. La formula in ius ricordata da Gaio ad esempio presupponeva che le parti fossero d'accordo
sia sull'esistenza del rapporto, sia sulla sua configurazione come deposito, sia su altre circostanze intervenute, ma non
sulle relative conseguenze. La formula in factum invece presupponeva (almeno in linea di principio) che le parti fossero
in totale disaccordo, e quindi stabiliva preventivamente quali fatti avrebbero potuto essere presi in considerazione (la
consegna della cosa, la mancata restituzione, il comportamento doloso) e con quali conseguenze (il controvalore del
bene perduto). Le situazioni più difficili da affrontare erano sicuramente quelle in cui fra le parti non si negava il
rapporto , ma lo si prospettava in termini incompatibili fra loro, come accade spesso nei sinistri stradali; in questi casi è
da ritenere che fosse il pretore a decidere la versione dei fatti da prendere a riferimento e da sottoporre a giudizio.
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Questa impostazione, che è indispensabile per il contravertere inteso alla maniera dei Romani come stringente
alternativa sulla configurazione del rapporto, non è da confondere col contradicere, che invece conserva una ampiezza
sconfinata, in quanto il suo impianto logico è proprio quello di confrontarsi sulle situazioni insicure contrastando le
singole affermazioni coi mezzi a disposizione. Non a caso il contradicere si svolgeva davanti al iudex e si esauriva in
una semplice opinione: si paret.
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perché per ogni nuovo tipo di rapporto che veniva in considerazione, venivano predisposti i relativi
schemi, sulla base dei quali venivano affrontati i problemi che di volta in volta si presentavano. La
scrupolosa aderenza alle cose che caratterizzava il lavoro dei giuristi romani sfociava dunque
inesorabilmente in una frastagliata configurazione del ius, ed era inevitabile che al di fuori dei suoi
percorsi venisse percepito come una ingovernabile congerie di decisioni.
Da questo punto di vista il diritto romano effettivamente si presenta come un diritto
esasperatamente casistico, ed occorre prenderne atto. Non va però perso di vista che in realtà la
logica di sistema era rigorosamente rispettata, e gli equilibri sostanziali su cui si reggevano le
condizioni di vita erano non solo rispettati, ma esaltati, grazie al fatto che l''impianto operativo delle
formule era così rigoroso, che per ogni tipo di rapporto le decisioni, pur moltiplicandosi
enormemente sotto il profilo dei contenuti, dovevano mantenersi coerenti ad un numero limitato e
ben definito di premesse. Ed allora, da quest'altro punto di vista, che subordinava le decisioni al
filtro delle actiones, il diritto romano era innegabilmente e principalmente un diritto di regole;
regole però non nel senso di prescrizioni vincolanti, ma nel senso per così dire kantiano, già
ricordato, di opzioni meritevoli: meritevoli di essere assunte come criteri direttivi per la loro
adeguatezza alla realtà.
Il diritto romano lo diremo allora casistico, o sistematico? La risposta appropriata potrebbe
essere questa: senz'altro frammentario, perché cresciuto in modo alluvionale man mano che i
problemi si presentavano, ma al tempo stesso sistematico, perché elaborato secondo schemi che
garantivano la compatibilità delle decisioni con gli assetti di vita correnti. Se mai è da aggiungere
che ai Romani la complessità del loro diritto, almeno fino a tutta l'epoca classica, doveva apparire
una condizione al tempo stesso inevitabile ed accettabile, perché frutto di quei mezzi processuali
che erano stati introdotti come correttivi degli schemi arcaici, rivelatisi ben presto, proprio a causa
della loro semplicità e chiarezza, inadeguati alle nuove istanze che la vita poneva. Le complicazioni
sopravvenute rispondevano a così precise istanze di giustizia, che non si poteva fare a meno di
percepirle come rimedi di cui era necessario farsi carico.
4. La logica di sistema
Qui per logica di sistema è da intendere l'impiego organizzato di schemi linguistici come
strumento di accesso alla realtà, per noi ovviamente nel campo del diritto.
Nel capitolo VI si è cercato di richiamare l'attenzione sui problemi fondamentali che il
linguaggio comporta, e nei capitoli successivi si è tracciato un quadro, sia pure a grandi linee, del
modo in cui i Romani se ne erano serviti e dei risultati a cui erano pervenuti in epoca arcaica. Per
loro in sostanza le parole erano soltanto strumenti per richiamare la realtà, all'interno della quale ci
si doveva muovere per diretta esperienza. Il fatto che nell'età arcaica la pronuncia delle parole
dovesse accompagnarsi a gesti che rievocavano le situazioni nella loro materialità lascia intendere
molto chiaramente quale fosse l'atteggiamento mentale dei Romani e la loro diffidenza verso le
parole, confermata anche dall'uso rigido che se ne faceva.
L'approccio dei Greci era in qualche modo opposto. Essi postulavano in sostanza una intrinseca
corrispondenza delle parole con la realtà, che i filosofi tentavano di portare in chiaro, ed in questa
prospettiva, che di fatto accordava la precedenza alle parole, avevano messo a fuoco delle tecniche
abbastanza precise sul modo di dar conto della realtà in termini linguistici, ed in particolare quella
tecnica che Cicerone come abbiamo visto avrebbe voluto adottare anche nel campo del diritto6.
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E' da dire, e dovrebbe già esser risultato chiaro dal modo in cui nel capitolo VI si è cercato di impostare il problema,
che entrambe le prospettive sono pienamente giustificate, e semplicemente richiedono di farne un uso appropriato. In
particolare, per quanto concerne l'atteggiamento dei Greci, è da ribadire che erano assai più inclini ad affidare al
linguaggio l'approccio alla realtà, ed una delle risorse che la lingua greca ha sviluppato con particolare sensibilità è stata
proprio quella di valorizzare le singole parole come come strumento per esprimere "punti di vista", o inserendovi
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Essa si fondava sulla adozione di due schemi per affrontare la realtà, la partitio, cioè il
frazionamento della realtà da affrontare in settori, o 'parti', così da renderla più facilmente
accessibile, e la divisio (traduzione non precisa della parola greca diàiresis, che sarebbe piuttosto da
intendere come 'distinzione'), cioè la scomposizione della realtà sulla base delle ricorrenze.
Le PARTIZIONI hanno carattere fondamentalmente estrinseco, e servono più che altro per
rimediare alla impossibilità di affrontare la realtà tutta in una volta; quindi presentano una utilità
occasionale, in relazione all'operazione che interessa. E' normale ad esempio che parlando del corpo
umano si faccia riferimento alla testa, al tronco e agli arti come parti separate, o che un libro sia
diviso in capitoli e sia richiamato per pagine numerate, anche se in entrambi i casi solo il corpo od il
libro nella loro interezza hanno senso compiuto. Le DISTINZIONI invece sono giustificate da ragioni
intrinseche alla realtà considerata, e coincidono in sostanza con le ricorrenze che vengono rilevate;
quindi corrispondono ad esperienze dotate di un senso preciso, che si tratta di portare in evidenza,
come quando si distinguono fra loro le diverse figure di contratto. La divisio in sostanza porta in
luce delle realtà strutturate, dotate di una propria effettiva rilevanza rispetto al contesto7.
Alla divisio non corrisponde solo la funzione logica del distinguere, ma anche quella
dell'accorpare, che ne rappresenta il reciproco, ed quindi diventa uno schema di straordinaria
importanza per governare la realtà secondo una logica di sistema. Resta da dire però che la
precedenza accordata alla parola rende molto delicato il rapporto con la realtà8.
particelle complementari capaci di suggerire in modo esplicito un ben preciso approccio alla realtà, o anche col
semplice fatto di utilizzarle in modo traslato attraverso le cosiddette "figure retoriche", così da trasferire sulla nuova
esperienza che si vuole affrontare l'atteggiamento di pensiero implicito nella parola. E' chiaro che sotto questo aspetto le
parole presentano una innegabile precedenza rispetto alla realtà, ovviamente non nel senso di potersi sostituire ad essa,
ma nel senso di condizionare il modo di affrontarla. Purtroppo però, come si era già avuto modo di sottolineare, se non
si è più che attenti, è ben possibile invece che attraverso i discorsi le parole riescano a prendere il posto dei fatti.
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La differenza fra partizione e distinzione, ben chiara sul piano lessicale anche in italiano, nel concreto si offusca
facilmente, in relazione al modo in cui viene affrontata. Così la distinzione fra maschi e femmine, che di per sé sarebbe
una divisio, viene normalmente utilizzata come partitio, ad esempio per stabilire i posti a sedere; viceversa la
distinzione fra giovani ed anziani di per sé sarebbe solo una partitio, ma può essere convertita in divisio attraverso la
legge, che introducendo limiti precisi porta in luce due figure intrinsecamente diverse. La suddivisione fra giovani ed
anziani di per sé può essere solo una partitio perché dipende interamente dall'uso che se ne vuole fare. Non a caso i
Romani, per evidenziare il carattere inevitabilmente artificiale di questa suddivisione, si esprimevano coll comparativo,
e parlavano di iuniores (comparativamente più giovani) e seniores (comparativamente più anziani). La stessa struttura
sopravvive nelle parole 'maggiorenni' e 'minorenni', ma il significato (la logica di fondo, verrebbe da dire) è alterata dal
fatto che ormai vi corrispondono due realtà separate da un discrimine d'età così preciso, che della comparazione si è
persa la traccia.
A nessuno però può sfuggire che il trascorrere di un giorno non incide sulla realtà delle cose. Il fatto è che attraverso la
legge si introduce un criterio di giudizio di impianto analitico, quindi molto sicuro, ma là dove il giudizio verte su
questioni delicate, come ad esempio la responsabilità penale, occorre che la precedenza sia lasciata alla realtà. I Romani
non avevano difficoltà a declassare il parametro a semplice presunzione, lasciando così la possibilità di affrontare il
problema attraverso la logica della controversia: il maggiorenne si considera responsabile, salvo tener conto delle
circostanze incompatibili con la presunzione, e viceversa il minore si presume non responsabile, salvo tener conrto
anche qui delle circostanze da cui risulta che si rendeva perfettamente conto di quel che stava facendo. Come diceva
Marcello, anche il minore risponde di furto se risulta che era capace di comportamenti fraudolenti.
In questi casi dunque la legge offre bensì lo strumento per impostare i problemi, ma non la loro soluzione, che va
cercata con la logica del giudizio in termini di ragione e di torto, come del resto quasi sempre accade quando sono in
gioco le premesse su cui la legge si fonda.
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La partitio, in quanto tale, non ha alcuna necessità di essere rigorosa; basta che assolva il compito di volta in volta
assegnato, e le disquisizioni al riguardo andrebbero saltate a piè pari. Ben diversa la rilevanza della divisio, perché
attraverso di essa la realtà viene costruita, sulla base delle ricorrenze. Essa nasce dalla constatazione che le realtà
ricorrenti, per il fatto stesso di essere tali, sono molteplici, e non necessariamente uniformi, ma possono avere al tempo
stesso qualcosa in comune e qualcosa di diverso. Su questa concorrenza di elementi comuni e di differenze si fonda la
distinzione dei generi e delle specie, che qui converrebbe assumere in funzione strettamente pragmatica, riservando il
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Per lo stadio in cui il diritto romano si trovava al tempo di Cicerone, effettivamente non aveva
molto senso impegnarsi in un impianto così delicato, che rispetto all'uso delle formule
innegabilmente avrebbe compromesso lo sviluppo del diritto, introducendo dei condizionamenti
artificiali. Ma una volta che gli spazi del diritto si potevano considerare ormai compiutamente
esplorati e tradotti in assetti di regole abbastanza definite e consolidate, e soprattutto dopo che le
formule, cioè le matrici delle regole, erano state soppresse, l'interesse per una gestione del diritto in
termini linguistici assumeva una crescente plausibilità.
Questo compito se lo sono assunto i giuristi medievali e moderni, che avendo ereditato il diritto
romano come un insieme di regole scorporate dall'impianto che le aveva generate, ne coglievano ad
un tempo l'affascinante coerenza logica nei singoli istituti, e per altri aspetti l'insostenibile
frammentarietà, che ne rendeva difficile ed insicura l'applicazione, tanto più che quelle regole
esprimevano gli equilibri di un mondo ormai lontano. A questo riguardo le tecniche linguistiche
elaborate dai filosofi greci erano obiettivamente lo strumento migliore per tenere sotto controllo
l'imponente materiale romano, in un primo tempo attraverso le forme semplificate che i grammatici
latini avevano tramandato, poi man mano attraverso la consapevole utilizzazione delle tecniche
argomentative elaborate dai filosofi, in particolare da Aristotele.
La divisio quindi può incidere anche profondamente sulla realtà, modellandola secondo ben precise linee
costruttive, ma la cosa veramente importante è che non deve mai perdere di vista la effettiva compatibilità
con la realtà, alla quale va lasciata in ogni caso la precedenza. Là dove uno schema risulta inidoneo, è lo
schema che deve essere modificato, non certo la realtà.
5. La logica di sistema nel diritto medievale e moderno
In seguito alla caduta dell'impero ed alla occupazione dei territori da parte di popolazioni
barbariche, la popolazione romana aveva continuato a praticare il proprio diritto, ma senza
un'autorità che ne garantisse la precisa applicazione, e soprattutto, in condizioni di vita praticamente
ridotte alla pura sopravvivenza. In molti territori il diritto era rapidamente degradato al livello di
semplici consuetudini, e solo in alcuni territori i re barbari si erano fatti carico di salvaguardare per i
sudditi romani l'antico diritto, semplificandone le regole; ma anche in questi casi l'intrinseca
fragilità delle dominazioni barbariche lasciava in realtà più alla Chiesa che allo Stato
l'amministrazione della giustizia, ed era inevitabile che l'applicazione concreta del diritto tendesse
anche qui a degradare al livello di prassi giudiziarie applicate in modo non controllato.
Un vero e proprio ritorno al diritto su base legislativa si era verificato in concomitanza al
sorgere delle autonomie cittadine, per la necessità di regolamentare le nuove condizioni di vita
attraverso statuizioni deliberate dalle assemblee (il cosiddetto “diritto statutario”). Nel frattempo,
proprio nell'ambito di queste autonomie, era intervenuta la riscoperta della codificazione
nome di genere (genus) quando lo schema esprime le ricorrenze (e quindi delle identità, dal latino idem) e il nome di
specie (species) quando dà conto delle differenze. Non è però senza buone ragioni anche l'altra impostazione, che
riserva il nome di specie agli schemi che consentono di riconoscere gli individui, raccogliendo tutte quante le ricorrenze
presenti nelle realtà singole, mentre riserva il nome di generi a tutti gli accorpamenti di rango superiore ottenuti
rimuovendo via via le differenze. Come al solito sono in gioco i percorsi del giudizio, e per dar conto del diritto romano
nei suoi sviluppi è indispensabile tener presente che esso muoveva da schemi molto generali, le actiones, resi più
specifici attraverso le formulae, e via via arricchiti di ulteriori precisazioni da parte dei giuristi. Le regole quindi non
erano affatto astrazioni dai casi, ma sviluppi dei principi. E' chiaro che perduti i percorsi e rimaste solo le regole, era
inevitabile che venissero assunte come species che invece di adattarsi ai casi imponevano che fossero i casi ad essere
adattati. A questo punto anche la logica di sistema assumeva un percorso inverso, quello di recuperare i generi "per
astrazione", rimuovendo le differenze.
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giustinianea, in funzione integrativa del diritto statutario, e questo aveva comportato una sorta di
ripartizione del diritto su tre livelli: ad un primo livello il diritto consuetudinario, residuo
dell'antico diritto romano ridotto a prassi operative, paragonabili agli antichi mores; ad un secondo
livello il diritto statuito, introdotto di volta in volta dagli organi locali di governo, secondo le
esigenze del caso; in terzo luogo il diritto tramandato dalla Compilazione giustinianea, utilizzato
dapprima in funzione complementare delle consuetudini e degli statuti (i cosiddetti iura propria),
ma assurto rapidamente ad un rango primario, perché l’assetto razionale lo faceva percepire come
una sorta di diritto universale, i cui principi non potevano non essere rispettati (“diritto comune”).
In questa sede non è possibile dar conto dell’affascinante vicenda del diritto comune, vera
matrice delle codificazioni moderne. Non si può però fare a meno di richiamare l’attenzione sul
fatto che la razionalità del diritto romano, perduta la matrice rappresentata dal processo formulare,
restava accessibile soltanto attraverso i canoni della logica ordinaria, che però, come si accennava
nel paragrafo precedente, comportava una impostazione del giudizio in certo senso opposta a quella
romana, in quanto dava la precedenza agli schemi linguistici rispetto alla diretta rilevazione della
realtà. Era inevitabile quindi che la preoccupazione principale dei giuristi, anche per la necessità di
assecondare l'impostazione analitica della logica aristotelica, finisse per concentrarsi sulla
elaborazione del diritto in termini concettuali e sulla sua applicazione in termini sillogistici. Non
che potesse venir meno il rapporto con le effettive esperienze di vita e con le nuove istanze che
man mano si facevano strada, ma il lavoro del giurista consisteva proprio nel ricondurle
preventivamente agli schemi concettuali, così da non pregiudicarne l'impiego in termini analitici.
Guardando all’esperienza complessiva del diritto comune, occorre dare atto che nel corso dei
secoli si era disordinatamente sovrapposta una massa enorme di princìpi, regole e norme che, se per
un verso era in grado di non lasciare senza regola qualsiasi questione potesse insorgere, per altro
verso in realtà ne offriva troppe, sovrapposte le une alle altre, dando luogo a possibilità di giudizio
incontrollabili. Si riproponeva a distanza di circa mille anni una situazione del tutto analoga a quella
che aveva dovuto affrontare Giustiniano, e si può capire quindi che verso la fine del 1700, sotto la
pressione dell'illuminismo, si fosse fatta strada l'idea di rendere il diritto più semplice e chiaro
riorganizzandolo tutto quanto in chiave legislativa. E' in questa temperie culturale che in quasi tutti
gli stati dell'Europa continentale matura l'idea delle codificazioni, come raccolte ordinate di norme
capaci di dare una risposta precisa ai problemi della vita corrente. Fra queste sicuramente spicca
quella francese (Code Napoleon).
Contemporaneamente però, soprattutto in Germania, si era fatto strada un orientamento
opposto, impersonato da Savigny, che si proponeva di trovare un rimedio al disordine attraverso una
elaborazione concettuale del diritto più attenta sul piano sistematico, così da mantenere al diritto la
funzione direttiva del giudizio, e non prescrittiva della condotta. Compito del sistema avrebbe
dovuto essere proprio quello di garantire la gestione corretta dei rapporti di vita quotidiani
attraverso la valorizzazione degli 'istituti', cioè degli ambiti di esperienza spontaneamente
consolidatisi nel tempo, e non artificialmente imposti attraverso lo strumento della legge.
E' da dire che in entrambi i casi i contenuti erano ancora quelli del diritto romano, attinti spesso
direttamente dai testi giurisprudenziali, ma mentre l'istanza illuministica attraverso la legge ne
alterava profondamente il significato, assegnando loro una funzione prescrittiva,, l'impostazione di
Savigny alla resa dei conti risultava assai vicina allo spirito del diritto romano, del quale forniva una
versione moderna ma attendibile. Ed infatti, come si è cercato di mostrare nel capitolo VI, le parole
già di per sé non svolgono soltanto una funzione evocativa, ma anche orientativa sul modo di
affrontare la realtà, soprattutto quando vengono in considerazione esperienze operative, come nel
campo del diritto. Sulla base di questa premessa una elaborazione dei concetti rispettosa delle
esperienze correnti, può tranquillamente prendere il posto delle formule, evidenziando le relazioni
fondamentali da rispettare, a livello di generi e specie, con la sola condizione di non pretendere che
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le realtà individuali, per la necessità di passare attraverso il filtro delle specie, debbano perdere le
loro peculiarità.
La realtà individuale deve necessariamente essere affrontata attraverso schemi, per risultare
gestibile in termini di controversia, ma altrettanto necessariamente occorre che gli schemi lascino
alla controversia il suo spazio. Ed allora si ritorna esattamente alle due impostazioni del giudizio
ricordate da Gaio. La natura del rapporto (species) è univoca, cioè concordemente ammessa dalle
parti, e si discute delle conseguenze? In tal caso la discussione coinvolgerà l'intero apparato di
norme relative alla species per vedere se è idoneo a dare una risposta adeguata alle peculiarità del
caso considerato, nel senso di discriminare quelle che meritano di essere assecondate e quelle che
invece meritano di essere tralasciate o contrastate. Si discute invece dei fatti, e cioè se le vicende
intervenute stanno davvero nei termini allegati dall'attore? Si inviti l'attore a chiarire prima, in
relazione al risultato perseguito, quale fattispecie dovrebbe garantirlo (esigenza irrinunciabile di
salvaguardia del sistema, per evitare che la decisione vada a collidere con altri aspetti del diritto che
non sono stati presi in considerazione). Su quella premessa il giudizio si può tranquillamente
svolgere come semplice accertamento dei fatti, perché le conseguenze sono già predefinite9.
6. L’ordinamento giuridico
L'espressione “ordinamento giuridico” è stata introdotta, parallelamente all'esaurirsi del diritto
comune come esperienza condivisa fra paesi diversi dell'Europa continentale, per designare in modo
complessivo il diritto vigente all'interno delle singole entità politiche. Nonostante sia costruita con
la combinazione di due soli richiami, 'diritto' e 'ordine' (due idee, verrebbe da dire), la nozione di
ordinamento giuridico ha dato origine a vivaci discussioni, e si potrebbe assumere come esempio
molto istruttivo dei condizionamenti che il linguaggio può esercitare o subire a fronte della
complessità dell'esperienza. Nei paragrafi precedenti, per cogliere il diritto sotto il profilo operativo
del giudizio, si è cercato di porre l'accento sul sistema, inteso come ricerca di equilibri che
consentano di far fronte alla complessa e mutevole realtà della vita. L'espressione 'ordinamento'
invece è stata introdotta proprio per l'esigenza opposta, quella di assumere il diritto in una
prospettiva per così dire statica, come semplice richiamo alle regole vigenti in un certo ambito ed
in un certo tempo.
Si tratta di una esigenza plausibilissima, anzi ineludibile, per la ragione che se si parla di
qualcosa occorre che questo qualcosa si possa tener presente come qualcosa di stabile (non ci si
dimentichi di Parmenide), e l'unico accorgimento da adottare sarebbe quello di render chiaro a se
stessi cosa si vuol tenere fermo, e soprattutto perché. Così si può capire che la nozione di
ordinamento abbia dato luogo a concezioni contrastanti, secondo quel che interessava mettere in
vista,
La nozione più semplice, e senz'altro la più utile sul piano pratico, è quella che propone
l'ordinamento come l'insieme delle regole giuridiche vigenti all'interno di una comunità politica. In
questi termini l'ordinamento corrisponde ad un dato di fatto riscontrabile (nei limiti ovviamente in
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E' chiaro che questo così nitido impianto, non essendovi più la iurisdictio separata dal iudicium, sarebbe oggi
praticabile soltanto con riferimento all'applicazione di singole norme, assunte come species del caso considerato. Fuori
da questa ipotesi è inevitabile che si creino intrecci non controllabili tra fatto e diritto, che rischiano di portare il
giudizio alla deriva se il giudice non è attento a tenere presente che oggi gli incombono entrambi i ruoli e non si fa
carico di darne conto in modo chiaro, mettendo in evidenza i fatti che sono emersi, lo schema che ritiene appropriato e
le conseguenze che ne derivano. Saremmo dunque di fronte, né più né meno, che al tanto discusso "sillogismo
giudiziale", che però in questo caso non avrebbe nulla di precostituito, e semplicemente dovrebbe trovare in se stesso,
cioè nella impostazione, le condizioni della propria correttezza. E' chiaro, se appena si fa lo sforzo di rifletterci, che
contrariamente alla prassi oggi invalsa non son si può assumere come schema di riferimento appropriato il diritto
soggettivo, che nell'ottica della controversia non può sussistere prima che il giudizio lo abbia fatto emergere, come
conseguenza dei fatti alla luce di uno schema condiviso. A maggior ragione non può diventare parametro di se stesso.
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cui le norme e più in generale il diritto sono riscontrabili) e ci si può ragionar sopra in termini
attendibili. Naturalmente la nozione può essere ampliata per includere anche l’apparato di strutture
attraverso cui la comunità politica si regge, e più in generale le condizioni necessarie per la sua
sussistenza, fino a far coincidere l'ordinamento con la comunità stessa, posto che le regole non sono
altro che un riflesso della sua esistenza; ma non è il caso di discutere su queste diverse
impostazioni, perché ognuna può essere pienamente giustificata in relazione ai problemi che
vengono in considerazione. Non avrebbe senso pretendere di arrivare ad una nozione unica e
condivisa, mentre sarebbe da vedere in che limiti le diverse prospettazioni aiutano a capire i
problemi del diritto, e per quali aspetti invece possono risultare fuorvianti.
Ad esempio non si può invece condividere la tesi che qualunque comunità retta da regole sia
ordinamento giuridico, perché in quel modo viene messa in gioco la nozione stessa di ius, e con
essa l'attitudine ad affrontare le istanze di vita nella loro globalità, e non per singoli aspetti soltanto.
Il ius è ius, almeno nella tradizione occidentale, perché il giudizio con cui lo si cerca ricade su tutti,
e solo le comunità che hanno il controllo del territorio sono in condizione di farsi carico della vita
di tutti in tutte le loro manifestazioni 10. Si tratta in ogni caso di un problema che è inutile disquisire
a livello teorico, dovendosi guardare alle concrete esperienze storiche, dove c'è diritto se c'è
giurisdizione e dove, se c'è giurisdizione, c'è diritto. come già si è detto qualunque tesi può essere
sostenuta, mentre può essere utile affrontarlo nel concreto, rappresentato nel caso nostro dalla
giurisdizione: se c'è diritto, ci deve essere giurisdizione (nella nostra tradizione come spazio di
giudizio in termini di reciprocità), e se c'è giurisdizione (nel senso che si è detto), c'è diritto.
In altre parole, la giurisdizione, per essere veramente tale, e non una qualsiasi attività arbitrale o
repressiva, presuppone che il giudizio coinvolga la vita nella sua interezza e si svolga in termini di
reciprocità. Nulla cambia se, per le condizioni politiche, si debba sottostare a direttive esterne, una
volta che siano applicate come interne, incorporandole nel proprio sistema. Viceversa un tribunale
rivoluzionario, anche se opera all’interno alla comunità, non fa giurisdizione, ma resta uno
strumento di lotta politica, come nel caso delle proscrizioni del tempo di Mario e di Silla:
esprimevano solo degli interessi e dei giudizi di parte.
Fatte queste necessarie precisazioni, è ora da domandarsi quale utilità può venire dal
considerare il diritto come ordinamento, cioè come insieme ordinato delle regole su cui si regge la
vita della comunità utilizzando gli schemi logici dei generi e delle specie.
La prima e più evidente utilità è quella di “mettere ordine”. Mentre con la parola sistema si
privilegia il momento creativo del diritto, come ricerca degli equilibri, con la parola ordinamento si
privilegia lo stato di fatto, per darne conto nel modo più preciso e completo possibile, cosa che gli
schemi ordinanti della partitio e della divisio consentono di ottenere in modo molto efficace. La
partitio in particolare consente di coordinare fra loro i vari settori del diritto, e di conseguire all’interno di
ciascuno una coerenza che può essere utile per tenere sotto controllo l’applicazione e lo sviluppo del diritto.
La divisio a sua volta consente di portare in luce, attraverso schemi concettuali opportunamente formulati, i
principi generali presenti ne i campi considerati, addirittura al punto di poter recuperare, con qualche cautela,
la funzione che era stata delle formulae, quella cioè di governare il giudizio.
A questo riguardo, a cavallo fra il XVII e XVIII secolo, era assurto ad importanza assolutamente
primaria il proposito di far spazio anche nel campo del diritto al giudizio analitico. E’ un argomento delicato,
sul quale conviene soffermarsi un po’.
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Si tratta di una condizione del tutto pragmatica, posto che il governo del territorio è condizione imprescindibile
per il controllo della vita che vi si svolge, e che le regole sono giuridiche in quanto si fanno carico della sua sussistenza.
Sostenere il contrario è ben possibile, ma significa perdere di vista un dato che anche storicamente risulta decisivo al
fine di fondare la nozione di diritto in termini realistici, e non puramente intellettuali.
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La persuasione che nella riorganizzazione del diritto a ciascuna norma si possa assegnare uno spazio
preciso, aveva sollecitato progetti sempre più ambiziosi, fino a sfociare nel proposito di riorganizzare l’intera
materia con un impianto logico di tipo cartesiano, che consentisse riscontri precisi e sicuri fra norme e realtà.
Questo richiedeva un sistema di concetti che consentisse già in partenza di rilevare la realtà in modo preciso,
secondo i profili che interessavano al diritto, e di darne conto attraverso l’uso di termini tecnici. Il compito
era facilitato dal fatto che il diritto romano aveva già un ampio repertorio di termini tecnici, anche se
disorganico, in quanto i giuristi, grazie al fatto che le formulae consentivano di attingere in modo diretto ai
dati d’esperienza, avevano rinunciato a servirsi delle definizioni.
Di fatto questa impostazione può dare innegabili vantaggi sul piano operativo, perché offre dei percorsi
chiari e sicuri, paragonabili ad un sistema autostradale, che consente di muoversi agevolmente nella materia
trattata, di inquadrare esattamente i singoli contesti, e quindi di affrontare i problemi con una significativa
sicurezza, come si cercherà di mettere in evidenza nel prossimo capitolo. E’ da dire però che esattamente
come accade col sistema autostradale, l'impianto analitico è prezioso per muoversi sul territorio, ma non
consente di entrare nel territorio. Per entrarvi occorre affrontare le particolarità che i singoli casi presentano.
In altre parole, non si può però pretendere che l'elaborazione dei concetti abbia già in sé anche la soluzione,
oltre che l’impostazione dei problemi, perché troppe e troppo rilevanti sono le variabili che possono venire in
gioco nei casi concreti.
Un conto è collocare la norma in un contesto che dia conto della sua presenza, e quindi metta in chiaro
la sua ragion d’essere ed i limiti della sua applicazione, un conto applicarla effettivamente ai casi concreti
della vita, dove è pur sempre la logica della controversia che deve aver spazio, e l’istanza di giustizia che la
sorregge. Questo è incompatibile con l’impianto analitico del giudizio, in quanto esso postula delle
corrispondenze che in realtà non ci sono ancora e non ci possono essere prima che siano instaurate. In
sostanza, come si è già avuto modo di precisare, qualunque ragionamento rivolto a prender posizione su
realtà che sono oggetto di esperienza non può fare a meno di incorporare segmenti analitici e segmenti
sintetici. Indubbiamente l’impianto analitico rende il ragionamento molto stringente, ma presuppone una
preventiva elaborazione degli oggetti che può aver luogo soltanto attraverso operazioni di sintesi. 11.
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A questo riguardo ci si potrebbe domandare quale sia la impostazione offerta nostro codice. Innegabilmente il proposito del
codice è stato quello di fornire norme così precise e al tempo stesso così coordinate fra loro dalla logica di contesto, da sfruttare al
limite del possibile i vantaggi del giudizio analitico, fondato sull’argomentazione per corrispondenza: dal momento che…(enunciato
descrittivo), ne consegue che…(enunciato prescrittivo). L’errore, che si è manifestato soprattutto in sede applicativa, è stato quello di
sottovalutare i limiti del ragionamento analitico, in altre parole, la necessità di uscire dalle auto strade ed addentrarsi nel territorio.
Già il fatto di proporre come modello l’accoppiamento dei due elementi, previsione e conseguenza, è operazione molto delicata, che
richiederebbe molta esperienza e prudenza; a maggior ragione la prudentia sarebbe richiesta in considerazione del fatto che
l’operazione è per sua natura così complessa, che la sua traduzione in enunciati linguistici non può mai essere sufficiente a dar conto
in modo esauriente né delle premesse né della implicazioni che possono derivarne. Il carattere strettamente argomentativo del diritto
come ricerca del giusto e dell’ingiusto, e quindi il carattere puramente presuntivo degli enunciati, in quanto derivati da premesse che
potrebbero mancare, non possono in nessun caso fare a meno della logica della controversia, ed il torto maggiore che si può fare
all’impianto del codice è proprio quello di andarne a cercare i contenuti col vocabolario, invece che attraverso l’esame delle realtà
sottostanti alla luce della logica di sistema. ed il suggerimento che viene dall’esperienza romana, tenuto conto anche del fatto che in
gran parte derivano dal suo impianto, sarebbe di assegnare loro una valenza sostanzialmente presuntiva. In altre parole, salvo che
risultino elementi che le mettono seriamente in crisi (cosa ben possibile più ci si allontana dal tempo in cui il codice è stato
elaborato), i loro enunciati devono continuare a valere secondo il loro rango, come principi, come regole, ed anche come norme, cioè
come soluzioni da applicare ai casi controversi. Quando però, e ci si riferisce alle norme, gli elementi emersi dalla controversia
mettono in luce uno iato sensibile sotto il profilo dell’equilibrio fra le parti, l’insegnamento che viene dal diritto romano sarebbe
quello di riaprire il percorso che ha generato la norma, e vedere se vi sia spazio per una articolazione della norma in sotto-norme,
muovendo dalla regola retrostante (o anche dai principi, secondo la necessità), evitando accomodamenti equitativi sul caso singolo,
che sarebbero la morte del sistema. Assecondando l’impostazione giurisprudenziale romana il codice continuerebbe a vivere, senza
mai perdere la sua utilità, così come era accaduto per moltissimi principi delle XII Tavole.
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